Luigi Speranza -- Grice e Consoli –l’italiano come lingua universale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo catanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Linguanazionale della terra. Linguaggio mondiale. Ling du mond. Ling nazionel de leter. Vox mondiel. Il latino lingua universala, Storia della letteratura latina.Catania. Santi Consoli Sindaco di Catania Durata mandato Predecessore SalvatoreDi Stefano Giuffrida Successore Salvatore Di Stefano Giuffrida C. è stato unfilosofo, storico, letterato e politico italiano. Filosofo, storico eletterato, C è insegnante di letteratura latina e filosofia romana a Catania. Divenne sindaco di Catania. Organizzal'«Esposizione agricola siciliana», chevenne inaugurata da Vittorio Emanuele. Termina il suo mandato e torna adoccuparsi dell'insegnamento. Scriveanche alcuni saggi sulla storia della Sicilia.Pubblica numerose opere tra cui Italiensk grammatik til brug for norskeog danske, Catania, Letteratura Norvegiana, Milano, De C. Plinii CaeciliiSecundi rhetoricis studiis, Catania), L’autore del De origine et situGermanorum, Roma; Brevi annotazioni critiche alle Satire di Persio, Roma, Ilneo-logismo (deutero-esperanto) in Plinio il Giovane, Palermo, Sicilia gloriosa,Catania). Santi Correnti, La città semprerifiorente, Catania. Santo Daniele Spina, Andrea D’Amico Franz,commediografo e politico in Catania, Agorà. Opere su MLOL, Horizons Unlimited.PredecessoreSindaco di Catania Successore Salvatore Di Stefano Giuffrida Salvatore DiStefano Giuffrida. Portale Biografie: accedi alle voci di Wikipedia chetrattano di biografie Categorie: Storici italiani del XX secolo Letteratiitaliani Politici italiani Sindaci di Catania [altre]. Ricerca Libri aiuta i lettori a scoprirci libri di tulio il mondoe conseiil c ad aulun ed edili in di ragg i ungere un pubblico più ampio, l'imicffclluarc una ricerca sul Webnell'intero testo di questo libro da |.-.-;..-[! e. comi Jkj^àj, à?JLgarbarti College li&rarg CONSTANTIUSFUND EstiblJshed by Professor E. A.Sofhoclbs of Harvard University for" the parchase of Greek ud ritiribooks, (the utdenl elusici) or of Arabiehook», or of hooks illustratine or ex.soch Greek, Latin, or Arabiet ' Will) Jii^. .1.^.0.1,. !> I I V IL NEOLOGISMO NEGLI SCRITTI DI PLINIOIL GIOVANE Altre opere di C. ITALIENSK GRAMMATIK til "for-u.gr for IbTcrslce cgr Catania Lesposte , secondo il metodo scientifico , agli alunni delle scuole secondarie classiche. Catania (E ALLO Siili) IL 1. N. Torino TJI Milano liettet*atat*a Ho^eQtena Milano. De C. Plinii Gaecilii Secanti RHRTORICIS STUDIIS. Catinae, 1897. L. 3 (esaurito). eIL NEOLOGISMO NEGLI SCRITTI DIPLINIO IL GIOVANE CONTRIBUTO AGLI STUDI SULLA LATINITÀ ARGENTEA Libero docentedi letteratura e lingua latina nella R. Università di Catania PALERMO LIBRERIAALB. REBER • r &/. X? & >RD CÓQ; Ql -VL-^./UOl-/W rfcLu-ó xu^x-oL (Catania,Via Maddem, n. 160) Tipografiaeditrice BARBACALLO & 8CUDERÌ , in Catania. MARGRETHE CONSOLInata GLÒERSEN MIA DILETTA EVENERATA MOGLIE NEL III ANNIVERSARIODELLA SUA MORTE Il ne faut point dédaigner les études qui ont pour objet d*écl«ircir méme tei ou tei petit point particulier de lalangue d' un auteur. 0. RlEMANN. Ènoto che neiprimi tempi dell'impero romano, tanto per i inutamenti politici avvenuti quanto peril progresso lento, ma costante, del 'sermo plebeius' che tendeva a prevaleresul ' sermo urbanus ', la lingua letterariaera divenuta, a poco a poco, una lingua artificiale che ogni scrittore, non più vincolato dall'usodel linguaggio delle conversazioni colte, soleva per lo più plasmare da sé, secondo i suoi gusti e secondo i finiletterari che si era proposto diraggiungere. 1 Tale tendenza, che costituisce appunto uno dei caratteriprecipui della latinità argentea, abbiamo potuto osservare inparticol&r modo negli scritti cheancora ci rimangono di Plinio il giovane; e, poiché dell' arte retorica di lui ci siamooccupati di proposito in» un nostro lavoro stampato di recente, 2 ora ci proponiamo dimettere inrilievo i neo 1 Cfr. O. Riemann, Étudessur la langue et la grammaire deTite-Live, Paris, Thorin, DeCPlinii Caecilii Secundi rhetoricis studiis, Cat'msLOy . cod. Vatic. ; F =cod. Florentin. già della bibl.- S. Marco 284 ;D = cod. Dresd. D 166 ; [R = cod.Riccard. 488]; p = -o :: o- I -- :Daquanto ci è dato argomentare , considerando i resti della letteratura romanapervenuti sino a noi, pare che Plinio ilgiovane sia ricorso per il primo ai temidegli aggettivi ' sinister ' e ' socialisper formare le due voci nuove ' siriisteritas ' e ' socialitas \ . l.° Il SIGNIFICATO di ' sinisteritas ' nonsi può disgiungere da quello delle voci ' stultitia ' e ' rusticitas ; eindica perciò « goffaggine , inettitudine » , l' antitesi , in somma, di ' dexteritas '. Se ne ha laconferma nei seguenti passi di Plinio :Quae tanta grauitas ? quae tantasapientia ? quae immopigritia, adrogantia, sinisteritas ac potius amentia, inhoc totum diem inpendere, ut offendas, ut inimicum relinquas ad quem tamquamamicissimura ueneris ? ' Epist. VI 17, 3.' Plerique autem, dum uerentur ne gratiae potentium nimium inpertire uideantur, sinisteritatis atqueetiam raalignitatis famam consequuntur. ' Epist. IX 5, 2. 2.° L' altro sostantivo ' socialitas ' valelo stesso di ' comitas ' = « affabilità, cortesia , socievolezza » : ce loaffermano i seguenti due luoghi di Plinio: ' Non remissionibus tuis eademfrequentia eademque illa soci a1 i t a s interest ? ' Pan. 49, 4. ' Primum est autem suo esse contentimi , deinde quos praecipue sciasindigere sustentantem fouentemque orbequodam socialitatis ambire. ' Epist. IX30, 3. È nondimeno da notarsi che nelPed. a leggesi ' societatis ' invece di ' socialitatis \ 6) Plinio, memore forse d'un ben notoprecetto oraziano sulla ' callida iunctura ' di parole note, 1 formò per il primo , a quanto pare , mediante composizione, quattro nuovi sostantivi : ' cauaedium,sesquihora, duumuiratus, laudiceni. Cauaedium ' risulta dalla fusioneintimadelle due voci cauum aedium ' ,che> troviamo appunto usate instretta dipendenza tra loro, ma separate (cioè: ' cauum aedium ' ), da Varrone, 2 Vitruvio 3 e Plinioil vecchio 4 ; e vale « cortile, corte », quello spazio nel mezzo delle caseromane, dove cadeva la. pioggia dal tettò. Si può. assomigliare il ' cauaedium ' all' 'inpluuium ' , voce usata da Cicerone e. da Livio 5 ; ma se ne differenziain i Horat. Epist II 3, 47-48. Cfr.Cic. De oraL III 38, 154. Varr. De Un.Lat V 33, 161 e 162 (Spengel). 3Vitrvv. De arch. VI 3, 1. 4 Plin. sen. Nat hist XIX 1 (6), 24; XVII 21 (35),166. 5 Cic. In Verr. act see. I 23, 61;56, 147. Liv. XLIII 13, 6.ciò che T i inpluuium ' solevasi costruire nelle case piccole, mentre il' cauaedium ' era di maggiori dimensioni,adatto alle case più grandi. 1 Plinio il giovane scrisse : Est contra medias (se. porticus) cauaedi u mhilare '. Epist II 17, 5. E nello stessopasso si ripete la voce ' cauaedium ' :' A tergo cauaedium'. 2.° La voce isesqui ', irrigidita, servi , prima ancoradell' età augustea, a foggiare alcune voci composte. 2 Anche gliscrittori del primo secolo dell'impero usarononuove voci composte col numerale ' sesqui \ 3 Dovette, per ciò, Plinio il giovane sentirsi quasiabilitato dai numerosi esempi, accolti nelP uso comune, a formare la voce ' sesquihora', che vale «un' ora e mezzo»: ' Egeram horis tribus et dimidia, supererat sesquihora'. Epist IV 9,9. 3.° Dal numero delle persone elette acooperare per uno stesso ufficio, nevenne la denominazione di alcunemagistrature romane, come p. es. ' triumuiratus, quin Vedi E. Guhl und W. Koner, Dos Leben derGrieehen und Rómer nach antikenBildwerken dargestellt, 419. J.Overbeck, Pompe ji in seinen Gebàuden,Alterthùm. und Kunstwerken, I, 241. 2 Ne «iano d’esempio le seguenti : 'sesquialter, sesquilibra, sesquimensis,sesquimodius, sesquioctauus, sesquiopus, sesquipedalis, sesqui pes, sesqui plex(sescuplex), sesquitertius ', etc. : perle quali voci vedasi il Georges, Ausfuhrliehes lateinischdeuischesHandwòrterbuth, 7 a ediz., Leipzig, 1880, 2° voi., coli. 2363-2364. Per le seguenti voci composte con* sesqui ' si hanno soltanto esempi negli scritti del primo secolo dell'impero: 'sescuncia, sescuplus,sesquicullearis, sesquicyathus, sesquidigitalis, sesquidigitus, 8esquiiugerum,sesquiobolus, sesquiopera, sesquipedaneus, sesquiplaga ', etc. queuiratus ',etc. 1 Dello stesso modo troviamo in Plinioper la prima volta la voce ' duumuiratus ' :' ' Hunc TreboniusRuflnus... in duumuiratu tollendum abolendumque curauit. ' Epist IV 22, 1. Ma certamente il sostantivo ' duumuiratus ' dovetteessere accolto prima nell'uso comune deicontemporanei di Plinio e, fors'anche, nell'uso dell' età anteriore. 2 È noto, in fatti, che Cicerone accenna, inuna sua orazione, all' ufficio dei 'duumuiri perduellionis ', 3 e Cesare aquello dei ' duumuiri municipiorum \ 4 Livio,inoltre, in più luoghi fa cenno dei ' duumuiri ', distinguendoli in a) 'duumuiri nauales o ' duumuiri naualesclassis ornandae reflciendaeque causa ' (IX 30,4; cfr. XL 18, 7 e 8); b) ' duumuiri sacrorum ' (III 10, 7) ovvero ' duumuiri sacris faciundis ' (V13, 6; VI 37, 12) o ' sacris faciendis'(VI 5, 8); e) 'duumuiri ad aedem faciendam ' (VII 28, 5 ; cfr. XXII 33, 8)o i La voce ' seruatio * riappare, piùtardi, nella Vulgata, E8dr. IV 8, 21-22;e in Cael. Avrbl. Celer. uel acut pass. Ili4,45. « Cic. In Pis. 34, 84. Vare. Rer. rust II 1, 16. Cfr. Vlpian.in Big. XLVII 14, 1, §§ 2 e 4. Calustrat. in Big. Nonteniamo conto della congettura del Gièrig chelegge : ' abacta hospitum iumenta cerneres ', così lon-* tana dal testo quale è stato conservato daicodici, tranne il e, e dalle più antiche edizioni del Paneg. E, dall'ai-? tro canto, la congettura dell' Ernesti : 'abactus hospitum exercèretur ' o ' exercerentur', attenendosi all'uso passivo del verbo i exercere ', lascia intatto ilneologismo 1 abactus ', a cui siriferisce la nostra osservazione. 3.°Il nome ' praelusio ' si nota nel seguente passo di Plinio: 'Tu tamen aestima, quantum nos inipsa pugna certaminis maneat, cuius quasi praelusio atque praecursio has contentiones excitauit '.Epist. VI 13, 6. Perciò * praelusio ' siequipara alla voce ' prolusio ', l chesignifica « preludio, prolusione, saggio ». 2Alcuni vorrebbero sostituire nel passo citato dell'epistola pliniana a 'praelusio ' la voce i prolusio ', prima usatada Cicerone, per evitare, forse, d'attribuirsi a Plinio la novità del vocabolo ; ma si farebbe cosainesatta, perchè alla sostituzione osta V unanime conferma della voce ' praelusio ', che vien data dai codicipiù autorevoli dell' epistolario di Plinio. 8 i Cic. De orai. II 80, 325; Diuinat inCaec. 14, 47. . 2 Nella tarda latinilàriappare la voce l praelusio ' : per es.:Evmen. Pro restaurandis scholis (Augustoduni) oratio, 2 : * Ibi armantur ingenia, hic proeliantur ; ibi p r ae 1 u s i o, hic pugna committitur '(edit De la Baune, il quale nella nota a pag. 142, col. 2 a , sospetta: * praelusio forteprolusio'). Ambros. De exeidio urbis Hierosolymitanae III 8:'Praelusio quaedam belli * ( Migne,Patrolog. curs., ser. I, toni. 15 , col. 2077 ) ; etc. Per altri esempi vedii lessici Forcellini -De Vit (tom. 4° [1868], col. 2 a ), e Georges (voi. 2° [J880J, col. 1658).> 3 Non è, forse, infondata lacongettura che presume sostituire ' praeludit ' a * proludit ' nel passovergiliano : ' Arbori^ Più per unricordo omerico che per la simmetriadella frase, pare che Plinio siasi indotto a formare, in antitesi a ' nutus ', il nome composto 'renutus ': ' Vide in quo me fastigiocollocaris, cum mihi idem potestatisidemque regni dederis, quod Homerus Ioui optimo maxi mo nam ego quoquesimili nutu ac renutu re spondere uoto tuo possum \ Epist I 7, 1-2. Talché 'renutus ', in opposizione a ' nutus ', vale lo stesso che ' recusatio ', cioè « far cenno di no,accennare di no , rifiutare ». l e) Plinio si avvalse anche di temi verbaliper formare i due nuovi sostantivi : i unctorium ' e ' auocamentum '. * 1.° Nei bagni degli antichi Romani e' era ,di solito , un luogo apposito dove ibagnanti si ungevano il corpo, dopoessersi lavati nelle vasche de' bagni. In tutte le opere degli scrittori latini , anteriori aPlinio, che sono giunte integre o aframmenti sino a noi, non c'è parola cheserva ad indicare tale luogo di unzione. Primo ad indicarlo, valendosi della voce ' unctorium', apparisce Plinio (Épist II 17, 11 ):e tuttavia pertanto tempo prima di lui si era fatto uso del luogo di unzione,sì necessario a complemento del bagno. Non sarebbe quindi improbabile che il nome ' unctorium ' fossestato accolto nelP uso letterario intempi anteriori a quelli di Plinio;tanto più che e Plauto e Cicerone avevano usato le voci obnixus trunco, uèntosque tacessi t |Ictibus, et sparsa ad pugnato i) r o 1 u d i t* barena ' (Ribbeck); il qualepasso si nota identico in Georg. Ili233-234 ed Aen. i Cfr, Hoic IL XVI 250.unctor, unctio, unctura ' l , derivate, come ' unctorium ', dal tema del verbo ' ungere ' o ' unguere\ 2.° Col suffisso -men-to- aggiunto altema del verbo composto , 30. Qvintu,. //mi/, orat VI 3, 61. Martial.. Epigr. XIV 20 (Schneidewin. 19),1; XI 58, 9. Cfr. Vlpian. in Dfg. XXXII52, § 8 ; etc. In uo luogo di Varr. Rer. rust. I 48, 1 leggevasi un tempo la voce* theca' : 'ut grani t li e e a sitgluma et apex arista ': nella recente edi?. delKeil (Lips., Teubner, 1889, pag. 59) si legge: 'ut grani apex sit gluma et arista'. ellenismi, alcuni de'quali sono rappresentati da vocisemplici, altri da voci composte.a) Alcuni de' grecismi dedotti da voci sempiici furono da Pliniolatinizzati nella desinenza; altri conservarono la desinenza grecaoriginaria. ad) Si presentano con ladesinenza latinizzata : 1.° 'Baptisterium ', « bacino per bagnarsi e nuotare, bagno ». Se ne ha la conferma nei seguentidue luoghi di Plinio : Inde apodyterium balinei laxum et talare excipit cellafrigidaria, in qua baptisterium amplumatque opacum \ Epist V 6 , 25. ' Indebalinei cella frigidaria spatiosa et effusa, cuius in contrariis parietibus duobaptisteria uelut eiecta sinuantur\ Epist. Nel passo che abbiamo citato per ilsecondo , la lezione del cod. D i duobus aptisteria ' differisce da quella comunemente accettata; ma si scorge evidenteche l'amanuense fu tratto in errore da ciò che, essendo scritte neir esemplare tutte di seguito le due voci 'duo baptisteria ' in modo da formare ' duobaptisteria ', egli credette dividereil nesso in ' duob. aptisteria ', ritenendola prima parte un' abbreviazione di * duobus \ Quanto al passo citato sopra per il primoj se siaccoglie la lezione ' sphaeristerium ', che presentano lo stesso cod. D i Pergli scrittori ecclesiastici la voce ' baptisterium ' passò a significare il luogo in cui si amministrail sacramento del battesimo; ma in unluogo dell'epistola 2* del Iib. ir Apollinare Sidonio continuò a conservarne ilsignificato pliniano: 4 Huic basiiicaeappendix piscina forinsecus seu, si graecari mauis, baptisterium ab oriente connectitur ' (Migne, Pairolog. tur*., ser. I, tona. 58,col. 475). è l'ed. p, non resta menomata per nulla la nostra osservazione sulPellenismo ' baptisterium ', che è conferàmato per neologismo pliniano dal luogo della Epist. II 17, 11.2;° Nei seguenti passi del libro delle epistole di Plinio all'imperatoreTraiano si legge per la prima volta ilgrecismo i buleuta % avente il significato di « senatore greco, consigliere »: ' Claudiopolitaniingens balineum defodiunt magis quamaediflcant, et quidem ex ea pecunia quam b u 1 e u t a e additi beneficio tuoaut iam obtuleruntob introitimi autnobisexigentibus conferunt\ Epist X 39 (48),5. ' Superest ergo ut ipsedispicias, an in omnibus ciuitatibuscertum aliquid omnes qui deinde b u 1 eu t a e legentur debeant prò introitu dare '. Epist. Adfirmabatur mihi in omni ciuitate plurimos .esse buleutas exaliis ciuitatibus '. Epist X 114 (115), 3. 13.° ' Eranus ' significò propriamente « gradevole compagnia »; poi sidisse ' eranus ' un' associazione privata in Grecia, avente lo scopo diassicurare ai suoi membri un appoggio nel caso che cadessero nella indigenza,ma a patto che il beneficato dovesse restituireall' associazione il soccorso in danaro ricevuto, ove la sua condizione economica si fosse migliorata.In conseguenza, valse poi a significare anche qualunque tassa o contribuzione ocolletta imposta per venire in soccorso ai bisognosi. L'uso della voce buleutasi trova ripetuto presso Ael. Spartian. Seuer.17, 2: * Alexandriuis ius buleutarum dedit * (Peter). Vedi i lessiciFreund-Theil (tom. I [1855], pagina 368;. e Georges (voi. l.° [1879], col.819). * Dell' ' eranus ' de' Cristianitrattò Flor. Tbrtvll. Apologet. Cicerone fa uso del vocabolo in esame, maconservandolo tale e quale, con le stesse lettere greche * . Plinio lolatinizzò : ' Datum mihi libellum ad eranospertinentem his litteris subieci'. Epist X 92 (93). Il vocabolo si trova anche latinizzato nellalettera di risposta dell'imperatore Traiano a Plinio, Epist. X 93 (94). Il Beroaldus fece bene a restituire nelpasso di Plinio, sopra citato, la grafia legittima ' eranos ', invece della grafia ' heranos ' portata dall' ed.A. 4.° i Idyllium ' indica un genereben noto di poesia pastorale: * Siueepigrammata siue i d y 1 1 i a siue eglogas siue , ut multi , poematia seu quodaliud uocare malueris licebit uoces '.Epist IV 14, 9. È da notarsi che lagrafia della voce ' idyllium ' non èconservata costante nei codici e nelle più antiche edizioni di Plinio. Allagrafia ' idyllia ', che è presentata dai codd. M, V, e accettata dal Beroaldus,si avvicina la grafia ' edyllia ' dell' ed. p; perciocché è ben noto che nelleparole greche latinizzate il dittongo et davanti ad una vocale si rappresentòin latino tanto con e quanto con i : ma1' uso prevalente dell' e è più antico, mentre nel primo secolo dell' impero ilsuono vocalico i rappresentò più spesso il dittongo greco che stiamo considerando. Da ' edyllia ' a ' edullia ', grafia accoltadall' ed. a, il passaggio era facile,stante che il suono vocalico greco o ebbe per primo suo rappresentante inlatino Yu: aduers. gent. prò Christ,cap. 39 (Migne, Patrolog. cura., ser. I,tom. 1°, col. 468 e col. 470). i Cic.Epiai, ad Att. XII 5, 1. Cpiwqli II Neologismo puntano, cfr. ' cumba * e ccymba \ Solo per disaccortezza delcopista si trova scritta nel cod. F la forma ' dullia ' invece di ' edullia ' : non vi si vorrà certoscorgere lina poco spiegabile aferesi.La grafia ' hedylia ' del cod. si deve attribuire all' uso inesatto delsegno dell' aspirazione h ed alla riduzione abusiva del doppio suono liquido l,per la considerazione, forse, che in alcune parole era rimasta oscillante la scrittura latina tra F uso d'una sola o di due l, l Non si scorge chiaro per quale via siasipervenuto a rappresentare ' idyllia 'con ' dugtia ' nel cod. /?. 5.° 'Poematium ' vale « breve componimento poetico,poemetto ». Veramente noi e' immaginiamo la forma del singolare ' poematium ', ma la parola civiene presentata nella forma del plurale ' poematia ' tanto nel passo precedentemente citato della Epist IV14, 9, in proposito del grecismo ' idyllium', quanto nel passo seguente : ' Audiuirecitantem Sentium Augurinum cum summamea uoluptate, immo etiam admiratione. poematia appellai'. Epist IV 27, 1. 2 i Vedi la nostra Fonologia latina^ ediz.cit., n. 27, pp. 31-32. 2 La voce 'poematium ' si osserva, sempre nelle forme delplurale, in due luoghi degli Opuseula di Deg. Magn. Avson. : XVII, Cento nuptialis (verso la fine) : *Probissimo uiro Plinio in poematiislasciuiam, in moribus constitisse censuram '(Peiper); IX, De bissula: 'Poematia, quae in nlumnam moara luseram rudiaet incohata ad do mestica e soiacium cantilenae ' (Peiper, pag. 114). Ma sideve avvertine che nel luogo citato peril primo, il cod. Laurent. 51 , 13 presenta la forma € poematis '; e in quellocitato il secondo, nel cod. Tilianus oLeidensis Voss. lat. Q. 107 (prima Voss. lat 191) si preferisce la forma ' poema.ta \ Cosicché,ove si accolgano 35 Neil' ammettere ohe Plinio abbia introdottoil grecismo ' poematium ', ci siamo attenuti, tanto per il primo passo citatodell' Epist IV 14, 9 quanto per il secondo passo, ai codd. M, V. Ma la lezione' poemata ' è ammessa , per tutti e duei passi pliniani sopra citati, dal cod. Fe dall' ed, a. Anche la ed. p presenta peril passo dell' Epist IV 14, 9 la lezione ' poemata ' ; e dello stesso modo il cod. R presenta 'poemata ' per il passo cit. dell' EpistIV 27, 1. ' La lezione ' poematica ',presentata con notevole persistenza, in tutti e due i passi che abbiamoriportati sopra, dal cod, />, verrebbea dare forma adiettiva al sostantivo'poematia': e ci sarebbe sempre un neologismo di fonte greca, non usato daalcuno scrittore latino i cui scritti ci siano rimasti. Ma il lessico laripudia, tuttoché la lezione ' poematica ' sia ammessa anche dalla ed. p nelpasso dell' Epist. IV 27, 1.Avvertenza. Del diminutivo difonte greca ' sipunculus ' ci siamo occupati sopra, a pag. 27. * Vb) Plinio conservò la desinenza greca neiseguenti tre grecismi, che egli per ilprimo introdusse nelP uso letterariolatino : Buie SIGNIFICA consiglio,senato o collegio dei decurioni nellecittà elleniche e in quelle città chele varianti presentate dai detti codici, non si può ammettere con oerte2za che Ausonio abbia continuatoFuso della voce » poematium \ 1 II Vallauri , che registra nel suo Lex.Latini Italique sermoni* tutti ineologismi pliniani, ommeite soltanto ' poematium \ 36erano rette secondo le norme amministrative greche. Ne troviamo esempi nel libro delle epistoledi Plinio a Traiano, nelle formedell'accusativo e dell'ablativo delsingolare: ' Qui uirilem togam sumunt uel nuptias faciunt uel ineunt magistratum uel opuspublicum dedicane solent totam b u 1 e n atque etiam e plebe non exiguum numerum uocare '. Epist X 116 (117),1. Vedi per altri esempi Epist. X 81 (85), 1; 110 (111), 1; 112 (113), 1. 2.° ' Lyristes ' significa « sonatore dilira », e osservasi per la prima volta nei segg. luoghi pliniani: Epist I 15, 2; IX 17, 3; 36, 4; 40, 2. l Quanto alla grafia sono concordi i codd.,l'ed. p e le più antiche edizioni dell' epistolario pliniano : si eccettui ilcod. M che, nel passo citato dell'Epist. IX 17, 3 presenta al nominativo ' lyristis ', come se ai tempi di Plinioil suono vocalico greco -q avesse avutoil valore dell' i. * 3.° i Phantasma 'significa « fantasma , spettro , visione , larva » : i Igitur perquam uelimscire , esse phantasmata et haberepropriam figuram numenque aliquod putes, an inania et ùana ex metu nostro imaginem accipere '. Epist VII 27 , 1. IlCasaubonus credette sostituire a 'phantasmata ' la voce ' phasmata ', per evitare, forse, che si attribuisse aPlinio Pin ì Della voce ' lyristes ' sivalse, di poi, Apollin. Sidon. Epist.Vili 11 (Migne, Patrolog. curs., ser. I, tona. 58, col. 605). 2 In proposito della pronunzia dell' ij, cheY Inama osserva essere stata oscillantefin dai tempi di Platone, leggasi la memoria d9l D* Ovidio, ' Di un luogo diPlato* ne addotto a prova dell'antichità dell' itacismo ', pubblicatanegli « Atti della R. Accademia di scienze morali e politiche di Napoli o, voi. 24°, a. 1891, pagg.217-237. 37 troduzione del neologismo ' phantasma 'nell'idioma latino, poiché la voce greca ' phasma ' era già nota come titolo di una commedia di Menandro, * e per Findicazione di un mimo. 2 Ma contro la sostituzione proposta dal Casaubonus staF affermazione concorde dei codici e delle più antiche edizioni delle epistoledi Plinio. E da notarsi che Plinio,benché avesse introdotto Fuso della voce' phantasma ', pure nella stessa epist. 27 ,lib. VII, invece di ripetere il nuovo grecismo , si avvalse delle vocilatine rispondenti a * phantasma ' : ' efflgies ' {Epist VII 27, 8 ; III 5, 4), che nella forma mediale ha ilsignificato di «e distribuire ». Si oppone nondimeno al legame di discendenzatra il cit verbo greco e la voqe 'diamoerie ' il tramite attico e quellodella koiné, per cui le voci elleniche si trasfusero nella lingua latina negliultimi tempi della repubblica romana e nei primi secoli dell'impero; poichési sarebbe dovuto ottenere nellatrascrizione latina della voce greca, alcaso genitivo del singolare, la forma *diamoerias o * diamoeras e non ' diamoeries ' o , secondo la ed. A, ' diamories\ La grafia ' diamones ', data dall'ed. a , non si saprebbe a quale voce greca riferirla; e perciò la si deve credere il risultamento di un' inavvertitaspostatura di lettere della voce 'dianomes Cosi T interpreta il Lagergren Vedi il lessico Porcellini - De Vit,tom. 2, pag. 696, col. l.« L'osservazione fu accolta dal Vallauri a pag. 207, col. 1.% del Lexicon Latini Iialique ter/noni*. s II Dizionario Georges-Calonghi, cheregistra tutti gli ellenismi introdotti da Plinio, non nota ' dianome ' nò 'diamone ' mentre nelT Ausfuhrl.Handioòrterb. del Georges ò registratala voce 'dianome', coL Procoeton VALE anticamera. Deinde uel cubiculum grande uel modica cenatio, quaeplurimo sole, plurimo mari lucet ; posthanc cubiculum cum proc o e t o n e , altitudine aestiuum, munimentis hibernum\ Epist. II 17, 10. Per altri esempi vedi Epist. II 17, 10 e 23.Se è vero che Terenzio Varrone nel proemio del libro secondo Rerum t+usticarum usò la voce ^ i1 Ma in non poche edizioni dei tre libri Rerum rustìcaram di Varrone la voce ' procoetona ' del proemiodel libro 2 3 resta conservata con lelettere greche , come per es. nelt* edizione* cum notife Iosephi Scaligeri, Adriani Turnebr, Petri Vicfcorii et Antonii Augustinl ; Amstelodami, 1623', pag.56; nell'adizione ohe sotto la denominazioneLes agronome» latin» è compresa nellaCollection Nisard, pag» 100, col. l a ; nell'edizione di ' Ioannes Gymnicus,Coloniae, 1536 \ pag. 96 ; eto. NelFedizione del Keil (Lipsia, Teubnér,1889, pag. 70) si trova accolta la formain lettere latine ' procoetona \ ma in nota si avverte che nei codici consultali dall' editore si leggeinvece ' procoeoona considerando in primo luogo gli aggettivi di fontenominale, poi quelli di fonte verbale , indi gli aggettivi composti, e, in fine, gli aggettivi dedottidal greco. A. Riconosciamo come d' immediataderivazione da nomi sostanti vi iseguenti cinque aggettivi: * orarius,bellatorius, castigatorius, praecursorius , sacerdotali^ ', quantunque, eccetto il primo, gli altriquattro si riferiscano a sostantivi aventi il loro fondamento in temi verbali.1.° ' Orarius * deriva da ' ora *, « costa, spiaggia del mare », e perciò vale ad indicare la qualitàdi cosa appartenente alla costa, avente,per così dire, relazione con la spiaggiao lido; quindi ' oraria nauis ' o ' orarianauicula ' significa « piccolo naviglio da costeggiare ». Plinio si valse dell'aggettivo ' orarius *nei seguenti due luoghi: l Nunc destinopartim o r a r i i s nauibus partimuehiculis prouinciam petere \ Epist X 15 (26). * Rur sus, cum transissem in orarias nauiculas, Bithy niam intraui '. Epist. X 17A (28), 2. Il Keil,pur conservando nel testo pliniano la lezionecomune ' orariis nauibus ' e ' orarias nauiculas * , avverte in nota ,rispettivamente , ' fortasse onerariis 'e ' fortasse onerarias ' ; ma la congettura di lui non pare accettabile : nei due luoghi citati iltesto pliniano non presenta nei codici variante alcuna. E, del resto , la sostituzione dell' aggettivo ioneraritts *, se vale a rimuovere daPlinio la menda d'avere introdotto unneologismo non necessario, non rende il testo migliore di quel che è in fatto,conservandosi il neologismo ' orarius \2.° Da ' bellator ', « battagliero, guerriero » , Plinio foggiò Paggettivo i bellatorius \ che applicò in traslato a ' stilus ' per indicare lo « stile polemico» , proprio delle dispute; ma,riconoscendo egli stesso l'arditezza deltraslato, lo mitigò con l'aggiunzione della minorante ' quasi ' : ' Scio nunctibi esse praecipuum studium orandi ; sed non ideo semper pugnacem hunc et quasi bellatorium stilum suaserim'. Epist.VII 9, 7. Se non che è da avvertire chenel luogo citato il cod. D e V ed. ppresentano la lezione .' quasi bellorum stilum \ l 3.° Plinio dedusse 1' aggettivo * castigatorius' dal nome i castigator ', per indicare qualità propria di chi castiga o corregge; e nell'esempio seguenteunì appunto la qualità indicata da ' castigatorius ' col nome ' solacium ', a fin di significare quelconforto con cui ci si studia diconsolare una persona afflitta, trovandoda biasimare il dolore eccessivo che la opprime. Certo è ardito associare 1' epiteto i castigatorius 'con l' idea di conforto rappresentata da' solacium '; e però l'autore, adattenuare lo stridente contrasto , premise , come al solito, la parola ' quasi'. Il passo è ilseguente : ' Proinde siquas ad eum de dolore tam iusto litteras mittes , i Ambi. Marceli*, usò anche , ma in sensoproprio , l' aggettivo ' bellatorius ' : * Ideoque hoc ni mia cauendum , quodmilitem colsi nominis cum bellatoriis iumentis extinxit '. (Rer. gest. XXIII 5, 13. Gardthausen). Cfr.XXXI 2, 22. Si deve riconoscere pure ilsignificato proprio di ( bellatorius ' nel seguente luogo dell'anticatraduzione latina di Irbn. Deteet eteuer*. falso cognomin. agnition. seu contro, haereses IV 34, 4: 'la tantum transmutationem fecit, ut gladioset lanceas b ella torias in aratra fabricauerit ipse ' (Migne, Patrolog.curi ser. Graeca et Orientai., toni. 5,col. 985). memento adhibere solacium, non quasi castigatori u m et nimis forte,sed molle et humanum '. Epist V 16, 10.« Notisi che nel luogo cit. il solocod. M presenta la voce ' castigatorium' : V ed. a dà la lez. ' castigatorum ', che si potrebbe intendere nel modostesso che si è detto sopra intorno a 'bellorum ' sostituito a 4 bellatorium \Tuttavia , come bene avverte il Gierig, 2il genitivo plurale ' castigatorum ' non si adatterebbe con gli aggettivi che seguono ' forte, molle,humanum \ e nocerebbe all' efficaciadella frase. 4.° Un altro aggettivo ,formato , come i due precedenti, da temi di ' nomina agentis ', è 'praecursorius ', da ' praecursor ', esignifica « preventivo, che precorre,che precede » : ma V arditezza dell' immagine è attenuata , come nei dueneologismi precedenti , dalla pa^ rolapremessa ' quasi ': ' Interim ne quid festinationi meae pereat, quod sum praesens petiturus hacquasi praecursoria epistula rogo \Epist. IV 13, 2. Così il passo di Pliniosi legge nei codd. Jf, V e nelP ed. p.La lezione ' praeciirsori ' data dal D deve essere considerata comegrafìa monca , poiché il dativo singolaredel nome ' praecursor ' non può coordinarsi con le altre parole deltesto. 1 Apollinare Sidonio fece usopiù acconcio dell'aggettivo ' castigatorius', associandolo alia voce 'seueritas': Epist. IV 1 :,' Aetatulam nostrum, mobilem , teneram ,crudam , modo castigatoria seueritatedecoqueret , modo mandato* rumsalubritate condirei ' (Migne, Patrolog. curs., ser. I, tom. 58, col. 508). * Gierig op. cit., tom. 1°, pag. 446, col.2. a Consoli il Neologismi) puntano, 4 Altra volta Plinio,invece di valersi del nuovo aggettivo ' praecursorius \ foggiato per esprimerela precedenza * , usò la voce greca ' pròdromos \ che HA IL VALORE di «" precorrente,che corre innanzi» 8 : v. Epist IV 9,23. Nel luogo cit. dell' Epist. IV 13, 2, alla voce ' praecursoria ' trovasi sostituita 'praeceptoria ' nel cod. F e nelFed. a. Eil Gierig 3 avverte che neicodd.Vosslail., Oxon., Arhzen. , Hamburg. ( Lindenbrogìana excerpta) , Bongars. si legge pure *praeceptoria \ Per ispìegare quest'altro neologismo ( che ' praeceptorius \supposta l'ammissione di esso in sostituzione di 'praecursorius',sarebbe sempre un aggettivo di formazioneplinlanà , sul tipo dei precedenti aggettivi derivati da ' nomina agentis * in -tor) si ricorre doalcuni commentatori di Plinio al contenuto dell'epistola di cui Si tratta ; e poiché vi si parla di 'praeceptores ', se ne trae laconclusione che i praeceptoria epistula 'dovrebbe avere il significato di epistola concernente i precettori : interpretazione inesatta,perchè nel passo cit. della Epist IV13,2 non si accenna atìcora al concettodi i praeceptores \ che viene in seguito , do* V agg. • praecursorius ' fii adoperato nello stesso significato daAmm. Marcell. Rer. gest. XXXI 3, 6; XV 1, £; **» e da Avrel. Cassiod. In psalt expos, p$a\m.XXXIX 8; Variar. Ili epist. 51 (Migne, Patrolog.cura., ser. I, tona. 70, col. 290 ; etotù. 09, col. 606). Vedi A. Corradi , In C. Plin. Caec. SeeundumobÈeruationes ad orationem uerborumque construetìonem et usimi pertinente*; Bergamo, frat.Cattaneo, 1889; pag. té. Vedi anche illessico Forcellini-De Vit, tom. 4 (\%m), pag.78ì, col. l a e 2*. . « V. Aeschyl. SepL adii. Thtb. w. 80, 195,SophòA. Antig. v. 108. * Gierig op. cit., tom. 1°, pag. 339, col.1.* 51 pò che se ne rende avvertito il lettore conle parole : ' prius accipe causasrogandi \ Vi si accenna, invece, allafretta dell'autore ed a ciò che l'autore stesso avrebbe chiesto all' amico suoTacito, se fosse stato in presenza di lui.Ma se si vuole accettare per genuina la lezione ' praeceptoria \ bisognadarle il valore lessicale di ' praecursoria ', ricorrendo al verbo ' praecipere' ( donde ' praeceptor ' e 'praeceptorius '), il quale per Cesare,Livio, Lucrezio, Virgilio ed altri ebbe pure il significato di «prendere prima, anticipare, prevenire ».'5.° Dalla voce composta ' sacerdos % il cui secondo elemento si riattacca al tema del verbo 'dare ', Plinio dedusse il nuovoaggettivo ' sacerdotalis ', che , in rispondenza alla sua origine, significa «spettante ai sacerdoti, sacerdotale » : * Proximis sacerdotalibus ludis productis in commissione pantomimis \EpisL VII 24, 6. E per ' ludisacerdotales ' si debbono intenderequelli che davano i sacerdoti al loro entrare in carica. 2 Qui è necessario avvertire che abbiamoconservato tra i neologismi pliniani lavoce ' sacerdotalis ', non ostante chel'uso di tale aggettivo si sia notato 3 nellafrase di Velleio Patercolo II 124, 4: 'Proxime a nobi i Caes. De b. e. Ili 31, 2.-Liv. IH 46, 7; XXX 8, 9;XXXVl 19, 9. Lvcret. De rer. nat VI 803 e 1048. Vero. Bel.Ili 98.Val. Flac. Argon. IV 341 (ma neir ed. aldina si legge 4 praeripiunt '). Stat. Theb. Vili 328; etc. * Sveton. io Ùiu.AuQUSt. 44 parla di Mudipontificale*;*. * la fotti, nelDizionario Georges-Calonghi, [Torino, 1896],col. 2396, si trova notato il vocabolo ( sacerdotalis ' con l'autoritàdi Plinio e di Velleio Patercolo. B lo stesso osservasi nelYAmf&hrLHandtoorterb. del Georges, voi, 2.° [J880], col. 2183. _ solissimis ac sacerd-otalibus uiris desti nari praetoribus contigit '(Halm) ; perciocché tanto nell'apografo di Bonifacio Amerbach , (il solo che ciresti della storia romana di Velleio ;che, cohie è noto , il codiceMurbacensis , scoperto da Beato Renano verso il 1515, si è perduto) , quanto nella ' edittoprinceps ' di Basilea, 1520, la lezione accertata, è ' sacerdoti bus uiris ': poi, per una congettura dello Scheffersi sostituì a ' sacerdotibus' Y aggettivo ' sacerdotatibus \ Dopo Plinio, si dilagò l'uso della voce 'sacerdotalis*, massimamente negli scrittiecclesiastici : ne abbiamo eziandio unaconferma in diverse iscrizioni, in luoghidi Ammiano Marcellino e di Macrobio, ! in alcune costituzioni imperialiraccolte nel Codice Teodosiano, 2 etc.B. Plinio ricorse ai temi dèiverbi ' haesito ' e ' monstro ' performare i due nuovi aggettivi i haesitabundus ' e ' monstrabilis '. l.° ' Haesitabundus ' ha il significato delparticipio presente ' haesitans ', chevale « esitante, dubbioso, confuso » : ' Expalluit notabiliter, quamuis palleatsemper, et haesitabundus « interrogai^,non ut tibi nocerem, sed ut Modesto » '. EpisL I 5, 13. 2.° L'altro aggettivo verbale fciiionstrabilis' è sinonimo di ' insignis, illustris % e significa « notevole,cospicuo, illustre, insigne, chiaro » : 'Est enim probitate i Amm. Marcell. Rer. gest. XXVlII 6, 10.Màcrob. Saturn. Ili 5,6. Vedi inoltre ilessici Forcellitii-De Vit (toni. 5 [1871], pag. 288, col. 2 a ),Freund-Theil (toro. 3 [ 1865 ], pp. 143-144),Georges (voi. 2° [1880], col. 2183).* Cod. Tkeodos. XII 1, 145; XII 5, 2; XVI 10, 20(Haenei). morum, ingenii elegantia,operum uarietate monstrabilis'. Epist. VI 21, 3. ' C. Inuovi aggettivi composti, che appariscono perla prima volta negli scritti di Plinio, hanno la maggior parte per primoelemento componente la particella negativa ' in- : due soli sono formati con laparticella 4 per- premessa, ed uno con la particella ' prò- \ a) È stato giustamente osservato che nellalatinità argentea, per amor di vivezzanei contrasti, si preferiva formare l'antitesi di un aggettivo colpremettere allo stesso la particellanegativa 'in-', invece di accompagnare all' aggettivo V avverbio ' non ' o diricorrere a eleganti circorìlocuzioni, come l'uso prescriveva neir età aurea della prosa latina. Plinio nonsi allontanò dal gusto prevalente ai tempi suoi, e, oltre all'accettare P usodi aggettivi in tal modo formati da scrittori suoi contemporanei, egli stessone formò altri sette, premettendo la particella negativa, 'in-' a due aggettivisemplici ed a cinque aggettivi composti.aa) 1.° L'aggetti vq ,299), * obdie sogenannten senteutiae VarronisVarronisches enthalten ist ganzunsìcher*. * Cic. Tusc. diap. Ili 34,81 ; De legib.h 11, 32. Vero. Georg. IV94; Aen. IX 548.- Stat. Theb. IX, 109.-Tac. Agr.9; Ann. XII 14; Hiat. 1.» ' Incongruens ' significa «inconseguente, incongruente, disconvenevole *. Plinio se ne valse nel seg.passo: ' Quibus sententi^ Caepionis placuit, sententiam Macri ut rigidam durjimque reprehendunt:quibus Macri, illam alterarli dis^olutam atque etiam in congruente ni uocant \Epkt. IV 9, 19. l 2.° D3II0 stessomodo, per indicare ' qui non reueretur \ « chi ha poca stima, i' irriverente », il nostro autore premise lapar(,ic3lla negativa ' in- ' al partieirpio presente del verho ' re-uereor ', e die origine al neologismo * inreuerens', che si legge nelluogo se^ guente: ' Sum enim deprecatusne quis ut inreue^ r e n t e m operisarguepet, quod recitaturus \ Epist. VIH21, 3. 2 Non nuoce alla nostraosservazione sul neologismo pliniano 'inreuerens ' il considerare che nel cod, M sitrova la lezione ' ut inreuerenti ', perchè la differenza del caso, importante senza dubbio per Vordine sintattico della frase, non contrasta al valore lessicale della parola.1 A. Gell. Noci. AH. XII 5, 5 continuò V uso dell' aggettivo * iucou^ruens ' ; e Avhkl. Avgvst. De don,perseu. 22, 01 (M-~ gne, Patrolog.eurs., §gr, }, tom. 45, col. 1030; 1' accolse n$Ua forma del grado superlativo. Vedi per altriesempi presentati da Lattanzio ilGeorges, Ausfùhrl. Handwòrterb., voi. 2° (1880)coi. 133. * Aleute tracce dellacontinuazione dell* uso dell'agg. ' tnre-*uerens ' troviamo in Ael. Spartian. Carae. 2, 5 (secondo il Peter); e particolarmente in Flou. Tertvll. De orai.16; Ad nat. I 10; Aduers. Mare. II 14(Migqe, Patrolog. cura., ser. I, tom. 1 , col.1173,575; tom. 2, col. 302). Vedi altri esempi nei lassici ForcelUni-DaVit (tom. 3 [1865], pag. 623, col. 2 J ), e George* (voi. 2' [1880], col. 381). Dàlia forma participiale ' ascensus \premessa la particella negativa ' in- ',si è formato ' inascensus ', che vale «non prima salito, dove nessuno è salito »,e perciò « inaccessibile ». Plinio se ne servì per il primo nel Pan. 65,3: 'Inascensum illum superbiae principumlocum terere\ Nel riferire il passo di Plinioabbiamo seguito la lezione presentata dai codd. d, e; poiché la lezione' inaccensum ' del cod. d non pare che possa adattarsi, per contrasto disignificato, alle seguenti. parole dellafrase citata : ' illum superbiae principum locum \ Non contrasterebbe alconcetto di tutta la frase la congetturadel Lipsius, per la quale si viene a sostituire al neologismo ' inascensum ' lavoce ' inaccessum ', usata da Virgilio eda altri x ; ma sarebbe grave errore posporre la lezione genuina data da codiciautorevoli, la quale non contrasta col senso dell' intera frase, ad una congettura, per quanto questa possaapparire più gradita all' interprete esia proposta da un filologoinsigne. 4.° Nel seguente periododel Pan. 4,7:' Iam firmitas, iam proceritas corporis , iam honor capitis etdignitas oris, ad hoc aetatis i n d e f 1 e x a matur itas nec sine quodam munere dèum festinatis senectutisinsignibus ad augendam maiestatem ornata caesaries, nonne longe lateque principem ostentant ? ' presentasi l'aggettivo nuovo ' indeflexus ',che risulta dall'unione della particellanegativa ' in- ' con una forma participiale del 1 Vero. Aen. VII 11 : Vili 195. Senec. Herc. '[furens]606.Sil. Ital. Pun. Ili 516. -Plin. sen. Nat. histVI 28 (32), 144; XII 14(30), 52. Tac.Hist IV 50; e altrove. Poi Macrob. Saturn. V 17, 7 ; etc. Sìverbo ' de-flecto \ E però ' indeflexus ' significa « non piegato » ; e, riferendosi ad ' aetatismaturi tas ', assume il significato di « non indebolito » , non mai di « invariabile », come inesattamente qualcunointerpreta.? Il Beroaldus, forse perevitare il neologismo, ha sostituito nel testo di Plinio a ' indeflexa '. lavoce ' inflexa ', senza avvertire che V uso ha determinato un valore nonnegativo alla particella ' in- '• preposta al verbo ' flectere '. E, di fatto , Ivvbkal. Sii i 1, & t Vlfiak in Din XXkVll 11, 4 Cfr. Porphyr.Hor.epist 1 20, IO, citato dui Georgesne\Y Amfùhrl Handworterb., voi. 2°(18S0), col. 1212. * Vedi Cic.De orai II 80, 325; Pro Cluent 21, 58; De legibtt* Il 7, 16; Epint ad Ali. IV16a, 2; XVI 6, 4; etc. che consideriamo,si spiega con la forma mediale del verbogreco corrispondente. l 2.° Dal temadella voce ' uber ', passato par il tramite di * ubertas ' o di * ubertus \ *Plinio formò il verbo l ubertare ', avente il significato di « fecondare,fer* tìlizzare, rendere fecondo oabbondante » : * * Et caelo quidemftumquam benigni tas tanta, ut omnes si nini ter-* ras u b e r t e t foaeatque \ Pan. 32 , 2.Tale è la lezione del cod. A ; ì codd. d, o, d presentano la lezione i uberet %che sì adatta anche bene al concetto cheFautore volle esprimere nel luogo citato del Panegi^ fico. Ma il verbo * uberare ' non può èssere consideratocome un neologismo introdotto da Plinio , poiché Puso del Verbo 'uberar^' èstato accertato in Columella 4 ; ed è noto cbe Columbia fu contemporaneo 1 L* uso del verbo ' prooemiari ' fuaccolto poi da Ivl. Victv Are rhet 15,(nella ed. Orelli delle opere di Cicerone [1833], voi. 5, parte 1", pag. 244); da Apollin.Sidon. Epìst. ad Ma* meri Claudian.(Migne, Patrolog. curs. t aer. I, tom. 53, còl 781). Vedi A. Corradi op. cit., pag. 35, nota. « L'aggettilo 'ubertus' ha per sé l'autoritàdi &.Oell. Noci. Att VI (VII) 14, 7.Non teniamo contò d*un passò di Solfilo fcl,& ' solo pla&ò u b e r t o q u e ', presentato dal òod*Aogetomom I, 4, 15, e dal feod.Sangallòns. 187, ma rifiutato dal Motnttisertòhe sì avvale deli* autorità di altri codici : il óod. Parisin» 68te presenta invece : ' Pannonia soloplanò uberiqufe '. • Riappare moltotardi il verbo * ubertare ' in Evmén. Ornilo*.aetio Cbnstànlino Aug. Mauienèium nomine, 9: ' Agros diuturno ardore sitiòntes expetitus uotis imber u b er t a t ' • ( Mìgae» Pdtrótog. extra. , sar. I, toni. 8, col. 649). * Colvm. De re rtist. V 9, 11. Vedi atìcbePallad. De re rud. X! fòatòber) 8, 3. 64 -~di Seneca il filosofo, è scrisse i suoi libri prima di Plinio ilvecchio. * B. Di verbi nuovi, composti con preposizioni,Plinio ne presenta soltanto quattro : ' indecere, defreraere, interscribere, pertribuere '. Liconsidereremo successivamente come sono stati enunciati, secondo P ordine della lettera iniziale del verbo semplice. , -1.° Il verbo ' indecere _' significa «sconvenire* essere disdicevole, starmale ». Non pare che Plinio sia stato ilprimo ad usarlo, tuttoché negli scritti di lui si osservi per la prima volta laforma verbale ' indecent \ In fatti,tanto la forma participiale ' indecens ', adoperata in senso di aggettivo,quanto la forma avverbiale 6 indecenter' si trovano negli scritti dei contemporaneidi Plinio. - Il passo pliniano che presenta il verbo ' indecere ' è il seg. ': ' Nam iuuenesconfusa adhuc quaedam et quasi turbatanon indecent'. Epist. Ili 1, 2. * I cQdd. M e V danno nel passo citato lalezione Mndicent', la quale non si adatta al concetto che informa 1 Thuffsl-Schwàbe, G. d. r. L. », a. 293,pag. 713, • Per la voce ' indecens ' v.Vitrvv. De arch. VII 5; Patron. Sai.128, 3; Qvintil.- Imi orai. XI 3, 158; Martial. Epigr. II 11, 4; V 14, 7; XI 61, 13; Svlton. Diu.Claud. 30. Per Taw, 4 Indecenter' v.Qvintil. ìn$L orati 5, 64 ; Martial. Epigr. XII22, 1 ; etc. ; e per la forma superi. * indecentiesime ': Qvintil. Imst. orai. Vili 3, 45. Cfr V Antibarb. delKrebs , y. 'indaoere'. * Osservasi il vrl>^ ' indecere * nel seguente luogo di A, G 4 bll. Noci. AtL VI (VII) 12, 2. ( Feininisque solisuestem longe late-. que diffu?am in decere existimauervint ad ulnas cruraqueaduersus oculos protegenda ' (ed. Hertz: ma sbcondo la ' lectio Gronouiana ' é da leggerti 4 decorarti * i avece di ' indec^re '). 65 il periodo, e nemmeno corrisponde al verbodella proposizione seguente ' conueniunt '. È necessità, dunque, accogliere ilneologismo ' indecent ' per non cadere in unadissonanza sintattica e in una stortura del senso del periodo. 2.° Il seguente luogo di Plinio, lettosecondo il cod. M: ' Ego et modestius etconstantius arbitratus immanissimum reum non communi temporum inuidia, sedproprio crimine urgere , cum iam satis primus ille impetus defremuisset etlanguidior in dies ira ad iustitiam redisset, .... mitto ad Anteiam ' etc.Epist IX 13, 4; ci ha dato argomento di notare tra ineologismi pliniani il verbo composto 'de-fremere % che vale « cessar di fremere »*. Ma la lezione ' deferuissèt \presentata dal cod. D e dalle edd. p f a, e P equivalente lezione 'deferbuisset ', data dalle edd. prealdine del Laetus, del Beroaldus e delCatanaeus, non sono da trascurarsi , poiché il verbo ' deferuescere ' ( 'déferuere '), che significa « cessar dibollire, finir di fermentare », e, insenso traslato, « sbollire, quietarsi, calmarsi », si adatta meglio ad esprimere quello sbollimentod' ira, quella calma succeduta allosdegno, che Plinio accenna in modo non dubbio con le frasi : ' primus illeimpetus', ' languidior in dies ira', ' ad iustitiam redire', 2 i Ne vediamo continuato l'uso da Apollin. Sidon. Epp.l 5; IV 12; IX 9 (Migne, Patrolog. eurs., ser. I,tom. 58, coli. 455,518, 623). V. i lessici Freund-Theil (tom. 1° [1855], pag. 753) e Georges (voi. 1° [1879J, col 1860). 2 Nel Dizionario Georges-Calonghi non ènotato il verbo 20. >•** Cfr. V 6, 21 e 6, 27. 2.° ' Cohors ', come termine tecnicomilitare:, valse a significare la decimaparte di una legione , oonteaente tre 'manipuli ' o sei ' centuriae ' ;, si: ebbe anche il significato di « schiereausiliarie » : ma in tutti e ditesignificati si riferì sempre ai soldati di fanteria- o pe* doni (' pedites '). Plinio riferì anche 'cohors ' alla cavalleria (' equites '), scrivendo: ' P. Accio Aquila,centurione e o h o r t i s sextae equestris'. Epist. X 106 (107). Ma nell& risposta dell' imperatoreTrAittno st? li l Colvm. De re rust. X362 ; XI 2, 30. renio (Epist X 107(108): ' Libellum P. Aedi Aquilae, centurionis sextae equestris) , la voce 'cohortis ' è evitata , come ben siosserva nella ed. A: per una congettura delBeroaldus si legge la voce ' cohortis ' premessa alle parole ' sextaeequestris ' nel testo della cit. epistola diTraiano. Donde s' indusse Plinioad associare il concetto di ' cohors 'con quello di ' equites ' ? Probabilmente nondall'essere in quella sesta coorte commisti insieme cavalieri e pedoni ,come suppone il Lagergren , riepilogando l'opinione del Forcellini l , (chemilitarmente ciò avrebbe prodotto unadannosa confusione), ma dalla necessità di dare un termine adatto ad una partedell' i equitatus ' , ricorrendo , per somiglianza di ordinamento militare, ainomi delle divisioni della fanteria.Cicerone aveva, però, ben chiaramente distinto 1' i equitatus' dalle'cohortes'. 2 3.° ' Species ' nell' usodella latinità aurea ebbe o ilsignificato attivo di « vedere, guardare », o quello passivo, di «aspetto, apparenza, figura, imagine ». Pliniose ne valse per significare « ipotesi, caso particolare », facendone un sinonimo di ' casus ' ; e contale significato, trasmesso per tradizione, la voce ' species ' si conservò nellinguaggio dei giuristi. 3 Nei seguenti passi di Plinio abbiamo la conferma del nuovosignificato del sostantivo ' species ' :' Nam haec quoque species in 1Lagergren, op. cit, pag. 74. Vedi illessico ForcelliniDe Vit, tona. 2° (1861), pag. 264, col. l. a * Cic. Pro M. Marcello 2, 7 ; EpisL ad fam. XV2, 7. 3 Vlfiàn. in Dig. cidit incognitionem meam\ Epist. X 56 (64), 4.' Mox ipso tractatu, ut fieri solet, diffundente se crimine plures s p e e i e s inciderunt \ Epist. X 96(97), 4. Per quale tramite sia venutala significazione di ' species ' adottata da Plinio, non può dirsi concertezza. Tuttavia F essersi indicato daCicerone e da Varrone 1 con la voce 'species ' anche le « specie di un genere »ci dà una probabile spiegazione; poiché, essendo le specie come i casiparticolari di un genere , si rendevanon difficile il passaggio dalla significazione di « specie » a quelladi « caso ». 4.° La locuzioneparticolare ' uenia sit dicto *, usatatra parentesi, la quale corrisponde alF espressione italiana « siapermesso di dire, sia detto con permesso,mi si permetta di dirlo », è dovuta a Plinio : ' Vsque adhuc certe neminem ex iis quos eduxerammecum (uenia sit dicto) ibi amisi. EpistV 6, 46. Dal passo citato si presume chePlinio abbia fatto uso della locuzione *uenia sit dicto ', per allontanare da sér ira degli dei, che, secondo la credenza popolare romana, F avrebbecolpito , se egli immodestamente sifosse vantato. In un altro luogo per esprimere lo stesso concetto, inproposito di una convalescente da gravemalattia, Plinio scrisse la frase ' inpune dixisse liceat' (Epist Vili 11, 2. 2 B. Inomi sostantivi di fonte verbale, che si ebbero da Plinio un significato nuovo,sono un ' nomen i Cic. Top. 7, 30 ;De ìnuent. I 27, 40. Varr. Rer. rust. Ili 3,3.s Lagergren, op. cit., pag. 75,78 agenti» ' in rsor e quattro 'nomina actioois' in -Ho o l.° Il nome 'mensor ', dal verbo i metiri *, si ebbeda prima da Orazio il significato di « misuratore », in generale. 1 Poi Ovidio e Columella ne feceroun sinoniBM eli . ' deeempedator \ cioè « misuratore dei eampi, agrimensore ».* Plinio attribuì allavoce ', ehe Quintiliano adoperò al singolare*col significato di « annotazione^ nota »; 4 ma Plinio, usandolo al plurale, attribuì ai vocabolo il significato di «osservar ùonì scritte al margine di unlibro > : ' Nuno a te Mk brum urmmncum adnotatioaibiis tuis expecto.'ìiptet; VK 30, & 3.° Ilsostantivo ' excursio ', considerato come temniiie 1 HoaAT. Carnkn l. 28, % Cfr Mauxuiì, Epigr. X 17> & t Ovid. Metam. I 106. Col vm. V l. Cfr. per'deeempedator* Cic. Philip. XIII 18,37. 3 V. in proposilo l'osservazione del Gbsner,cit, da A. Corradi, pagi 3& *Qvintil. Imi. orai X 7, 31. tecnicoAl cose militari, valse ad indicare, fla dall' età aure^ cjell'idiopia Latino, la sortita da unacittà ( f eruptio ') *, la scorreria (• discursio milHaris ') 2 e lasoarawucci$ (' prima incursio militaris 'X 3 Plinio per il pripjo attribuì alvocabolo il significato di qualsivoglia4 qp#r$a, gita, scappata in paese »: ' An, ut solebas, Uttaglione reifarai liaris otoeundaei crebris excursiouibusa^acaris ? \ Epist. I 3, 2. Del resto , noa è estraneo fi tale accezione della voce ' excprsio ' V usocjke in pi» Jpogttf Plinio stessa fecedel verbo * excurrere \ dwde * excur^Q.\ per indicare de' viaggi intrapresi : ' Gnpajuiblicufp opus m,ea pecunia inchoaturus in Tuseos e,]fcuciirrUsera.' Epist III 4,2. 'Destino eròe», si tamen offlcii ratio permiserit, excurrereisto \ ffeist. JII 6, 6. ' Nunc uideor commodissime . po&K»in rem praesentem excurrere.' Epist X 8(24), 3* 4 4.° Nel periodo dellalatinità aurea il nome ' ppaeeeptip ' significò « precetto , insegnamento * , eaocihe « preconcetto, pregiudizio ». 5Plinio attribuì a ' praeceptio ' il significato di « prelevamento oprelevazione » di parte di un'ereditàprima degli altri coeredi: 'Saturninas autem, qui nos reltquit taeredes,quadrantem rei publicae nostrae, deindeprò quadrante praeceptionem quadringentorum milium dedit'. Epist V 7,1.t Cabsl P* k a II 30, 1. « Cic.De prou. cons. 2,4; Pro * Deiói 8, 2& Liv. XXX VII 143.3 Usl XXX 8, 4 ; 1 1, a XXX VII 18, 4.4 II, giureconsulto Scovala conservò il significato pliniano di 'e;xpursp/ u^Dig. XXXIII 1, L3, in fine. 5 Cip. Pari orai. Con ciò Plinio si attennepiù da vicino alla fonte della parola,che è il verbo ' praecipere '=« prendere innanzi, prendere prima »; talché,invece di dare un significato nuovo al nome ' praeceptio ', restituì allostesso il valore lessicale originarioche, a poco a poco, si era modificatonell'uso: tanto più che Plinio stesso usò ilverbo ' praecipere ' nel significato di « ottenere prima, percepire innanzi , prelevare da un' eredità» , come osservasi in Epist, V 7, 1 ; X75 (79), 2. Nella lingua deigiureconsulti romani la parola in esameconservò sempre il significato anzidetto; e. sidiede appunto la qualità indicata dall' aggettivo ' praecipuus' a quellaparte di eredità, prelevata, che nonentrava nella divisione dell' asse ereditario; 1 mentre * praecipuum ' sostantivato aveva avutopresso Cicerone il significato di «preminenza, eccellenza, vantaggio ».*5.° ' Praesumptio ' non fu voce accolta nella latinità aurea. 3 Plinio l' usò nel senso di «godimento prema 1 Vlpian.ìii Dig.XXXIII 4,2. Papinian. in Dig. XL 5,23, § 2;XXXI 75 e 76. Cfr. Apollin. Sidon. Epist. VI 12 (Migne, Patrolog. cur8.% ser. I, tona. 58, col. 560-561). Del resto, tale uso può considerarsi come una conseguenza delsignificato attribuito fin dai tempiantichi all' espressione ' pars praecipua ' o ' res praecipua'. Vedi Plavt. Rudens 188-189;Terent. Adelph. 258. * Cic. De finibusII 33, 110: 'Homini.... praecipui a natura nihil datum e3se diceraus ? ' 8 Leggevasi in un luogo di Cicerone, Dediuinat. II 53, 108 : 'Praesumptiotamen.... non dabitur*. Ma in realtà i codd.Leidens. Voss. 84, Leidens. Voss. 86, Leidens. Heins. 118, Vin 189 dobon. 2Qjr danno concordemente ' praesensio', invece di * praesumptio \ Il Pearcius vi sostituì, per mera congettura, lavoce 81 turo, uso prematuro », facendone quasi unsinonimo della voce ' praeceptio \ Ma,nell' assegnare al nome ' praesumptio 'tale significato, Plinio si allontanò dall' uso che ne fecero i suoicontemporanei. Quintiliano , in fatti, Padoperò come termine di retorica, per indicare la figura ' prolepsis \ 1 D'altro canto , Seneca 2 e poi Giustino edaltri 3 attribuirono alla voce ' praesumptio ' il significato di « speranza,fiducia , aspettazione , opinione ».Plinio, invece, conservò alla voce il significato più vicino all' etimologia dellastessa (' prae ' e 4 sumere '), cioè «uso o godimento anticipato » , equivalente perciò , come dicevamo sopra , a quellodel nome ' praeceptio ', ma nonfacilmente assimilabile , come supponeil Lagergren 4 , al significato della voce' anticipatio ', che per Cicerone vale « prenozione, prenotizia, ideaanticipata ». 5 La conferma delsignificato pliniano del sostantivo 'praesumptio ' è data dai seguenti luoghi : ' Rerum ' adsumptio' : lo seguirono il Christ(nella 2. a ed. Orelliana, Turici, 1861; voi. 4, pag. 554), il Nobbo (Lips.,1850, pag. 1162, col. 2. a ) ed altri. i Qvintil. Inai. orai. IX 2, 16 ; 2,18. 2 Senec. Episi. mor. XIX 8 (117),6. Cfr. A. F. Rosengren , De elocut. L.Annaei Seneeae commentano; Upsaliae, Wahlstròm (senza data della pubblicazione,ma è, probabilmente, del 1849-1850),pag. 38. s Ivstin. Epit hist Phil III4, 3. Spartian. Hadr. 2, 9. Si valsero anche della voce * praesumptio ',in significato simile, i giureconsulti Papin. in Dig. XLI 3, 44, § 4, e Vlpian. in Dig. XXIX 2, 30, § 4; XL 5, 24, § 8; XLIII4, 3, § 3; etc. * Lagergren, op. cit.,pag. 57. ' s Cic. De nat deor. I 16, 43; 17, 44. Consoli II Neologismo Pliniano, 6 82quas adsequi cupias praesumptio ìpsa iucunda est'. Epist. IV 15, 11. ' Ego beatissimum esistitilo qui bonaemansuraeque famae praesumptioDe perfruitur certusque posteritatis curii futuragloria uiuit '. Epist. IX 3, 1. Il significato attribuito da Plinio al nome' praesumptio ' si deve non al dotto arbitrio dì autorevole scrittore, ma all'efficacia che Bull* accezione di ; praesumptio ' esercitò, con moltaprobabilità, V uso che lo stesso Pliniofece del verbo ' praesumere ', accostando al significato primitivo di «prendere prima » anche i significati di « adempiere prima, porre prima,pregustare », che risultano dai segg.esempi: Epist. II 10, 6; III 1, 11; VI10, 5; Vili, 11, 1; Pan. 79, 4. C. Quanto al significato dei grecismi ' cataracta, paedagogìum, sipo ', Plinio presentadelle novità che ' ne presso gliscrittori dell' età aurea, né presso i contemporanei di lui ci è datoosservare. I.° ' Cataracta ' o 'cataractes ' servì ad indicare, perantonomasia, le cascate o cateratte del Nilo. ■ Livio se ne valse per denotare le « saracinesche »alle porte delle fortezze. ! Plinio,invece, indica con ' cataracta ' o •cataractes ' la « chiavica o cateratta » che è nei fiumi por reggere il corso dell'acqua: 'Si nihilnobis loci i Vitrw. De arch. Vili>. Sknkc. Nat. quaest. IV 2, A. I'lin. sBN.'jVflt hit!. V 9 (IO), 54 e 59. * Liv. XXVII 28, 10 e 11. Cfc Vboet. Epit rei mil. IV 4. Lo slesso significato notasi in Plvtar.Anton. 76, 2 : cfr. anche dello stesso Plutarco Aratus 26, 1. 83natura praestaret, expeditum tamen erat cataractis aquae cursum temperare. ' Epist X 61 (69), 4.l 2.° La latinità classica non si avvalse del grecismo 4 paedagogium ' 2 : cominciò a servirsene lalatinità argentea. Svetonio con la frase ' ingenuorum paedagogia ' alluse alla sfrontata prostituzione eseduzione dei tempi di Nerone, se purenel testo svetoniano non si vogliapreferire alla lezione ' paedagogia ' l'altra lezione 6 proagogia. 3Seneca e Plinio il vecchio indicarono con ' paedagogium ' , per metonimia , ifanciulli educati in un istituto, ossiala scolaresca. 4 Ma Plinio il giovane restituì a ' paedagogium ' il significatodi luogo o istituto dove erano educati i fanciulli destinati ad impieghi ouffici superiori : ' Puer in paedagogio mixtuspluribus dormiebat. ' Epist VII 27, 13.L' etimologia mista greco-latina della pretesa voce ' paedagium ', la quale fu accolta dalla ed.p nel luogo cit. dell' epist. pliniana,potrebbe solo tentarsi per ispie-, gareuna parola nuova che dai codici concordementesi attesti essere stata usata dal nostro autore, come, per es., la voce ' cryptoporticus ' ; ma si devesempre rifiutare, quando con essa si voglia tentare V accettazione 1 Cfr. Rvtil. Nàmàt. Dered. suo I 481: 'Tum cataractarum claustris excluditur aequor * (Baehrens, Poetae Latin,min. voi. 5°, pag. 21 : ma nel cod.Vindobon. 277 (387; si accoglie lagrafia ' catharactarum '). *Vedi per il significato della voce greca considerata: Demosth. Orai, de corona 258 (313, 10-12) ; Plvtar.Pomp. 6, 2. 3 Sveton. Nero 28. * Senec. Dial VII {De uita beata) 17, 2 ;Dial. IX (De tranquii animi) 1, 8; Epist mor. XX 6 (123), 7. Plin. sen. Nat hist XXXIII 12 (54), 152, 84di una parola che non è accolta dai codici né registrata nei lessici, ma soltanto proposta comecongettura d'interprete. Molto meno si può fare buon viso alla congettura delLipsins ', che, movendo dal presupposto che' paedagogium ' dovesse riferirsi soltanto alla riunione degli alunni, non mai al luogo dellariunione, voleva sostituire laespressione ' puer e paedagogio ' alla lezione data dai codici ' puer inpaedagogio '. 3." Il grecismo 'sipo ', che vale « corpo vuoto o cavo,sifone », penetrò nella lingua latina dopo 1' età di Cicerone -; e se ne valsero gli scrittoridell'età argentea per indicare « sifone , canale, pompa per alzar 1' acqua », oper termine di confronto a cosasomigliante 1 Ivsti Lipsi Ad AnnalesC. Taciti liber tommentarius, Parisiis, N. Buon, 1606; pag. 236, Ad librum XVAnn.: ' Vides ergo ubique paedagogia pròcoetu et quasi collegio puerorum. prò loco non accipiò, ne epud Plinium quidemlib. VI] epist. « Puer io paedagogiomistus pluribus dormiebat ». rescriboque : « Puer e paedagogio >. intellegitenim puerum paedagogianum'. » Si èpreteso riconoscere la parola 'siphone' iu un luigodi Lucilio, cit. da Cic, De flnibusll 8, 23; malalezkmu é incerisi Il cod. Palat., oraVatic. 1513, presenta 'hirsizon'; l'altro codPalat., ora Vatic. 1525, presenta 'hrysizou': gli altri codd. , come il More)., 1" Erlang. 38, ilVratisl. IV F 180 danno ' hirsiphon". Nella 1" ed. dell' Orelli, del18;8, si legge ' hir sìpliovo '; e quasiconsimile lez. ' fir siphoue' si osserva in quella del Medvig. L' Ernest! la trasformò adirittura in ' si pitone ' ; ma 11Bailer (2* ed. Orellian», Turici, 1861, voi. 4', pag. 103} la, restimi alta Torma 'hirsizon', data dal 1°cod. sopra cit. del secolo XI. A noi parrebbe meglio conservarsi la lez. delcod. Vatic. 1525, ' hrysizou ' p. ' hrysiazon ', part. pres. del verb')greco rhysiàio, Torse 'rhysizo. Ma, intanta incertezza, nulla si può affermare che rispanda sicuramenle al vero. r85 al sifone K Plinio se neservì , attribuendo alla parola ilsignificato di « tromba da incendio », e venne così a determinare in un caso particolare ilsignificato generico di « tromba peracqua » : i Alioqui nullus usquam inpublico sipo, nulla hama, nullum deniqueinstrumentum ad incendia compescenda \ Epist. X 33 (42), 2. 2 Ma è probabile (e, nell'incertezzadella conclusione, ci siamo indotti a notare la voce i sipo ' tra i neologismidi fonte pliniana) , che Plinio non sia stato il primo a designare con ' sipo ' la tromba daincendio ; perocché il retore Musa,citato da Seneca il retore 3 , con lafrase 'caelo repluunt ', detta in proposito dei sifoni, accenna al significato in generale di trombache schizzi l'acqua in modo che questa,ricadendo in forma di pioggia, sembri che ripiova dal cielo. 4 Sez. II.Altre parti del discorso.A. In due soli aggettivi ci èstato dato di osser 1 Senec. Nat. quaest. II 16. Colvm. De re rust. Ili 10; IX 14.-Plin. sen. Nat hist II 65 (66), 166; XXXII 10 (42;, 124. Ivvenal. Sai II 6, 310. * Anche Ulpiano accenna a ' siphones ' pergli incendi in Big. XXXIII 7, 12, §18. 3 Senec. rhet. Controuers. Xpraef., 9. 4 Nel DizionarioGeorges-Calonghi, v. * repluo ', col. 2341, ev. ' sipho ', col. 2500, si afferma ripetutamente, ma non sappiamorenderci convinti del motivo, che da Seneca il retore si attribuì alla voce 'sipho ' il significato di (1880), col.2412, e riferita contemporaneamente tanto al significato eine Spritze, quantoal significato Feuerspritze. 86vare che il significato attribuito ai medesimi da Plinio si allontana dal significato che si ebberonell'uso dell' età anteriore e in quello dei contemporanei di Plinio stesso. Tali aggettivi sono : ' octogenarius' e ' otiosus \ 1.° L' aggettivo 'octogenarius ' fu da Vitruvio e daFrontino adoperato a significare una misura. ' Plinio se ne valse per indicare « vecchio di ottantaanni, ottuagenario, ottogenario »: ' Femina splendide nata , nupta praetorio uiro, exheredata ab octogenariopatre \ Epist VI 33, 2. 2.° L' aggettivo ' otiosus ', che significapropriamente « ozioso, inoperoso,disoccupato », ed equivale a ' uacuus muneribus ', soleva essere riferito anchea cose inanimate, p. es. a tempo, età 2, discorso, 3 etc. A questo uso si accostò Plinio, scrivendo: 'Per hos dieslibentissime otium meum in litteris conloco, quos alii otiosissimis occupationibus perdunt. ' EpistIX 6, 4. Ma nessuno prima di Plinioaveva riferito V epiteto di ' otiosae ' alle somme di danaro non date adinteresse, ' non occupatae ' : ' Pecuniae publicae, domine, prouidentia tua et ministerio nostro et iamexactae sunt et exiguntur; quae uereorne otiosae iaceant. ' Epist. X 54 (62),1. Anche il giureconsulto Scevolaapplicò alla ' pecunia ' non data ad usura la qualità di ' otiosa \ 4 i Vitrw. De areh. Vili 7 ('fistulaeoctogenariae';. Frontin. De aqu. urb.Rom. 58 : ' Fistola octogenaria diametri digitos X\ * Cic. Epist ad Q. fratr. Ili 8, 3 ; Deseneci 14, 49. 3 Qvintil. Inst. oraiVili 2, 19; I ), 35. * Scabvol. in Dig.XXII 1, 13, § 1: « Pro pecunia otiosausuras praestare debeat ' (Mommsen : ma nel cod, Florent. dei Digesta è scritto ' pecunia uitiosa '). Come si è già avvertito, Plinio fu parco d'innovazioni quanto ai verbi. Egli, in fatti, attribuì significato non noto agliscrittori dell' età anteriore , né , aquanto appare, accolto dai contemporanei, ai tre verbi * exseri bere, per colere, prosecare ',conservandoli sempre in sensoproprio. l.° La latinità aurea presentaV uso di 'ex-scribere ' nel significatodi « trascrivere, copiare », ed anche neisignificato di « notare, registrare, mettere per iscritto ». 1 Plinio, invece, assegnò al verbo ' exseribere' due signiAcati nuovi, 1' uno proprio e 1' altro figurato , che non troviamo negli scritti dei contemporanei dilui. Il significato proprio , di cui ora interessa intrattenerci , (che, al suo tempo, tratteremo del verbo 'exseribere ' in senso traslato) è: «dipingere, disegnare , rappresentare » : ' Herennius Seuerus, uir doctissimus,magni aestimat in bibliotheca sua ponere imagines municipum tuo rum petitqueexseribendas pingendasque de legem '. Epist IV 28, -1. Donde tale significato? È noto che ' scribere ' ebbe anche ilsignificato di «e disegnare, dipingere». 2 Plinio il vecchio, a determi^ naremeglio il lavoro di copiatura di una pittura, si valse del verbo ' transcribere \ 3 Appare probabilequindi che Plinio il giovane,attenendosi allo stesso ordine di concetti, meglio che della preposizione 'trans ' si sia servito della preposizione ' ex ', che esprime con maggiore esattezza l'idea di « trarre fuori, dedurre», e, pre l Cic. in Verr. aet. see. II 77, 189. Varr. Rer. rust. II 5, 18. * Cic. Tu8c. dìsp. V 39, 113. Catvll. Carm. 37, 10. 3 Plin. sen. Nat. hist XXV 2 (4), 8: * Veruna ot indura falla* est colori bus...multumqu 3 riamente significa « usatto,piccolo socco, calzare leggiero », che si soleva portare dalle donne e dai damerini effeminati. Mapoiché il socco era usato dagli attori comici per la rappresentazione dellacommedia, e quindi, per figura metonimia, venne a significare la commedia, cosìPlinio che, adoperando il linguaggio scenico , aveva chiamato una sua villa, presso al lago Lario, col nome 'comoedia ', ne indicò il sito basso, rasente il lido del lago, col diminutivo 'socculus \ Ecco il passo pliniano : ' Huius (lacus) in litore plures uillae meae, sed duae maximeut delectant ita exercent. altera inposita saxis more Baiano lacum prospicit, altera aeque more Baianolacum tangit, itaque illam tragoediam, hanc appellare comoediam soleo ; illam, quod quasi cothurnis , hanc ,quod quasi s o e e u 1 i s sustinetur \Epist IX 7, 2-3. La lezione ' oculis 'che, invece di ' socculis ', è data dalcod. D e dalle edd. p, a, non ci pare in alcun modo attendibile, prima di tutto perchè vien menoil parallelismo che l'autore vuol mettere in evidenza tra la villa chiamata ' tragoedia ' e quella che porta ilnome di 6 comoedia ' ; in secondo luogo,perchè bisogna forzare il senso dellafrase per supporre omogeneità tra ' sustinetur cothurnis ' e ' sustineturoculis \ Preferiamo, dunque, la lezione ' socculis ', che è presentata dal cod.IH e dalle edizioni prealdine. 9710.? Dicevasi propriamente ' sportula ', diminutivo di i sporta ', quel canestrino di cibi, che sisoleva dare dai patroni ai clienti,allorquando questi si recavano da loroper salutarli. In senso traslato, Plinio se ne valse per indicare quelle largizioni che per lo più daautori, di poco merito si solevano dareai ' laudicene, per essere applauditi dicontinuo da questi durante la recitazionedei loro lavori letterari : ' Sequuntur auditores actoribus similes,conducti et redempti: manceps conuenitur:in media basilica tam palam sportulae . quam in triclinio dantur. ' Epist II 14, 4. . Pare che Quintiliano si sia accostato alconcetto di Plinio con l'avvertire che èsconveniente per gli oratori ' intermoras laudationum ' il * respicere ad librariossuos,. ut sportulam dictare uideantur. ' l E da avvertirsi inoltre cheil nome ' sportula ' fu anche usato, insenso traslato, dall' imperatore Claudio per indicare i « brevi giochi dati al popolo I sostantividi fonte verbale, innovati nel lorosenso traslato dal nostro autore , si possono ordinare così : a) ' nomina agentis ' formati colsuffisso -tor ; b) ' nomina actionis 'col suffisso -tion ; e) sostantiviformati da temi di verbi per il tramite del tema del participio presente; d) sostantivi verbaliaventi diverso suffisso. a) Non molto è da dirsi dei quattro ' nominaagentis ': i Qvintil. InsL orai. XI3, 131. « Sveton. Diu. Claud. 21. Consolili Neologismo puntano*98 * * debitor, frenator, gestator, reductor,' che nei loro significati in traslato presentano tracce d'innovazione. 1.° Il nome ' debitor'significò propriamente « chi deve unasomma di danaro ad un suo creditore ». lAccolto in traslato, indicò « chi è obbligato , chi è tenuto a qualchecosa », la quale veniva espressamenteenunciata, per es. * uitae , animae , uoti, etc. ' 2 Plinio accolse tale significato del nome ' debitor*, considerato in traslato, ma viapportò la novità di adoperarlo assolutamente , cioè senza indicazione dellacosa* per cui si restava obbligato : 'Cuius generis quae prima occasio tibi,conferas in eum rogo; habebis me, habebis ipsumgratissimum debitorem. ' Epist. Ili 2, 6. 2.° La voce ' frenator ' appare per la primavolta nella latinità argentea, eriferita sempre a cose materiali, per es. il giavellotto, 3 il cavallo. 4Plinio lo riferì,, per traslato, adargomenti morali : ' Contemptor ambitiónis et infìnitae potestatis domitor etfrenator animus ipsa uetustate florescit. ' Pan. 55, 9. 3.° Quanto al nome ' gestator ', chesignifica « portatore per guadagno, facchino », ed è perciò sinonimo di 'baiulus ' p ' baiolus ', voce usata da Cicerone 5 , Plinio lo riferì a un delfino che portava suldorso i figli : * Incredibile, tam uerumtamen quam priora, delphinum gestatorem collusoremque puerorum in i Cic. De off. II 22, 78. Senec. De bene/. VI 19, 5. Modestia in Dig. L 16, 108. 2 Ovid. Ex Pon. IV 1, 2; Triti. I 5,10. Martin Epigr. IX 42, 8.3 Val. Flac. Argon. VI 162. 4Stat. Theb. I 27.. 5 Cic. De orai. II10, 40 ; Parad. IL-, 2, 23. 99terram quoque extrahi solitum harenisque siccatum, ubi incaluisset, in mare reuolui. ' Epist. IX33, 8. 4.° Il nome ' reductor ',considerato in senso proprio, significa« riconduttore, chi riconduce » : e in tale skgniflcato T usò Livio. 1 MaPlinio adoperò ' reductor '• nel sensotraslato di « restauratore » : ' (Titinius Capito) colit studia, studiosos amat fouet prouehit,multorum qui aliqua conponunt portussirius gremium , omnium exemplum,ipsarum denique litterarum iam senesceiitium reductor ac reformator. ' Epist.Vili 12, 1. 6) I. quattro ' nominaactionis ' : ' descensio , dispensalo , egestio , nutatio ', formati da temiverbali , presentano le seguenti innovazioni nel loro uso traslato. l.° ' Descensio ' indica propriamente «discesa, l'azione del discendere ». 2Plinio ne preferì V uso metonimico perindicare i luoghi stessi nei quali si discende per mezzo di gradinir 'Frigidariae cellaeconectitur media, cui sol benignissimepraesto est; caldariae magis : pròminet enim. in hac tres descensio nes, duaein sole, tertia a sole longius, à lucenon longius. * Epist V 6, 26. Talché,come bene avverte il Gierig , le ' deseensiones ' erano non le scale, ma 'lacus, in quos per gradua descendebatur.' 3 i Liv. II 33, il. « Cic. De flnibus V 24, 70: ' Quem Tiberinadescensio, festo ilio die, tanto gaudioad feci t, quanto L. Paullum, cum regem Perseo captum adduceret, eodem flumineinuectio?' (Citiamo il passo di Cic. secondo il ood. Palat. (Vatic) 1525 e la ed. Cratandrina del 1528; che, invece di'descensio', si legge ' dissensio ' nelcod. Morelian., e ' decursio ' nella prima ediz. dell' Orelli, 1828). 8 Giehig, op. cit., tom. 1°, pag. 409, col.l. a . 100 Che Plinio sia stato veramente il primo adintrodurre nella lingua letteraria tale uso metonimico della voce ' descensio', c'induce a dubitare l'avvertenza del Nàgelsbach 1 , che soventi volte adalcuni casi mancanti nella flessione deinomi verbali in -us si suppliva coicorrispondenti casi dei nomi verbali in -io. Or , tanto in Irzio 2 quanto in Virgilio 3 , trovasiusato 'descensus' in senso metonimico di« via che discende » : e se, come nota opportunamente il Lagergren 4 , ai casinon usati della flessione di * descensus' si dovette supplire coi corrispondenticasi della flessione di ' descensio ' ,questo nome non poteva non avere il valore metonimico di ' descensus ' ;e quindi è assai probabile, sebbene nonsi abbia alcuna prova diretta in conferma, che il significato metonimico attribuito a'descensio' sia anteriore all' età di Plinio.2.° In dipendenza dal significato fondamentale proprio del verbo ' dispensare ', che vale « pesareesattamente, dividere o distribuireproporzionatamente », il sostantivo verbale * dispensatio ' si riferì a cosemateriali, indicandone la distribuzione economica o l'amministra-zione o ilmaneggio, per es; ' dispensatio aerarii 5 , annonae '* etc. Plinio riferì lavoce ' dispensatio % in senso traslato, anche a cose morali, scrivendoall'imperatore Traiano : * Iulius... Largus ex Ponto nondunr mihi uisusac ne audi.tus quidem.... dispensationem i Naegelsbach, Lateinische Stilistik 3 ,pag. 151 eg. « Hirt. De b. Gal. Vili 40,4. 3 Vbrg. Aen. VI 126. 4 Lagergren, op. cit., pag. 56. 5Cic. In Vatin. 15, 36. « Liv. X 11,9. Cfr.IV 12, 10. 10Ì quandam ' mihi erga tepietatis suae ministeriuniqùó mandauH. 'Epist. X 75 (79), 1. È probabile .chela via per giungere al significatopliniano della voce 4 dispensatio ' sia stata aperta dall' uso, accoltoda Cicerone e poi da Livio , Seneca edaltri, del verbo 4 dispensare n riferito ad argomenti immateriali.l 3.° 4 Egestio ', sostantivo nato dalverbo 4 egerere '=» « portare fuori,condurre via », è voce che apparisce perla prima volta nella latinità argentea, col significato proprio di « trasporto», ed anche, particolarmente, di « egestione, evacuazione ».* Plinio,riferendolo per traslato ad 4 opespublicae', ne fece un sinonimo di 4effusfo ' di danaro, voce già usata da Cicerone. 3 Il passo di Plinio è ilseguente : ' Hoc tunc uotum senatus ,hoc praecipuum gaudium populi, haec liberalitatis materia gratissima, siPallantis facultates adiuuare publicarum opum egestione contingeret. ' Epist.Vili 6, 7. 4.° Il verbo 'nutare' fugradito ai poeti dell'età augustea : a Cicerone nemmeno dispiacque farne usonel senso traslato di « vacillare nelgiudizio, essere incerto » 4 . Ciò non ostante, il sostantivo verbale 4 nutatio' non pare che sia stato accolto dallalatinità . aurea. I contemporanei diPlinio V usarono in senso proprio di «barcollamento, vacillamento ». 5 Plinio, invece, Tado i Cic. De orai. I 3i, 142.-Liv. XXVII 50,10; XXXVIII 47, 3. Sbnec. Dial. VI (AdMare, de eonsol) 11, 1 * Sveton. Diu. Claud.O.s Cic. Pro Rose. Am. 46, 134. 4Cic. De nat. deor. I 43, 120,-Cfr. Tac. Hist. II 98; III 40; IV 52.5 Srnkg Nat quaest. VI2, 6, Qvintil.ln*t. orai. però in senso figurato, riferendolo a ' res publica ', per indicare «decadenza, rovina dello Stato»:'Cogi porro non poteras nisi periculopatriae et nutatione rei pùblicae. 'Pan. 5, 6. La nostra osservazione sipoggia sulla premessa che, nel passocitato, la lezione ' nutatione ',' presentata dal Cuspinian. e dal cod. Liuineii, sia dapreferirsi alla lezione * mutatione ', che è data concordemente dai codd. A } 6, o 9 d. • e)I due sostantivi verbali formati per il tramite del tema del participio presente sono 'audentia'e 'instantia'. 1.° Il nome ' audentia 'non fu accolto dalla latinità aurea.Nella latinità d' argento se ne fece uso per si' gnificare « arditezza, coraggio», in dipendenza dal significato del verbo ' audere ', da cui proveniva. 'Ma Plinio trasferì: il significato di'audentia' all'uso delle parole, perindicare « ardimento -, audàcia nel dire »" : 'Si datur Homero et mollia uoeabulà et Graecaad leuitatem uersus contrahere, extendere, inflectere, cur tibi similisaudentia, praesertim non delicata sed necessaria, non detur ? ' Epist. Vili 4,4. : 2.° Il sostantivo ' iftstantia ',conformemente al verbo ' instare ', dacui prende origine, significò « imminenzaimmediata ». 2 Plinio attribuì ài vocabolo, che adoperò in traslato, due significati : a) « veemenzadel discorso »•* ' Habet quidem oratioet historia multa communia , sed pluradiuersa in his ipsis quae communia uiden1 Tac. Ann. XV 53; Germ. 31 e 34. Cfr. 'audentior' nei Deal de oratoribus, 14 (Halm ; ' ardentior * peril Bàhrens) e in Qvintil. Inst. orai. XII 10, 23. * Cig. De fato 12, 27. 103# tur haec uel maxime uiamaritudine instanti e, illa tractu etsuauitate atque etiam dùlcedine placet/Epist V 8, 9-10. b) «diligenza,studio assiduo»: ' Quid est enim quodnon aut illae occupationes inpedire authaec instantia non possit efflcere ? ' Epist. IH 5, 18. Per il primo dei due significati predettiQuintiliano si era. già avvalsodell'avverbio ' instanter V d) Resta aparlare dei tre sostantivi verbali: ' iadtwcatus, motus, retinaculum \ l.° La voce i aduocatus ' nei tempi dellaRepubblica romana designò V uomo peritonella conoscènza del diritto, che veniva chiamato a dare i suoi coitigli intòtano ad una questione giuridica da trattarsi dinanzi ai magistrati, e sosteneva poi co' suoisuggerimenti e fcftft la presenza unadelle parti litiganti dinanzi ai wi&gl 1strati stessi. 2 Neil' età imperiale * adiiocatufc ' tìivéhitè sinonimo di ' patronus causae ', cioè «difensore o pà* trocinatore; causidico,che assiste e conduce il pi*oc&&ò *.E di questo secondo significato di ' aduocatus ' Plinio^ al pari de' suoi contemporanei 3 , cipresenta àlquahtl esempi. 4 Ma Pliniostesso attribuì anche alla voce ' aduocatus ' un significato in traslato ,riferendola non & 1 QtfitffriL.tnsì. orai. IX 4, 126: ' Vbicunque acriter erit, i nstànter, pugnaciterdicendunT (Bonnell;. « Cig. Pro Sul.29, 81 ; Pro CluenL 40, 110; De orai il 74,301 ; De off. I 10, 32; Epist. ad fam. VII 14, 1 ; etc. 'Aduocatus ' per « aiuto » in genere, v. ProCaectaa 9, 20. 3 Qvintil. Inst. orai.XII 1, 13. Sveton. Dia. Claud. 15 e 33.Diàl. de oratoribus, 1. * Epist.cause ò liti o questioni giuridiche, ma alla ' abstinentia ' : ' Id uerodeerat, ut cum Pallante auctoritate publica ageretur , Pallas rogaretur utsenatui cederet, ut illi superbissimaeabstinentiae Caesar ipse aduocatus esset. ' Epist. Vili 6, 9. Quanto abbiamo osservato sul significatopliniano della voce ' aduocatus ', considerata in traslato , non sarebbeaccettabile, se nel luogo citato, invece di ' Caesar ipse aduocatus esset', si leggesse, come sisuòle comunemente: ' Caesar ipsepatronus aduocaretur'. Così appunto èpresentata la lezione dall' ed. a, con laripetizione del pronome ' ipse ' dopo ' patronus ': ' Caesar ipsepatronus ipse aduocaretur '. 2.° Dallaradice del verbo ' mouere ' col. suffisso -tu- si formò il nome ben noto ' motus ', che intraslato, óltre ali! indicare « il motodèi sensi e 1' attività o energia dellospirito, la commozione dell'animo, la passione », servì a significare « i motivi, le cause, imoventi » di un dato divisamente. Pliniofu il primo ad adoperare la voce ' motus' in tale significato: 'Audisti consilii meimotus'. Epist. Ili 4, 9. 3.° Ilsostantivo i retinaculum ', non discostandosi dal significato proprio del verbo ' reti nere ',da cui deriva, servì ad indicarequalunque oggetto potesse servire atrattenere o a tener fermo; perciò, secondo i casi particolari ,significò « cavezza \ gomena o fune 2 , brigliao redina 3 , vimini pieghevoli per legare le viti 4 », etc. Plinio per il primo attribuì un significatofigurato alla i Horat, Sai I 5,18. 2 Ovid. Metam. XIV 547; XV 696. 8Vbrg. Georg. I 513. i Vbrg. Georg. I 265. 105 voce ' retinaculum ', per indicare « ilegami o vincoli morali della vita » : 'Adfuit tamen deus uoto, cuius illecompos , ut iam securus liberque moriturus, multa illa uitae, sed minora r e t i n a e u 1 aabrupit.' Epist I 12, 8. Nella stessaepistola , § 4 /egli chiamò questi ' uitaeretinacula', in modo più diretto , * preda uiuendi,' come li avevadetto, prima di lui, Plinio il vecchio ! ; edal § 3, li disse * uiuendi causae '.C. I grecismi nei quali,considerati in senso traslato, si nota l'innovazione pliniana sono due: 'cratér * e ' xenium '. 1.° ' Crater ', « grande coppa, cratere,vaso da mescere », è un grecismo accolto nella lingua latina e latinizzatonella forma ' cratera*'. Passò al senso traslato per P uso particolare che ne fecero i poeti,per significare « voragine vulcanica V vaso per Polio » 3 , e anche una costellazione 4 , ete. Ma Plinio fu ilprimo, e forse il solo, ad usare ilgrecismo ' crater ' nel senso traslatodi « conca o bacino d' acqua » : ' Fonticulus in hoc, in fonte crater'. Epist V 6, 23. 2.° ' Xenium ' rappresentava, secondol'etimo greco 5 , il dono ospitale,fatto, cioè, agli ospiti o ai commen 1Plin. sen. Nat hist. XXII 6 (7), 14: 'Addidere uiuendi pretia deliciae Juxusque * (Mayhofl). Tacitoindica i ' uitae retinacula ' come'pretia nasceadi' (Germ. 31; ma in più codici si legge * noscendi '). * Lvcrbt. De ter, nau VI 701. Ovid. Metam. V424. Cfr. Plin. sen. Nat hist. II 106 (110), 237; III 8(14), 88. » Verg. Aen. VI 225. Cfr. Martial. Epigr. XII 32, 12. 4 Ovid. Fast li 244. Cfr. Cic. De nat deor.II 44, 114 {Arati phaenom. 219). 5 Vedi Svidàs Lexic. Graee. et Lai, vol2°,col. 1032 (Bernhardy). Ì06 sali. E in tale significato, oltre gliesempi di Vitruvio, Marziale ed altri ',abbiamo l'esempio di Plinio stesso: 'Summo die abeuntibus nobis, tam diligens in Caesare humanitas, xenia sunt missa'. Epist. VI 31,14. Ma Plinio assegnò inoltre algrecismo * xenia ' il significato triaslato di « dóni fatti a certe persone perottenere da loro qualche favore », ed in particolare i doni che si facevano agli avvocati o causidici perpatrocinare con maggiore impegno le cause: ' Quam me iuuat quod in causis agendis non modo pactione donomunere ùerum etiam x e n i i s semperabstinui ! ' Epist V 13 (14), 8. E, dopoP esempio di Plinio, si ampliò àncora dipiù il significato della voce ' xenium ', indicandosi con essa i doni che si offrivano daiprovinciali ai proconsoli o ad altre autorità 2 . Sbz. ii. -^ Aggettati. Li distingueremo in aggettivi derivati dafonte nominale ed aggettivi formati con temi verbali. A. «-* 1.° L' aggettivo ' enodis ', formatodalla preposizione.' e' e dal tema del sostantivo 'nodus'» nel significatoproprio vale « liscio , senza nodi ». In taleaccezione 1' usò appunto Virgilio , che lo riferì quale attributo alla voce ' truncus \ 8 Pliniol'adoperò in senso traslato, riferendoload alcune poesie per indicarne lascorrevolezza e la facilità : ' Recitabat.. f erudit&m sane 1 Vitrvv. De afòh. VI 9. Martial. Epigr.XIII 3, ì-2 e 5-6. * Vlpiàì*. iti Dig. I16, 6, § 3. i 'V'fcRG. Georg. Il 78 : 'Rursum e n o d e s trunci resecantur '(Ribbeck). Cfr. Plin. sen, NathM, V 1, 14. ìot Iluculentamque materiam. scripta elegia* erat fluentibus et teneris et e n o d i b u s , sublimibusetiam, ut poposcit locus. ' EpistHamatus ' derivato da ' hamus ', in senso proprio significò «fornito d'amo»; e Cicerone l'usòin tale significato. l L' accezione in traslato dell' aggettivo * hamatus', perindicare cose che , insidiose come l'amo ,si mettono in opera per ottenere vantaggi maggiori, si deve a Plinio, che lo riferì a ' munera ' con-P intendimento d' indicare quei doni che si fanno col fine sottinteso diricavarne maggiori remunerazioni : i Hos egouiscatis hamatisque muneribus non sua promere puto, sed aliena corripere '. Epist. IX 30,2. Plinio dovette certamente venire all' uso traslatò di ' hamatus ', indottovi dal significato attribuito intraslato al nome 4 hamus ' da scrittoria lui anteriori e da scrittori contemporanei. 2 3.° ' Inamoenus ' appartiene a quella seriedi aggettivi sì graditi alla latinità argentea, formati col premettere all'aggettivo la particella negativa i in- ' : significa P opposto di ' amoenus ',e perciò « spiacevole, sgraziato,disameno ». Ovidio se ne valse per indicarePAverno. 3 Plinio ne fece, per traslata, un attributo di certi lavori letterari « senza attrattiva,spiacevoli, inameni »: ' Oratiunculam unam alteram retractaui. quàhiquam idgenus operis inamabile, inamoenum magisque laboribus ruris quam uoluptatibussimile '. Epist IX 10, 3. - . l Cic. Acad. priòr. II 38 121. * Huràt. Sai. II 5, 25. Martial. Epigr.V 18, 7; VI 63, 5. Vedi anche Plin.Pan. 43, 5. 3 Ovid. Metam. X 15. Cfr. Stat. Sii II 2, 3*3, Ì084.° L' aggettivo ' peracerbus ' vale lo. stesso di * acerbus ' con unrafforzamento indicato dalla particella preposta ' per'; significa perciò, insenso proprio, « molto aspro , moltoacerbo » , come disse appunto Ciceronedell' uva immatura. ] Plinio adoperò in traslato V ag. gettivo 'peracerbus ' per significare un che di « doloroso , assai spiacevole » : '•Mihi quidem illud etiam peracerbum fuit,quod sunt alter alteri quid pararent indicati. ' Epist VI 5, 6. 5.° L'aggettivo ' saxeus ' propriamentesignifica « sasseo, di pietra ». Plinio attribuì a ' saxeus ' il significato di« insensibile », duro come di pietra, che nonsente impressione di alcuna cosa bella : ' Ego Isaeum non disertissimum tantum uerum etiarnbeatissimum iudico. quem tu nisicognoscere concupiscis, saxeusferreusque es .' Epist II 3, 7. Ma in ciò egli si avvicinò all' espressionedi Ovidio : ' Mater ad auditas stupuit ceu s a x e a voces ' 2 ; nella qualel'epiteto ' saxea ' vale attonita per lameraviglia dolorosa, come se fossedivenuta di sasso. Forse, nel l'attribuire alla voce 'saxeus', in senso figurato, il significato anzidetto,Plinio ebbe presente la frase che silegge nel v. 258 del Prometti, uinctusdi Eschilo. B. 1° e 2.° Tra gli aggettivi di fonte verbale,che si ebbero da Plinio un nuovosignificato in traslàto, si annoverano'adductus' e ' circumscriptus ': entrambidotati della forma del comparativo.' Adductus \ che propriamente significa « angusto , 1 Cic. De senect. 15, 53. * Ovid. Metom stretto », si ebbe in traslatovari significati , uno dei qualiriferito in forma comparativa da Plinio air oratore, vale « più serrato, piùbreve nelF espressione »• Similmente 'circumscriptus ', che in senso proprio significa « circoscritto » , in sensotraslato fu da Cicerone riferito alla frase, ali" ambitus uerborum M ,mentre da Plinio fu riferito, anche in forma comparativa, all' oratore stesso per indicare la qualitàdella concisione, che fregia il discorso di lui. Eccone la conferma: ' In contionibus idem qui in orationibus est,pressior tamen et.circumscriptior etadductior'. Epist I 16, 4. 3.° Il significato proprio di ' incustoditus' è « non custodito, senza guardie ». Lalatinità argentea attribuì a 'incustoditus ' due significati in traslato, uno considerato in passivo, ed èdovuto a Tacito ; P altro considerato in attivo,' ed è stato per la prima voltadeterminato da Plinio. Nel primo significato vale « inosservato », 2 o pure «non contegnoso, non celato » 3 . Neltraslato attivo, secondo l'accezione pliniana, * incustoditus 'significa « improvvido, incauto, imprevidente, senza precauzione » : ' Tuitussum Iulium Bassum ut i ncustoditum nimis et incautum ita minime malum \ 4 Epist. VI 29, 10. 4.° Dal significato proprio cheall'aggettivo ' inductus ' provenivadalla sua qualità originaria di participio per1 Cic. OraL 12, 38; cfr. 61, 204.* Tao. Ann. II 12; XV 55. 3 Tac.Ann. XII 4. * In proposito il Gierig,op. cit., tom. 2, pag. 91, col. 2% aggiunge il* commento: ' Puer enim, qui noncustoditur, noglegens, remissus nimis esse solet ' . nofetta del verbo ' inducere ', Plinio, lo volse in traslato, e loattribuì a ' sermo ' per indicare un linguaggiostraniero : ' Inuidéo Graecis, quod illorum lingua seribere maluisti.neque enim coniectura eget, quid sermone patrio exprimere possis, cum hocinsiticio et i n d u ct o tam praeclara opera perfeceris \ Epist IV 3, 5, 6 Totam uillam oculis tuis subicere conamur, si nihil inductum et quasi deuiumloquimur.' Epist V 6, 44. Cfr. Epist.Ili 18, 10. Nulla osta ad ammettere chePlinio si sia permesso di attribuire a 'inductus ', in senso traslato, il significatoanzidetto, per aver tenuto presente che già Cicerone si era servito ad un fine consimile del verbo* inducereV 5.° Nel luogo testé citatodella Epist. IV 3, 5, si osserva eziandio che Plinio per il primo adoperò insenso traslato l'aggettivo ' insiticius' , derivato dal verbo i inserere ', afin di significare il linguaggio importatodal di fuori, in antitesi alla lingua materna. La voce ' insiticius ' nel significato proprio di ,«innestato » era già stata accolta nellalingua letteraria, molto tempo prima diPlinio. 2 Sez. III. Verbi.I verbi ai quali, considerati in traslato, Plinio attribuì unsignificato nuovo, sono , eccetto uno, tutti composti ; e la ragione ne èmanifesta, perchè nell'ampliare le funzioni del traslato ha molta efficacia laparticella che forma il primo elemento della composizione. i Cic. Philip. XIII 19, 43. * Ne sia d'es. Varr. Rer. rasi. II 8, 1.Vedi in prcfposito la osservazionedel.GESNER, riportala da A. Corradi, pag. 33. rIli A. Esamineremo da prima i verbi compostiche provengono da un tema sempliceoriginariamente verbale , e poi i verbi composti nel cui tema si contiene un tema nominale. a) I vèrbi composti della prima seriesaranno trattati secondo l'ordine alfabetico della lettera iniziale del tema verbale semplice. l. Q 11 verbo ' in-arescere ', come Pincoativo 'arescere ', originariamente ' arere ', ebbe il significatoproprio di « disseccarsi, inaridire » :e, oltre non pochi scrittori fioriti al tempo della latinità argentea, ne dàla conferma lo stesso Plinio : ' Buxus,qua parte defendltur tectis, abunde uiret; aperto caelo apertoque uento et quamquam longinqua aspergine marisinarescit'. Epist. II 17, 14. Ma Plinioattribuì anche al verbo ' inarescere ' il significato di « finire », riferito aoose immateriali : 'Sed quod cessat ex reditu frugalitate suppletur/ex quauelut fonte liberalitas nostra decurrit :quae tamen ita temperanda est, ne nimia profusione inarescat. ' Epist. II 4, 3-4. La sola ed. p presenta, invece di 'inarescat', la pa^rola * marcescat ', che pare un' emendazione fatta dall'editore per fare rieritrareF espressione di Plinio nelP uso traslato del verbo' marcescere ', che Livio e 0vidio riferirono alle voci ' desidia, otium V 2.° Il significato proprio del. verbo 'per-domare ', che vale « soggiogare,domare », si riferì costantemente adesseri animati, come per es. ' uiri, 2 gentes,* canes, 4 lLiv. XXVIII 35, 2. Ovid. Ex Pon. II 9, 61. * Tibvl. II 1, 72. 8 Vell.' Paterc. Hist Rom. II 95, 2. Cfr.Liv. XL 41, 2. 4Tibvl. I 2, 52. m «serpentes, tauri, l età; ovvero a regioni designate invece dei popoli che le abitano, per es. il 'Latium ', 2 la ' Britannia ', 3 una regione in generale. * Plinio applicòin traslato il verbo ' perdoniate ' alsuolo che si coltiva : ' Tantis glaebistenacissimum solum, cura primum pròsecatur, adsurgit , ut nono deraum sulcoperdomet u r. ' Epist V 6, 10. Gliscrittori contemporanei avevano agevolato a Plinio la via per venire all'usotraslato del verbo ' perdonare', poiché lo avevano riferito, in generale, acose inanimate. Così in Seneca siosserva la frase ' perdomare farinam ', che significa « dimenare la farinacon l'acqua e farne una pasta » 5 ; e inStazio, la frase 'perdomita Ceres ' 6 . Ma a Virgilio fu più gradital'espressione figurata ' imperare aruis ' 7 per riferirla a chi ' exercet frequens tellurem '. 3.° Il significato proprio del verbo 'con-fodere ' fu « trapassare ,trafiggere , ferire ». Plinio 1' adoperò intraslato per indicare quel segno fatto con una linea trasversale sulleparole d'uno scritto, che dovevano esserecancellate o emendate 8 : ' Expecto ut quaedarn ex hac epistula, ut illud « gubernacula gemunt » et« dis ma i Ovid. Heroid. 12, 163-164. « Liv. Vili 13, 8. 3 Tac. Hist. I 2. 4 Liv. XXVIII 12, 12. Martial. Epigr. IX 43, 8. 5 Senec. Episi. mor. XIV 2 (90;, 23. Stat. Theb. I 524 7 Vbrg. Georg. I 99. 8 Vedi in proposito di talesegno le *Notae XXIquae uersibus apponi consuerunt * (cod. Paris., 7530),ripubblicate dal Keil nella collezionedei Grammatici Latini, voi. VII, pagg. 533-536. 113 ris proximus », isdem notis quibus ea dequibus scribo confodias. ' Epist IX 26, 13. La differenza tra V accezione pliniana del verbo 'confodere ', considerato in sensotraslato, e il significato che allo stesso verbo attribuì, anche in traslato,Tito Livio, sta in ciò che questi lo riferi ad argomento morale o giuridico, 1mentre Plinio lo applicò ad indicarel'azione materiale del segnare i luoghi da emendare d'uno scritto. 2 4.° Da una composizione multipla risultò ilverbo ' recom-ponere ', il cui significato proprio è « racconciare, mettere in ordine ». 3 Plinio indicò con 'recomponere * il concetto di « placare,calmare, acchetare , rappattumare » : ' Quo magis quosdam e numero nostroinprobaui, qui modo ad Celsum modo ad Nepotem, prout hic uel ille diceret, cupiditate audiendicursitabant, et nunc quasi stimularentet accenderent, nunc quasi reconciliarent ac recomponerent, frequentiussingulis , ambobus interdum propitiumCaesarem.... precabantur. ' Epist VI 5,5. È uopo avvertire che la lezione 'recomponerent % nel passo citato, èdata' in modo approssimativo dal cod. flf, e chepresenta la parola scritta in guisa incerta: ' re omponerent\ Invece il cod. De le edizioni p, a danno la lezione 'reconciliarent componerentque ' : la quale , sevenisse accettata, renderebbe inutile la nostra osservazione, poiché ilverbo ' componere ' nel senso traslatodi « acchetare, pacificare, riconciliare » era stato già usato, prima di Plinio , nelle frasi : 'componere bel * Liv. V il, 12. « Cfr. Cic. Epist adfam. IX 10, 1. Horat.Epist. II ,3, 446-447. 3 Ovid. Amor. I 7, 68. Consoli Il Neologismo puntano 8 - 114lum, 1 componere controuersias,* componere lites, 1 componere seditiones', 4 etc. 5.° Il verbo ' ad-radere ',nel suo significato proprio di « radere, accorciare , mozzare » , si rapporta allabarba, ai capelli e anche ai rami degli alberi. Plinio lo accolse in traslato per significare ilconcetto di 103 »44 » 16» 75 »120 > 102una ijuaiu si nana, ueiu abactus^ Pan. 20, 4. acor 3 : VII 3, 5. actiuncula t : IX 15, 2. adductus 3 : I 16, 4. adnotatio 2 : VII 20, 2. adnotator x : Pan. 49, 6. adradere 3 : II 12, 1. adsistere aduocatus aposphragisma ,: X74 Q6Ì. 3. baptisterium t : II 17, 11; V 6, 25.bellatorius buie! IH defremere ,: IX 13, 4. » 99 descensio 3 : V 6, 26. » 116 destringere 3 : Pan. 37, 2 (cfr. Ili 5, 14). > 45 dianome,:X 1 16(1 17),2. » 100 dispensatio 3 : X 75 (79), I.73 districte , : IX 21, 4. 11duurauiratus,: IV 22, 1. ecclesiali 10(111),1. egestio 3 : Vili 6, 7. eiecta { : II 17, 11. electa t : III 5, 17. enodis 3 : V 17,2. eranus t : X 92 (93). excursio 2 : I 3, 2. exscribere 2 : IV 28, 1. exsoribere 3 : V 16, 9. exsecare 3 : II 12, 3. exultantius t : III 18, 10. Pag. 98 frenator 3 : Pan. gestator à »55 » 109» 64 52 haesitabundus t :1 5, 13. 15 haesitator^V 10(11), %. J07 hamatus ? : IX 30, 2. 40heliocammus^II 17,20. 38 hetaeria , : X34 (43), 1; 96 (97), 7. 68 historice t : II 5, 5. idyllium ,: IV 14, 9. inamoenus 3 : IX 10, 3. inarescere^; li 4, 4. inascensus ,: Pan. 65,3. incongruensj: IV 9, 19. incustoditus 3 :VI 29 f 10. indecere t : II J 1, 2. Pag. 56» 25 » 109 Pag.» » Pag.» » 5358 55 71110 102 6654 119 4061 91 indeflexus ,: Pan. 4, 7. indignatiuncula x : VI 17, 1.inductus 3 : III* 18, 10; IV 3,5; V 6, 44. ingloriosi^: 1X26, 4. inperspicuus,: 1 20, 17. inreuerens,: Vili 21,3* inreuerenter^ il 14,2; VI 13, 2.insitici us 3 : IV 3, 5. instantiainterscribere,:VII 9, 5. inturbàtus { :Pan. 64, 2. inumbrare 3 : Pan.19,1, iselasticum , : X 118 (119), 1; 119 (120). iselasticus,:X 118(119) 1-2; 119 (120), iuba 3 : V 8, 10. 89 Latine , : VII 4, 9. 92 latitudo 3 : I Ì0, 5. 13 laudiceni t : II 14, 5. 120 lectkare 3 :VII 17, 4. 38 lyrica , : III 1, 7 ; VII 17, 3; IX 22, 2. 36 Jvristes , : I 15, 2; IX 17, 3; 36, 4; 40, 2. 78 mensor 2 : X I7B , 5; 18 (29), 3.41 mesochorus t : II 14, 6. 28mettila , : V 6, 35. 41 muniambij: VI21,452 monstrabihs,: VI 21, 3. 68mortifere t : III 16, 3. 104 motus . :III 4, 9. 9? muscufus % : V 8, 10. 181Pag. 93 numeri 3 : III- 4, 5. »101 nutatiog : Pan. octogenarius 9 :Vl 33,2.27 offendiculuir^:IXll,l. 61opisthographus L : III 5 17. 47 orarius , : X 15 (26) ; 17A (28), 2.86 otiosus g: X 54 (62), 1. 83paedagogium-, :VII 2.7, 13. 108 peracerbus 3 : VI 5, 6. 88 percolere 2 : V 6, 41. 58 pereopiosus ,: IX 31, 1. 59 perdecorus^ III 9, 28. Ili perdomare 3 : V 6, 10. 119 perseuerare 3 :VI20,19. 94 pertica , : Vili 2, 8. 66 pertribuere t : X 86B (18), 2.36 phantasma »:VII 27, 1. 34poematium , : IV 14 , 9; 27, 1. 79 praeceptio 2 : V 7, 1. 49 praecursorius.:IV 13,2. 21 praelusio f : VI 13, 6. 116 praesternere 3 : V8, 14; Pan. 31, 1.80 praesumptio 2 1 IV 15, 11; IX3, 1. 46 procoeton 4 : II 17, 10; 17, 23.59 prominulus 4 : V 6, 15. 62prooemiari t : II 3, 3. 88 prosecare 2 :V 6 , 10. 42 protopraxia l : X 108 (109), 1.121 proxirae.,: I 10, 11; IV 291' V 7 4. 69 puellariter,: Vili10,1. recomponere 3 : VI 5, 5. » 99 reductor s : Vili 12, 1. 71 redundanter ,: 120, 21. 118 reformare a : Pan. 53, 1. 18 reformator 1 :VHI 12, 1. 22 renutus t : I 7, 2. 117 resultare.* : VIII 4, 3; Pan. 73, 1.104 retinaculum^: I 12, 8.» Pag. 51 » 122Pag. 108 6919 11 949 84 2796 10 7695 97 11914 sacerdotalis ,:VII24,6. salubriter 3 : I 24, 4; VI 30, 3.saxeus 3 : II 3, 7. scurriliter ,: IV 25, 3. seruatio.rX 120(121),1. sesquihora t : IV 9, 9. singultus 3 : IV 30, 6. sinisteritas x : VI 17, 3; IX 5, 2.sipo 2 : X 33 (42), 2. sipunculust : V 6, 23; 6, 36. socculus 3 : IX 7, 3. social itas t : IX 30, 3; Pan. 49, 4.species o : X 56 (64), 4; 96 (97), 4.spoliarìum 3 : Pan. 36, 1.sportula 3 : II 14, 4. subsignare3 : III 1, 12; X 4 (3), 4. subterraneum 4 :IV 11,9. 63 ubertare , : Pan. 32, 2. 77 ueria , : V 6, 46; Vili unctorium xeniumzotheca zothecula Epist. Epist. Epist. Epist.Epist. ^»s& Epist. Epist. J^rtst Epist.Panegyr. L'AUTORE DEL LIBRO DE ONRAR BISI (ERMANOKYARICERCHE CRITICHE Libero docente di letteratura e lingua latina nella R.Università di Catania DERE ROMA. ErmannoLoescHER & Co (Bretsehneider eRegenberg) Librai di S. M. la Reginad’Italia Catania, via Maddem MII Tipografia editrice BARBACALLO &SCUDERI, in Catania. Pad «TIAG -YC16 A RoBERTO DICARCACI MIO ALUNNO NEGLI ANNI 1889 =1894 Nel presente libro si compendiano i risultamenti di un lavoro paziente di ricerche, durato perpiù anni. Le conclusioni, alle qualisiamo pervenuti, sembreranno a talunimolto ardite ; e, forse, non tutti coloro che degneranno il libro di unalettura attenta, stimeranno che sidebbano fare a tali conclusioni « accoglienze oneste e liete ». Ma chiunque esamini il nostrolibro con animo alieno da preconcetti, non potrà, pur dissentendo dalle conclusioni, disconoscere che le nostreindagini critiche sono state sempreobiettive e senza il disegno di farprevalere, ad ogni costo e in qualunque, modo,una tesi prestabilita. Delle osservazioni che ci saranno fatte, terremo il debito conto, ringraziandofin d’ ora i lettori benevoli. È opportuno, inoltre, avvertire che, quantoal testo di Tacito, abbiamo seguito l’ediz. curata dal Halm ; e per la nat.Rist. di Plinio, l’ ediz. Jan-Mayhoff. Quantoal testo della Germ., abbiamo preferito attenerci alla recente ediz. di Ioannes Mueller (Wien u.Prag , F. Tempsky ; Leipzig, G. Freytag:1900, ed. II maior). Citando di Tacitoun intero capitolo o più parti d unostesso capitolo, si è omesso di indicare il num. del rigo accanto al num. d’ ordine del capitolo.Degli autori che sono citati nel corso del libro , abbiamo conservato i testitali quali si presentano nelle edd. consultate, senza variarne menomamente lagrafia, ancorchè questa apparisca,talvolta, inesatta. TTI DT NR gi TÀ + +GND è + CHIND è + GHIND è + HD + è qu» 00:LL tt rit ‘rl eee e asi _ > _ «= ++ «mm è Malatano li sen a cut NA limiter sociali levast E rc Dell’aureo libretto de origine et situ Germanorum 1, che indicheremo, come altri han fatto prima,con l’abbreviatura Germ., non trovasi fatta menzione nell’ antichità, siaperchè non se n’ebbe notizia dagli scrittori1 Il tit. de origine et situ Germanorum è indicato per la prima voltadal Panormita, in una lettera dell’ aprile 1426 diretta al Guarini di Verona (vedi cod. Marciano XIV221 f 95; cod. Classense 419, 8 f. 3:cit. dal SABBADINI, notizie storico-critichedi alcuni codici latini, in Studi italiani di filol. class. VII pp. 122-125), ed è confermato dai codd. Vatic.1862 e Vatic. 1518. In una nota di PierCandido Decembrio (cod. Ambros. R 88sup. £. 112: vedi SABBADINI, il ms. hersfeldese delle opere minori diTac., in Rio. di filol. e d' istruz. class. XXIX 262) leggesi il tit. de orig.et situ Germaniae, ripetuto dal cod. Neapol.Il cod. Leidens. dà: de origine situ moribus ac populis Germanorum : cf.WoELFFLIN, sum Titel der Germania des Tac.,in Rhein. Mus. N. F. XLVIII 2, 312.CoNsoLI : L’ autore della Germania, 1sad le cui opere sono pervenutesino a noi; sia perchè, sebbene ne avessero avuto notizia, essi credettero dimettere il libretto in non cale; sia anche perchè quanto potè essere scritto intorno allo stesso, nonsi conservò intatto dall’ azione deltempo. Quale di queste tre ipotesi risponda al vero o a questo più si avvicini,nello stato presente delle nostrecognizioni sull’ antichità classica, nonpuò con certezza affermarsi. Nemmeno uncenno sull’autore della Germ. è pervenuto sino a noi; e tutto quello che ci è dato sapere inproposito si può soltanto dedurre dalcontenuto della Germ. stessa 1. Nessundubbio, però, si può avere sulla romanità del1’ autore, il quale, in tuttoquanto scrive sui Germani, mostra che hacostantemente l’attenzione volta alle condizioni morali, politiche e militaridi Roma, che talora gli son causa divive inquietudini. Ma degli scrittoriromani che trattarono delle relazioni, in pace e in guerra, dei Romani coi Germani, dopo quello che neaveva scritto il ‘ summus auctorum diuusIulius ?, ® ce ne sono parecchi, nelprimo secolo dell’ impero. * Tito Livio a4 Qualcuno, spingendo all’ estremo le conseguenze del silenzio degli antichisul nome dell’a. della Germ., è giunto a negare l'autenticità del libro: vediquel che scrive in proposito A. GeFFRoy,Rome et les barbares, étude sur la Germanie deTacite, Paris 1874, pp. 55-56.2? Germ. 28, ì. 3 Vedi W.ScHLEUSNER, quae ratio inter Taciti Germaniamac ceteros primi saeculi libros Latinos,in quibus Germani tangantur,intercedere uideatur. Acc. loci quidam Amm. Marcellini. 1886. A. LUECKENBACH,de Germaniae quae uocatur Taciteae fontibus. Marb. 1891. A. GUDEMAN, the sources of the Germania of Tacitus, inTransactions and proceedings of theAmerican philological association, 1909, vol. XXXI, pp. 93-111. aa veva già trattato dei Germani nel corsodelle sue storie, scrivendo delle imprese di Giulio Cesare! e delle spedizioni di Druso. ? Dello stesso argomentosi era certamente dovuto intrattenere l’imperatore Ottaviano Augusto, tantonelle sue memorie, * quanto nell’elogio cheegli scrisse per il figliastro Druso 4; e, dopo Ottaviano, anche Vipsanio Agrippa nella sua autobiografia*; Giulio Marato, liberto e biografo diAugusto $; e forse Cremuzio Cordo ne’suoi libri de rebus Augusti ?: chènotevoli furono, durante l’ impero augusteo, i conflitti tra Romani e Germani. Di poi VelleioPatercolo, menzionata la disfatta di Varo, promise intrattenersi dei Germani. * Non potevasi escludere un cennodella poli l Vedi il principiodell’epit. del 1. CIV : ‘ prima pars libri situm Germaniae moresque continet’. ? Epitomae dei Il. CKXXVII,CXXXVIII, CXXXIX e CXL. 8 Sveron. Aug.85; Claud. 1. Cf. G. BERNHARDY, Grundriss d.r L.5 $ 46,261. TEUFFEL-SCHWABE, G. d. r. L. 5 $ 220, 3,468. 4 Vedi l’ epit. ll CXL di Livio. Sveron.Claud. 1. Cass. Dion. r. Rom. LV 2,2. 5 Intorno all'autobiografia diAgrippa vedi la menzione che ne fa Serv.comm. in Verg. georg. II 162,235, vol. 3°, fasc.1°, rec. Th. 6 SveToN. Aug. 79. 7 Vedi SEN. dial. VI 1, 3; 22,4; 26,1 e 5. Tac. ann. IV 34 e 35. Cass. Dion. r. Rom. LVII 24, 1-4. Sveron.Tib. 61; Calig. 16. Neli’ ed. Bonnell diQvinTIL. X 1,04, vol. 2°,163 non si famenzione di Cremuzio Cordo; e dove alcuni pretendono leggere ‘ nec immeritoCremutii libertas '’, lo Zumpt coi miglioricodd. legge: ‘nec immerito remitti ( cod. Bamb ‘ rem uti ’ ) lib., dix. uel noc. * 8 VeLL. PaTERC. A. R. II 119 ‘“ordinematrocissimae calamitatis , qua nulla post Crassi in Parthis damnum in externisgentibus grauior Romanis fuit, iustis uoluminibus ut alii, ita n 0 s conabimur exponere: nune summa deflenda est’(Halm). di tica romana, quanto alle relazioni coiGermani, nelle autobiografie degliimperatori Tiberio ! e Claudio * ; e diproposito si dovette trattare delle lotte, sì varie e persistenti , contro i Germani negli scrittidi Cornelio Lentulo Getulico, che fu acapo delle legioni della Germania superiore 3, e nei commentarii di Cn. Domizio Corbulone , che fu anche’ a capo deglieserciti romani in Germania e mosseguerra contro i ‘Chauci?. ' Nè puòpresumersi che le importanti vicende delle armiromane nella Germania siano state lasciate senza alcuna menzione nelle Ristoriae di Cornelio Bocco,Servilio Noniano, Cluvio Rufo *, Fabio Rustico e di altri istoriografi, aiquali pare che si debbano riferire le affermazioni generiche ‘ memorant , ‘quidam opinantur ’, ‘ adhuc extare ’, che si notano nel cap. 3° dellaGerm. Storicamente è accertato chetrattarono dei Germani e delle guerregermaniche Aufidio Basso e ©. PlinioSecondo. Il lavoro di Aufidio Basso aveva per titolo belli germanici libri", e probabilmenteformava parte 1 Sveron. Tib. 61; Dom.20. 2 Sen. lud. de m. Claud. 5, 4.PLIN. n. Ah. XII 17 (39), 78 Sveron.Claud. Al. 8 Cass. Dion. r. Rom. LIX22, 5: cf. SveToNn. Galb. 6. Ma il Jahn(Pers.CXLII) ammette che Lentulo Getulico non abbia scritto propriamente una storia, sibbene uncarme sulle spedizioni contro i Germani ed i Britanni. 4 Tac. ann. XI 18 e 20. 5 Il GIORDANI, studi sopra Tac., crede chesi accenni a Cluvio Rufo nel celebreelogio di QvintIL. i. 0. X 1, 104 ‘superest adhue et exornat aetatis nostrae gloriam uirsaeculorum memoria dignus’, cet. Vedi opere diP.G., pubblic. da A. Gussalli, vol. 12°,pag. 215; Milano, Sanvito, 1857, 6QUvINTIL. i. 0. X ], 103. Vea d’un altro lavoro storico più ampio, scrittoda lui stesso !. Plinio Secondo narrò inlibri trentuno @ fine Aufidii Bassi lastoria de’ suoi tempi, in continuazione di quella scritta da A. Basso ?, eperciò vi dovette includere la trattazione delle relazioni dell’ impero coiGermani: dovette in particolar modo trattare di tali relazioni nei due libri devita Pomponii Secundi, il quale fulegato in Germania sotto Claudio, e, perla vittoria sui ‘Chatti’ devastatori; si ebbe lo onore del trionfo. Plinio scrisse inoltreventi libri bellorum Germaniàe! oGermanicorum bellorum î, nei qualitrattò (ripetiamo le parole del nipote di lui, Plinio il giovane) ‘omnia quaecum Germanis gessimus bella”.6 La storia pliniana delle guerre germaniche siconservò in Germania sino al sec. XVII;poi sparve e non se n° ebbe più notizia: ma non si è perduta la speranza che il prezioso ms. sipossa ritrovare, ? 1 TEUFFEL - ScHWABE, G. d. r. L.5 S 277,2,664. CL R. NicoLa1, G. d. r. L.Magdeb. .1881, n. 107,616,? PLIN.n. h,, praef. 20. PLIN. epist. III 5, 6: vedi anche V_ 8,5, 3 PLIN. epist. II 5, 3. Tac. ann. XII 27 e 28, 4 PLIN. epist. III 5,4. 5 Tac. ann. I 69,6. SyYMMACH. epist. IV 18 ad Protadium, 152: ‘ enitar, si fors uotumiuuet, etiam Plinii Secundi Germanica bella conquirere”. 6 PLIN. epist. III 5, 4. La frase di Plinioil giovane è ripetuta da Suetònio :' ‘bella’ omnia, quae unquam cum Germanisgesta sunt, XX uoluminibus comprehendit’: v. C. SveTon. TRANO. deperditorumlibrorum reliquiae, ed. Roth, 1882, 300. i© H. F. Massmann; Germ. des C. Corn. Tac., Quedlinburg u. Leipzig 1847,179, noja 6, riferisce un passodei monumenta ME Sicchè non sarebbe fuor di luogo ilsupporre che quanto si contiene nellibretto de origine et situ Germanorum avesse potuto, per intiero o in parte,in una forma identica a quella con cui èpervenuto sino a noi o alla stessasomigliante, costituire, come un’introduzione geo-etnografica o in altro modo,parte integrante dei lavori storici sulla Germania di Aufidio Basso o di Plinio Secondo; e particolarmente diquest’ ultimo che, oltre al continuarel’opera di Basso, trattò più ampiamentee, con migliore e più esatta conoscenza deifonti e dei fatti il tema delle guerre germaniche. Se non che ad ammettere ciò pare che contrastinoalcuni luoghi notevoli del testo dellaGerm., poichè in essi, secondo quel checomunemente affermasi, si menzionano fatti posteriori alla morte di PlinioSecondo (a. 79 d. Cr.). Infatti, nelleparole ‘ac rursus inde pulsi ( sc.Germani) proximis temporibus triumphati magis quam uicti sunt” (Germ. 37, 26) si vuol vedereun’allusione al trionfo di Domiziano sui‘Chatti?, a. 83 d. Cr.! Si pretendericonoscere nelle parole del cap. 42, 9 dellaGerm. ‘raro armis nostris, saepius pecunia iuuantur ’ (sc. Marcomani et Quadi), l’usanza invalsasotto Domi Paderbornensia delFuEeRsTENBERG: ‘Plinii XX uwolumina debellis Germanis... quae Conr. Gesnerus Augustae Vindelicorum, alii Tremoniae in Westphalia apud CasparumSwarzium patricium Tremoniensem exstitisse tradiderunt’. La nota del Massmann è ripetuta dal Geffroy, op. cit.,85,n. 3. 1 Sveron. Dom. 6 ‘de CatthisDacisque post uaria proelia duplicemtriumphum egit’. Cf. Dom. 13, in fine. Le monete in cui si dà a Domiziano il tit. di ‘Germanicus’sono del principio dell'a. 84. Vedi EcKkHEL VI 378; 397: e MommsEN-DE RuGGIERO,le prov. rom. da Ces. a Dioclez., Roma, 1887; cap. IV, 139, e nota 1* nellastessa pag. 7 ziano di dar danaro ai capi dei barbari per tenerseli: ubbidienti e dar loro i mezzi di accrescereil numero dei partigiani dei Romani. !Si scorge nel cap. 45 della Germ. unaccenno intorno alle notizie sulle. regioninordiche, pervenute a Roma dopo la spedizione di Giulio Agricola ?. Osservasi inoltre chel’annessione dei campi decumati,indicata nel cap. 29, 19 Germ. con le parole‘mox limite acto promotisque praesidiis sinus imperii et pars prouinciaehabentur (sc. agri decumates)’, si compìal tempo di Domiziano o di Traiano, 3 Si fa menzione nel cap. 33 Germ. dellosterminio dei ‘ Bructeri/, che vuolsiavvenuto verso l’ a. 100 d. Cr. Infine si. adduce come prova evidentissima chela Germ.. fu scritta e pubblicata versola fine del secolo I d. Cr., il computo degli anni presentato nel cap. 37, 6per, indicare la durata della lotta coiGermani: ‘sescentesimum et quadragesimumannum urbs nostra agebat, cum primum Cimbrorum audita sunt arma...... ex quo siad alterum imperatoris Traianiconsulatum computemus, ducenti ferme etdecem anni colliguntur *. Consideriamol’ uno dopo l’altro i ll. citati..I. Germ. 37, 23 ‘ mox ingentesGai Caesaris minae in ludibrium uersae.inde otium, donec occasione discordiae nostrae et ciuilium armorum expugnatislegio 1 Cass. Dion. r. Rom. LXVII 7, 3-4(Xiphil.). 2 Tac. Agr. cc. 10, 12 e 33in fine. 3 Così affermasi nei comm.alla Germ: di I. F. K. Dilthey(Braunschweig 1823,187 sg.), di Th, Kiessling (Lps. 1832, 119 sg.). diU. Zernial (Berl. 1890,60), di A. Pais (Torino1890,49), di G. Marina (Romania e Germania ovvero il mondo germanico secondo le relazioni di Tac.,Trieste 1892, 97), etc. RR era num hibernis etiam Gallias adfectauere; acrursus inde pulsi proximis temporibustriumphati magis quam uicti sunt’. Nellalotta, dunque, contro i Germani, il passocit. ci rappresenta successivamente i sgg. fatti : a) la spedizione poco seria di Caligola; d) lasospensione di qualsiasi spedizionemilitare sotto Claudio e Nerone; c)l'insurrezione dei ‘ Bataui ” guidati da Giulio Civile, la quale si estese anche alle Gallie ; d) untrionfo di nessuna importanza, suibarbari. Tale trionfo non può esserealtro che soltanto quello di cui menò vanto Domiziano sui ‘ Chatti ’ ? A noipare, invece, che l’ autore abbia voluto riferirsi ai vantaggi, di pocaefficacia e poco duraturi, riportatidalle armi di Vespasiano sui ‘‘Bataui’ esugli alleati di questi. Se, in vero, l’autoreavesse voluto riferirsi al trionfo di Domiziano, non avrebbe certamentetralasciato di menomarne, in un modoqualsiasi, 1’ importanza, come appunto si legge nel de uita et moribus Iulii Agricolae * e in altriscritti che menzionano o fanno allusionealla vantata vittoria di Domiziano. * Siaggiunga che l’ autore, avendo mal animo contro Domiziano ; se per Caligoladisse poco prima, notando il ridicolodelle imprese di lui contro 1 Tac.Agr. 39, 3 scrive di Domiziano: ‘inerat conscientia derisui fuisse nuper falsum e Germaniatriumphum, emptis per commercia, quorumhabituset crines in captiuorum speciemformarentur. ’ ? PLIN. pan. 16,3 ‘accipiet ergo aliquando Capitolium nonmimicos currus nec falsae simulacra uictoriae, sed imperatorem ueram acsolidam gloriam reportantem ’ e. q. s. Cass. Dion. r. Rom. LXVII 4, 1. Oros. hist. adu. pag. VII10, 3 e 4. Loda, invece, MARTIAL, ep.IX6; e FRONTIN. sfrat. I 1, 8; 3, 10. II 3,23; 11, 7. IV 3, 14 (ed. Gundermann) mostra di non dubitare menomamente dell’ importanza della spedizionedi Domiziano, i. Gas i Germani : ‘ ingenies Gai Caesaris minaein ludibrium uersae ’, ! avrebbe scrittoparole più gravi contro Domiziano , ove avesse voluto DIADIESI alla iattanzadi EI imperatore. D’ altro canto, la frase ‘ proximistemporibus triumphati magis quam wicti sunt" non può riferirsi all’ onoretrionfale concesso, nell’a. 50 «dd. Cr., a Pomponio Secondo che avevasottomesso i ‘ Chatti ’ e liberato, dopolunghi anni di cattività, alcuni dei soldati -di Varo, caduti prigionieri nella battaglia diTeutoburg ?; poichè l’ insurrezione dei ‘ Bataui ’, dilatata nelle Gallie, alla quale si accenna con le parole ‘expugnatis legionum hibernis etiam Gallias adfectauere ’, * è posteriore di circa venti anni alla vittoria di PomponioSecondo. E però le parole citate deltesto della Germ. ‘ proximis temporibus triumphati magis quam uicti sunt’, non possono che riferirsi al tempo in cuiVespasiano riusciva a sedare l’insurrezione batavica; e, sebbeneintorno a ciò non sia dato d’ avere dirette notizie da Tacito, perchè le historiae di lui restanointerrotte nel lib. V 26, appunto quandolo storico insigne si accingeva atrattare della fine dell’insurrezione di Civile,e della vittoria riportatadalla politica di Vespasiano sulle sedizioni germaniche, pure il trionfo diVespasiano sui ‘ Bataui? e i loro alleati germanici è indicato chiaramente dalle parole ‘ uidimus sub diuo VespasianoVelaedam diu apud plerosque numinis locohabitam ? (Germ. 8, 8). 1 Lo stessoapprezzamento notasi in Tac. Agr. 13,11. rist. IV 15, 9. Cf. A. RIESE,der Feldzug des Caligulaan der Rhein, in Neue HeidelbergerJahrbicher, vol. VI, fasc. 2. i 2 Tac.ann. XII 28. 3 Vedi anche Tac. hist. IV17 e V 26. 40 Veleda, vergine fatidica di nazionebructera, ebbe, come è noto, una parte principalissima, insieme col suo popolo e con altri popoli germanici, nelmovimento insurrezionale sollevato da Civile. ! Essa fu, dunque, veduta a Roma,non pregiata nè tenuta in onore daVespasiano, come fu poi onorata da Domiziano la vergine Ganna, che a leisuccedette nell’ arte del vaticinio ?, ma prigioniera *, probabilmenteincatenata presso al carro trionfale del vincitore. 4 Un’altra ragione c’induce ad ammettere chenel passo considerato della Germ, sitratti del trionfo di Vespasiano, verso l’a. 70 d. Cr, e non di quelloarrogatosi, insieme col titolo diGermanico >, da Domiziano. I popoliche presero parte all’ insurrezione di Civilefurono, anzi tutto , i ‘ Bataui”, ai quali si unirono i ‘ Canninefates’, i ‘ Frisii”, i ‘ Bructeri”,i ‘ Tencteri”, etc.0 Essi prevalsero daprima, mentre Roma era dilaniata dalleguerre civili tra i pretendenti all’ impero, tanto che ‘expugnatis legionum. hibernis etiamGallias adfectauere ?. Perciò gl’insorti, di cui immediatamente dopo 1 Tac. hist. IV 61; 65. V 22; 24. 2 Cass. Dion. r. Rom. LXVII 5, 3 (Xiphil.). 3 STAT. silu. I 4, 89 sgg. ‘non uacatArctoas acies, Rhenumque rebellem, | captiuaeque preces Veledae, et (quae maxima nuper | gloria) depositam Dacispereuntibus arcem | pandere’. Vedi MommsEN-DE RucGIERO, op. cit., cap. IV, pp. 132 e 135.4 U. Zernial, commentando la voce ‘ uidimus’ del |. c.,30, dice esplicitamente: « Wir haben gesehen, n.zu Rom, auch Tacitus selber, der sichdes etwa im 15. Lebensjahre gesehenenTriumphes ueber die Bataver sehr wohl erinnern konnte ». 5 Sveron. Dom. 13. 6 Tac. hist. IV 15; 16; 21. Leidasì dice ‘ rursus inde pulsi’ e. q. s., altri non sono che gli stessi ‘ Bataui ed i loro alleati, cheerano stati capitanati da Civile, e dei quali poi, stante il sopravvento delle armi di Ceriale, menò trionfoVespasiano, L° imperatore Domiziano , invece, si vantò del trionfo sui ‘ Chatti’, non sui ‘ Bataui ’. È vero che, inorigine , i ‘ Batani” furono ‘ Chattorumquondam populus et seditione domestica in eas sedes transgressus, inquibus pars Romani imperii fierent’ (Germ. 29, 3); ! ma, al tempodell’insurrezione di Civile, erano del tutto separati dai ‘ Chatti” : e questinon si trovavano uniti coi ‘Bataui’, giàabbattuti da Vespasiano, quando Domizianofece irruzione, al dire di Suetonio, ‘ sponte in Catthos ” ?. Non puossi, inoltre, non mettere in evidenzache, se l’autore della Germ. avessevoluto riferire le sue considerazioni d’ordine politico e militare a Domiziano,non si sarebbe valuto di un’allusionegenerica, spiegabile solo per chi scrivein tempi di oppressione e di tirannide. Si conviene comunemente che la Germ,sia stata: scritta e pubblicata verso il98 d. Cr., allorchè ‘rara temporumfelicitate’, come scrisse Tacito stesso, ‘ ubisentire quae uelis et quae sentias dicere licet’ } 1° imperatore Nervaaveva riunito ‘res olim dissociabiles,principatum ac libertatem’, e l’ imperatore Traiano aveva accresciuto ‘ quotidie felicitatemtemporum’; sicchè ‘ nec spem modo acuotum securitas publica, sed 1 Vediinoltre Tac. hist. IV 12, 6 ‘ Bataui, donec trans Rhenum agebant, parsChattorum, seditione domestica pulsî extremaGallicae orae uacua cultoribus..... occupauere ’, 2 Sveron. Dom. 6. 3 Tac. hist. 1 1, 19. n iaipsius uoti fiduciam ac robur adsumpserit’!: e per tanto, sein un lavoro che si suppone scrittoprima della Germ., cioè nel de vita etmoribus Iulii Agricolae, lo autore, nonpiù preoccupato delle ‘conseguenze dellasua franchezza di linguaggio, chè i tempi di Domiziano erano finiti per sempre, dichiara, con fraseforse eccessiva, falso il trionfo di questo imperatore sui (Germani *, qualmotivo poteva avere l’autore della Germ.per indicare la stessa cosa con una timida e lontana allusione, mentre si godeva da tutti pienalibertà ? In generale, poi, è daavvertirsi -che la frase più voltecitata ‘triumphati magis quam uicti sunt ’, se indubitabilmente è detta per i ‘Bataui” ed i loro alleati, nel pensierodell’ autore si doveva eziandio estenderedalla bravura dei ‘Bataui’ all’indomabile fierezza dei Germani. Dello stesso modo Floro, riferendosial breve gaudio delle vittorie di Drusoin Germania, ne concludeva in generale : ‘ quippe Germani uicti magis quam| domiti erant ’?. II.Quanto ai ‘ Marcomani’ ed ai ‘ Quadi’ si avverte, nel. cap. 42 dellaGerm., che avevano avuto prima i loro re della nobile stirpe di Maroboduo e diTudro, ma che poi avevano accolto re stranieri, il cui potere fondavasisull’autorità di Roma : questi re, si conclude nel cap. cit., ‘ raro armisnostris, saepius pecunia iuuantur, nec minus ualent’. Chi siano stati i ‘ reges externi’ imposti da Roma ai ‘Marcomani ’ ed ai ‘Quadi ’, non ci èdato saperlo, perchè i fonti fin qui noti1 Tac. Agr. 3, 2-6; cf. 44, 15, ?Tac. Agr. 39, 4: cf. la nota precedente.3 FLOoR, epit. II 30 (IV 12, 30), pag. 101, ed. Halm, non soccorrono perdeterminare ne’ suoi particolari ilpensiero enunciato dall’autore !; e di conseguenza non ci è noto in che modo e in qual tempo gliimperatori romani li abbiano giovati con armi o con danaro. Ma è inesatto affermare che l’usanza di dare aiprincipi dei Germani armi o danaro, peracquistare dei partigiani e sostenerel’autorità dell’ impero sopra i barbari, siacominciata sotto Domiziano *; poichè fin dal 47 d. Cr. l’imperatore Claudio aveva mandato Italico,nipote di Arminio, a regnare sui ‘Cherusci”, ‘auctum pecunia, additisstipatoribus’*; e al tempo dell’ insurrezione di Civile, a. 70, si osservava: ‘Germanos....non iuberi, non regi, sed cuncta exlibidine agere; pecuniamque ac dona, quis solis corrumpantur (sc. Germani),maiora apud Romanos”.* Di modo che il passodi Cassio Dione, nel quale si dà la notizia che Domiziano mandò aDecebalo danari e operai abili nei di !Per i tempi posteriori a quelli in cui fu scritta la Germ. si noverano soltanto i re dei ‘Quadi’ Viduarius,a. 358 (Amm. Marc. r. g. XVII 12, 21) eGabirius, a. 873 (id. XXIX 6,5. XXX, 5,3);edi principi dei ‘Quadi’ Araharius (id. XVII 12, 12-16), Vitrodorus eAgilimundus. A qualche commentatore della Germ. (cf. i comm alla Germ. delDilthey,265; del Kiessling,151; delPais, p: 64; etc.) è parso di scorgerenella frase ‘iam et externos patiuntur' una probabile allusione a Vamnio, di gente queda, imposto da Druso(a. 19) come re ai ‘Suebi’ (Tac. ann. II63. XII 29): e ciò può ben darsi, mal'accenno sarebbe sempre riferito ad un fatto anteriore al tempo in cui imperò Domiziano. 2 V. i comm. alla Germ. del Dilthey,265; delKiessling, 151 sg.; del Pais,64; del Marina,132. 3 Tac. ann. XI 16, 6. 4 Tac hist. IV 76, 9. Lo stesso concettonotasi in HERODIAN. de Rom. imperatorumuita et rebus, VI 7. FI Pn versi mestieri sì in pace che in guerra,devesi coordinare ermeneuticamente coi ll. citati sopra, e concluderne cheanche prima del 79 d. Cr. si era messain atto dagli imperatori romani la politica dei sussidi di armi edanaro, verso i barbari. III. Nel cap. 45 della Germ. si leggono lesgg. notizie: ‘ trans Sitonas aliudmare, pigrum ac prope immotum, quo cingicludique terrarum orbem hinc fides, quod extremus cadentis iam solis fulgor inortum edurat, adeo clarus, ut siderahebetet; sonum insuper emergentis audiriformasque equorum et radios capitisadspici persuasio adicit. illuc usque, si fama uera,tantum natura’.*Vuolsi che tali notizie siano pervenutedal libro de vita et moribus Iulii Agricolae, al cui autore furono riferite da Agricola stesso,reduce dalle guerre di Britannia, nonprima dell’a. 85 d. Cr., cioè sei annicirca dopo la morte di Plinio Secondo. Infatti,quanto al ‘ mare pigrum ac prope immotum ’, leggesi nell’ Agr. 10, 18: ‘sed mare pigrum et graueremigantibus perhibent ne uentis quidem perinde attolli ?. Che ivi fosse il limite del mondo ‘ cludiqueterrarum orbem ’, riscontrasi in unafrase del discorso di Agricola ai soldati: ‘nec inglorium fuerit in ipsoterrarum ac naturae fine cecidisse’ (Agr. 33, 26). E il fenomeno che osservasinelle regioni nordiche *, cioè : 1Cass. Dion. r. Rom. LXVII 7, 3-4 (Xiphil.).2 Secondo la recens. Halm e la recens. Io. Mueller. 3 Alcuni commentatori della Germ. (v.ilcomm. di U. Zernial, 87; e l’op. cit. del Marina,138 in fine e p.. 140 inprincipio, censurano l'autore di essa per aver confuso il nord della Britannia con la Scandinavia; ma la censuranon è giusta, Masini Ae ‘extremus cadentis iam solis fulgor in ortum edurat, adeo clarus, ut sidera hebetet’, è accennatonel cap. 12, 9 dell'Agr.: ‘ nox clara etextrema Britanniae parte breuis, ut finem atque initium lucis exiguodiscrimine internoscas ?. La rispondenza che abbiamo riportata interatra le notizie riferite nella Germ. e lenotizie consimili che presenta il librode v. et m. I Agricolae, non porta diconseguenza che l’autore dell’una abbia attinto alle notizie esposte nell’altro libro, ma dàargomento ad ammettere che tanto chiscrisse la Germ. quanto l’autore dell’Agr. attinsero le loro notizie aglistessi fonti, che per questo ultimofurono confermati dalla narrazione fatta da ‘Agricola, al ritorno dallaBritannia. E di tali fonti comuni alcunisono pervenuti sino a noi, e rendonoagevole il riconoscere che le notizie recate inprincipio del cap. 45 della Germ. erano già acquisite alla coltura generale, prima ancora dellaspedizione di Agricola in Britannia. Il celebre viaggiatore Pytheas (a. 330 circaa. Cr.) indica il mare che nella Germ. èdetto ‘pigrum ac prope immotum ’, con ladesignazione ‘ pepegyia thàlassa ’.! Anch’egli dovette far menzione dellechiare notti estive delle regionisettentrionali, poichè osservò che nell’estrema Thyle si alternavano nel corso dell’anno sei mesi senza notte e seimesi senza giorno *. perchè ilfenomeno della breve durata e della chiarezza delle notti estive osservasi ugualmente tantonell’un paese quanto nell’ altro. Cf. Ven. Bepa, hist gentis Anglorum I 1, col.1jin operum tomus tertius, Colon. Agrip. 1612. 1 STRAB, geogr. I 4,2 (C. 63), ed. Meineke, v. 1°,82. ?Prin. n. A. II 75 (77), 187. AE Plinio, movendo dalla osservazione sullechiare notti estive in Britannia, cercadare una spiegazione del fenomeno notato da Pytheas : egli scrive ‘ aestatelucidae noctes haut dubitare permittunt, id quod cogit ratio credi, solstiti diebus accedente sole propiusuerticem mundi angusto lucis ambitusubiecta terrae continuos dies haberesenis mensibus, noctesque e ‘diuerso adbrumam r emoto ’.' A Plinio si deve anche la divulgazione della rotizia,che poi venne, probabilmente, confermata dalla relazione orale o scritta diAgricola, sul ‘mare pigrum ac p. i.’:egli lo dice ‘mare concretum ?, ed avverte che da alcuni era chiamato ‘ Cronium’? e che, secondo Philemon, quella parte delmare che precedeva il ‘ Cronium ’, sino al promontorio ‘ Rusbeae ’,3 era detto dai Cimbri‘Morimarusa ’, cioè .‘mortuum mare ?’.*Ma prima di Plinio si era già osservato da Seneca padre che ai confini delmondo era l’oceano, e dopo questo ilnulla”: concetto che trovasi ripetuto inparte nella frase della Germ.:* illuc usque,si fama uera, tantum natura ’; alla quale risponde la frase dell’Agr.: ‘in ipso terrarum ac naturaefine ”. Resta la difficoltà dell’inciso‘si fama uera”’, in cui parrebbecontenersi un accenno alle notizie sull’ alto1 Prin. n. h. L’ osservazione è ripetuta. ? PLIn. n. A. Vsque ad promunturiumRusbeas': così nei codd. Leidens. (A),Riccard. (R), Paris. 6797 (d) e nelle edd. Detlefsen (Berol. 1866), L. Jan (Lips. 1870). ‘ Roudoas’ èdovuto a correzione di seconda mano nelcod. Leidens. Lips. 7 (F). Solino(coll. r. m. 19, 2, rec. Mommsen) lotrascrive ‘ad promunturium Rubeas”’ 4PLIN. n. Ah. IV 13 (27), 95. 5 SEN. RHET. suas. I 1,2, ed. Kiessling.= If. nord, conosciute meglio aRoma ovvero positivamente confermate daAgricola dopo il suo ritorno dalla Britannia. Nei codd. leggesi veramente ‘etfama uera’, che non pochi dei moderniedd. della Germ. hanno ripresentato. La sostituzione della cong. ‘si’ all’‘et’ è dovuta ad una congettura delGrozio ; cosicchè se, per talecongettura, si può presumere che l’autore voglia presentare un suo dubbio, chevalga a mettersi in contrasto con levoci ‘ persuasio ’ e ‘ fides ’, con le qualisi annunziano certi fenomeni naturali, quali il rumore del sorgere del sole, le forme dei cavalli e deiraggi del capo del sole stesso, e lo splendore dei raggi solari persistente findopo il tramonto e tanto da oscurare lestelle; ogni dubbio si elimina con la lezione ‘et fama uera’, che dà per indubitato il limite delmondo in quel ‘mare pigrum’, con cui sicinge e si chiude lo orbe terrestre. Nèda tale conclusione è possibile allontanarsi, ammettendo col Dòderlein lospostamento delle parole ‘et fama uera’dopo ‘natura’, di modo che l’ interafrase suoni: ‘illuc usque tantum natura,et fama uera’. Il Ritter, invece di tentare di risolvere la questione,la tronca, chiudendo tra parentesi quadre tutta la frase ‘illuc usque, et famauera, tantum natura ’.! A noi pare chesi debba, anzi tutto, tener presente l’avvertenza del Massmann: “libri impressiiungunt vera tantum natura’.* E, d’ altro canto, 0sservando che nel cod.Rom. della bibl. Angelica (Augustinorum) Q 5,12 manca la voce ‘usque’ estanno 1 P. Cornelii Taciti operarecensuit FRANCISCvs RITTER, Lps.1864,651. ? MASSMANN, Op.cit.,129, nota 23 ConsoLi : ZL’ autoredella Germania. : cy LA accanto ‘illuc ‘ut’, e osservando inoltre chela particella ‘‘ut’ è data ‘anche,invece di ‘ et’, dal cod. Florent. dellaLaur. 73,20 e dal Vatic. 655, se ne deduce evidentemente che la frase della Germ. dovette sonare: ‘illuc, ut fama, uera tantum natura’. ! Econ lo scrivere ciò l’ autore non sipropose affermare alcuna cosa sulla verità o me‘‘no delle notizie attinte perfama intorno all’ argomento studiato, masoltanto mirò ad indicare con l’espressione ‘ut fama” un concetto dilimitazione a quanto si soleva affermarerispetto ai termini del mondo (‘na‘tura ’ ); concetto consimile a quellosignificato prima, in rapporto allosplendore ed alle parvenze del sole, conle voci ‘fides? e ‘persuasio’. Delresto, ove non si vogliano accettare le varianti ‘ dei codd. sopra citati, si può semprepervenire alla medesima conclusione,conservando la lez. ‘illuc usque, etfama, uera tantum natura’; che vale « la naturavera, ossia il mondo reale, ? si estende fin là soltanto: tale ne è anche la ‘fama ». Talchè l’inciso‘et fama ’= ‘et fama haec est’ vale amostrare che era general‘ mente noto che si estendevano sino a quel punto,non oltre, i limiti della ‘natura reale. IV.Per garentire i confini dell’impero dalle in.cursioni dei barbari, sicominciò a costruire, anche dalla 1 IlNipperdey, leggendo ‘usque et fama, ultra tant. nat. ’, conviene, in parte, nello stesso concetto,togliere, cioè, a ‘ fa‘ma’ l’epiteto ‘‘uera’.2 ‘“Verus’ non indica soltanto la qualità di ciò che si fonda sulla ‘verità, ma rappresenta anche laqualità di tutto ciò che ha per base larealtà o, per ripetere le parole del-GEoRGES,ausfihrl. Handiob, II 3093, « in der Wirklichkeit begrindet, *wirklich », PERS (3 pe parte del Reno, un ‘limes’ o via fortificata,per lo più munita di argini (‘aggeres ’)e di stazioni di guardia (‘praesidia’)',sotto l’impero di Tiberio ®: fu continuato e probabilmente portato a compimentosotto Adriano. L’autore della Germ. dà per il primo, anzi il solo, la notiziache gli ‘agri decumates ’, siti alsud-ovest della Germania, tra l’ alto Reno e lesorgenti «lel Danubio, e sui quali il fisco riscoteva, forse, un dirittodi decima dai possessori, ‘ vennero incorporati all’ impero; onde, per ladifesa del territorio annesso, il‘limes’ insieme coi ‘ praesidia’ si portòinnanzì, oltre il Reno; e però i campi decumati ‘ sinus imperii et pars prouinciae habentur ? (Germ.29, 19). Quande si fece tale spostamento? Alcuni dei commen 1 TH. MommsEn, der Begriff des Limes, inWestdeutsche Zeitschrift fiur Geschichte u. Kunst, a. XIII, fasc. 2°. Vedi inoltre MommsEN-DERucGiIERO, op. cit., cap. IV,115, nota l.2 Tac. ann. I 50, 3 ‘limitemque a Tiberio coeptum”’. II 7, 11 “et cuncta inter castellum Alisonem ac Rhenumnouis limitibus aggeribusque permunita’ (a. 16 d. Cr.). 8 Cf. SPARTIAN. Hadr. 12, 6; in scriptt. hist. Aug. I p. 14, ed. H. Peter.Nell'op. cit. MomMseNn-DE RuGGIERO, cap. IV, p. 142, si fa menzione di nuove costruzioni aggiunteai ‘ limites’ sotto i regni di Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio.Notasi inoltre, in un discorso delconsole Velio (Vettio ?) CornificioGordiano (a. 275), che alla morte di Aureliano i Germani ruppero il ‘limes’ transrenano ed invasero alcune forti e ricche città dell'impero: v. Vopisc. Tac. 3, 4, in scriptt. hist. Aug. XXVII p. 187, ed. P. 4 GEFFROY, Op. cit., p. 318 sg. Ma il Mommsen giustamente avverteche « nè è linguisticamente provato che ‘decumas’ possa significare obbligato alla decima, nèsimili istituzioni son note nell'impero». Vedi MommsEN-DE RucGIERO, op. cit., cap.IV, p. 141, nota 11, ELI tatori della Germ. si affrettano ad indicareil tempo di Domiziano o, in generale,verso la fine del I sec. ed il principiodel II. ! Tale indicazione porterebbe diconseguenza che l’autore della Germ. avesse atteso a scrivere il suo lavoro sotto Domiziano o neiprimi tempi dell’ impero di Traiano, in ogni caso dopo l’a. 79. Ciò pare a noi inesatto. Infatti, Domiziano se, per ingannare l’opinione pubblica, aveva celebrato pseudo-trionfi sui Germani, non ignorava, d’altro canto, che per un mero caso(cioè, la piena del Reno) aveva superatola sedizione di L. Antonio, preside della Germania superiore, ? e che aiconfini i suoi eserciti erano stati sopraffatti dai barbari; * talchè, piuttosto che estendere i confinidell'impero di là dal Reno, perannettere al suo dominio gli ‘ agri decumates’, avrebbe stimato gran venturaconservare i confini di prima, senza spingere in avanti il ‘limes’ ed i ‘ praesidia ’. È supponibile che si estendanoi confini del dominio, allorquando cisia la possibilità che i nemici vintilascino agio di spostare le antiche linee di difegno SM nuove opere militari agarentia del territorio acquistatà sl maquando i nemici sono vincitori eminacciosi, com@nsi può mai deliberare eattuare l'accrescimento del terytorio dello Stato ? Non vi ha nemmeno notizia cha setto Traianosiano stati inclusi dentro i confinidell'im € gli “agri decu 1 Vedi i comm.del Dilthey, p. 188; dello ernia, p. 60; delPais, p. 49; del Marina, p. 97; etc. x2 SvETON. Dom. 6 3 Oros. hist.adu. pag. VII 10, 3 e 4. Orosio &ità in proposito la storia, che or più non abbiamo, scritta daCornelio Tacito sulle imprese diDomiziano. Cf. Tac. ann. XI 1 4REI (RT mates’. Se Tacito avessescritto qualcosa in proposito, narrandola storia degli imperi di Nerva e di Traiano,come egli aveva promesso di fare, riserbando il lavoro per gli anni senili,* certo gli storiciposteriori che si valsero delle storietacitiane, lo avrebbero in un modoqualsiasi ripetuto o, almeno, accennato. Si ha, invece, un’affermazione in contrario nel seg. luogodi Orosio: ‘mox Germaniam trans Rhenumin pristinum statum reduxit’? Avendo,per tanto, Traiano restituito le coseoltre il Reno allo stato pristino, l’illazione non è dubbia, che anchegli ‘ agri decumates’, siti di là dal Reno,dovettero ridursi, in conseguenza dei prosperi eventi delle armi imperiali, alla condizioneanteriore, di essere, cioè, ‘sinus imperii et pars prouinciae’. Perciò non si può non inferirne che l’ annessionedei ‘ decumates ’ all'impero dovette compiersi prima del regno di Traiano, giacchè questi si restrinse aridurre la ‘ Germaniam trans Rhenum in pristinum statum”. E poi, se è vero cheTraiano, per un sentimento di vanità indegno diun prode e glorioso imperatore, avesse fatto scolpire il suo nome sui monumenti eretti perconservare la memoria di imprese daaltri anteriormente compite, ‘non utueterum instaurator sed conditor’, tanto chene avesse avuto il nomignolo ‘ herba parietina ’,* certo si dovrebberestare perplessi, ove mai nei campidecumati o altrove si trovasse qualche memoria lapidea concernente l’annessione dei campi sopramenzionati, 1 Tac. hist. I 1, infine. ? Oros. hist. adu. pag. VII 12,2. 3 Amm. Marc. r. g. XXVII 3, 7. Cf.ex Sexto Aur. Victore de uita et moribusRom. imperatorum epitome, Ven. 1586, f, 185,SSR sì dovrebbe; dicevamo, restarperplessi nell’ attribuire a Traiano:ciòche prima di lui si era fatto. Se, dunque,non si può non ammettere l’annessionedei campi decumati all’ impero, anteriore ai regni di Domiziano .e di Traiano, non è fuor di luogoil supporre che l’ abbiano attuata i due primi imperatori Flavi, eprobabilmente (poichè è noto che sotto Tito l’impero godè di una perfettatranquillità.) il solo Vespasiano, il quale, come avverte Tacito in un luogocitato da Orosio; riaperse le porte deltempio di Giano un anno dopo: che eglistesso le aveva chiuse ?, avendo portatoa. compimento l’impresa contro i Giudei 8.V. Nel cap. 33 della Germ.narrasi che il territorio, posseduto un tempo dai ‘Bructeri ’, era statooccupato dai. ‘ Chamaui’ e dagli ‘ Angriuarii’, posciachè i ‘ Bructeri?” erano stati ‘ penitus excisiuicinarum consensu nationum, seu superbiae odio seu praedae dulcedine seufauore quodam erga nos deorum’; e si ag1 Oros. hist. adu. pag. VII 9, 13.2 Oros. hist. adu. pag. VII 19, 4: ‘quas (se. Iani portas) utrum post Vespasianum et Titum aliquisclauserit, neminem scripsisse memini,cum tamen eas ab ipso Vespasiano postannum apertas Cornelius Tacitus prodat’ (ed. Zangemeister). 3 Oros. hist. adu. pag. VII 3, 8; 9, 9. IlMommsen ammette che la fondazione dellalinea di confine, per la quale si comprese nell'impero la vallata del Neckar,sia stata opera dei Flavi; ma la giuntadubitativa « principalmente forse di Domiziano », messa li soltanto perchè, non essendosinominato nella Germ. l'autore dellalinea di confine « è una prova che questi (l'autore) dovè. essere Domiziano »,ci pare così priva di fondamento da nonpotersi accogliere come notizia conforme al vero. Vedi MomwmsEN-DE RucciERO, op. cit., cap. IV, p.142 e nota 2 in d.* P. 142. 93giunge che di essi ‘super sexaginta milia non armis: telisque' Romanis, sed quod magnificentiusest, oblectationi oculisque ceciderunt’. Onde l’autore manda, come dice il Vannucci *, un « fiero espaventoso grido» di gioia », esprimendoun « voto inumano »:: ‘ maneat, quaeso,duretque gentibus, si non amor nostri,.at certeodium sui, quando urgentibus imperii fatis nihil iam praestare fortuna maius potest quam. hostium.discor= diam’. L’esterminio dei ‘ Bructeri’si compì appunto, secondo l’osservazione di qualche commentatore: della:Germ., verso l’ a. 100.* In tal modo, annunciandosi! nella Germ. fatti avvenuti verso il 100 d.Cr., il libro non potè essere scrittoprima dell’ a. 79. Risponde al vero taleconclusione ? Noi sappiamo che i ‘Bructeri’, come in’ generale tutte lealtre genti di stirpe germanica, si mostrarono costantemente avversi ai Romani:? battuti prima dalle armi romane, ‘cooperarono alla. distruzione:dellelegioni di Varo;* molestarono, insieme: coi ‘Tubantes’ e gli ‘ Vsipetes’, la ritirata di Germanico che aveva tratto orrenda vendetta dei ‘Marsi’ (a.14 d. i C. Corn. Tacito, tutte leopere con note italiane compilate da A.VANNUCCI, Prato 1848, vol. IV, p. 274, in nota. 2 Vedi i comm. del Kiessling, p. 127; del.Marina, p. 105; etc. 8 Narra Suetonio(Tib. 19) che un Bructero commise un: attentato contro la vita di Tiberio:l'odio di nazione mutavasi in: odiocontro le persone. 4 VeLL. PaTERC. A.R. II 105, 1. Cf. l'epit. L CXXXVIII di. T.Livio. 5 Vedi GEFFROY, Op. cit.,p. 230. MommsEN-De RuGGIERO, Op. cit.,cap. I, p. 44: cf. p. 52. Cf. anche A. Wixms, das Sehlachtfeld im Teutoburger Walde, in Neue Jahrbùcher fùrPhilologie u. Paedag. CLIII p. I, fasc.7; CLV p. I, fascec. 1, 26.3, ei) SR + gpCr.)!; ma furono, poco dopo (a. 15), sconfitti da L. Stertinio, che tolse loro l’aquila della 19.*legione distrutta nella foresta di Teutoburg. ® E ancorchè, edotti dalla sventura e atterriti dalle armiimperiali, avessero opposto un rifiuto alle insistenti sollecitazioni degli ‘Ampsiuarii ’, che li incitavano a partecipare alla guerra contro i Romani (a 58 d. Cr.) 3, purenon tralasciarono di unirsi con Giulio Civile, che aveva suscitato le fiammedell’ insurrezione nella Germania enella Gallia‘, e presero parte in diversi scontri contro i Romani. La vergine Veleda, che nell’insurrezione di Civile seppe coi suoivaticini accrescere l’ardore patrio degli insorti, mediante il fanatismoPOMEIONA, era appunto di nazionebructera. ‘ L’insurrezione dei ‘Bataui’ e degli altri popoli che conloro si erano levati in armi contro Roma, a poro a poco fu repressa, tra il 70 ed il 71 o 72d. C. Nulla sappiamo della fine diCivile : forse ottenne di vivere inpace, sotto il dominio romano. Ma i compagni dilui, Classico e Tutor duci dei ‘Treueri’, e i fratelli Alpinio Montano e D. Alpinio personaggiautorevoli fra gli stessi ‘Treueri’,forse si salvarono con la fuga, iTac. ann. I 51, 7. 2 Tac. ann. I 60,10. Non sappiamo spiegarci perché nei lorocomm. alla Germ. lo Zernial (p. 65), il Marina (p. 104), etc. voglianoindicare l'aquila della 212 legione, e il Dilthey (p. 198) l'aquila della 18°, quando le parole precise di Tac.sono: ‘interque caedem et praedamrepperit (sc. L. Stertinius) undeuicensimae. legionis aquilam cum Varoamissam'. 3 Tac. ann. XIII, 56. 4 Tac. hist. IV 21, 11. 5 Tac. hist. IV 77, 2. V 18, 4. 6 Tac. hist. IV 61 e 65. _ di forse si uccisero ciascuno di propria mano ';Giulio Sabino, capo dei ‘Lingones ?’, fu mandato al supplizio ; ? e Veleda fu vista a Roma .dall’autore dellaGerm. *, e, come sopra si è detto ',prigioniera. Dopo il 71 o 72, i ‘Bructeri’, vinti, dovettero sottomettersi alle condizioni imposte dai Romanivittoriosì : non avevano più per ispiratrice e guida la fatidica Veleda‘numinis loco habita’; e della loro prostrazione morale e civile, non ancorarimarginate le ferite avute nell’ultimainsurrezione batavica, non potevano non profittare i popoli vicini, emuli perarmi, avidi di preda, bramosi dipossedere le loro terre, e forse ancherivali per comune parentela. Fecero, difatti, lega a danno dei ‘Bructeri’, liassalirono, li sopraffecero, perchè li trovarono più deboli o impreparati; epiù di sessanta mila ne trucidarono. I ‘Chamaui’ e gli ‘ Angriuarii ’, cheprobabilmente si ebbero 1 Tacito famenzione di Giulio Classico in Aist. II 14. IV 55; 57; 59; 70; 79. V 19 sgg.;di Giulio Tutor inAist. IV 55 ; 57; 59; 70; 72. V 19;21;dei fratelli Alpinii in hist. III 35. IV 31e 32. V 19. ? Cass. Dion. r.Rom. LXVI 16, 2 (Xiphil.). 3 Germ.8,9. 4 Vedi la nota 3 a pag. 10. 5 Ammesso che, secondo Strabone (geogr. VII1, 3 (C 291), p. 400 M.), vi fosserostati dei ‘ Bructeri minores”, e perciò la distinzione tra ‘B. maiores’ e ‘B.minores”, il Miillenhoff! conget= turache i ‘Bructeri maiores’ e i ‘ Chamaui' siano stati lo stesso popolo. In tale ipotesi, i ‘ Bructeri'che si levarono in armi con Civilecontro Roma, sarebbero stati i ‘B. minores '.Ammiano Marcellino (r. g. XVII 8, 5) narra che, molti anni dopo, nel 358, i ‘Chamaui’ furono, alla lorovolta, sterminati dall'imperatoreGiuliano, DE la parte precipua in tale guerra disterminio, vennero ad occupare le terredei vinti.! I ‘ Bructeri” superstitiall’immane strage, costretti a mutar sedi, restarono sempre un popolo per sè, senza confondersicon altre genti, ma si piegarono asommissione verso l’autorità romana,tanto da sottomettersi, alcuni anni dopo, alre imposto loro da Vestricio Spurinna, legato della Germania inferiore .* Tale sommessionedovette avvenire verso l’a. 97, durante l’impero di Nerva'.3 Or, tra 1 Germ. 33, 2. Non risponde al verol’asserzione di alcuni commentatori (v.per es. i comm. Pais p. 53, Marina p. 104,etc.) che l'autore della Germ. abbia esagerato nelle notizie date sullo sterminio dei ‘Bructeri’, poichèegli non dice soltanto ‘ Bructeris penitus excisis uicinarum consensu nationum”, ma premette ‘ pulsis Bructeris’:talchè il popolo dei ‘ Bructeri’ non fu completamente annientato. Potrà, forse,dirsi esagerato il numero dei morti, ‘super sexaginta milia’; ma una statistica ufficiale dei caduti in battaglia,massime trattandosi di pugne tra popolibarbari, non era allora possibile. 2PLIN. epist. Il 7, 2. 8 Così opina ilMommsen, nell' Index nominum cum rerumenarratione pubblicato in fine degli scritti di Plinio il giovane, recens. Keil, Lps. 1870, p. 429, 2* c. Arrogila considerazione che, ammesso l'ordinecronologico nella disposizione delle epistole pliniane (cf Mommsen, aurLebensgeschichte des jiingern Plinius,in Hermes III (1869) pp. 31-53), tuttochè contraddetto da Plinio stesso (episf. I 1, 1), le epistoledel 2° lib., tra le quali si annoveraquella cit. concernente Spurinna, furono scritte tra l'a. 97 e l'a. 100. Quando, però, ilMommsen afferma (vedi MommsEn - DE RucgiERO, op. cit., cap. IV, p. 135) : «questa catastrofe (la sottomissione dei‘ Bataui’ e degli altri popoli insorticon Civile) e le ostilità coi vicini popoli fiaccarono la loro potenza (cioè, la potenza dei ‘Bructeri’); sotto Nerone essi dovettero per forza accettare dai vicini stessi,appoggiati indirettamente dal legato romano, un re che non vo: SS, eil 71 o 72, anno in cui i ‘ Bructeri” insieme coi ‘Bataui’ soccombetterosotto le armi romane, ed il 97 passa circa un venticinquennio, nei primi anni delquale si compì la strage e l’espulsionedei ‘ Bructeri ’, colpiti dalla lega deipopoli vicini. Indichiamo i primi annidel venticinquenuio, perchè appare più rispondente al vero, in mancanza di qualsiasi documento inproposito, che lo sterminio dei ‘Bructeri’ si fosse compito appunto in un tempo più vicino al 71 o 72,quando questi erano prostrati dallavittoria romana sui ‘Bataui’ edi loro alleati, anzichè più tardi, quando,ricostituitisi nelle nuove sedi, riannodarono relazioni di dipendenza con Roma, e si assoggettarono alre imposto dal legato romano. Non vi ha, del resto, alcun documento o alcunoaccenno nelle storie antiche, che assegni l’a. 100 o altro anno anteriore oposteriore all’anno 100, all’avvenimento della distruzione dei ‘Bructeri’ edall'immigrazione dei ‘ Chamaui ’ e degli ‘ Angriuarii’ nel territorio bructero‘iuxta Tencteros?. Poche altre notizierestano intorno ai ‘Bructeri ?. Dopo iguai gravissimi inflitti loro dai popoli vicini, essi, come si è detto sopra, non si disperseronè perdettero la loro nazionalità nè il nome nella storia.! Nella prima metà del sec. IV sono menzionatiin due panegirici a Costantino ; ®? poi,nello stesso sec. IV e levano »; egli,se non c'inganniamo, non ha tenuto presenteche la sommessione dei ‘Bructeri’ ad un re imposto dal legato VestricioSpurinna avvenne sotto Nerva, non sotto Nerone. 41 Vedi LEDEBUR, das Land und Volk der Bructerer, Berl. 1827.2 Incerti pan. Constantino Aug. dictus, 12.NAZARI pan. Constantino Aug. dictus, 18: in BAEHRENS, XI panegyriciLatini, VII e X, pp. 169, 227. cin B$‘nel V si trovano stretti in lega con quelli che erano stati nel I sec. i loro feroci persecutori, i‘Chamaui ’ e gli ‘ Angriuarii’, einoltre coi ‘Chatti’, gli ‘Ampsiuarii ’, i ‘ Sugambri ’, i ‘ Chasuarii ?!:formavano la potente confederazione deiFranchi.® Anche il ven. Beda fa menzionedei ‘Bructeri’, dicendoli ‘ Boruchtuarii ?.?VI. Il cap. 37 della Germ.presenta un importante computo di anni.Se dall’anno 640 di R., in cui per laprima volta si udì parlare delle invasioni cimbriche, sì giunge al secondo consolato di Traiano, ‘ducenti 1 Vedi Jos. WoRMSTALL, ueber die Chamaver, Bruktererund Angrivarier, mit Rùcksicht auf denUrsprung der Franken und Sachsen. Neue Studien 2: Germania des Tacitus, Gymn.Progr. Miinster, 1888. IlMillenho£, cit. da U. Zernial, p. 65, opina che gli ‘Angriuarii’ (v. Tac. ann.II 8, 13; 19,7; 22, 6; 24, 15; 41,.8) egli ‘ Ampsiuarii’ (v. Tac. ann. XHI 55, 1; 56, 4) formassero uno stesso popolo,poichè « Angrivarii ist der reingeographische Name der Anwohner der Weser oberhalb der Chauken oder spàteren Friesen, und Ampsivariinur eine speziellere, wie es scheint, gleichfalls geographische Benennung fiir eine Abteilung des Volkes ». ? Il nome ‘Franci’, adoperato persignificare in complesso più popoli,appare per la prima volta in una frase del panegirico d’ incerto autore aCostantino : ‘ terram Batauiam ..... adiuersis Francorum gentibus occupatam’ (ed. cit. Baehrens VII 5, p. 163).Ma nella Castori Romanorum cosmographi tabula quae dicitur Peutingeriana, segm.II, n. 2, in alto, si legge ‘ Chamavi.qui et Pranci” (1. Franci: la lett. c è corrosanella parte superiore): v. Die Weltkarte des Castorius, genannt die Peutingersche Tafel: einleitender Textvon Konrad Miller; Ravensburg,1887. 3 Ven. BEDA, hist. gentis Anglorum V 10, col. 124, in operum tom. tertius, ed. cit. bh ferme et decem anni colliguntur’. È noto cheTraiano fu la prima volta console nell’a. 91; fu nominato ad un secondoconsolato per il 98, nel quale anno, per lamorte di Nerva, venne assunto all’ impero: perciò se ne conclude che la Germ. fu scritta in untempo non anteriore al 98, se appunto diquesto anno è fatta espressa menzione nel testo del libro. E taleconclusione si dovrebbe accettare, senon ostassero alcune considerazioni che non sono da omettersi. L’autore comincia il cap. 37 col menzionareche i Cimbri, un tempo sì potenti e digran fama, si erano ridotti ad una ‘parua ciuitas ’. Il nome dei Cimbri ! glirichiama alla mente le memorabili lotte che si erano combattute dai Romani contro i popoligermanici, a cominciar dal consolato diCecilio Metello e Papirio Carbone, a.641/113. E di qui un breve ‘ excursus ’ sullevicende di tali lotte, che si ferma, come sopra abbiamo dimostrato, al trionfo sui ‘ Bataui ’ e suglialtri popoli insorti con essi, e chealtri vorrebbe estendere sino al trionfodi Domiziano sui ‘ Chatti’ nell’ a. 83. Nessuno ? È notevole che nella Germ. non si faalcun cenno dei Teutoni, che furono valorosi compagni dei Cimbri. Plinio trattadi loro nella n. A. IV 14 (28), 99. XXXV4 (8), 25. XXXVII 2 (11), 35. Tacito limenziona insieme coi Cimbri in hist. IV 73, 12: v. anche VeLL. PATERC. A. R. II 8, 3; 12, 2 e 4.Pompon. MEL. chor. III 3, 32; 6, 54.Amm. Marc. r. g. XVII 1, 14. XXXI 5, 12.Oros. hist. adu. pag. V 16, 1. 9. 14. Ma forse l’autore della Germ. si restrinse a menzionare i soliCimbri, perché la guerra contro i Cimbried i Teutoni si indicò pure con la sola espressione ‘ bellum Cimbricum * (v. l’epit. Ul. LXVII, LXVIII di T. Livio; main Floro epit. I 38 [III 3] ‘ bellum Cimbricum , Teutonicum ’); o forse anche-perché i Teutoni si reputavano un popoloceltico : cf. APPIAN. IV 1, 2,csf accenno vi è intorno agliavvenimenti che si succedettero sino all’ a. 98, che è il termine delcomputo dei 210 anni, fatto, perincidente, poco prima. E ciò divieneinspiegabile, se si considera che l’autore, avendo fissato per termine del computo degli anni dilotta coi Germani l’ a. 98, importanteperchè appunto allora Traiano succedetteal padre adottivo Nerva, non poteva passaresotto silenzio, tra le altre cose, il fatto che la autorità delle armi romane era a quel tempoin sì alto pregio da fare ottenere aVestricio Spurinna, legato di Nerva, unavittoria incruenta sui ‘ Bructeri, ferocissimagens’ germanica, soltanto con la minaccia della guerra e col terrore !. Nè poteva tenere in non calei buoni risultamenti dell’ abile direzionepolitica e militare di Traiano che, perassodare il dominio romano sul territorio dei ‘ Mattiaci ’ e per dar fine alleagitazioni delle tribù germaniche dellaregione centrale del Reno, causate dall’ imprudente scorreria di Domiziano,stette ancora per qualche tempo al comando degli eserciti sul Reno, prima di recarsi a Roma per assumerviil potere supremo. Pare, inoltre, chedissoni dalle lodi concordemente date dai contemporanei ai due imperatori Nerva e Traiano, e per il loro savio governoe per la rinnovata autorità delle armiromane, il fatto che l’autore della Germ., il quale doveva, giusta lapremessa, estendere le sueconsiderazioni ed il suo rapido ‘ excursus’ sino al secondo consolato diTraiano, si è fermato, invece, alla desolante osservazione ‘ triumphati magis quam uicti sunt’; egli avrebbe dovutoavere sott'occhio gli avvenimenti che sicompivano, sotto la 1 PLIN. epist. II7, 2. BRL) pesi è stata nostra, e la Germania è vinta:‘regno Arsacis acrior est Germanorumlibertas ’. Oltre a ciò il tonoretorico di tutta la frase fa dubitare di esservi stata un’ interpolazione.Precede e seguc al periodo notato unaconsiderazione storica che in nulla èavvantaggiata dal periodo stesso, anzi resta da questo interrotta per dar luogo all’ espressioneenfatica ‘ tam diu G. uincitur ’. Se siespungesse il periodo considerato, il pensiero dell’autore si mostrerebbe ingradato svolgimento, moverebbesi egualea sè stesso e non interrotto sino alla conclusione ultima che, per quel certo pessimismo da cui è informata, nulla ha dafare con l’enfasi delle parole espunte. Nè vi è necessità di sostituire alla particella ‘tam ’, che nellaproposizione seg. ‘ medio tam longi aeui spatio multa in uicem damna’ pare collocata in riscontro col ‘ tam’ dellafrase ‘ tam diu G. uincitur ’, la voce ‘tamen’ che è data dal cod. Leid. (0)nella forma tam®! e, più chiaramente, nellaforma completa tamen dal cod. Neapol. (c) ; perocchè, fatta 1’ espunzione, si regge sempre benetutta la frase, che in origine dovette,secondo ogni probabilità, così esserletta : ‘ sescentesimum et quadragesimum annumurbs nostra agebat, cum primum Cimbrorum audita sunt arma, Caecilio Metello ac PapirioCarbone consulibus. medio tam longi aeui spatio multa in vicem damna’ e. q.s. A chi attribuirsi l’interpolazione,se interpolazione ci fu? Può ben darsiche la si debba attribuire a qualcheantico grammatico , la cui glossa erudita sulla durata 1 Ma avverte il Massmann, op. cit., p. 110,nota 25, ‘ deleta abbreuiatura ‘,RARE; A delle guerre germanichesia penetrata nel testo; può darsi ancheche sia una giunta correttiva fatta da chipiù tardi scrisse l’ apografo, sur un originale creduto mendoso !. Ma a noi pare di scorgere, neltesto stesso della frase che crediamo interpolata,l’ autore della possibileinterpolazione. A nessuno sfugge l’enfasi dellaconclusione ‘ tam diu G. uincitur’; e la vittoria sulla Germania è intimamente connessa col secondotermine del computo fatto, cioè l’ ‘alter imperatoris Traiani consulatus ’: dunque lo scopo della frase altro nonpoteva essere che quello di lodarel’imperatore Traiano, il cui secondoconsolato aveva il merito altissimo di averdato termine, secondo che credevasi verso la fine del sec. I, alla lotta contro i Germani , durataper più di due secoli. Chi tra gliscrittori romani vissuti in suldeclinare del sec. I e nel principio del II largì più encomi agliimperatori Nerva e Traiano fu Plinio il giovane; tanto che uno dei modernicritici, che con ammirabile dottrina ha trattato della vita edell’elocuzione di lui, non ha esitato ascrivere: ‘nemo quidem possit negare, Plinium in Panegyrico modum innuirtutibus Traiani praedicandistransiisse (cf. pan. 30-82; 40; 57;59-80), et tum in illa oratione tum in epistolis nonnullis (cf. epist. ud. Tr. imp. 10 (5), 2 [a. 98]; 8(24), 1 [a. 101]; 31 (40), 1) exBithynia ad Traianum missis sententias inesse plenas immodicae adulationis acpaene 1 È nota la dichiarazione cheleggesi nel cod. Leid. Perizon. dellaGerm., la quale è annoverata tra i ‘ libellos nuper adinuentos et in lucemrelatos ab Enoc Asculano quamquam satismendosos” ConsoLI: L’ autore dellaGermania. 3 IRE seruilis erga Traianum et Neruam reuerentiae!. Plinio, inoltre, diede in particolarmodo evidenza al titolo di Germanicoattribuito a Traiano *; fece menzione dellevittorie di lui nei paesi renani 3; e specialmente s’ intrattenne, conampie lodi, del secondo consolato di Traiano ‘. L’a. 98 è per più ragioni anno notevoleper Plinio: gli è conferita da Nerva eda Traiano l’importante carica di ‘ praefectus aerarii Saturni ’ 5; il suoamico e protettore Traiano è assuntoall’impero, ed egli si affretta a scrivergli una breve epistola gratulatoria,esprimendo il voto: ‘ precor ergo ut tibi et per te generi bumano prospera omnia, id est digna saeculotuo, contingant ’ $. Nell’a. 98, in fine, si reputarono dai Romani come finite, per l’ opera prudente diTraiano, le lotte bisecolari contro iGermani, con la sottomissione diquesti. Non sarebbe perciò unacongettura priva di fondamento l’ammettere che Plinio il giovane, rendendosiinterprete de’ sentimenti suoi e de’ suoi contemporanei , sentimenti di soddisfazione e di gioia per ivantaggi apportati dagli avvenimentidell’ a. 98 all’ impero romano, avesse inserito in una parte dell’opera dellozio, 4 J. P. LAGERGREN, de vita etelocutione C. Plinii Caecilii Secundi, Vpsaliae 1872, pp. 12-13; in Uysalauniversitets aarsskrift, 1871, V. ?PLIN. pan. 9, 2. 14, ). 3 PLIN. pan.14, 1-5. 82, 4-5. PLIN. pan. 56,3-7. Vedi Mommsen, sur Lebensgeschichted. j. Plin. sopra cit.; e l'art. delloStoBBE nel Philologus XXVII, p. 641: donde lanotizia riferita dal LAGERGREN, 0. c., p.4; e dal NicoLaI, G. d. r.L.,n. 115, p. 640. Cf. TEUFFEL-SCHWABE, G. d. r. L, © n. 340, 1, p.849;ete. 6 PLIN. epist. ad Tr. imp. 1, 2.(SISI ini BB intitolata bellorum Germaniae uiginti ll. (laquale parte sarebbe probabilmente quellastessa pervenuta a noi col titolo de orig.et situ Germanorum) la frase sopra notata del cap. 37, a fin di computare ladurata delle guerre germaniche sinoall’a. 98, in cui, dopo sì lungo tempo,la Germania era stata completamente vinta.Nè certamente sarebbe stato intendimento di Plinio violare con una postilla, che ora appareinterpolazione, il libro del dottoscrittore, il quale era a lui zio e padreadottivo affettuoso, ma rendere il libro delle guerre germaniche meglio rispondente ai tempi in cuicominciò a farsene la pubblicazione , cioè verso la fine del sec. I. Quante volte non occorre a noi,oggidi, nel pubblicare un libro di autore antico, di aggiungere delle note nelle quali si accenni, per completare ochiarire i concetti espressi nel testo,ad avvenimenti posteriori alla vitadello scrittore ? Ma al tempo dei Romani nonavevasi il mezzo odierno di distinguere le postille e le note dal testo; talchè sovente questepenetrarono nel testo stesso , dal qualeindistinte si riprodussero negliapografi scritti in tempi seriori; e da ciò il lavoro, non facile nè sempre sicuro ne’ suoirisultamenti, della critica moderna, di espungere dai testi classici tuttociò che si considera come interpolato. Un altro argomento ci conferma nella nostracongettura. Plinio il giovane nell’epistola a Bebio Macro, nella quale espone in ordine cronologico i libridello zio, nota tra questi : ‘ bellorumGermaniae uiginti, quibus omnia quae cumGermanis gessimus bella collegit ’. ! Evidentemente, poichè l’epistola fuscritta l’a. 101, come tutte 1 PLIN.epist. III 5, 4. 36 le altre contenute nel lib. 3°, con lafrase ‘ omnia q. c. G. gessimus bella’,si allude a tutte le guerre combattute contro i Germani sino a quel tempo incui credevasi comunemente che fosserofinite per l’opera sagace di Traiano, cioè sino all’a. 98; e nella voce ‘gessimus ’ si travede il pensiero che la narrazione storica di Plinio Secondo era stata prolungata dalnipote sino a comprendere tutte leguerre germaniche ; chè, se si fosseristretta alle sole guerre combattute mentre era ancora in vita Plinio Secondo, ed avesseconservato lo scopo precipuo per cui erastata scritta, cioè salvare ‘ ab iniuriaobliuionis’ la memoria di Druso Nerone, sarebbesi detto obiettivamente ‘ gestasunt’: nella voce ‘ gessimus’ si scorge non difficilmente la persona di chiha scritto l’epistola a Bebio Macro. Intale argomento soccorre l’autorità di Suetonio, il quale, scrivendo diPlinio Secondo : ‘ itaque bella omnia,quae unquam cum Germanis gesta sunt, XXuwoluminibus comprebendit ’,' da un canto ripete l’espressione di Plinio ilgiovane ‘omnia bella ?, e dall’ altrocanto con 1° uso del verbo ‘ gesta sunt”dà evidenza al tempo sino a cui erano statenarrate le guerre germaniche. Siaggiunga un’altra considerazione. Plinio Secondo nella pref. alla sua nat. Rist. serive : ‘uos quidem omnes, patrem te fratremque(sc. Vespasianum, Titum, Domitianum), diximus opere iusto, temporumnostrorum historiam orsi a fine AufidiBassi. ubi sit ea quaeres ? iam pridem peractasancitur, et alioquin statutum eratheredi (cioè al figlio adottivo, Plinio il giovane) mandare, ne quidambitioni dedisse uita iu 1 V. pag. 5,nota é. GI dicaretur”’'. Era quindi proposito di lui,a fin di evitare la facile accusa diavere alterato il vero per mireambiziose , affidare al figlio adottivo, che, giovinetto, molto aveva appresodalla molteplice e copiosa dottrina delsuo secondo padre, l’incarico di pubblicare,dopo la sua morte, i lavori storici che gli affidava, e forse anche di limare o farvi delle opportunegiunte, per rendere la pubblicazionemeglio adatta ai tempi in cui essa avevaluogo. Che vale, infatti, la frase ‘ peracta sancitur’ se non, come spiega Io.Harduinus, ‘ accuratius elimatur, castigatur ° ?*? Non poteva forse ilfiglio adottivo , valente letteratoanch’ egli, prender parte a tale ‘ limaelabor ’, dopo la morte dell’ autore, avendol’obbligo di pubblicare i libri di lui? E, dal canto suo, Plinio il giovane aveva, quanto alla storia,una certa competenza, perchè avevaatteso agli studi storîci secondo l’ es. paterno, come egli stesso dichiarava :‘ me uero a«l hoc studium (sc.historiae) impellit domesticum quoqueexemplum 5. Gli antichi non può dirsiche siano stati molto serupolosi nel metter mano sui lavori altrui, peremendarli, 1 PLIN. n. A. praef. 20. Mail Detlefsen (ed. Berl. 1866) accoglie la lez. ‘ per acta sancitum et alioqui’. 2 Vedi C. Plin. Sec. hist. nat. Ul XXX VII quosinterpretatione et notis illustrauitIoanNES HARDVINVS, Paris. 1741, t. I, p.4, not. 7. Ma nelle ‘ notae et emend. ad1. I', n. VI, p. 7, spiegandosi il perchè sia stata preferita nel testo la jez.‘ peracta sarcitur’ invece di ‘ sancitur’, si aggiunge: ‘ hoc est, reuocatur,retractatur, accuratius elimatur, ad polituram sarcitur; uti de araneae tela Plinius ipse loquitur’ (n. A. XI24 (28), 84 ‘ ad polituram sarciens’.) 8 PLIN. epist. V 8, 1 e 4. 38massime quando questi non erano stati ancora pnbblicati. Che non sidisse per le commedie di Terenzio, emendate e forse preparate da Scipionel’Africano e da C. Lelio ?! AnneoCornuto lasciò forse intatte le satiredell'amico e discepolo suo Persio Flacco ? ?. È superfluo addurre altri esempi: ci basti rammentareche, se le mani di L. Vario e di PlozioTucca si astennero dal profanare il poema lasciato incompleto da Virgilio, ciòavvenne per espresso ordine di Augusto, cui non era lecito disubbidire ?. VII.A niuno, poi, sfugge l’ osservazione che nella Germ. non si fa cenno dei rapporti di treguae di guerra tra i Romani ed i Germani,dopo il regno di Vespasiano. Nulla si dice della venuta in Roma, verso l’a. 85, di* Masyos, re dei ‘ Semnones ’,e di Ganna, vergine fatidica, chesuccedette a Veleda: entrambi furono accolti onorevolmente da Domiziano.Trascurasi di menzionare 1’ impresa di Domiziano contro i ‘ Chatti”; chè, come si è dimostrato sopra, non può indursiun’ allusione a tale impresa dalle ultime parole del cap. 37 ‘ proximis temporibus triumphati magis quamuicti sunt’. Omettesi di far menzionedella spedizione di Vestricio Spurinnacontro i ‘ Bructeri’, dopo la morte di Domi4 Vedi Cic. ad Att. VII 3, 10. QvinTIL. è. 0. X 1, 99; ed un framm. del libro de poetis di Suetonio, ed.Roth 1882, p. 293, 5-6. 2 V. la vita A.Persii Flacci de commentario Probi Valerisublata: il Roth la omise nella sua ed. dei framm. di Suetonio. 8 SERV. comm. in Verg. Aen. I: ‘ Augustusuero, ne tantum opus (sc. Aeneis)periret, Tuccam et Varium hac lege iussitemendare, ut superflua demerent, nihil adderent tamen’: vol. I, fasc. 1°, p. 2, ed, Th. diaziano: ed altre omissioni potremmo aggiungere. Invece tutto ad un tratto si passa dalle notiziesopra avvenimenti occorsi durante il regno di Vespasiano al secondo consolato di Traiano ; e sì importante lacunadà .nuovo argomento a sospettareinterpolato il passo del cap. 37, delquale si è sopra a lungo discusso.Cosicchè, e per i molteplici argomenti che ci offre il testo della Germ., convenientementeinterpretato, e per gli argomentiesterni sopra esposti, non puossi non riconoscere che nella Germ. non sonomenzionati avvenimenti posteriori all’a. 79 d. Cr.; e però sorge spontaneo ildubbio che non Tacito, istoriografo fiorito alquanti anni dopo, ' ma PlinioSecondo (se è da non tenersi conto di Aufidio Basso, scrittore anch’egli diguerre germaniche) possa essere stato l’autore della Germ. ; o meglio, chequesta in principio abbia formato parte,come una digressione necessaria, dei venti libri bellorum Germaniae. Nèquarantasei capitoli (si direbberomeglio paragrafi) di un’introduzione o di una digressione, quanti se necontano appunto nella Germ., si possono ritenere troppi per un lavoro storicoche ha il ‘ suo svolgimento in ventilibri; poichè è noto che la digressionesull’Africa è di non breve estensione nel d.Iug. di Sallustio; e similmente la digressione di Tacito sullaBritannia, nel libro de vita ef moribus Iulii1 Il libro de wita et moribus Iulit Agricolae, primo, in ordine cronologico, dei lavori di Tacito, è dell'a.98: diciamo primo, perchè pare ormaidimostrato che il dial. de oratoribus nonsia lavoro di Tacito. Vedi L. VALMAGGI, nuovi appunti sulla critica recentissima del dialogo deglioratori, in Rio. di filol, e d'i. cl, a.XXX, fasc. 1°, p. 23. PRE (pn Agricolae, occupa non meno di sette capitoli;e l’altra digressione di Tacito stessosulla Giudea si svolge in ben dodicicapitoli sui ventisei cc. del lib. V delle Rist., il quale non ci è pervenuto completo. diriCAPITOLO SECONDO La Germanianella tradizione degli scrittori sino aitempi del Rinascimento. Costantementesi è indicato Tacito quale autore dellaGerm., sin dal tempo in cui l’aureo libretto fu scoperto e rimesso in onore insieme con tanti altritesori letterari dell’ antichità. Su quale fondamento si poggia tale indicazione ? L’ indagheremo nelpresente capitolo. I. Tacito fu sempre considerato dagli scrittori posteriori, sia dell’ età antica sia delmedio evo ', come ‘scriptor historiae Augustae ’ ?, o ‘ qui post Augustum usquead mortem Domitiani uitas Caesarumtriginta uoluminibus exarauit ’ 8, o semplicemente ‘ annalium scriptor’‘, o con altra indicazione analoga; 1Vedi EMMERICH CoRrNELIvs, quomodo Tacitus historiarum scriptor in hominum memoria uersatus situsque ad renascentes literas saeculis XIV et XV; inaug. diss. MarpurgiChatt. 1888. M. MANITIUS, Beitrtige surGeschichte d. ròmischer Prosaiker in Mittelalter, II, in Philologus, N. F. I(1889), pp. 565-566. 2 Vopisc. Tac. 10,3; in scriptt. hist. Aug. XXVII p.192, ed. P. 3 HreRoNYM. comm. in Zach.IIl 14, t. VI, coll. 913-914, ed.Vallars., Veron. 1736. 4 IoRDAN.de or. act. Get. 2, 29, p. 3, ed. A. Holder. È però probabile che Iordanis, citando con inesattezza ‘ Corneliusannalium seriptor ’, mentre ripete le notizie contenute nel libro de u. et m. Iul. Agric., cc. 10, 11, 12,riferisca osservazioni e notizie nonattinte direttamente ai libri di Tacito.5 Omettiamo l’ epiteto ‘sane ille mendacium loquacissimus ’, dato a Tacito da TERTVLL. apologet., cap. 16,pp. 47-48, Cantabrigiae 1686: le necessità della lotta rendevano talvoltaingiusti i primi apologisti del Cristianesimo. ii dIe in generale, anche quando non fu indicato, in forma di epiteto aggiunto al nome proprio, ilgenere letterario da Tacito coltivato, si citarono i luoghi degli annali o delle istorie, talvolta nominandosiTacito autore, talvolta omettendosi il nome di lui. Il nome dell’autore non sempre è indicatonello stesso modo. Tertulliano ',Vopisco ?, San Girolamo *, Orosio 4,Apollinare Sidonio *, etc. lo nominano ‘ Cornelius Tacitus ’. Lo stessonome ‘ Cornelius Tacitus” osservasi inuno scolio di Giovenale © e in un luogo degli annales Fuldenses di Rudolf, monaco di Fulda, ilquale si valse della prima parte degliann. di Tacito per la sua compilazione storica che va dall’ 838 all’ 863 ?; sinota an 1 TERTVLL. apologet. |. l1.: egli cita Tac Rist. V 3; 4; 9. ? Vopisc. Auretian. 2, 1. Tae. 10,3; inseriptt. hist. Aug. XXVI, XXVII, pp. 149,192, ed. P. Sul 1° luogo di Vopisco, che nota di menzogna Livio, Sallustio, Tacito eTrogo Pompeo, il Petrarca osserva:‘notat ystoricos, immeriter puto, precipue(sic) primos duos’. Vedi P. pe NoLHac, Petrarque et l’humanisme d'aprés un essai derestitution de sa bibliothèque, Paris1892, p. 258. 3 HiERoNYm. l. l. sopra, in nota 3, pag. 4l. 4 Oros. hist. adu. pag. I 5,1 (cf. Tac.hist. V 7). VII 3,7 (cita un luogo delleAist. di Tac., forse del lib. VI o VII, non pervenuto a noi). VII 10, 4 (citaun luogo di Tac., che si è perduto: cf. Tac. hist. III 46. Cass. Dion. r. Rom.LXVII 6, 1; 7, 2; etc.). VII 19, 4 (lanotizia che dà nel ]. c. non è in quel checi resta dei libri di Tac.). VII 27, l (cf. Tac. Rist. V 3, sgg.).5 APOLLIN. SIpon. carm. 23, 153 sg. ‘etqui pro ingenio fluente nulli, | CorneliTacite, es tacendus ori’: ed. Luetjohann,in monum. Germ. hist., Berl. 1887, t.VIII, p. 253. 6 Schol. Iuuenal. V14,101 ‘cuius (sc. Moysis) Cornelius etiamTacitus meminit’: cf. Tac. hist. V 3. 7 Ann. Fuld. a. 852 ‘super amnem quemCornelius Tacitus, 49-= che in un’ epistola di Pietro di Bluis! e(tralasciando di menzionare Frekulf,monaco di Fulda e poi vescovo diLisieux, Giovanni di Salisbury, Vincenzo di Beauvais, i quali, come ormai è accertato, conobberoTacito solo di nome ?) in un’ epistola ealtri Il. degli scritti del Boccaccio 3,nel comentum super Dantis Aldigherij coscriptor rerum a Romanis in ea gente gestarum, Visurgim, moderni uero Wisaraha uocant’: in PERTZ,monum. Germ. hist. vol. I, p. 368. Vediper le citazioni tacitiane negli annali diFulda e nelle res gestae Saronicae di Widukind, monaco di Corwey, la diss. cit. del Cornelius, p.38. 4 PETRI BLESENSIS Bathoniensis inAnglia archidiaconi opera omnia, Paris.1667, epist. 101 ad R. archid. Nannet, p. 158, col. 2° ‘ profuit mihi frequenter inspicere......Corn. Tacitum, Titum Liuium' e. q. s. MaA. HorTis, studj sulle opere latine del Boccaccio con particolare riguardo allastoria della erudizione nel m. evo ealle letterature straniere, Trieste 1879, p. 425, dubita che « Pietro di Blois conoscesse più in là delnome di Tac. ». Consente in ciò F. RamorINO, Corn. Tac. nella st;ria dellacoltura, 2* ed., Milano 1898, p. 91,nota 38. Vedi la diss. c. del Cornelius, p. 41. ? Vedi HoRTIS, op. cit., p. 425, nota 3, ele monografie, ivi menzionate, di E.Grunauer sui fonti della storia di Frekulf,dello Schaarschmidt su Giov. di Salisbury, dello Schlosser su Vinc. Bellovacense. Il Petrarca non scrissemai il nome di Tac., che tuttavia eglinon poteva ignorare, poichè l’amico suoGuglielmo da Pastrengo ne aveva fatto cenno nel libro de orig. rer., f. 18: v. P. pE NoLHAC, op. cit., chap. VI, p. 266. 3 Boccaccio,epist. ad Nic. de Montefalcone : ‘ quaternum quem asportasti Corn.i Tac.i quaeso saltem mittas': v. FR. CORAZZINI, le lettere edite einedite di messer G. B. trad. e comm. connuovi documenti, Firenze 1877. La lettera porta la data ‘ Neapoli XIIIkal. februarii’, ed è del 1371: v. Gustav KoERTING, G. d. Litterat. Italiens im Zeitalter der Renaissance ; II(Boccaccio *s Leben u. Werke), Leipz. 1880, cap.I, pag. 47. Il Boc i d4 moediam di Benvenuto de Rambaldis da Imola!, nel liber Augustalis?, nello scrittode wiris claris di Domenico Bandini aretino ®, in una lettera del 1395 di Coluccio Salutati , 4 etc. .5- Anche del solonome ‘ Ta caccio ripete il nome CornelioTacito altre due volte nel cap. IV, p.201 e p. 253, del comento sopra la Commedia di D. A. iv. opere di m. G. B. cittadino fiorentino,con le annotazioni di A. M. Salvini,vol. V, Firenze 1724); ed una sola volta nellibro gen. deorum, INI 23, f. 28, ed. Parigi 1517. I detti luoghi del Bocce. si riferiscono ai luoghi di T'ac.ann. XV 57 e 60-65. hist. Il 2-3. 1 Comentum Inferni, c. IV, t. I, p. 152‘sicut patet apud Cor-° neliumTacitum': ed. Jac. Phil. Lacaita, Florentiae 1887. Vedi per la citaz. tacitiana concernente Cleopatra(c. VI) le considerazioni del Ramorino, disc. c, p. 93, nota 43. ? Liber Aug.c.5 ‘de... Messalina scribitCornelius Tacitus ’; in FREHER-STRUVE,rerum Germanicarum scriptores, t. II, p. 6.Ha dato evidenza alla citaz. il MANITIUS, Beitrige zur G. d. r. Pr. im Mittelalter sopra cit., p. 566. 3 Il Bandini scrive di Tacito: ‘ CorneliusTacitus orator et hystoricuseloquentissimus’. Vedi l’ epistolario di CoLuccio SaLUTATI, edito da Fr.Novati, III p. 297, nota. 4 C.SALUTATI, epist. IX 9, vol. III, p. 76, ed. cit. 5 Ci fermiamo con le nostre citazioni allafine del sec. XIV: non è necessarioperciò ripetere le citazioni tacitiane che si notano negli scritti dei più autorevoli umanisti delsec. XV, quali Sicco Polenton, PoggioBracciolini, Francesco Barbaro, Giov. Tortelli,Flavio Biondo, Lor. Valla, L. B. Alberti, card. Bessarione, etc. Vedi VoIGT-VALBUSA, il risorg. dell'antichitàelass., Firenze 1888, v. I, pp. 250-257.R. SABBADINI, storia e critica di alcuni testilatini, in Museo it. di ant. class. ( Comparetti ), Firenza 1890, v. III, p. 339 sgg. In. notiziestorico-critiche di alcuni codd. latini,in Studi ital. di filol. class., Firenze 1899, v. VII, pp. 119132. In. Zascuola e gli studi di Guarino Guarini veronese,Catania 1896, p. 101, e il doc. 16 a pp. 193-194. 45citus’ si valsero Vopisco ! e Apollinare Sidonio ?: quest’ ultimo 1’ unìcon ‘ Gaius ?.* Ma da altri si preferìl’ uso del solo nome “ Cornelius ’ ‘ : talora vi si aggiunse ‘ Gaius ?.5 Non pochi citarono dei luoghitacitiani senza però nominare l’ autore; così troviamo ripetuti, e talvoltaquasi alla lettera, alcuni passi dellerist. e degli ann. di Ta 1 Vopisc. Prob.2, 7;in scriptt hist Aug. XXVIII p. 202, ed. P.‘non Sallustios, Liuios, Tacitos, Trogos atque omnes disertissimosimitarer”’. 2 APOLLIN. Sipon. epist. IV 22, 2. carm. II 192: ed.Luetjohaan, p. 73 e p. 178. 3 APOLLIN. Sipon. epist. IV 14, 1 ‘ Gaius Tacitus unus e maioribus tuis’, p. 65; manel cod. Paris. 9551 (F.del Luetj.) c' è‘tacius corneli”. C£. col |. c. di Sidonio Tac. hist. V 26.4 Oros. hist. adu. pag. I 10, 1 (cf. VII 34, 5); 10, 3 (cf. Tac. hist. V 3); 10, 5. VII 9, 7 (cf. Tac. hist. V13. SveToN. deperditorum librorum reliquiae, ed. Roth, IX, p. 287). APOLLIN.SIpon. epist. IV 22, 2, ed. cit., pp.72-73. Sehol. Iuuenal. I 2,99 (ef. Tac. hist. libb. 1, II). IORDAN., Op. c., 2, 29.Boccaccio, com. sopra la Comm. di D. A.pp. 202, 254, vol. e ed. cit. L. BRUNI, laudatio urbis Florentinae (cf. Tac. hist. I 1.KrrNER, laud, urb. FI. L. B., Livorno1889, pp. 19, 30). Omettiamo di citare il chron. Cas. di Petrus, che nel catal. dei libri della badiadi Montecassino annovera ‘ historiam Cornelii cum Omero (sîc)', perchè,come bene avverte A. Hortis, op. c., p.425, n. 2, la riunione del nome Cornelio con quello di Omero farebbe pensare «piuttosto allo Pseudo-Cornelio Nipote... ben noto per le sue attinenze con leistorie troiane di Ditti e Darete ». 5APOLLIN. Sipon. epist. IV 22, 2 ‘ cum Gaius Cornelius Gaio Secundo (se. C. Plin. Caecil. Sec.) pariasuasisset’; ed. c., p. 72: cf. PLIN.epist. V 8, TRE BENE genecito, in Sulpicio Severo , ! Orosio, ? e nello scoli aste di Giovenale. ® Vi ha una frase di Cassiodorio,che pare desunta dalle storie diTacito.‘ Anche il Boccaccio si valse,come abbiamo veduto, di Tacito , © talvolta senza 1 SvLP. SEv. chronica quae uulgoinscribuntur hist. sacra (in S. S. operastudio et lab. Hier. De Prato, t. II, Veron.1754) II 28, p. ì59 (cf. Tac. ann. XV 37 in fine); II 29, pp. 160-161 (cf.Tac. ann. XV 40 e 44 in fine). È probabile che quanto scrive Sulp. Sev. ‘ de Hierosolymorum supremo die’II 30, pp. 163166, sia stato preso da un luogo ora perduto del lib. V Aist.di Tac.: v. la nota 6* a p. 164, col.1°, ed. c. ; e inoltre BERNAYS, dechronicis Sulpicii Seueri, p. 55 sgg. Per uno strano invertimento dell’ ordinelogico, P. Hochart nel suo libro de l’ authenticité des ann. et des hist. deTac., Paris 1890, pp. 200-201, scambial’effetto con la causa, e ammette che il presunto falsificatore di Tac. abbiacopiato da Sulpicio Severo quello che inrealtà costui copiò da Tac. ? Oros. hist. adu. pag. VII 4, 11 (cf. Tac. ann.IV 62 e 63); 4, 17 (cf. Tac. ann. II 85in fine). 3 Schol. Iuuenat. 1 5, 108 : cf. Tac. ann. XV 62. 4 Casson. war. XI 3i, p. 157, 2* col., in M.A. CassioporI 0pera omnia, ed. J. Garet.,, Ven. 1729, t.I: ‘more maiorum scuto supposito "; cf. Tac. /A'st. IV15, 10 ‘inpositusque scuto more gentis’. 5 Il Boccaccio ebbe conoscenza diTac. ann. Il. XII-XVI e hist. ]l.IIT-]II, perchè se ne avvalse, senza menzionare i fonti, negli ultimi capitoli del libro de clarismulieribus, per narrare la vita diEpicharis la cortigiana (c. 91: cf. Tac. ann. XV 5157), di Pompeia Paolina,moglie di Seneca (c. 92: cf. Tac. ann.XV 60; 63; 64), di Poppea Sabina, amante e poi sposa di Nerone (c. 93:ct Tac arn. XIII 45 e 46. XIV 60-63. XV 23. XVI6), di Triaria, moglie di L. Vitelliv fratello dell’ imperatore (c. 94: cf. Tac. Aist. II 63. III 77); eaggiungiamo anchela vita di Agrippina,madre di Nerone (c. 90: cf. Tac. ann. Il. XII-XIV), sebbene le notizie possano essere state preseda SvETon. Claud. 26. 29. 39. 43. 44.Ner.6. 9. 28. 34. 35. Vedi ScHUECK, Boccaccio's RESO genominarlo. ? II. Quanto alla Germ. non vi è, sino al sec. IX, scrittore alcuno che ne abbia fattomenzione.o ne abbia tratto vantaggio, ripetendo o imitando qualche luogo diessa. Si è preteso scorgere un accenno alla Germ. c. 45 ed al nome dell’ autore della stessa(Cornelio) in un’ epistola diCassiodorio *, con la quale il re Teodorico ringrazia il popolo degli ‘ Haesti? 3 per un dono di ambra. Nell’ ep. diCassiodorio si legge : ‘ succina quae auobis ... directa sunt, grato animo fuisse suscepta: quae ad uos oceani unda descendens, hancleuissimam substantiam, sicut etuestrorum relatio continebat, exlateinische Schriften, in Jahrbb. fiur Philol. u. Pidag. CX (1874),p. 170 sgg. A. HoRTIS, op.c., pp. 425-426. G. KOERTING, Op. c., VII, p. 393. P_ pE NoLHAC, op. c., chap. VI, pp. 266-267: eBoccace et Tacite, in Mélanges de l Ecole de Rome, t. XII, 1892. RAMORINO, disc.c., p. 92, nota 4l. 1 Dal novero degliscrittori che nell'età di mezzo si valserodi Tac., senza menzionarlo, dobbiamo escludere l’autore ignoto della vita Heinrici IV, vissuto nel sec XII,non ostante che il Cornelius vi trovidelle frasi, in cui sembrano riflettersi certeespressioni che si notano negli ann. di Tac.: v. MANITIUS, Beitr. cit. p. 566; RAMORINO, disc. c., p. 91, nota40. E si deve altresi escludere dalnovero Guglielmo di Malmesbury che, in un luogodei gesta reg. Angl. c. 68, ed. Hardy, I 95, con la frase * incredibilequantum breui adoleverit’ pare che abbia voluto riprodurre la frase tacitiana,Gist. II 73, 1 ‘ uix credibile memoratuest quantum ... adoleuerit’; poichè la stessa frase leggesi in SaLL. Cat. 6, 2 ‘incredibile memoratu estquam facile coaluerint'; e ciò avvertiva sin dal 17-III-1390 il GaABOTTO, in unart. pubbl. nella Rio. di filol. e d’i.el. XIX (1891), pp. 397-308. 2 Cassion.uar. V 2, ed. c., t. I, p. 73. 3 ‘Aestii ’, secondo il testo della Germ. 45, 8. 48portat; sed unde ueniat, incognitum wos habere dixerunt, quam ante omneshomines patria uestra offerentesuscipitis. haec quodam Cornelio scribente legitur in interioribus insulis oceani exarboris succo defluens, unde et succinumdicitur, paulatim solis ardore coalescere.cum in maris fuerat delapsa confinio, aestu alternante purgata, uestrislittoribus tradatur exposita.’ Or, il ‘ quidam Cornelius scribens’ non è, come affermano alcuni ,' Corn. Tacito,autore delle hist. e degli ann., ma ‘Cornelius Bocchus ?. Il Peter nota,infatti, il l. cit. di Cassiodorio tra i frammenti delle storie di ‘ Cornelius Bocchus ’ ; * edè noto che Plinio Secondosegna questo scrittore il quarto tra gli autori i cuiscritti gli servirono di fonti per compilareil libro XXXVII della sua naturalis historia :3 e appunto nel libroXXXVII trattasi del sucino o ambra ,'1 Vedi MASSsMAnN, op. c., pp. 158-159. TH Finck, Germ. herausgegeben u. erlàutert, Gòttingen 1857, p. 14, nota2. GEFFROY, Op. c., p. 97. A: Pars, comm. cit, p. XIX. MARINA, Op. c., p. 4; 2. RAMORINO, disc. c., p. 31. etc. ? Historic. Rom. fragmenta, ed. Peter, Lps.1833, p. 298, n.° 8,* Vedi Mommsen,introd. ai coll. r. m. di Solino, p. XVII.3 PLIN. n. h. I ex auctoribus l. XXXVII. Si valse anche delle opere diBocco per compilare i Il. XVI, XXXII e XXXIV;ma in questi u'timi due si cita solo ‘ B»echus', senza il nome * Cornelius.4 PLIN. n. A. XXXVII 3 (11), 42 e 43. Le notizie sull'’ambra, date da Bocco e raccolie da Plinio, furonopoi ripetute da SoLIN. coll. r. m. 20, 9 sgg. Vedi il comm. c. del DiLTHEY, pp.290296; e WoLFGANG HELBIG, osseroazioni sopra il commercio dell’ ambra, in Atti d. Accad. d. Lincei,1877 : inoltre v. le pp. 184-189 delladissertazione di ETTORE PAIS, intorno alle più antiche relazioni tra la Greciae l'Italia, in Riv. di filol. e di. cl.XX (1892). Rea GEA e vi si esprime lo stesso concettoannunciato da Cassiodorio, con parole quasi consimili. Nè vale il dire che nelle voci ‘ legitur, insulis, ex arborissucco, solis ardore’ del 1. ce. di Cassiodorio si ripetono le voci del testo della Germ. c. 45 ‘legunt, legitur,sucum arborum, insulis, solis radiis’; poichè, oltre la ripetizione del concetto, vi ha maggiore analogia diforme tra il passo cit. di Cassiodorioed il corrispondente luogo di PlinioSecondo, nel quale luogo si ripresentano, comesì è avvertito sopra, le notizie date da Cornelio Bocco. ! Nemmeno può ammettersi che Iordanis abbiaavuto notizia della Germ.?® sol perchènel c. 2 del de or. act. Get. sì trovanole due voci ‘inaccessam, aperuit?, che si osservano usate anche nel c. 1°della Germ., ma con tutt'altrointendimento e in due periodiinteramente separati e indipendenti l’ uno dall’ altro *. 1 Cassiod. ‘in interioribus insulis oceani’; cf. Plin. n. A. XXXVII 3 (11), 42 ‘in insulis septentrionalisoceani’. Cassiod. ‘ex arboris succodefluens’; cf. Plin. ibid. ‘ defluente medullapinei generis arboribus ’; e 43 ‘ arboris sucum esse’. Cassiod. ‘unde etsuccinum dicitur ’; cf Plin.ibid. 43‘ ob id sucinum appellantes’ (e Solin. 20, 9 ‘sucum esse arboris de nominiscapessas qualitate ’). Cassiod. ‘ aestu alternante purgata, littoribus tradatur exposita ’; cf. Plin. ibid. 42 ‘ipseintumescens aestus rapuit ex insulis,certe in litora expellitur esse concreti maris purgamentum. Che Iordanis abbia avuto notizia della Germ. l' ammette il Massmann, op. c., p. 157. 3 IorpAN. de or. act. Get. 2, 5 p. 3, H. ‘quam diu siquidem armis inaccessa m (sc. Britanniam) RomanisIulius Caesar proeliis, ad gloriam tantum quaesitis, aperuit’. Si confronti con Germ. 1, 3 ‘cetera Oceanus ambit...... nuper co CONSOLI : L’ autore della Germania. 4 i 50 E non solamente nella Germ. occorre il v. ‘aperire ’ nel significato di « farconoscere, dar notizia », e perciò «rendere accessibile », perocchè con lo stesso significato appare in Livio !,Mela ?, Tacito 3, etc. Similmente non èattendibile il confronto del c. 3 del lib. di Iordanis col c. 40 della Germ.,‘nei quali cc. sono comuni le parole‘est in Oceani insula’, non ordinate però inmodo identico in entrambi. Poi è da notarsi che Iordanis cita, come fonte della suadesignazione geografica, il secondo libro dell’opera di Tolomeo; nè, d’altrocanto, è noto quale sia precisamente 1’ isola indicata nella Germ., nella qualeera il luogo sacre alla dea ‘ Nerthus” o‘Terra mater ’ £. Neppure il luogo delven. Beda, che noi, trattando dei ‘Bructeri ’, abbiamo riferito sopra (p. 28, nota 3), dà la certezza che questo scrittore, vissuto dal674 al 735, ab gnitis quibusdamgentibus ac regibus, quos bellum aperuit.Rhenus, Raeticarum Alpium inaccesso ac praecipiti uertice ortus’ e. q. s. i 1 Liv. X 24, 5. XXXVI 17, 14. XLII 52, 14.2 Pompon. Met. chor. III 6, 49.8 Tac. Agr. 22, 1. hist. IV 64, 19. ann.II 70, 10. Vedi inoltre Lvcan. de b. c.IV 352. Var. FLAC. Arg. I 169. 4 ]lconfronto è sostenuto anche dal Massmann, l. c. 5 IORDAN. 3, 4 p. 4, H. “est in Oceaniarctoi salo posita insula magna, nomine Scandza ”. Germ. 40, 8 ‘ est in insulaOceani castum nemus ”. 6 Si discuteancora se sia Riigen, Fehmarn, Helgoland, Laaland, Bornholni, Seeland, laScandinavia stessa , che gli antichi consideravano come isola. Il MicHELSEN,vorchristliche Kultusstatten (citato daU. Zernial, comm. p. 78, da A. Pais,comm. p. 61, e da G. Marina, op. c., p. 127) indica come più probabile Alsen.« mit dem heiligen WaldeHellewith und dem heiligen See Hellesò». pe =.bia avuto notizia diretta della Germ. Si asserisce, è vero, che i nomi di popoli ‘ Fresones, Rugini,Boruchtuarii, Anglii’ egli non poteva adaltro fonte attingerli che alla Germ.,perchè appunto nei cc. 34, 44 (43), 33, 40della Germ. si tratta di essi !, Ma ciò è inesatto, perchè troviamofatta menzione dei ‘ Frisii ’, che il Bedachiama ‘ Fresones *, in Plinio Secondo, Cassio Dione, nel panegyr. Constantio Caesari, oltrechè inTacito. * Dei ‘ Rugii ’, detti dal Beda‘ Rugini ?, si fa menzione nell’appendice excerpta Valesiana alle storie diAmmiano Marcellino ; inoltre inIordanis, Procopio, Paolo diacono. ? Quanto ai ‘ Bructeri ’, che con lievemutazione .il Beda chiama ‘ Boruchtuarii’, è opportuno aggiungere che di loro sifa cenno non solamente da Velleio Patercolo, Plinio il giovane, Nazario edall’autore del panegirico a Costantino Augusto, dei quali sopra si è tenutodiscorso, ma anche da Strabone, Claudiano, Gregorio di Tours, etc. * Degli‘Anglii’, che nel sec. V passarono nellaBritannia, leggesi un cenno in Tolomeo 5; e lo stesso Beda spiega l’ etimologiadel loro 1 Vedi MassMann, op. c., p.159. 2 Pcin. n. A. IV 15 (29), 101:qualcuno legge anche la voce ‘ Frisii’premessa a ‘gens tum fida’ in XXV 3 (6), 21. Cass. Dion. r. Rom. LIV 32.Incerti pan. Const. Caes. 9; in BAEHRENS,XII pan. Lat., V, p. 138. Tac. Agr. 28, 14. hist. IV 15, 12; 18, 26; 56, 15; 79,8. ann. I 60, 6.IV 72, 1; 74,1. XI 19,3. XIII 54, 2. 3 ExcerptaVales. 10, 48 p. 292, 2° vol., ed. Gardthausen. IorDAN. de or. act. Get. 54,7p. 64, H. PrRocoP. de db. Goth. II 14. PavL. pIac. de gest. Langobard. I 19, in rer.Ital. scriptt. del MURATORI, t. I, -pp.415-416. Cf PTOLEM. geogr. II 11. 4STRAB. geogr. VII 1, 3-4 (C. 290-292), pp. 398-401, ed. M. CLAVDIAN. de IV cons. Hon. 451. GRrEGOR.TvRENS. II 9. 5 ProLem. geoyr. II 11.Un antico trad, di Tolomeo li disse viBO nome: ‘porro de Anglis, hoc est deilla patria quae Angulus (per altri,Anglia) dicitur.’ ! L'angolo sarebbe ilterritorio che si estende da Flensburg sino all’ Eider, a sud-ovest dello Schleswig. * III.Le prime e sicure tracce della Germ. appariscono nel sec. IX, in unlibro intitolato franslatio S.Alexandri?, che fu cominciato da Rudolf, monaco del monastero di Fulda, nell’a. 863, e, per lamorte di costui avvenuta nell’ 865, continuato e portato a fine da un altro monaco dello stesso monastero,Meginhard. Rudolf, trattando, nelleprime pagine del suo lavoro, dei costumidei Sassoni, riproduce alla lettera diversiluoghi dei cc. 4, 9, 10, 11 della Germ., rendendone alcune espressionipiù adatte al gusto letterario de’ suoitempi; ma non nomina mai l’autore del libro. Valgano i sgg. confronti,nei quali sono trascritte in corsivo ‘Sueui Angili, qui magis orientales sunt quam Longobardi '; Col. Agrip. 1584, p. 27, col. 1°. 1 Ven. BEDA, hist. gent. Angl. I 15, col.11, t. III, ed. c. 2 Si noti eziandioche il ven. Beda dovette attingere le notizie sui ‘Saxones’, dei quali fa cennonel l. c., non soltanto alla geogr. diTolomeo, ma anche ad altri fonti, p. es. AMM.Marc. r. g. XXVI 4,5. XXVII 8, 5. XXVIII 2, 12; 5, 1e4. XXX 7, 8. PacaT. DREPAN. pan. Theodos. Aug. 5; in BAEHRENS, X//pan. Lat. XII, p. 275. Oros. hist. adu. pag. VII 25, 3; 32, 10. IORDAN. de or. act. Get. 36, p. 43,ed. H. 3 Pubbl. nei monum. Germ.historica, t. II, p. 675 sgg., ed. Pertz. 4 Il RITTER, Op. c.,praef. p. XVI, n., dimostra evidente l’errore in cui incorsero il Massmano, op.c., p. 224 sgg. e il Haupt (comm. Germ.)di attribuire a Meginhard quella parte dellatransl. S. Alex, che era stata scritta da Rudolf, le parole e parti di parole della Germ.identicamente ripetute nella dransl. S.Alexandri: Rudolf: ‘nec facile ullisaliarum gentium... conubiis infecti,propriam et sinceram et tantum sui similem gentem facere conati sunt. unde habitus quoque...corporum...in tanto hominum numero, idem pene omnibus’: cf. Germ. 4, Rudolf: ‘marime Mercurium venerabantur, cuicertis diebus humanis quoque hostiislitare consueuerant. Deos suos nequetemplis includere neque ullae humani oris speciei adsimilare ex magnitudine...caelestium arbitrati sunt: lucos aenemora consecrantes deorumque nominibus appellantes secretum illud solareuerentia contemplabantur’: cf. Germ. 9.Rudolf: ‘auspicia et sortes quam maxime obseruabani : sortium consuetudo simplex erat. uirgam frugiferaearbori decisam in surculos amputabant eosque notis quibusdam discretos supercandidam uestem temere ac fortuito spargebant. mox, sî publica consultatio fuit, sacerdos populi,sì priuata, ipse pater familias precatus deos coelumque suspiciens ter singulostulit, sublatosque secundum inpressam ante notam interpretatus est. sî prohibuerunt, nulla de eadem re ipsadie consultatio : si permissum est,euentuum adhue fides exigebatur. auium uoces uolatusque interrogare propriumgentis illius erat; equorum quoque praesagia ac monitus experiri, hinnitusqueac fremitus obseruare; nec ulli auspicio maior fides, non solum apud plebem,sed etiam apud proceres habebatur. erat el aliaobseruatio auspiciorum, qua grauium bellorum euentus explorare solebant:eius quippe gentis, cum qua bellandum fuit, captiuum quoquo modo interceptumcum electo popularium suorum, patriis quemque armis, committere et uictoriamhuius uel illius pro iudicio habere ’:cf. Germ. 10. Rudolf: ‘quomodo autemcertis diebus, cum aut inchoatur luna aut impletur, agendis rebusauspicatissimum initiumcrediderint...... praetereo ’: cf. Germ. 1l. Si osservano anche tracce della Germ.in piùluoghi di Adamo di Brema, scrittore delsec. XI: in essi si PES gra fa menzionedella ‘Sueonia” e dei ‘ Sueones ’;! ed ènoto che in nessuno scritto, greco o latino, lasciatoci dall’antichità classica, e anteriore allaGerm. (c. 44), si fa parola dei ‘Suiones ’, abitatori della penisolascandinava o della parte orientale di essa. ? Iordanis menziona la ‘ gens Suethans” e i ‘ Suethidi,cogniti in hac gente reliquis corporeeminentiores 7.3 Ma Adamo di Bremadovette ricavare dalla trans. S. Alex., nondalla Germ. direttamente, quelle poche frasi del suo lib. V, le quali sono consimili ad alcunefrasi che si leggono nei ce. 4, 9, 10,11 della Germ. Lo stesso può dirsi delchronicon Vraugiense del sec. XII, per quelleespressioni che paiono imitate dalla Germ. e, invece, furono desunte dalla stessa Zransl. S. Alex.4 Il Cornelius, nel suo pregevolestudio sulle vicende delle operetacitiane nel medio evo, ha creduto affermare che in un luogo della vitaMathildis di Donizone (nel qual luogo sinota la facilità biasimevole, con cui iGermani ingaggiavano delle risse cruente, massime se eccitati da troppe bevandespiritose) si ripete l’ osservazione delc. 22 della Germ.: ‘crebrae, ut inter uinolentos, rixae raro conuiciis, saepiuscaede et uulneribus transiguntur ’. Mail confronto appare inverisimile, perchè Donizone, piuttosto che riferirsi aduna cattiva usanza osservata dall’autore della Germ., in 1 Descriptioinsularum Aquilonis 21 (c. 230), in Micene, Patrolog. curs., t. CXLVI, col.637; 27 (c. 235), col. 644; 26 (c. 234),col. 642. ? R. KEySER, Norges historie, Kristiania 1865,vol. I, p. 34 sg. 3 IORDAN. de or. act.Get. 3, 40; 3, 55, p.5 H. 4 V. il confronto dimostrativo fatto dalMassmann, op. c., Anhang tende dar notizia della facilità con cui a’ suoitempi si veniva a risse sanguinose percausa dell’ubbriachezza. * Del resto, trattasi di un’ usanza, cheosserviamo tutto dì nelle classi socialiche più difettano di coltura e siabbandonano al vizio dell’ ubbriachezza : molto più doveva ciò avvenire tra genti barbare, enei tempi descritti da Donizone. *Dalle osservazioni premesse ci è dato concludere che, sino all’età del Rinascimento, sparutissimesono le tracce della Germ. nellatradizione degli scrittori: non maiTacito venne indicato quale autore della Germ. 1 MANITIUS, Beitrige c., p. 566. RAMORINO,disc. c, pp. 91-92, nota 40. ? Tacito avvertiva: ‘nec facilem intertemulehtos consensum’ (Aist. I 26, 6) ‘uinolentiam ac libidines, grata barbaris Il primo degli umanisti, che abbiafatto menzione della scoperta di un libro intitolato de origine et situ Germanorum, fu Antonio Beccadelli,detto il Panormita, il quale, in unalettera diretta al Guarini veronese,scriveva: ‘ compertus est Cor. Tacitus de origine et situ Germanorum. Itemeiusdem liber de uita lulii Agricolaeisque incipit: clarorum wirorum factaceteraue. Quinetiam Sex. Iulii Frontonisliber de aquaeductibus qui in urbem Romam inducuntur; et est litteris aureis transcriptus. Item eiusdem Frontonisliber alter, qui in hunc modum iniciatur: cum omnis res ab imperatore delegata mentionem exrigat et cetera. Et inuentusest quidam dialogus de oratore et est, ut coniectamus, Cor. Taciti, atque isita incipit: saepe ex me requirunt etcetera. Inter quos et liber SuetoniiTranquilli repertus de grammaticis et rbetoribus : huic initium est: grammatica Romae. Hi etinnumerabiles alii qui in manibusuersantur, et praeterea alii fortasse qui in usu non sunt, uno in loco simulsunt; ii uero omnes, qui ob hominum ignauiamin desuetudinem abierant ibique sunt, cuidam mihi coniunctissimo ii dimittenturpropediem , ab illo autem ad me proximeet de repente; tu secundo proximus eris, qui renatos sane illustrissimos habiturus sis ’.! Alla lettera si assegna la data dell’ aprile 1426. Con la stessa letterasi può ben mettere in confronto una epistolascritta dal 1 Studi ital. di filol.class. VII, p. 125. E Poggio al Niccoli, in data del 3 novembredell’anno precedente. ! Il Poggio gli annunziava : ‘ quidam monachus amicus meus ex quodam monasterio Germaniae,qui 0lim a nobis recessit, ad me misit litteras, quas nudius quartus accepi; per quas scribit se reperissealiqua uolumina de nostris, quae permutare uellet cum Nowuella Ioannis Andreae, uel tum Speculo, tumAdditionibus, et nomina librorum mittitinterclusa .. Inter ea uolumina est Iulius Frontinus et aliqua opera Corn.Tac. nobis ignota. Videbis inuentarium,et quaeres illa uolumina legalia, si reperiri poterunt commodo’ pretio. Libri ponentur in Nurimberga, quo et deferri debent Speculum et Additiones, et exinde magna estfacultas libros aduehendi. Vt uidebis per inuentarium, haec estparticula quaedam, nam multi alii restant ; scribit enim in hunce modum: « sicuti mihi supplicastis denotando poetas, ut ex his eligeretis quiuobis placerent, inueni multos e quibuscollegi aliquos, quos in cedula hac inclusa reperietis La lettera del Panormitae quella del Poggio convergono nella notizia della stessa scoperta, che ilprimo accenna con particolari minuti, mentre il secondo, tranne per le determinazioni concernentiFrontino e Tacito, si rimette all’ inventario; e convergono anche nella notizia, che nel luogo della scoperta degliautori mentovati abbondavano libri antichi, parte già in uso e parte ancora ignoti. ® La notizia al Poggioprovenne dal mo 1 La data del 1425 è segnatanell’ ed. Tonelli dell’ epistol. delPoggio, Firenze 1832. ? Panorm.:“hi et innumerabiles alii quiin manibus uersantur, et praeterea alii fortassequi in usu non sunt, uno in loco simulsunt’. Pogg. :‘ haec est particula quaedam, nam multi haco che, appresso, èdetto ‘ Hersfeldensis ° !; ma dondeprovenne la notizia al Panormita? quale inventario o nota di libri glifudato di osservare, per indicare poi contanta precisione il principio dell’ Agr., dei libri di Frontino, deldialogo de oratoribus e del libro di Suetoniode gramm. et rhetoribus? Egli fa cenno di un suo ‘ coniunctissimus ’, al quale sarebbero statimandati i libri ‘ propediem ’, e daquesto a lui ‘proxime et de repente ’.Perciò o il monaco hersfeldese, oltre all’avere iniziato delle trattative colPoggio, trattò anche dello scambio deicodd. del suo monastero coi libri che desiderava, con qualche umanista amicodel Panormita; ovvero il Panormita attinse la notizia, che egli comunica al Guarini, direttamente dal Poggio, tantopiù che allora egli era in sì buoni rapporti di amicizia col Poggio da mandargli, per mezzo del suo discepolo edamico Giovanni Lamola, l’Ermafrodito, ericevere da lui delle magnifiche lodi ® insieme con l’ avvertimento (non bene accolto) di scegliere argomenti piùserii per i suoi carmi. alii restant ’; cf. epist. 1. lib. III, del14 settembre 1426 :‘ quin etiam dedioperam, ut habeam inuentarium cuiusdam uetustissimi monasterii in Germania, ubiest ingens librorum copia’. Questeaffermazioni dovettero provenire dalla frase ‘inueni multos’ e. q. s., che si legge in quellaparte della lettera del monacohersfeldese, che è ripetuta dal Poggio.1 Poem epist. III 12 T. ‘ monachum illum ,Hersfeldensem ’. 2 Poggi epist. ll 40 T.: ‘ laudo igiturdoctrinam tuam, iucunditatem carminis, iocos et sales; tibique gratias ago proportiuncula mea, qui Latinas Musas, quae iamdiu nimium dormierunt, a somnoexcitas.’ L’ epistola presenta la data 3 aprile 1426, perciò è contemporanea, oforse di pochi giorni anteriore, a quella scritta dal Panormita al Guarini,Così non si può discompagnare la scoperta dellaGerm., indicata dal Panormita, dalle pratiche iniziate dal Poggio col monaco hersfeldese per aversi,insieme con altri codd., ‘ uolumen illudCorn. Taciti et aliorum, quibus caremus’.! Son note, dall’ epistolario del Poggio, le vicende di tali pratiche; ® masi ignora quali possano essere stati irisultamenti finali di esse. Si satuttavia con quale pertinacia insistessero i cercatori di opere classiche nell’ età del Rinascimento, ein ispecial modo il Poggio e il Niccoli;talchè non è improbabile che alla fineil monaco hersfeldese, dopo il vivo rimprovero che gli inflisse il Poggio e laminaccia di non ottenere nulla, venutomeno il favore del Poggio medesimo, quanto alla lite che a nome del suomonastero da più anni sosteneva dinanzialla Curia, 3 si fosse indotto a portargli il cod. promesso. * Nè fameraviglia che il Poggio, avuto il cod.,ne abbia conservato assoluto silenzio nell’ interesse suo, sia a vantaggiodei 4 Poca epist. III 12 T. Il Voret(trad. VALBUSA, II 4, vol. I, P. 254)vorrebbe farla risalire alla scoperta fatta, nel 1422 in Germania, da Bartolomeo Capra, arcivescovo diMilano; e del parere del Voigt è ilSABBADINI (v. Studi ital. di filolog. class.VII, p. 128 sg.). Ma danno motivo a dubitare di ciò) le osservazionifatte dal Poggio, in riguardo a tale scoperta, nella lettera al Niccoli, del 10 giugno 1422 (epist. I21). ? Pocair epist. III 12; 13; 14;19; 29. 3 Pogcir epist. III 29 T. (26febbr. 1429): ‘ monachus Hersfeldensis uenit absque libro; multumque est a meincrepatus ob eam causam: asseuerauit secito rediturum, nam litigat nomine monasterii, et portaturum librum. Rogauit memulta: dixi me nil facturum, risi librum haberemus; ideo spero ot illum noshabituros, quia eget fauore nostro”. 4VOIGT-VALBUSA, op. c., II 4, vol. I, pp. 255-256. REN nosuoi negozi librari, sia a causa delle vie tortuose e non sempre legittime allora seguite per venire inpossesso di codd. preziosi. Egli stessodichiara al Niccoli, in occasione che questi gli aveva prestato l’ esemplareallora noto di Tacito (oggi cod. Medic. II): ‘ Cornelium Tacitum, cum uenerit,obseruabo penes me occulte. Scie enimommem illam cantilenam, et unde exierit, et perquem, et quis eum sibi uindicet, sed nil dubites, non exibit a me ne uerbo quidem.’ ! Nè osta ilgiudizio espresso dal Poggio, nella lettera del 17 maggio 1427, sull’ inventario portato dal monaco diHersfeld,® cioè che questo inventarioera ‘ plenum uerbis, re uacuum ’, e chenella parte del medesimo inventario, mandata alNiccoli, concernente Tacito ed altri scrittori, vi fossero ‘ res quaedam paruulae, non satis magno...aestimandae ’ ; onde egli era caduto ‘ex maxima spe, quam conceperat ex uerbis suis.’ Perciocchè, se in realtà fossestato di sì poca importanza e di sìminimo pregio il cod. promesso, per qualmotivo avrebbe il Poggio tanto insistito per averne il possesso, come egliattesta nelle due lettere che scrissepoi al Niccoli, l’ una del 31 maggio1427 e l’altra del 26 febbraio 1429? ® Anzi,nella prima delle due lettere citate, dichiara espressa mente di aver meglio che per altri. codd.provveduto ‘ al modo di aversi il ‘uolumen ’ di Cornelio Tacito, ‘ quomaxime indigemus, id quidem imprimis est, quod uolo: 1 Poee epist. III 14 T. (27 settem. 1427).In conferma del silenzio che tenevasi sui risultamenti delle investigazioni edelle pratiche iniziate con mercatantidi codd. e con monasteri, v. l’epist. II 1.2 Poca epist. III 12 T. 8 Pogeliepist. III 13; 29, in fine, T. POR; Equin mandaui isti monacho, ut uel ipse secum deferret, nam credit serediturum brevi, uel per alium monachum curaret deferendum : alios (sc. libros)iussi portari Nurimbergam, hunc uero Romam proficisci recta uia, et ita se facturum recepit ’. Il Poggio aveva osservato, nell’ inventariopresentatogli dal monaco hersfeldese, dei libri classici che erano ormai acquisiti alla repubblicaletteraria ; e ne traeva argomento permostrare l’ ignoranza del frate che,credendo nuovo per tutti quello che esso frate non sapeva, aveva infarcito l’ inventario dilibri già noti, ‘qui sunt iidem(soggiunge il Poggio al Niccoli ') dequibus alias cognouisti’. Probabilmente il Poggio dovette vedere anche indicato nell’inventario delmonaco hersfeldese quel tanto che già conoscevasi delle Rist. e degli ann. di Tacito, e che egli stesso aveva avutooccasione di leggere nell’esemplare,scritto ‘ litteris antiquis ’, che siapparteneva a Coluccio Salutati o ad altri, e poi si ebbe 1’ agio di osservare in un altroesemplare ( oggi cod. Medic. II ) ,scritto ‘ litteris Longobardis ’, prestatogli dal Niccoli ? ed a questorestituito per mezzo di Bartolomeo de’Bardi. * Perciò egli nutrì la speranza divenire presto in possesso anche di qualcuno dei primi libri degli annali, che forse nell’inventarioerano adombrati con qualche indicazione diversa da quella data comunemente per il codice già noto; ovveronella presunzione che il frate, ignorante di studi umanistici, non avesse saputo determinare con chiarezza ilcod.posseduto, 1 Poco epist. III 12T. ? Pogau epist. III 15 T. (21 ottobre1427). 3 V. il poscritto della letteradel Poggio al Niccoli, in data del 5giugno 1428 (III 17 T.) I e da ciòla possibilità che questo cod. peravventura contenesse altre parti non note dell’opera tacitiana; ovvero per qualsivoglia altra ragione che a noi nonè dato investigare. In tal modo può avere una spiegazione plausibile l’insistenza del Poggio nel pretendere dalfrate la consegna del ‘ uolumen Taciti ’, non ostante che prima, dato uno sguardo superficiale all’ inventario ,fosse rimasto disingannato di quantoaveva sperato, e perciò avesse sì pocopregiato i libri indicati e avesse notato di trattarsi di ‘ res quaedamparuulae , non satis magno aestimandae’; chè, ‘si quid egregium fuisset ’,serive egli al Niccoli, ‘ aut dignum Minerua nostra, non solum scripsissem, sed ipse aduolassem, utsignificarem ’.! Ed a rinnovellare lesperanze venute meno nell’animo delPoggio avrà certamente contribuito il discorso fattogli da Niccolò da Treviri, uomo dotto ‘ et, utuwidetur, minime uerbosus aut fallax ’, intorno ad un libro di Plinio sulleguerre germaniche. * In questo libro plinianoil Poggio dovette subodorare i primi libri degli annales, perchè, comebene avverte il Voigt, questi « nonportavano più verun nome d’ autore »;? e però, mentre da un cantoiniziava, sebbene con una certa dubbiezza, delle pratiche col Trevirese peraversi il cod. 1 Poggi epist. III 12T. 2 Poca epist. III 12 T. (17 maggio1427): ‘ de historia Plinii cum multainterrogarem Nicolaum hune Treuerensem, addiditad ea quae mihi d.xerat, se habere uolumen historiarum Plinii satis magnum; tunc cum dicerem, uideretneesse /istoria naturalis, respondit se hunc quoque librum uidisse legisseque,sed non esse illum, de quo loqueretur;in hoc enim bella Germanica contineri '.3 VoIGT-VALBUSA, Op. c., II 4, vol, I, p. 252. rm BIpliniano, ! dall’altro canto, per meglio riuscire nel suo intento, onorifico e al tempo stesso lucroso,è possibile che abbia sollecitato ancheil monaco hersfeldese per lo stesso cod.pliniano, in cui, come si è detto, credevadi potere rinvenire i libri perduti degli ann.; ma di questa secondapratica nulla scriveva in particolare alNiccoli, a cui soltanto prometteva, protestando la sua sincerità , di dire a suo tempo quantopotesse interessarlo ?. Le pratichecol Trevirese nel primo periodo non dovettero approdare a nulla, poichè costui,trattato malamente dalla Curia, se ne era allontanato sì malcontento da nonvolerne sentire più di libri o di altro; 3onde il Poggio si propose di mandare qualcuno in Germania, che curasse di portargli i libridesiderati, 4 1 PocaIr epist. III 12 T.‘adhuc neque despero, neque confido uerbis suis (sc. Nicolai Treuerensis) litterae sunta quodam socio suo, cui librorummittendorum curam delegauit, se misisse libros Francofordiam, ut exindeVenetias deferrentur ’. Notisi quantomistero in quei negoziati, forse per non suscitare i sospetti degliamministratori dei monasteri, dai qualivenivano esportati, probabilmente per vie illecite, quei codd. preziosi. Era forse ad Augsburg o a Dortmundil luogo in cui conservavasi il cod,pliniano dei bella Germaniae (cf. MaAssMANN, Op. c., p. 179), ovvero nellastessa Frankfurt a/M? Hersfeld non è molto distante da questa città. 2 Pogcit epist. III 12 T. ‘ hie monachuseget pecunia: ingressus sum sermonem subueniendi sibi, dummodo ...... etnonnulla alia opera quae, quamuis ea.habeamus, tamen non sunt negligenda, dentur mihi pro his pecuniis haec tracto; nescio quid concludam: omnia tamen a me sciespostea. 3 PogaIr epist. III 13 T. (31maggio 1427): cf. epist. III 14 (27settembre 1427). 4 Pool epist.III 13 T. ‘ ego solus uolui aliquem mittere in ns BA: nMa dopo non guari Niccolò da Treviri riapparve nel movimento delcommercio librario :! nessun vantaggioebbe a ricavare il Poggio dal ritorno del Trevirese, in quanto al codice pliniano delle guerregermaniche e, fors° anche, in quanto ailibri di Tacito non ancora noti? Certonon viè documento, apparso fin oggi, checi dia in proposito notizie precise. Ma il Voigt bene avverte non essere probabile che il Poggio edil Niccoli vi avessero rinunziato, e «quel silenzio non sì spiegherebbe meno, se il codice fosse venuto in Italia pervie segrete ». ? Intorno ai risultamenti definitivi dellepratiche a lungo continuate tra il Poggio e il monaco hersfeldese, non è improbabile la congettura del Voigt,che e per le vive insistenze del Poggiostesso e per l’ efficacia indubitata deldanaro mediceo, alla fine il codice (* uolumen illud Corn. Taciti et aliorum,quibus caremus’ ) sia stato portato aRoma o a Firenze; « diversamente,soggiunge il Voigt, quegli amici umanisti non si sarebbero dati piùpace. Ma le vie difficili e tortuose,con cui si giunse ad averlo, spiegano abbastanza, perchè il libro siastato tenuto nascosto per una interagenerazione, dissimulandone il possesso, come quello delle due parti degli annali ».* Or, siconserva un cod. su cui si modellò la ‘ed. princ. ’? stampata a Venezia,probabilmente da Vindelin da Spira, verso il 1469 o il Germaniam, qui curaret libros huc afferri:sed nolunt qui nolle possunt, etdeberent uelle”. 1 PoccI epist. III 29(26 febbraio di e IV 4 T. (27 dicembre 1428).2 VoIGT-VALBUSA, Op. c., Il 4, vol. I, p. 252. 3 VoIGT-VALBUSA, Op. c., II 4, vol. I, p.256. i È 1470: esso contiene gli. ultimi libri degliann. uniti, mediante numerazionesuccessiva, coi libri che restano delleRist. ?, poi la Germ. e il dial. ; è il cod. Vindobonensis del sec. XV, discrittura bella ma non accurata, che aMattia Corvino, re di Ungheria, provenne, senzadubbio, da Firenze.? Il cod. Vindobon. porta la data del 1466, perciò è posteriore alla morte delPoggio‘: non putrebbe, per tanto, esserestato una copia, fatta con pocadiligenza da qualcuno degli scribi del Poggio, sul cod. primitivo o sur un apografo, venuto a Roma oa Firenze, di provenienza hersfeldese? «Non è punto provato, avverte ilRamorino, che tutti i Taciti diffusisi nel 400provenissero dal secondo Mediceo ».° Sicchè, se la nostra congettura,avvalorata dalle ricerche precedenti enon contrastata da alcun documento, è attendibile, non è forse da ammettersi che il fratehersfeldese, ottemperando alle pressanti richieste del Poggio, abbia aggiunto,1 Seguo l'opinione del Massmann, op. c., p. 23, accolta dg Carlo Castellani, il quale, in una notasegnata sulla copertina dell'esemplareche conservasi nella bibl. V. E. di Roma, attribuisce la ‘ princeps’ a Vindelinda Spira. Vedi’ introd. all’ ed. delleopp. di Tac. fatta dal Jacob, 1885, vol. I, p. XXXV.. ? Ma delle hist. mancano gli ultimi trecapp. del lib. V, cioè 24, 25, 26 ecirca metà del c. 23: si giunge sino alle parole ‘nauium magnitudine potiorem * (V 23), comenel cod. Vatic. 1863. 3 Il Massmann, ilMichaelis ed altri edd. di Tac. fanno menzione del cod. Vindobon.: di propositone tratta il HimER, in Zeitschrift furdie bsterr. Gymn. 1878, p. 801. 4 IlPoggio mori il 30-X del 1459: v. i fonti di questa data nell’ opusc. di G. A. CESAREO, un bibliofilodel quattrocento, p. 5, 2.à eol., nota 2(estratto dalla riv. Natura ed arte, a. I, 1891-92). 5 RAMORINO, disc. c., p. 96, nota 49. CONSOLI: L’ autore della Germania. 5 ASTRAca Bi probabilmente in copia, al‘ uolumen Corn. Taciti * una parte,l’introduzione forse, insomma quel che aveva potuto avere, del cod. plinianodelle guerre germaniche, nel quale ilPoggio si aspettava di rintracciare i primi libri degli ann. tacitiani? Ne sarebbe cosìderivata, o per preconcetto del Poggio oper interessata annuenza del fratetedesco o di altri (non escluso Niccolò da Treviri) alle esigenti aspettative del Poggio, laintitolazione a Tacito di una parte deiGermanica bella di Plinio Secondo. Se,dunque, si ammette che fonte del cod. Vindobon.sia stato il cod. o l’apografo venuto dalla Germania per i lunghi e pertinaci maneggi del Poggio, etenuto per qualche tempo accuratamentenascosto in Firenze, si spiegaagevolmente il perchè fossero noti in Italia laGerm. e il dial. prima ancora che si avesse notizia dei codd. portati, sul declinare del 1455, daEnoch d’Ascoli.! 1 Nella bibl. diCesena si conserva un ms. della Germ., che,secondo il cat. del Muccioli, appartiene forse al sec. XIV. Tale indicazione apparve inesatta al LEHNERDT(Enoche v. Ascoli und die Germania desT.s, in Hermes, vol. XXXIII, fasc. 3°, p.504), perchè nel ms. è disegnato lo scudo e il nome di Malat[esta] N[ouellus],vicario apostolico di Cesena e fondatore diquella bibl., morto nel 1465. Veramente la data del sec. XIV è da reputarsi molto anteriore alla vera: manon poteva il ms. essere stato copiatosur un cod. o un apografo anteriore alla divulgazione dei libri portati daEnoch in Italia? non era forse Malat.Novello in vita ed in grande autorità prima del1455? Un altro ms, della Germ., più corretto del precedente, è incluso nel cod. segnato D IV 112, che siconserva nella bibl. Gambalunga diRimini; porta la data del 1426, secondo il cat.del prof. Attilio Tambellini (v. G. MAZZATINTI, inventari dei mss. delle biblioteche d' Italia, Forlì 1892, vol.IL, p. 165, n.° 23), la 607 II.Per altra via, qualche tempo dopo, gli umanisti del ‘400 ebbero di nuovonotizia della Germ. : se ne ascrive ilmerito ad Enoch di Ascoli. ! Era questiun mediocre erudito, ? che aveva passato alcuni anni in Firenze, prima quale maestro dei figli diCosimo de’ Medici, e poi con l’ ufficiodi ripetitore nella famiglia de’ Bardi;indi insegnò belle lettere in Ascoli ein Perugia. Sia per rapporti personali che egli aveva col papa, sia perautorevoli lettere commendatizieconcesse da Cosimo de’ Medici, a cui era stato prima raccomandato dal dotto Ambrogio Traversari,generale dell’ ordine dei Camaldolesi$fu prescelto da Niccolò V per fare dellericerche di codd., specialmente delle deche perdute di T. Livio, nelle bibliotechedelle chiese quale data il LEHNERDT(I. c., p. 505) e R. RETZENSTEIN (zur Texrtgeschichte der Germania, inPhilologus vol. LVII (n. s. XI), fasc.2°, p. 367 sg.) ritardano giustamente sino al 1476; tanto più che chi scrisse l’apografo, certoRainerius Maschius da Rimini, dichiaradi averlo scritto allorchè ‘ dicebatur oratoresimperatoris et regis Gallorum et aliorum ultramontanorum uenire adoranlum Sixtum IIII pontificem'; perciò dopo il 1471, anno in cui fu assunto alla tiara Sisto IVdella Rovere. 4 Per i funti dellenotizie intorno ad Enoch d'Ascoli, v. ALFREDo REUMONT, aneddotistorico-letterari, in Archivio storico italiano, serie III, t. XX (1874), pp.188-189. VOIGT-VALBUSA, OP. C., vol. II,pp. 192-194. 2 Si deve riconoscere unencomiv esagerato in quel che scrisse dilui Gius. LENTO, clarorum Asculanorum praeclara facinora, Romae 1622, p 37: ‘ Enochus, sapienti etaltiore mente praeditus, omnem mouere lapidem, donec res (cioè, la scopertadi codd. antichi) prospere scilicetcesserit. quam ob rem non solum nutantes litteras Latinas confirmauit, uerumGraecam facundiam tuendo melius propagauit latius.' 3 A. TRAVERSARII epist., p. 335, ed.Mehus. 6R e dei chiostri dell’ Europa settentrionale.Enoch partì per il suo viaggio diesplorazioni letterarie nella primavera del 1451 : visitò l’ isola di Seeland,e di là scrisse una comunicazione a Leon Battista Alberti.! Poi non diede più notizie di sè,” salvo quelleaccennate dal Poggio in una lettera, con la frase sarcastica: ‘ EnochEsculanus, qui adeo diligens fuit, ut nihil iam biennio inuenerit dignum etiam indocti hominislectione ’.8 Probabilmente, se si accoglie la testimonianza del Filelfo,* Enoch penetrò nella penisola scandinava. Nonsi ha alcuna notizia intorno alla viadel ritorno: è possibile che abbiapercorso, per fare ritorno in patria, la Germania e vi abbia fatto delle indaginiper iscoprire dei codici. Si conservaancora nell'archivio di Kònigsberg ilbreve, con cui Niccolò V raccomandava al gran maestro dell’ Ordine teutonico,Ludwig von Erlichshausen, il ‘ dilectumfilium Enoch Esculanum qui diuersa locaet monasteria inquirat, si quis ex ipsis deperditis apud uos libris reperiretur ’.5 Ma non èprovato da alcun 1 GrroL. MANCINI,vila di L. B. Alberti, Firenze i882, p. 328 sg. 2 Onde il Poggio ironicamente scriveva: ‘ille enim Enoch adeo solers et diligens fuit, ut ne uerbum quidem ad meadhuc scripserit’; epist. X 17 T. (22gennaio 1452 [1453]). 3 Poca epist. IX12: la lettera non porta data; è probabileche sia stata scritta nel 1453.4 Nella lettera del Filelfo a Callisto III, del 19 febbr. 1456, (epist. Ven. 1502) si legge: ‘is enim Enochus in Daciam(/. Daniam) usque profectus est, et, ut referunt aliqui, in Candauiam (. Scandinauiam) usque, quae quam longissimeultra reliquas omnes insulas, de quibusexstet memoria apud priscos rerumscriptores, posita est in mari oceano e regione Germaniae ad septentrionem ’. 5 VOIGT-VALBUSA,Op. c., V ©, vol, II, p. 193,lm documento, che Enoch sia statoin Hersfeld ed abbia fatto dellericerche in qualche monastero di quella città. E, del resto, a qual fine visitare i monasteridi Hersfeld, per i quali egli avrebbe «senza dubbio ricevuto istruzioni esatteda Poggio »,' se il monaco tedesco, con cui ebbe a trattare il Poggio per il‘ uolumen illudCorn. Taciti et aliorum ’, era, è vero,« nativo di Hersfeld », ma « stava nelconvento di Niirnberg, e andava e tornava spesso da Roma per interessi del monastero»,° cioè del monastero norimberghese ?In ogni caso, non sarebbe una congetturapriva di fondamento, che Enoch, nel suoviaggio di ritorno, avesse visitato qualcunodei monasteri di Nirnberg, secondo le possibili istruzioni dategli dalPoggio. Enoch ritornò a Roma suldeclinare del 1455, 5 portando seco alcuni codici ; ma non vi trovò lieteaccoglienze, come egli sperava, perchè Niccolò V, suo protettore, era morto, eil nuovo papa Callisto III nonmostravasi benevolo verso gli umanisti e le loro ricerche letterarie. Aggiungasi che gli eruditi, tantoa Roma quanto a Firenze, non mostravanobenevolenza per lo Ascolano, poichèquesti si era deciso a non concederecopia alcuna de’ suoi codd., prima che fosse stato. degnamenterimunerato delle sue fatiche. Scriveva, infatti, 1 Studi ital. di filol. class. vol. VII, p.130. ? Studi ital. di filol. class.vol. VII, p. 128. 8 « Forse nelnovembre », aggiunse VITTORIO Rossi nella nota: l'indole e gli studi diGiovanni di Cosimo de’ Medici, notizie e documenti; pubblicata nei Rendicontidella R. Accad. dei Lincei, classe discienze morali, storiche e filologiche : es=tratto dal vol. II, fasc. 19, Roma 1893. A p. 34 sg., n. 4, lo dimostraampiamente, A] Je Carlo de’ Medici, protonotario apostolico ,al fratello Giovanni: « sì che vedete sevolete gettare via tanti danari percose, che la lingua latina può molto benefare senza esse, che a dirvi l’oppenione di molti dotti uomini, che gli anno visti, da questi quattroinfuori che sono segnati con questosegno x, tutto il resto non vale unafrulla ».'! Ciò non ostante Carlo de’ Medici mandò al fratello, insieme con la lettera cit.,l’inventario dei codd. portati da Enocb.Su questo inventario si deter-. minòmeglio l’opinione punto benevola che i dotti fiorentini si erano formata per loscopritore : di essa si rese interpreteVespasiano da Bisticci che, per ispiegarequel che tenevasi cattivo risultamento del viaggio fatto da Enoch per investigazioni letterarie ,scriveva nella sua biografia del «maraviglioso grammatico » : « istimo cheprocedesse per non avere universale notizia di tutti gli scrittori, e quegli che erano e quegliche non si trovavano ». # Or, come mai si può conciliare tanta noncuranza , nondiciamo dispregio , per i codd. scopertidall’ Ascolano, se tra questi era compreso quel codice hersfeldese, o meglio norimberghese, per ilcui possesso si era sì lungo tempo e contanta persistenza affaticato il Poggio, d’ accordo col Niccoli ? Non èlecito forse da questa contraddizioneargomentare che il cod., che si vuoldire hersfeldese, fosse probabilmente venutoprima in possesso del Poggio? 3 Sarebbesi questi mo 1 GAxE, carteggio I, p. 163 sg. Vitt. Rossi,opusc. c., II, p. 27. La lettera delMedici porta la data del 13 marzo 1456, st. com.; 1455, st. fior. ? VESPASIANO, vile d'uomini illustri delsec. XV, ed. Bartoli, p. 511. 8 Volet-VALBUSA, Op. c., V 5, vol, II, p.194, nota 2: suppone si strato così indifferente per le scoperte diEnoch, e avrebbe con la sua indifferenzaprovocato quel giudizio sì freddo ealtezzoso della scuola umanistica fiorentina, sulla quale’ valeva molto la sua grande autorità, se nonavesse posseduto prima del ritorno diEnoch, avendolo in un modo qualsiasiottenuto, un esemplare del cod. che perlunghi anni aveva così vivamente ambito ? III.Enoch, disingannato per la fredda accoglienza avuta e dai dotti umanisti e dai principimecenati , si ritirò ad Ascoli, dovepoco dopo mori. Quand’ egli si ricoverònella sua città nativa, dovette portare seco icodici che, per la forte remunerazione che si aspettava di duecento o trecento fiorini, non avevapotuto trovare occasione di cedere adalcuno; e che egli avesse. con sè idetti codici prima di morire, c’ induce ad ammetterlo una lettera delprotonotario apostolico Carlo de’Medici, del 10 dicembre 1457, nella quale questi serive al fratello Giovanni che, avuta notizia dellamorte di Enoch , sì era affrettato ascrivere a Stefano de’ Nardini, da Forlì, allora « governatore di tutta laMarca », per pregarlo di mandargli, senon gli originali, almeno le copie deicodici dell’ Ascolano. ! Non si haalcuna notizia certa intorno alle personeche vennero in possesso dei codici portati da Enoch. Quando questi giunse a Roma, dopo la sualunga peregrinazione per i paesi nordici, dovette certamente, oltre al presentare degli elenchi dei libriscoperti, permettere anche di osservarei libri stessi; ma non permise a nes chenell’ elenco di Enoch non fossero stati inclusi gli scritti di Tacito e di Suetonio. 1 Vitt. Rossi, opusc. c., VIII, p. 30. nazsuno di trarne copia, prima che gli si fosse data una degnaremunerazione per la scoperta fatta.! Perciò, finchè egli fu in vita, i codici che aveva scopertirimasero in suo potere. Aveva tentato, èvero, confortato forse dalle esortazioni dell’ Aurispa *, di offrirli a reAlfonso; ma il risultamento delle nuovepratiche non dovette essere conforme aidesideri di Enoch. Non è però improbabileche, dopo la morte di Enoch, i codici di lui siano passati, mediante gliabili maneggi di Carlo de’ Medici e lacooperazione di Stefano de’ Nardini, nella biblioteca di Giovanni di Cosimo de’ Medici , e perciò aservizio degli umanisti fiorentini. Un’allusione a ciò pare di 1 Carlo de’Medici scriveva al fratello Giovanni, in data del 13 marzo 1456 (1455, st. fior.): « Lui(Enoch) per insino a qui non ha volutofarne copia a persona, imperò dice non vuoleavere durate fatiche per altri, e non delibera darne copia alcuna, se primada qualche grande maestro non è remuneratodegnamente, ed ha oppenione d’averne almanco 200 o 300 fiorini ». GAYE,Op. c., I, p. 163. Vitt. Rossi, opuse. c., p. 27. Sino al dicembre 1457, quando già era ‘avvenutala morte di Enoch, nè Carlo de’ Mediciné il card. di Siena avevano potuto avere gli originali o le copie dei librinuovi lasciati dal1 Ascolano : v. lett. VIII del 10 dicembre 1457, in Virt.Rossi, opusc. c., pp. 30-31. 2 V. la lettera dell’Aurispa al Panormita,del 28 agosto 1455, in SABBADINI, biogr.documentata di Giovanni Aurispa, Noto1890, p. 128; e v. la chiusa di un’altra lettera dello stesso Aurispa alPanormita, del 13 dicembre 1455, pubblicata nel cit. libro del Sabbadini, p. 133. Ma la data dellaprima lettera deve essere portata un po’ più tardi, probabilmente al 1457,come han dimostrato con validi argomentiil CESAREO, opuse. c., I, p. 4, col. 12,e il Rossi, opusc. c., pp. 34-35, nota 4.A RES scorgere in una letterascritta da Carlo de’ Medici, il 13gennaio 1458. ! In qual modo pervennead averne notizia, e come si ebbe l’agiodi farne l’apografo Gioviano Pontano, ilquale viveva lontano dai circoli letterari di Roma e di Firenze? Nessun documento ci aiuta, perora, a determinare una risposta precisa e certa al quesito proposto; e nulla c’è da spigolare nè da congetturare dalledue note attribuite al Pontano, che si leggononel cod. Leidens. Perizon. Ma è possibile che nuove ricerche sullevicende di alcuni codici di fonte (comecredesi) pontaniana , i quali si conservano nella biblioteca di Minchen,p. es. il cod. degli Argon. di Val.Flacco , ? e il cod. che contiene il libro Andreae Floci Florentini deRomanorum magistratibus ac sacerdotiis;* e nuove indagini negli archivi di Firenze e di Napoli chiariscano le relazioniche ebbe il Pontano con gli umanistifiorentini, dai quali probabilmente si ebbe facoltà di prender copia dei codici d’ Enoch, che egli trovava ‘ mendosos etimperfectos.’ Ma le congettureconcernenti le relazioni del Pontano conla scuola umanistica fiorentina non tolgono la pos 4 Nella cit. lettera del Medici (v. Rossi,opusc. c., IX, p. 31) si legge: « Peruna vostra sono avisato come aveste la letterami scrisse m. Stephano de Nardinis supra quelli libri di Enoc; non ho poi altro, ma non dubitate che peressere il primo che gl’abbia,non v’àanno acostare uno denaro di più ». Il Rossituttavia resta in dubbio « se queimaneggi sortissero l’effetto desiderato » (pag. 39). 2 Nel cod. Lat. 802 (cod. Victorin. 123)leggesi appunto l' annotazione ‘emit Florentiae Iouianus ’. 3 Nel cod. Lat. 822 (cod. Victorin. 162) c'èla nota ‘ est Iouiani Pontani. Florentiae, MCCCCLXV III ', isibilità, che egli sia venuto a conoscenza dei codici enochiani, peracquisto che abbia fatto degli stessi lacorte di Napoli; sebbene, in tal caso, non ci sarebbe stato altro scopo per trarne copia, chequello di correggerne le mende numerose. Ma nessun documento nè indizio ci aiuta per affermare o congetturareciò. Fatto certo è che il così dettocod. hersfeldese, quale fu portato daEnoch a Roma, non si conservò in nessuna biblioteca: era scritto su paginedivise in colonne, e per la Germ. presentava (se quanto afferma il Decembrio, èda riferirsi al cod. anzidetto !) la particolarità dell'uso della v.‘inscientia ? nel cap. 16, 6, invece di‘inscitia’; mentre, come è noto, nel sec. XV era invalsa generalmente l’ usanza di scrivere lepagine dei libri per intero, senzadividerle in colonne; e in> oltre, innessun cod. della Germ., finora conservato,osservasi la v. ‘ inscientia ’ nel 1. c. ? IV.Quanto all’ elenco dei libri portati iu Italia da Enoch d’ Ascoli, non abbiamo testimonianzedel tutto concordi nè complete.Bartolomeo Platina ne nota due: il de recoquinaria di Celio Apicio e il comm. ad Orazio di Porfirione.* Degli stessidue libri fa menzione Vespasiano daBisticci. 4 1 Vedi SABBADINI, il ms.hersfeldese etc., in Rio. di filol. e d’i.cl., a. XXIX (1901), p. 262. ?Soltanto il cod. della bibl. Angelica (‘ Augustinorum’ ) Q 5, 12 del 1466, e il cod. Kappianus (K delMassmann) presentano “iusticia’ invecedi ‘ inscitia ”. 3 PLATYNAE de uitismax. pont. hist. periocunda, Venet. (Ph.Pincio Mantuano) 1511, fol. 150,4 VESPASIANO, l. c. Par |pes Il Panormita apprese da TeodoroGaza che tra le scoperte enochiane eranoApicio e un Caesaris iter;! e l’Aurispa,in una lettera del 13 dicembre 1455, diretta alPanormita, enumera: a) l’Apicio, cui chiama ‘ pauperem coquinarium ’, inferiore nell’arte culinariaalla sua cuoca; b) il Caesaris iter, che ‘ prosa oratione est, non uersu’; c) il commento di Porfirione, che alui sembra ‘ magis aestimandus quam quicquam aliud ab ipso allatum ?.* Il ‘ quicquam aliud ’ della frasedell’Aurispa può tanto riferirsi ai duelibri menzionati prima, Apicio e il Caesaris iter, quanto alle altre novitàlibrarie recate da Enoch, le qualil’Aurispa non credeva degne di essererammentate; chè non può supporsi che eglile ignorasse, se scriveva al Panormita: ‘eum qui codices hos inuenit etRomam perduxit ad uos mittam cum omnibusmusis suis”. Carlo de’ Medici chiedevaa Stefano de’ Nardini che dei codicinuovi lasciati da Enoch, morto ad Ascoli,gli mandasse: « Appicius de re quoquinaria, Porfirione sopra Oratio, Suetonio de uiris illustribus,Itinerarium Augusti ».* Dovevano esseregli stessi quattro libri che aveacontrassegnati nella lettera del 13 marzo 1456a Giovanni de’ Medici; poichè il resto dei libri portati dall’Ascolano non valeva, secondo lui, « unafrulla » ‘. 1 Nella lettera del Panormitaall'Aurispa (v. SABBADINI, dbiogr. doc.di G. Aurispa, p. 133, n. 1) si legge: ‘ fac tecum deferas Apicium coquinariumet Caesaris « iter », nuperrime, ut refertTheodorus tuus nunciam meus, inuentos Romamque perductos ’. 2 La lettera dell'Aurispa è cit. a p. 72,nota 2.* 8 Di questo incarico dato alNardini egli scrive al fratello Giovanni, nella lett. del 10 dicembre 1457: v.VITT. Rossi, opusc. c., VIII, pp.30-31. 4 Vitt, Rossi, opusc, cit., II,p. 27. TR (; pere Talchè ai tre libri che già conosciamo perle testimonianze sopra indicate, bisogna aggiungere, secondo quel che scriveva Carlo de’ Medici, il libro diSuetonio de uiris illustribus (non degrammaticis et rhetoribus). Oltre questiquattro libri, null’ altro sappiamo degli altri libri portati da Enoch.' Nè ariempiere la lacuna può valere latestimonianza, testè data alla luce, di P. C.Decembrio; poichè questi non dice, nè lascia in alcun modo intendere, che i quattro libri segnatinella nota (Germ., Agr., dial. de oratoribuse Suetonio) si debbano comprendere tra le recenti scoperte di Enoch. L’a. 1455 a cui, nella nota del Decembrio, siaccompagnano le parole ‘ Cornelii tacitiliber reperitur Rome uisus ”, vale aindicare in qual tempo l’autore dello zibaldoneebbe notizia o vide i libri che nota nell’ elenco, non la data della scoperta di Enoch; chè, seintendimento di lui fosse statoaccennare in un modo qualsiasi taledata, avrebbe certamente aggiunto qualche parolaanaloga a quelle che siosservano nella nota del cod. Leid.Perizon. ‘ nuper adinuentos et in lucem relatos ab Enoc Asculano ?.: Nulla, per tanto, osta ad ammettereche il Decembrio abbia potuto attingerele notizie che trascrive nel suozibaldone a tutt’ altra fonte, che non a quella dei co 1 Appare inesatta l’asserzione, che nellalista di Carlo de' Medici sia notata lasola opera di Suetonio « certamente perchè essa nel cod. occupava il primoposto » (v. Studi ital. di filol. class.vol. VII, p. 130, nota 4); perocchè , argomentando da una nota di Pier Candido Decembrio (Riv.di filol. e d'’ i. cl., a. XXIX (1901),fasc. 2°, p. 268) l’opera di Suetonio occupava, invece, nel cod. l'ultimoposto. dici portati da Enoch! : probabilmente le avrà attinto al codice del monaco hersfeldese, in quanto cheverso la metà del sec. XV questo cod.doveva essere già pervenuto tra le mani del Poggio. Il Decembrio, come è noto, sin dal 1450 era al servizio dellaCuria romana. Se, al contrario, sivolesse ammettere che il Decembrio fossestato uno dei primi, anzi risolutamente il primo ?, a vedere il così detto cod. hersfeldese delleopere minori di Tacito, portato in Italia da Enoch, si andrebbe incontro ad un’affermazione indubitata diCarlo de’ Medici, il quale scriveva al fratello: « a dirvi l’oppenione di molti dotti uomini, che gli Anno visti(cioè, i libri portati dall’Ascolano),da questi quattro infuori che sono segnati...., tutto il resto non vale unafrulla » :3 e i quattro libri, l'abbiamoosservato sopra, erano Apicio,Porfirione, Suetonio e l’Itinerarium. Sarebbe stato mai possibile che i quattro libri segnati nellanota del Decembrio fossero statigiudicati per « una frulla » da queidotti uomini, che costituivano, diremo così, il fiore della scuola umanistica romana nel sec. XV? È da notarsi, inoltre, che il librodi Suetonio, accennato da P. C. Decembrio, ha per titolo de grammati 4 Si noti la differenza tra il tit. dellaGerm. segnato dal Decembrio (de origine et situ Germaniae) e quello scritto nelcod. Leid. Perizon. (de origine situmoribus ac populis Germanorum), attribuito al Pontano. Se il Decembrio e loscrittore del cod. cit. avessero attintola denominazione della Germ. alla stessa fonte, non avrebbero certamentemostrato alcuna discrepanza quanto al tit. del libro. ? Così opina il Sabbadini : v. Rio. difilol. e d’i. cl., a. XXIX (1901), p.263. 3 Lett, cit. del 13-III 1456: v,Vitt. RossI, opusc, c., II, P. 27. nunE cis et rhetoribus, il quale noncorrisponde al tit. de viris illustribus,che si legge nella lettera di Carlo de’Medici. Egli è vero che il secondo tit. include in sè l’altro, come il genere contiene la specie; ma untitolo preciso, tutto proprio, doveva averselo il libro di Suetonio, portato dall’Ascolano. Nel cod. Leid.Perizon. è scritto: ‘ Caii SuetoniiTranquilli de wiris illustribus liber incipit. » de grammaticis ’; e in fine lanota: ‘ amplius repertum non est adhuc.desunt rhetores XI”. Certo, l’indicazione del Decembrio risponde meglio al contenuto di quanto rimane dellibro di Suetonio ; mentre l’indicazione di Carlo de’ Medici si riferisce alle notizie che si avevano intorno ad un libro diSuetonio de wiris illustribus, del quale si era giovato S. Girolamo per scrivere le vite degli uomini illustri,dall'età degli apostoli sino a” suoitempi.' E non pare perciò improbabile la congettura, che Enoch, per indicarenell’ inventario il libro di Suetonio, avesse usato il titolo de uiris illustribus, a fin di attirar megliosui suoi codici 1’ attenzione dei dot ti; stante che allera era divulgata laleggenda, che Sicco Polenton (de’ Ricci), dopoessersi servito dell’ opera di Suetonio, per compilare il suo libro de scriptoribus linguae Latinae, 1’avesse distrutto col proposito di togliere qualsiasi prova a chi si fosse avvisato di accusarlo di plagio.? Inappoggio di tale congettura, vale moltola nota, attribuita al Pontano, cheleggesi nel cod. Leid. Perizon: in essa, oltre l’ invettiva contro SiccoPolenton per la pretesa distruzio iHieroNnyM. epist. XLVII ad Desiderium, t. I, col. 209, Veron. 1734; prol. ad Dextrum praet. praef. in libr.de uiris illustribus, t. II (1735), col. 807.? Vitm. Rossi, opusc. ne di quella parte del libro di Suetonio, ‘ quaeest de oratoribus ac poetis’, si traeoccasione di lamentare che BartolomeoFazio non avesse potuto, per l’ immatura morte (novembre 1457),' leggere loscritto di Suetonio, mentre componeva il libro de uiris illustribus temporis sui. Di modo che, con l’ intitolarede wiris illustribus il libro diSuetonio, si volle indicare il contenuto del libro molto maggiore del vero, nontanto, forse, per trarre in inganno chisi fosse deciso a comprare il codice, quanto per avvicinare la scoperta diEnoch al libro compilato dal Polenton edalle vite degli uomini illustri delFazio. Non si può disconoscere che, seEnoch aveSse portato seco degli scrittidi Tacito, così pregiati dai dotti umanisti del sec. XV, non avrebbe di certotralasciato di dar loro evidenza,compilando 1’ elenco dei libri scoperti durante il suo viaggio nell’Europasettentrionale. Nè è ammissibile chealla diligenza d’ un cercatore dicodici, scelto appunto per tali indagini da un pontefice di mente superiore ed’ illuminata liberalità, quale fu Niccolò V, fosse sfuggito il nome di Tacito,ove questo nome si fosse trovato scrittosul frontespizio di qualcuno dei codicio dei libri contenuti in uno stessocodice; nè l’intendimento di trarre vantaggio dal mettere in prima lineail nome di Suetonio poteva essere d’ostacolo , che si scrivesse il nome di Tacito accanto o anche dopo quello di Suetonio, se in realtàil nome di Tacito si trovava in fronte aqualcuno dei libri portati da Enoch inItalia. L’ importanza di Tacito nei 1ZENO, diss. Voss., Ven. 1752, p. 70 sg.80 giudizi degli umanisti delsec. XV non era inferiore a quellaattribuita a Suetonio. ! Molto menoattendibile ci sembra l’ avvertenza, chefu omessa la menzione del nome di Tacito nella lettera del Medici, 10 dicembre 1457, perchè questivide solo al principio del codice illibro di Suetonio. ®? Appare, infatti,da un’ altra lettera di Carlo de’ Medici, con la data « Roma, 13 marzo » (1456 st. com., 1455st. fior.),3 che egli ebbe sott’ occhiol’ inventario compilato da Enoch, non il codice, sul quale inventariocontrassegnò quattro libri, i migliorisecondo « l’oppenione di molti dottiuomini, che gli Anno visti ». E di più nella cit. lettera del*°10-XII 1457 non si fa elenco dicodici, ma solamente di libri, e traquesti il de wiris illustribus di Suetoniooccupa il terzo posto. Or, se Carlo de’ Medici vide 1’ inventario presentato daEnoch e non i codici, molto meno probabile appare la congettura, che egli abbia veduto « una semplice copia,affine al cod. Vaticano 4498, che recatutte quattro le opere in que 1Arrogi una considerazione: come si potrebbe conciliare la niuna menzione della Germ. nell'inventariodelle scoperte dell’Ascolano, col fatto che per avidità di guadagno i cercatorie mercatanti di codici dicevano talvoltacose non vere o esageravano:quel che realmente si era scoperto? Valga d' es. ilcaso di Niccolò da Treviri: questi nell'inventario dei libri nuovi mandato al Poggio scrisse di avere presso disè un ‘ uolumen in quo sunt XX comoediaePlauti' (v. Poca epist. III 29 T.); epoi, invece, ne portò sedici (v. PocaIt epist. IV 4 T.). ? Cosi appunto si legge in Studi ital. difilol. class. vol, VII, p. 130, nota 4;e Rio. di filol. e d'i. cl. a. XXIX (1901), fasc. 2, p. 264. E dello stesso avviso è anche ilLEHNERDT, in Hermes, vol. XXXIII (1898),p. 501. 3 GAYE, Op. c., I, p. 163 sg.Vitt. Rossi, opuse. c., II, p. 27. ASIRS st’ ordine» Suetonio degrammaticis, Tacito Agricola, dialogus,Germania ».! Aggiungasi che nella nota dellozibaldone del Decembrio il libro di Suetonio occupa l’ultimo posto, e la Germ. ha il primo parsa:anteriore, perciò, all’Agr. e al dialogus.*Altre considerazioni c’ inducono ad ammettere come probabile che, tra i libri portati da Enochin Italia, quelli attribuiti a Tacitomancassero dell’ indicazione del nomedell’ autore. Dalla lettera del Panormita al1 Rio. di filol. e d’i. el. 1. c. Ma in realtà il cod. Vatic. 4498 contiene Suetonius de grammaticis etrhetoribus nel terzo posto: lo precedono Frontinus de aquaeduct. e Rufus deprouinciis. 2 Perciò appare, ora,infondato, alla luce dei documenti testéscoperti, il ragionamento del LEHNERDT |. c., p. 501: « dass in Carlos Briefe nur Suetonius, nicht aber diebeiden Taciteischen Schriften genannt werden, findet leicht eine Erklàrung. Wir erfuhren schon aus einem frilherenBriefe, dass Enoche mit seinen Schàtzensehr zuritckhaltend war; so lag auch denbeiden Medici nicht der Codex selbst, sundern nur das Inventar Enoches vor, indem, wie so hàufig, nur das erste Werkder Sammelbandschrift aufgefihrt war ».La spiegazione, invece, sarebbe tutta al contrario, perchè, secondo lanota dello zibaldone di Pier Candido Decembrio, la Germ. è il primo senitto del cod.; l’ultimo èil de gramm. et rhetoribus di Suetonio.y 3 Vitt. Rossi nell'opusc. c., p. 38,nota 1, scrive: « se poi Enoch non trascrisse il cod. da lui scoperto, ma portòquesto stesso in Italia, può ben darsigli sia sfuggito il nome di Tacito, che, come nel cod. Perizoniano, dovealeggersi in fronte al secondo opuscolocontenutovi, alla Germania, e non al primo, il dialogo de oratoribus ». Ma ilMASsMann, op. c., p. 7, descrivendo îlcod. Leid. Perizon. XVIII C 21, osserva che il1° opusc. porta nel fol. I il soprascritto di colore rosso ‘ CoRCONSOLIn L’ autore detta Germania, 6 cna Guarini veronese, citata inprincipio del presente capitolo, apprendiamo che solo per congettura erasiattribuito a Tacito il dialogus. Nè alla notizia precisa data dal Panormita contrasta la nota delDecembrio, per la quale si vuolericonoscere per vero « indi scutibilmente che il dialogo portava il nome di Tacito »;! perocchè l’ affermazione delDecembrio devesi riferire allo stato del codice o di un apografo del codice, ventinove anni dopo che ne avea datol’ annunzio il Panormita. Dopo tanti anni era possibile che il Decembrio avesse veduto e descritto qualcheesemplare, proveniente forse dal cod.annunziato dal frate hersfeldese, nel quale esemplare la congettura delPanormita fosse stata accolta come notizia indubitata, e si fosse ascritta a Tacito la paternità deldial. Quanto all’ Agr. manca qualsiasitestimonianza, che il libretto formasseparte del cod. portato da Enoch. IlDecembrio lo nota soltanto nell’ elenco, senza indicare espressamente chel’Agr. era incluso nello stesso cod.,insieme con la Germ., il dial. e il Suetonio, e ne teneva il secondo posto. Nè havvi alcuncodice, in cui si presentino riuniteinsieme le tre così dette opere minoridi Tacito e il de gramm. et rhetoribus di Suetonio, nell’ordine stessodella descrizione che ne fece il Decembrio.Alla mancanza di testimonio per l’Agr. non può supplire, come pare anoi, il cod. Vatic. 4498; * perchè, coNELII TACITI DIALO-/gus de oratoribus incipit’: e la stessa osservazioneci è stata confermata, in una cortese lettera del 4-X 1901, dal prefetto della bibliotecauniversitaria di Leida sig. S. G. deVries, alla cui gentilezza ci siamo rivolti per avere delle notiziecerte sull'argomento. 1 Rio. di filol. e d’ i. cl., 1. c., p.264. ? V. gli Studi ital. di filol.class. vol. VII, p. 130: si ammette me sopra si è in parte avvertito, ! inquesto cod. non si contengono raccoltele sole quattro opere che si dicono costituire il cod. hersfeldese, portato daEnoch in Italia, e nemmeno nell’ ordineindicato dal Decembrio (G. A. d. S.), mavi si contengono anche: 1° Frontinus de aquaeduct.; 2° Rufus de prouinctis;.... 4° [ Pseudo-] Plinius de virisillustribus ;..... 8° M. Iunii Nypsi demensuris ; 9° incerti de ponderibus ; 10° Senecae apokolokyntosîs ; 11° Censorinus de dienatali. Di que= stiscritti alcuni, come p. es. il de aquaeduct. di Frontino,? erano già noti primache il cod. dell’ Ascolano fosse statoportato in Italia. V. Resta latestimonianza che dicesi del Pontano, scrittasul cod. Leid. Perizon., la quale avrebbe un notevole valore, se prima sichiarissero, mediante la scoperta di nuovi documenti, le difficoltà presentatedal Voigt * e accolte dal Teuffel,' mada altri respinte. * Egli è vero cheVittorio Rossi è pervenuto a dimostrare, con documenti che si conservano nell’archivio fiorentino (Med. avanti ilPrincip.), essere conforme al verol’attestazione pontaniana: ‘qui (sc. Bartholomaeus Facius) ne hos Suetoniiillustres uiros uidere pos appunto cheal difetto di testimonianza per l' Agricola debba supplire il cod. Vatic. 4498, 1 V. p. 81, nota 1l?. ? Poe epist. III 37. IV2e4T, 3 VoIGT-VALBUSA, Op. c., II 4, vol. I, p.255 sg., nota 3. 4 TEUFFEL-SCHWABE, G.d. r. L. 5, $ 334, 4, p. 835. 5 VediWuENSCH, de Tac. Germaniae codicibus Germanicis, Marburg 1893; e 4ur Texigeschichte der Germ.,in Hermes vol. XXXII (1897), fasc, 1°,p. 57. dn set, mors immatura effecit. Paulo enim posteius mortem in lucem redierunt.’ Infatti, il Fazio morì nel 1457; e dalla lettera di Carlo de’ Medici, 13 genn.1458, risulta che sino a quella data non si era potuta ottenere copia dei libri portati da Enoch. Rimangonoperò senza soddisfacente risposta altreobiezioni mosse dal Voigt. Resta semprenell’ attestazione attribuita al Pontanouna certa vacuità o mancanza d’ interesse, quanto alle notizie che vi si annunziano. Egli si duoleche il Fazio sia stato sorpreso da morteimmatura, sicchè non si sia trovatopresente quando veniva alla luce l’opuscolodi Suetonio de wviris illustribus : la ragione di tale doglianza èevidentemente quella accennata sopra, che ilFazio se ne sarebbe potuto servire nel comporre il suo libro de viris illustribus temporis sui. Mail Fazio in una lettera al card. EneaSilvio Piccolomini, scritta nei primimesi del 1457,! gli dà la notizia: ‘ librum quem 1 La lettera, scritta da Napoli e senzadata, fu pubblicata nella raccolta assaiconfusa delle epistole di Enea Silvio Piccolomini, contenuta in opera quaeexrtant omnia di lui, Basil. 1571, p.778, n. 233. Nella lett. si fa menzione, fra le altre cose, di alcune lettere di congratulazione, scritteprecedentemente dallo stesso Fazio, perla promozione del Piccolomini al cardinalato ;e vi si fa cenno anche del terremoto di Napoli. Or, secondo il breve diCallisto III (‘ dat. Romae apud S. Petrum anno MCCCCLVI XV Kal. Ianuarii, pontificatus nostri anno II’), riferito testualmente da Oporico RAYNALDO, in ann. ecel. el. D. Mansi,Lucae 1753, t. X, p. 99, la promozionedel Piccolomini al cardinalato ebbeluogo il 18 dicem. 1456, Il terremoto che rovinò Napoli ed altre città del Regno avvenne « la domenicamattina a di 5 di dicembre (1456), a oredieci e mezza », e si ripeté nei giorni seguenti (v. cron. di Bologna, inMURATORI, rer. It. scriptt. t. XVIII,cc. 722, 723; giornali napolitani dal 1266 al 1478, ibid. t. XXI, c. 1132: l’INFESSURA, nel diurio della cittàdi Roma, ibid, t. III, SE de uiris illustribus scripsi, Regi dedicauiac tradidi*; ed aggiunge: ‘ in quo opere,ut aliquando uidebis, si non quantumuirtutum tuarum magnitudo postularet, atquantum ingenii mei paruitas potuit, quantumcumque res ipsa passa est, tibi ame tributum cognosces.’ Cosicchè, severso la fine del 1456 il Fazio portò acompimento e pubblicò il suo libro sulla vita degli uomini illustri, ene fece un presente ad Alfonso d’ Aragona, re di Napoli, è evidente che a nullagli sarebbe giovata, ancorchè egli fossevissuto sino al principio del 1458, ladivulgazione del libro suetoniano, avvenuta in quel tempo. Nella stessa annotazione del cod. Leid.Perizon. si accoglie con leggerezza,come notizia indubitata, il supposto plagio di Sicco Polenton e la distruzionedi quella parte del libro di Suetonio,che trattava de oratoribus ac poetis.! Resta un’ altra difficoltà. Secondol’ annotazione del cod. Leid. Perizon.,il libro de grammaticis et rhetoribus di Suetonio si divulgò poco dopo la mortedel Fazio, anzi, per i dati contenutinella lettera di Carlo de’ Medici, nonprima del gennaio 1458. Un certo tem p.II, c. 1137, menziona il terremoto del 24 dicembre 1456). La lettera del Fazio è, per conseguenza,posteriore al dicembre 1456. Nellaraccolta cit., p. 784, n. 251, è compresa una lett. del card, Piccolomini di risposta a quella delFazio, con la data ‘ex urbe Roma die XXVMartii 1457,’ Si può, dunque, affermare che la lettera del Fazio dovette esserescritta tra la fine del dicem. 1456 e lametà del marzo 1457. 1 RIiTscHL, Parergazu Plautus und Terena, Leipz. 1845, I p.632. RoTH, C. Sueton. Tranq. quae supersunt omnia, Lps. 1882 ; praef., p. LI sg. anapo era, senza dubbio , necessario perchè i libri o le copie di essi, che Stefano de’ Nardini aveapromesso , giungessero a Carlo de’Medici, e da questo si mandassero al fratello Giovanni, in Firenze, il qualedoveva essere il primo ad averli. ' Perciò la divulgazione dei libri portati da Enoch non poteva aver luogo primache alcuni mesi fossero scorsi dopo ilgennaio 1458. Intanto Enea SilvioPiccolomini è il primo a far menzione, sebbene in un modo poco esatto, del contenuto dellaGerm. nella grande epistola di rispostaa Martino Meyer, cancelliere dell’ arcivescovo di Magonza ?. Il Meyer, con lettera in data del 31 agosto 1457, * si eracongratulato col Piccolomini dellapromozione al cardinalato e nello stessotempo , colta la propizia occasione, avevaglidescritto le tristi condizioni fatte dalla Curia romana alla Germania, e l’aveva avvertito che ‘ nuncuero, quasi ex somno excitati, optimatesnostri quibus remediis huic calamitatiobuiam pergant cogitare coeperunt iugumqueprorsus excutere et se in pristinam uindicare libertatem decreuerunt ’:sono i preludi della riforma religiosa.Il card. Piccolomini, che aveva già scritto su tale ar 1 Le precise parole scritte da Carlo de'Medici nella lett. cit. del 13 genn.1458 (F IX, doc. 576) sono queste : « non dubitate che per essere il primo che gl'’abbia (i libri diEnoch), non v'énno a costare uno denarodi più ». ? L’epistola del card. Piccolominiè pubblicata col titolo de ritu, situ,moribus et conditione Germaniae descriptio, in opera quae extant omnia, ed. cit., pp.1034-1086. 8 L' epistola del Meyer èpubblicata a p. 1035 delle opere di E.S. Piccolomini, ed. c.; ma, per evidente menda di stampa, porta la data erronea: ‘ex Hasthaffenburga pridieCalend, Septembris MCCCCVII ”, invecedel MCCCCLVII, RT gomento al Meyer la lettera del dì 8 agosto1457, ! tornò a scrivergli in proposito,per confutare le affermazioni di lui, altre tre lettere * ; e di ciò noncontento, per dare, probabilmente, unamaggiore pubblicità alle ragioni adduttein confutazione delle osservazioni delMeyer, si accinse a scrivergli una lunga epistola, che prima mandò, per averne l’ autorevole parere,ad Antonio card, di S. Crisogono, con lettera in data del 1° febbraio 1458. 3 Al Piccolomini premeva diribattere le accuse che provenivanodalla Germania, per prepararsi i votifavorevoli nel prossimo conclave, che, difatti, lo elevò, dopo la morte di Callisto III, all’onore della tiara; ed era importante perlui che tutti sapessero quel che egli nepensasse intorno alle agitazioni tedeschecontro la Curia di Roma. E però, per confutare gli ar© gomenti addottidal Meyer (cui avverte ‘ nec dubitamuste perditum iri, nisi e schola erroris et officina ueneni retrahas pedem), arreca, tra le molteragioni, i benefici fatti dalla Chiesa di Roma alla Germania, e fa un confronto tra i costumi degli antichi Germani, quali furono descritti da Cesare e Strabone,e la civiltà tedesca de’ suoi tempi; indi soggiugne (p. 1051): ‘ is igi 1 Epist. n°. 369, pp. 836-839, op. c. ? Una delle tre lettere, che è segnata nellaraccolta cit. col n° 338, p. 822, portala data ‘Romae XII Calend. Octobris a.MCCCCLVII ’. Un' altra, di n° 345, p. 827, ha la data ‘ex urbe, die uigesima Octobris’, senza indicazionedell’anno, che deve essere lo stesso1457. La rimanente, segnata col n° 288, p. 801,non porta data, ma dal posto che occupa tra una epist. dell'11-IX 1457,e una del 3-X dello stesso anno, è probabile che sia stata scritta nella seconda metà delsettembre 1457. 3 La lett. al card. diS. Crisogono è pubblicata a p. 1034, eprecede immediatamente quella diretta al Meyer. =,tur fuit Germanorum status Strabonis tempore, quem usque ad Tiberium Caesarem uixisse constat.his ferociora de Germanis scribit Cornelius Tacitus, quem in Adriani tempore incurrisse perhibent. parumquidem ea tempestate a feritate brutorummaiorum tuorum uita distabat. erant enimplerumque pastores, syluarum incolae ac nemorum nec munitae his urbeserant, neque oppida muro cincta, nonarces altis innixae montibus, non templa sectis structa lapidibusuisebantur. aberant hortorum ac uillarumdelitiae, nulla uiridaria, “nulla tempe,nulla uineta colebantur: praebebant largosflumina potus; lacus et stagna inseruiebant lauacris et, si quas natura calentes produxerat, aquae.parum apud eos argentum, rarius aurum,margaritarum incognitus usus. nullagemmarum pompa, nulla ex ostro uel serico uestimenta. nondum metalloruminuestigatae minerae; nondum. miseros in uiscera terrae mortales -truserat aurisitis: laudanda haec et nostris anteferendamoribus. at in hoc uiuendi ritu nulla fuit literarum cognitio, nulla legum disciplina, nullabonarum artium studia. ipsa quoquereligio barbara, inepta et, ut propriis utamur uocabulis , ferina ac brutalis.talis tua Germania fuit usque adAdrianum Caesarem, quamuis iam ceteraeorbis prouinciae excultae artibus ac mo‘ribus essent ’. Dovette, dunque, il Piccolomini avernotizia, sebbene alquanto imperfetta ,della Germ. anteriormente al 1° febbraio1458, che è la data segnata nella missiva alcard. di S. Crisogono. E, se consideriamo attentamente il contenuto della lettera del Piccolomini alMeyer, in data 8 agosto 1457, appare nondubbio che egli ebbe notizia della Germ.prima di questa ultima data; poiica chè nella lettera sicontengono , riassunte senza indicazione di autori, osservazioni consimili aquelle che sui costumi dei Germaniantichi sono ampiamente svolte nella grande epistola sopra cit. Leggesi,infatti, nella lettera: dell’ 8 agosto1457 : ‘ namque si legamus uetusta tempora, inueniemus Germanos olim rituuixisse barbaro, uestibus usos laceris;uenationi tantum et agrorum culturae dedisse operam, feroces quidemhomines et belli appetentes , sedargenti prorsus inopes, quibus quippenec uini usus erat. ipsaque Germania intra mareet Danubium rursusque intra Rhenum et Albim continebatur; nunc ueroquantum transgressa sit suos limites, non ignoramus ?. e. q. s.! Perciò ilPiccolomini dovette conoscere ilcontenuto della Germ. prima del1’ 8 agosto 1457, cioè circa sei mesi prima deltempo in cui, secondo la lettera di Carlo de’ Medici , del 13 gennaio 1458, si erano cominciati adivulgare i libri portati da Enoch; e,per tanto, appare non vera l’ annotazione del cod. Leid. Perizon., d’essere, cioè,la Germ. e gli altri opuscoli ‘ nuperadinuentos et in lucem re.latos ab Enoc Asculano ’, giacchè del contenuto della Germ. sì era avuta notizia prima che i libriportati da Enoch, in originale o incopia, fossero stati acquistati da Giovanni di Cosimo de’ Medici o da altri, eprima che se ne fosse cominciata la divulgazione. Ma per quale via sia pervenuto ilPiccolomini ad avere in sue mani la Germ. non ci è dato, secondo i documenti del tempo scoperti sino ad oggi,determinarlo con certezza. Non è improbabile che il Piccolomini sia statoaiutato in tali indagini dal Poggio ? e1 Epist. n.° 369, p. 838, ed cit.2 Nella lettera del 4 gennaio 1457 il Poggio, congratula ndosi dalPanormita,! coi quali egli aveva relazioni di buona amicizia: ed è noto quanto ebbe a stentare ilprimo, nei lunghi e tediosi maneggi, peraversi il ms. del frate hersfeldese ;del secondo si sa che sin dal 1426 avevadato notizie della Germ. nella lettera, citata sopra, al Guarini veronese. Il Lehnerdt però, per la soluzione delquesito, muove da una notizia che silegge nella lettera del 10 dicembre 1457 di Carlo de’ Medici al fratelloGiovanni: « heri mandò per me ilcardinale di Siena e domandomi se Enochavesse lasanti (1. lasciati) libri alcuni nel banco nostro; dissigli che no. Lui mi domandava chevia lui potessi tenere ad avere certilibri che lui aveva: io fe” colPiccolomini, per la promozione di lui al cardinalato, gli scriveva: ‘accedit adconsolationem meam et summam iocunditatem quod uir eloquentissimus (cioè ilPiccolomini) optimisque artibus eruditus, fructum eloquentiae et doctrinae sit,quod perraro accidit, consecutus: in quogloriari quodam modo mihi merito uideorposse nostri quondam ordinis uirum, hoc est eloquentiae studiis et dicendiexercitio praestantem, eo in statu essecollocatum, ut suae doctrinae aemulos extollere et eis praesidio atque ornamento esse possit'. Ed inun'altra lettera del 3 novembre (mancal'indicazione dell’anno, ma è, senzadubbio, del 1457) lo stesso Poggio profferiva i suoi servigi al card. Piccolomini, scrivendogli: ‘me penitustuum esse ubique satisfaciendi cupidum, siqua in re mea tibi cura, studio, opere,diligentia opus esset.’ Le due lettere del Poggio sono comprese nell’ epistolario del Piccolomini, segnatel’una col n. 216, p. 771, l’altra col n.295, p. 806: tra le due lettere è compresa la responsiva di ringraziamento delPiccolomini al Poggio, n. 293, p.805. 1 Vedi la lettera del Piccolomini,allora ‘ episcopus Senensis ', adAntonio Panormita, n. 407, p. 951 sg.; e la menzione del Panormita nell'epist. al Fazio, notata al n.251, p. 784. PEN co (ROSS al giuoco del baloco. Di poi ho sentito chelui ha scritto ad Ascoli a certi sua amici; e pertanto vorria che voi medesimo scrivessi a m. Stefano che insingulari vostro servizio lui mi fessiavere o i libri di che io gli ò scrittoovero la copia ».! Il Lehnerdt ne argomentache il Piccolomini (denn niemand anders ist der betriebsame Cardinal vonSiena) dovette attingere le notizie sulla Germania, annunziate nella lettera, aMartino Meyer, al ms. enochiano, di cuivenne in possesso prima del Medici. ? Ma alla congettura del Lehnerdt si oppone il testo di un’altra lettera di Carlode’ Medici, in data del 13 gennaio 1458,che sopra abbiamo riferito. Stefano de’ Nardini, sollecitato, oltre che daCarlo, anche da Giovanni de’ Medici,rispose dando promessa certa, che questiavrebbe avuto i libri di Enoch o lecopie; e dovette aggiungere che lo stesso Giovanni de’ Medici li avrebbe avuti per il primo, poichèil fratello Carlo nella lettera sucennata soggiugne le sgg. parole, più volte da noi citate: « non ho poi altro,ma non dubitate che per essere il primoche gl’abbia non vanno a costare uno denaro di più. » 8 Or, se Giovanni de’ Medici doveva essere il primoad aver i libri di Enoch, giusta l’affermazione «di Carlo confortata dallalettera di Stefano de’ Nardini, non èpossibile che prima di lui il card. Piccolomini ne fosse venuto in possesso. E naturale poi che un certo tempo dovettetrascorrere tra la lettera del 13gennaio 1458 e la trasmissione dei libridi Enoch o di copie dei medesimi, che Gio1 Vitt. Rossi, opusc. c., VIII, p. 31.2 LEHNERDT, l. c., pp. 502, 504.3 VITT. Rossi, opusc. c., IX, p. 31.vanni de’ Medici desiderava avere: così si giunge alla fine di gennaiood al principio di febbraio. Il Piccolomini, che non risulta essere stato ilprimo ad averli e leggerli, poteva averne avuto notizia, stante la difficoltà delle comunicazioni in quei tempi,verso la ‘metà o la fine di febbraio:dunque non era possibile che egli neavesse avuto conoscenza prima «li scriverela lunga lettera al Meyer; la quale lettera fu, senza dubbio, preparatae scritta nel gennaio 1458, poichè in datadel 1° febbraio fu spedita per esame al card. di S. Crisogono. !L’improbabilità che il Piccolomini avesse tratto vantaggio dai libri enochianisi rende ancor più evidente, se si badaalla conclusione cui siamo pervenuti poco prima, cioè, che per altra via il Piccolominidovette aver notizia del contenuto della Germ., prima dell’8 agosto 1457. VI.Anche nella supposizione che la Germ. si fosse trovata unita coi libri portati da Enoch,essa non doveva presentare, come sopra sì è avvertito, il nome dell’autore,poichè non se ne fa cenno nell’inventario dei libri di recente scoperti. Ilnome dell’autore dovette essere aggiunto dopo, quando si cominciò ladivulgazione del libro, e si riconobbeche era identico a quello già 1 Nellalett. del Piccolomini al card. di S. Crisogono, p. 1034 ed. c., si legge: ‘ epistolam scribereinstitui et liber exiuit; quid dixiliber? libri exiuere. mittimus igitur adtuum examen, ut uideas corrigasque, uel,si melius putes, igne consumas. tu soluses, cuius existimationem audiendam arbitror.ad te ergo ueluti ad fontemdoctrinae uenio et ad ipsum iubarscientiarum, si condendum aut comburendum opus iudicaueris, obediam imperio tuo. si duxeris edendum,exibit liber intrepidus et nullius calumnias uerebitur, quando abs teprobatus fuerit, quem omnes probant.' e.q. s. Pei 7, ME indicato dal Panormita nella lettera dell’aprile 1426, diretta al Guarini. E pertal modo la Germ. fu annotata, ventinove anni dopo (1455), col nome diTacito nello zibaldone di Pier CandidoDecembrio. Cosicchè l’ indicazione diTacito come autore della Germ. si riconnette, anche per il libro portato daEnoch, allo stesso fonte che abbiamo considerato sopra, trattando del codice del frate hersfeldese: la conclusionene sarebbe la stessa. Per taleconclusione troverebbesi forse modo dicoordinare l’ attestazione notata nel cod. Leid. Perizon. con le ricerche fatteanteriormente dal Poggio, e col fattoche il contenuto della Germ. era noto primache si fossero divulgati in Italia i libri portati da Enoch; in quantoche il Pontano, che è detto autore dell’ attestazione, non deve aver letto ilnome di Tacito in fronte alla Germ. cheegli trascrisse, correggendone le mende,ma ve l’appose per le notizie avutene aRoma e a Firenze in quei circoli letterari, ai quali il libro era prima noto. Il vedersi, dunque, attribuita a Tacito lapaternità della Germ. nei codici delsec. XV, che soli ci rimangono dell’ aureo libretto , resta sempre dovuto,come pare a noi, ad un presupposto delPoggio ed all’ annuenza non disinteressata del frate hersfeldese; se non sì vuole direttamente ammettere che taleattribuzione sì fondi sulla fede d’ unamanuense del sec. XV, fede, come beneavverte il Valmaggi in proposito del dialogo de oratoribus, che si ha dareputare dubbia « per lo meno, sino atanto che altri documenti e prove sieno contro di lei ».! 1 L. VaLMaG6I, dial. degli oratori, Torino1890; introduz., pagina XXXIX. Di Unostudio che avesse 1’ obietto di comparare laGerm. con gli scritti di Plinio Secondo, riuscirebbe certamente non pocoutile a dare evidenza e conferma airisultamenti delle indagini fatte nei precedenti capitoli. Ma un tale studio sarebbe, di necessità,incompleto, perchè gli scritti diPlinio, i quali si avvicinano, peranalogia di argomento, alla Germ., cioè i venti libri Germanicorum bellorum, la vita di PomponioSecondo e i libri di storia a fineAufidii Bassi, non sono pervenuti sino a noi. Solo si può istituire ilconfronto tra la' Germ. e la nat. hist.,determinando anzi tutto quali notizie,quali considerazioni, insomma quali concettipresentino in entrambe le opere considerate il carattere di comuneorigine; sì che se ne possa indurre chetanto l’una quanto l’altra debbano essere state manifestazioni, sebbeneper obietti diversi, dei pensieri di unastessa mente. Seguiremo nellenostre indagini l’ordine dei libri dellanat. hist. * Restringiamo il confrontosoltanto ai concetti o pensieri analoghi espressi nei due libri. Quanto alconfronto lessicale, sintattico estilistico tra la Germ. e la n. A. di Plinio, abbiamo prepa:ato un libro, che sarà pubblicatoimmediatamente dopo il presente lavoro,di cui può considerarsi opportuno complemento. Valga la stessa avvertenza peril capitolo sg., in cui la Germ. saràcomparata con gli scritti genuini di Tacito, = DE I. a) Una spedizione navale, capitanata daDruso, si mosse nel 742/12 dalle focidel Reno verso le regioni orientali, per fare delle scoperte ed estendereil dominio romano. Un’altra spedizionefu tentata ventotto anni dopo, nel 16 d. Cr., dal prode Germanico. Alla prima impresa si allude nella . A. II 67(67), 167 ‘ septentrionalis uero oceanusmaiore ex parte nauigatus est auspiciis diui Augusti Germaniam classecircumuecta ad Cimbrorum promunturium 7. Ad entrambe le imprese si riferisce la notizia, di cui nellaGerm. 34, 6 ‘ipsum quin etiam Oceanum illatemptauimus ”.! b) Non è da omettersiche della strage di Crasso, menzionatanella Germ. 37, 15, si fa cenno nella n. A.II 56 (57), 147; e la notizia. si ripete in vari modi in V 24 (21), 86. VI 16 (18), 47: cf. XV 19(21), 83. c) Nemmeno si devetralasciare l’ osservazione, che ilcenno sulla guerra cimbrica, fatto nella Germ. 37, 7, notasi anche nella n. A, II 57 (58), 148.* II.Nel lib. II della n. A. si osservano tre Il. di confronto.a) Dei ‘ Boi ’ Plinio dà notizia, indicando i luoghi, in Italia, in cui le loro centododici tribùfurono distrutte, 1 Della primaspedizione si fece, più tardi, menzione da SveTon. Claud. 1; e da Cass. Dion.r. Rom. LIV 32,2. La seconda spedizionedel 16 d. Cr. è lodata in versi da ALBINOv. PED. (v. PLM. ed. Baehrens, vol.VI, pp. 351-352: cf. SEN. suas. I 15, p.10, ed. Kiessling); la narra Tac. ann.II 8; 23; 24. ? La notizia è poi, indiverse occasioni, ripetuta nella n. A.VII 22 (22), 86. VIII 40 (61), 143. XVI 32 (57), 132. XVII 1 (1), 2. XXII 6 (6), 11. XXVI 4 (9), 19, XXXIII 11(53), 150. XXXVI 1 (1), 2; 25 (61),185. ci GG i (n. h. Ill 15 (20), 116), e denotando, qualiconseguenze delle loro scorrerie: inItalia, la fondazione di ‘ Laus Pompeia’(III 17 (21), 124) e la distruzione di ‘ Melpum ? (III 17 (21), 125); indicaanche i luoghi da loro abitati in Gallia(IV 18 (32), 107). Nella Germ. (28, 7.42, 3) si denotano i luoghi occupati e poi abbandonati dai ‘ Boi” o ‘ Boii”, in Germania. b) Quanto agli ‘ Arauisci ’, che avevano leloro sedi nella Pannonia, sulla rivadestra del Danubio, tra la Drava e laSava, trovasi menzione nella Germ. 28, 10e nella n. A. III 25 (28), 148: li nominò anche Tolomeo, indicando leloro sedi più a settentrione di quelledegli Scotdisci.* Vi è però una differenza nella grafia, chè nella n. A. è scritto ‘ Erauisci’, enella Germ. ‘ Arauisci ’. Ma del nomeusato da Tolomeo la lettera iniziale èA. Una simile differenza notasi nel nome‘ Bastarnae ’, usato nella Germ. 46, 4, e ‘ Basternae ”, adoperato nella n. A. IV 14 (28), 100. ? 1 ProLEM. geogr. ll 16, 3. ? Ma si deve avvertire che la grafia ‘Basternae' non è costante nella n. 4., come asserisce il GEORGES, ausfithrl.Handwb. I, c. 743; poichè in IV 12(25),81 mutasi in ‘ Basternaei” e poi inVII 26 (27), 98 diviene all’abl. ‘ Bastrenis’, che nel cod. Riccard. (R. del Mayhoff) è ‘ bastenis ’, enel cod. Leid. (F. del Mayh.) ‘bostrenis’, Né i codd. della Germ. consentono tutti col Leid. Perizon. nel presentare nel |. c. ‘ Bastarnas’: il cod. Vatic. VRB. 655 presenta ‘basternes ’, e con strana metatesi il Vindobon. ‘ bastranas’. Nemmeno la grafiaaccolta dal Leid. Perizon. può mettersiin relazione con quella che osservasi inTac. ann. ll 65, 14, perché in questo la forma ‘ Bastarnas® è dovuta ad una congettura di Beato Renano: nelcod. è ‘ basternas’. Cf. cod. inscr. Lat. Il 2, p. 862. Ma in Strabonesempre ‘ Bastàrnai . Ri odic) Soltanto nella Germ. 29, 17 (v. sopra, pp. 19-22) sì nominano i‘ decumates agri’. La n. A. II4 (5), 32 fa solamente menzione di una ‘decumanorum colonia ”. III. Il lib. IV della n. /. offre un buon numero di confronti con la Germ. a) All’ indicazione generica della Germ. 44,20 ‘ Suionibus Sitonum gentes continuantur ’,! risponde quella più particolareggiata della 7. %. IV11 (18), 41 ‘ circa Ponti litoraMoriseni Sitonique Orphei uatisgenitores optinent ’. Resta però la differenza dell’ordine flessivo tra ‘Sitones”e ‘ Sitoni ?. b) I gioghi dell’Abnoba,nella Selva nera, sono indicati, tanto nella n. %. IV 12 (24), 79 quanto nellaGerm. 1, 9, come punto d’ origine delDanubio; anzi la retta grafia ‘ Abnoba’, indicata dai codici della n. A. e qualevenne accolta da Tolomeo,® fu di guida a Beato Renano per determinare, nel testo della Germ. 1. c.,la forma esatta ‘ Abnobae ’ tra levarianti ‘ Arnobae ’ (cod. Vatic. 1862 e cod. Neapol.), ‘ Arbonae ’ (cod. Leid.e cod. Vatic. 1518), ‘ Arnibae ’ (cod. Arundel.). Due iscrizioni scoperte nelloSchwarzwald hanno confermato la forma ‘Abnoba. ?. c) È data dalla n. R. IV 12(24), 79 la notizia, che 1Omettiamo di citare per i ‘ Sitones ’ il 1. della Germ. 45, 1, perché nei codd. si Iegge ‘trans Suionas”’(nel Leid. ‘Suiones’). Il MEISER hasostituito ‘Sitonas ’; e la congettura di lui è stata accolta da U. Zernial,Io. Miiller, etc. Hanno conservato lalezione dei codd. il Dilthey, il Kiessling, il Finek, il Kritz, il Halm, il Ramorino, etc. ? ProLEM. yeogr. Il 11. ConsoLI: L’ autore della Germania. 7 osi OB ciil Danubio ‘ in Pontum uastis sex fluminibus euoluitur ’; ma'non è deltutto esatta, nè conforme al cenno che prima ne avevano fatto Ovidio, Strabonee Mela,! e dopo ripeterono Solino, Ammiano Marcellino, Isidoro. ? Nella Germ.si conferma la notizia data dalla n. h.,salvochè, come spiegazione dell’esclusione di una settima foce del gran fiume, si soggiugneimmediatamente ‘ septimum os paludibus hauritur?. Se nessun rapporto ci fosse stato nella composizione enell’ intendimento della n. A. e della Germ., in questa sarebbesi detto esplicitamente in modo consimile aquanto scrisse Ammiano Marcellino, l. c.: ‘ amnis Danuuius s e p tem ostiis.... erumpit in mare septimum segnius et palustri specie nigrum?. d) Nella Germ. 1, 2 i ‘Sarmatae ’ ei ‘ Daci ’*sono indicati come confinanticoi Germani. La n. A., oltreall’indicare il secondo nome dato dai Romani ai ‘ Daci *. (‘ Getae ’), e dai Greci ai ‘Sarmatae’(‘Sauromatae ’), determina i luoghi daloro occupati (IV 12 (25), 80: cf. VI 34(39), 219), e mostra che presso di loro era inuso il fafuaggio aggiunge che la Germania è confinante (‘contermina ’)con la Scizia (VIII 15 (15), 38). e) Uno dei confini dei luoghi abitati dai‘Chatti’ e 1 OvI. trist. II 189.STRAB. geogr. VII 3, 15 (C. 305), vol. II,p. 419 ed. M. Pompon. Met. chor. II 1, 8. Confrontando il Danubio alNilo, Mela dice che quello sbocca nel mare pontico ‘ totidem quot ille (sc. Nilus) ostiis’; e ilNilo, secondo afferma lo stesso Mela,chor. I 9, 51, ‘ septem in ora se scindenssingulis tamen grandis euoluitur ’.? SoLin. coll. r. m. 13, 1} p. 90, 12 ed. M. Amm, Marc. r. g. XXII 8, 44 e45. Is. orig. XII 21, p. 1158. 3 DO dagli ‘Heluetii” è, secondola Germ. 30, 5. 28, 6, il ‘ sallusHercynius” o ‘ Hercynia silua’: la stessa selvaè segnata nella n. %. IV 12 (25), 80 come confine della gente pannonica dei “Carnunti’. Plinio denotaanche l’importanza della selva (IV 14(28), 100), e avverte che in essa sono ‘inuisitata genera-alitum’ (X 47 (67),132) e una ‘roborum uastitas intacta aeuis et congenita mundo ’ (XVI 2(2), 6). f) Nella Germ. 46, 4 siconsidera la voce ‘ Bastarnae ’ comeun’altra denominazione del popolo dei ‘ Peucini ”. La n. h. determina prima i luoghi occupatidai ‘ Basternaei’! (IV 12 (25), 81); poi annovera i ‘Basternae’ accanto ai‘Peucini’ (IV 14 (28), 100). * 9g) Deimari nordici, coi quali confina a settentrionela terra dei Germani, è data nella Germ. 1,3 una notizia indeterminata:‘cetera Oceanus ambit, latos sinus et insularum immensa spatia complectens’.Nella n. h. la stessa notizia èpresentata con maggiore determinazione: IV 13 (27), 96 ‘ mons Seuo ibi inmensusnec Ripaeis iugis minor inmanem ad Cimbrorumusque promunturium efficit sinum, quiCodanus uocatur re 1 Per la differenzagrafica del nome del popolo considerato,v. sopra, p. 96, nota 2°. 2 Nel|. c. della n. A. si legge: ‘quinta pars Peucini, Basternae supra dictiscontermini Dacis’. Potrebbesi, tralasciato ilsegna d’interpunzione messovi dall’edit. Jan, considerare ‘ Basternae’come apposizione di ‘Peucini’: così ne sarebbe confermata l'osservazione dellaGerm., che fa tutto un popolo dei‘Bastarnae’ e dei ‘Peucini’. Del resto, in nessun altro l. della n. h. si tratta dei ‘Peucini’, come di unpopolo a sè, differente dai ‘ Basternae”. Cf. StRAB. geogr. VII 3, 15 (C 305);3, 17 (C 306), p. 419 sg., ed. M. ni 100fertus insulis quarum clarissima est Scatinauia inconpertae magnitudinis’. h) All’ osservazione che leggesinella n. A. IV 14 (28), 98 ‘Germania.... nec tota percognita est’, rispondono le considerazioni con cui l’autoredella Germ. dà termine al suo lavoro,tralasciando ‘ cetera iam fabulosa” e quel che egli trova ‘ut incompertum ?. i) Intorno alle schiatte germaniche degli ‘Ingaeuones’ (Germ.) o ‘ Ingyaeones ” (n. h.), degli ‘ Herminones?’ (Germ.) o ‘Hermiones” (n. Ah.) e degli ‘ Istacuones’ (Germ.) o ‘Istyaeones ’ (n. 4.) non èfatta menzione alcuna in iscritti anteriori o posteriori alla Germ. e alla n. X.! Sembra però che nella Germ. 2,15 sg. la distinzione delle tre schiattesopra mentovate sia stata fatta indipendenza dai progenitori mitologici,figli di Manno. Segue, infatti, nello stesso cap. della Germ., una distinzione di popoli germanicifatta con criterio alieno dalla leggenda(‘eaque uera et antiqua nomina’), ma,come pare, per esemplificazione, cioè :‘ Marsi °, Gambriuii, Suebi, Vandilii ”. La distinzione appare più precisa e completanella n. h. IV 14 (28), 99 e 100: I ‘Vandili” 3, II ‘Ingyae A Il Georges, ausfithri.Handwb. II, c. 216, registra Ingaevones, secondo la grafia accolta nel testodella Germ. (ma ‘Ingaenones’ nei codd.Vatic. VRB. 655, Laurent. LXXIII 20,Stotgard. IV 152, Venet. misc. XIV 1); registra Hermiones (I, c. 2813), secondo la grafia della n. A.; manonsi cura di notare gli ‘Istaeuones'.2 Nella Germ. nulla si dice dei ‘Marsi’ oltre del cenno del c. 2, 17. Tacito ne fa menzione negli ann. I50, 13; 56, 20. II 25, 4. 3 ‘Vandali’, nel cod, Paris ol ones’, III ‘Istyaeones °°, IV ‘ Peucini °.8Tra i ‘ Vandili” si comprendono : a) i ‘ Burgodiones” ‘4; b) i ‘ Varinnae’ 5;c) i ‘Charini’; d) i ‘Gutones’: dei qualipopoli due soltanto, cioè i ‘ Varinnae ’ e i ‘Gutones”, sono annoverati nella Germ. 40, 4. 44, l,forse con inesattezza, tra i ‘Suebi’; idue rimanenti, ‘Burgodiones’ e “‘Charini’, sono taciuti. Gli ‘Ingyaeones’ comprendono: a) i ‘ Cimbri’ ‘; b) i‘Teutoni’% c)i ‘ Chauci’:3 la Germ. tacedei ‘ Teutoni ’. Sotto il nome degli ‘Istyaeones ’ sono notati i ‘Sicambri’ (‘Sugambri’, per Strabone), dei quali non si fa alcuna menzione nella Germ. Si ascrivono agli ‘Hermiones”: a) i ‘Suebi’; * 6) gli ‘Hermunduri ’ !; c) i ‘Chatti ’ !!; d) i‘ Cherusci ”. !2 I ‘ Peucini” (Basternae) sono espli 1 ‘Inguaeones’, ed. Detlef.; ‘Ingaeuones’,secondo la ‘1. uulg.’ e nell’ed.Sillig. ? ‘Istiaeones’, ed. Detlef, ;‘Istaeuones’, secondo la ‘1. uulg.’ enell’ed. Sillig. 3 Quanto ai ‘ Peucini’cf. Germ. 46. 4 ‘Burgundiones’ nel cod.Paris. 6797 e nell'ed. Sillig. 5 ‘Varine’ nel cod. Riccard.; ‘ Varini” secondo la ‘1. uulg.' e nell’ed. Sillig. : ‘ Varini’ anche nellaGerm. 40, 4. 6 I ‘Cimbri’ non si devonoconfondere coi ‘Gambriuii’. Strabone, infatti, pone in elenco separatamente i‘Gambriuii’ e i ‘Cimbri’: geogr. VII 1,3 (C 291), p. 399, ed. M. 7 Cf. n. h.XXXV 4 (8), 25. XXXVII 2 (11), 35. 8Intorno ai ‘ Chauci’ v. Germ. 35, 2. 36, 1. Cf. n. A. XVI 1 (1), 2; 1 (2), 5. 9 V. Germ. cc. 33-43; e inoltre 9, 4. Cf. n.h. IL 67 (67), 170. IV 12 (25), 81; 14(28), 100. 10 V. Germ. Al, 4. 42,1. ll Dei ‘Chatti’ si ha notizia in piùIl. della Germ.: 29, 3. 30, 1, 4, 15.31, 2 e I1. 32, l e 4, 35, 5. 36, 10 7. 38, 2.12 V. Germ. 36, 1, 6, 8.102 citamente annoverati trale nazioni germaniche, eliminandosi così il dubbio annunziato uella Germ. 46,2: ‘Germanis an Sarmatis adscribamdubito’. Or,. se i ‘Marsi’ edi‘Gambriuii’, dei quali è fatta menzione nella Germ., sono da considerarsi indipendenza dagli ‘Ingaeuones’!; e se tragli ‘ Herminones” son da comprendersi .i ‘Suebi’ e, in subordinazione a questi,i ‘Vandilii?,*? (poichè i.’ Varini” ed i‘ Gotones’, che nella n. A. siannoverano tra i ‘ Vandilii”, sono compresi dall’autore della Germ. tra i‘Suebi ’), restano a rappresentare gli‘Istaeuones’ le due nazioni dei‘Sugambri’’ e dei ‘ Peucini’: il che, considerati principalmente iluoghi occupati da loro, non pare possibile. Vi sono, dunque, delle incertezzee delle notizie incomplete nella Germ., che la n. &. ha interamente chiarito o completato ; talchè, se si ammetteche autore della Germ. sia quello stesso che scrisse la n. A., è evidente che questo lavoro dovette esserescritto dopo la Germ.: e in ciò sì avrebbe una indiretta conferma della notiziadata da Plinio il giovane, che la operabella Germaniae (della quale la Germ. potrebbesi, secondo quanto si è osservatosopra, considerare come la parteintroduttiva) fu scritta prima della x. ’.j) Il fiume ‘ Albis’ è solamente indicato nella n. /. 1 Vedi Marina, op. c., p. 33. ? Vedi Dilthey, op. c., p. 249: « es wird dadurch sehr wahrscheinlich, dassdie Vandalen selbst nur Ostliche Sueven waren ». 8 Plinio ilgiovane, presentando nell’epist. quinta del lib. III, $ 2, l'elenco dei libri scritti dallo zio,avverte : ‘ fungar indicis partibusatque etiam quo sint ordine scripti notumtibi faciam’. L' opera della Ge rmaniae è indicata nell’ elenco prima della n. }, 103IV 14 (28), 100 come uno degli ‘ amnes clari’ che ‘in oceanum defluunt’. La Germ. 41, 9 presental’indicazione dell’ ‘ Albis’ con una certa enfasi : ‘ flumen inclutum et notumolim; nunc tantum auditur ’; ne denota prima l’ origine nel paese degli ‘Hermunduri ’. k) La menzione dei‘Frisii’ fatta, prima d’,\ogni altro scrittore, da Plinio nella n. A. IV 15(29), 101, si osserva nella Germ. 34, 3.35, 3, aggiunta la distinzione dei ‘Frisii’ in ‘maiores’ e ‘minores’; e all’espressione ‘ gens tum fida’, di cui sifa cenno nella n. h. XXV 3 (6), 21, alludendosi ai ‘Frisii’?, rispondel’osservazione di Tacito: ‘ natio Frisiorum .infensa aut male fida”. * l) Le notizie intorno ai popoli della prov.Belgica, ‘Neruii’, ‘Tungri ’, ‘ Treueri’, ‘ Heluetii”, sono comuni alla n. h.ed alla Germ.; ma il semplice cenno fattodalla prima‘, è più particolareggiato nella seconda, per i ‘Neruii’ e i “Treueri’, per i ‘Tungri’(2, 20) e per gli ‘Heluetii” (28,6). 1 Sarà certamente una menda distampa il $ 110, invece del 101, segnatonella p. 119,.n. 1, delle prov. rom. del :MommsEn, trad. De RuagieRo, Roma 1887. ? Vedi Lup. JAN, scripturae discrepantia nelvol. IV dell’ ed. della n. h., p.XVII. 3 Tac. ann. XI 19,3. De’ ‘Frisii’tratta anche Tacito in Agr. 28, 14.hist. IV 15, 12; 18, 26; 56, 15; 79, 8. ann. I 60, 6. IV 72, le; 73, 4; 74, 1. XI 19,3. XIII 54, 2, 9, 23.Per altre notizie sui ‘ Frisii” v. Cass.Dion. r. Rom. LIV 32, 2-3; PTOLEM. geogr.II 11; e il pan. d’incerto autore a Costanzo,.$ 9; in BAEHRENS, ZII pan. Lat., V, p. 138. 4 V. n. h. IV 17 (31), 106: cf. inoltre XII1 ;(2), :5 per gli ‘ Heluetii’ ; e XXXI2 (8), 12 per. la fonte di acqua ferruginosa presso i ‘ Tungri Similmente lebrevi notizie che dà la n. A. IV: 17(31), 106, concernenti i ‘ Nemetes”, i ‘ Triboci ?, i ‘ Vangiones’, gli“ Vbii” (‘ colonia Agrippinensis ’), i Bataui’, (con qualche particolare, per i‘ Bataui?, in IV 15 (29), 101; e per gli‘ Vbii”, in XVII 8 (4), 47), sì osservano nella Germ. 28, 19 sgg. e 29, 1sgg. IV. Il ‘ Pontus Euxinus” è indicato nella Germ.1, 10 con l’espressione ‘ Ponticum mare’. Dello stesso mo‘ do è indicato nella n. R. V 27 (27), 97 ‘ hine Ponti cum,illinc Caspium et Hyrcanium ?. Osservasi primala stessa espressione in Livio e Mela !. V.Nella descrizione generale dei popoli germanici, la Germ. 4,6 dàevidenza ai sgg. caratteri: ‘ truces et caerulei oculi , rutilae comae, magnacorpora ’ e. q. s. Nella n. A. VI 22(24), 88 si annunziano quasi con lestesse parole i caratteri di alcuni popoli dell’Asia: ‘ipsos uero excederehominum magnitudinem, ru| tilis comis, caeruleis oculis , oris sono truci ’.Trovasi, inoltre, nella n. A. XXVIII 12(51), 191 l’avvertenza, in propositodelle ‘ rutilae comae ’,sche ad arte si otteneva o si rendeva, se naturale, più evidente talecolore «lei capelli mediante l’ uso d’un certo sapone gallico, adoperato in Germania più dagli uomini che dalledonne. VI. a) Cesare scriveva che la maggior parte degliantichi Germani si nutrivano di latte, cacio e carne. ? Nella Germ. 23, 3 si dàuna notizia analoga a quella 1 Liv. XL21, 2. Pompon. Met, chor. II 1, 5. Cf. Tac. ann. XIII 39, 2; e, per analogia, ‘os Ponticum”’ (ann.II 54, 4). 2 Cars. d. G. VI 22, 1: cf IV1,8. data da Cesare quanto alla carne (‘recens fera ’), ma si restringe la notizia concernente ilatticini, poichè si esclude il caciodall’ ordinario vitto dei Germani, e siindica il solo ‘lac concretum ?, cioè latte rappreso o cagliato. La restrizione che notasi nellaGerm. appare confermata e piùchiaramente indicata nella n. R. XI 41(96), 259: ‘ mirum barbaras gentes quae lacte uiuant ignorare aut spernere tot saeculis caseidotem, densantes id alioqui in acoremiucundum et pingue butyrum. spuma id est lacte concretior lentiorque quamquod serum uocatur. Il pensiero laudativo per i Germani, indicato dalla frase della Germ. 23, 3 ‘ cibi simplices,agrestia poma, recens fera aut lacconcretum: sine apparatu, sine blandimentis expellunt famem”’ ha complementonell'osservazione igienica notata, in generale, da Plinio: ‘ homini cibusutilissimus simplex, aceruatio saporum pestifera et condimento perniciosior’(n. A. XI 53 (117), 282). VII.a) Quando si legge nella Germ. 9, 9 la parte notevole che avevano per ilculto delle genti primitive le selve sacre: ‘lucos ac nemora consecrantdeorumque nominibus appellant secretum illud, quod sola rewerentia uident’;! ricorre alla mente quelche osserva Plinio nella n. A. XII 1 (2), 3 ‘ haec fuere numinum templa,priscoque ritu simplicia rura etiam nuncdeo praecellentem arborem dicant’. E un concetto simile aveva primaespresso Seneca *. 1 Cf. GERM, cc. 39,40, 43. ? SEN. epist. IV 12 (41), Adindicare le regioni del sud soggette a Roma, tanto nella Germ. quanto nella n. A. è adoperatal’espressione ‘orbis noster’: Germ. 2,6‘ Oceanus rarisab orbe nostro nauibus aditur?. n. A. XII 12 (26), 45 ‘in nostro.orbe proxime laudatur Syriacum (sc. nardum),mox Gallicum ’, e. q. s. * Inoltre, l’accenno sul balsamo nella Germ. 45, 25 ‘ Orientis secretis, ubitura balsamaque sudantur ’, risponde alle notizie che, tra i primi, ne diede Plinio in diversi luoghidella n. %. ? VIII. Che l’espressione‘ frugiferarum arborum impatiens ’, usata nella Germ. 5, 4, non debbasiintendere senza restrizione, non solo ciavvertono l’indicazione della manieracon cui si facevano certi sortilegi ( v. Germ.10, 2 ‘ uirgam frugiferae arbori decisam in surculos “amputant ’) e l'avvertenza intorno ai mezzidi nutrizione degli antichi Germani (v.Germ. 23,3 ‘cibi simplices, agrestiapoma ’), ma anche una notizia che osservasinella n. &. XV 25 (30), 103, sulla presenza del ciliegio sulle rive del Reno, in tempi remoti. IX.a) La particolarità geografica della terra germanica, che è, ingenerale, ‘aut siluis horrida aut paludibus foeda ’ (Germ. 5, 2), ha unaconferma, in par 1 Osservasi prima inVeLL. PATERC. h. R.I 2,3. Cf.Tac, Agr. 12, 9. 2 V. n. h. XII 25 (54), 111 sgg. XVI 32 (59), 135: cf. XIII 1 (2),11. 13. 15. Vedi anche il nostro libro sui neologismi botanici nei carmi bucolici e georgici di Virgilio,Palermo 1901; LV, Pp. 103 sg. RES, () pgticolare, nella descrizione che presenta Plinio (7. h. XVI 2 (2), 6) della selva ‘ Hercynia ?. ! b) Nella Germ. 17, 7 si osserva che iGermani ‘ detracta uelamina (sc. ferarum) spargunt maculis pellibusquebeluarum, quasi exterior Oceanus atque ignotummare gignit’; ma non è detto in che modo facessero i Germani per impadronirsi di tali belvemarine. Possiamo argomentarlo da quel che si dice nella n. %. XVI 40 (76, 2), 203, in proposito dei predonidi mare: ‘singulis arboribus cauatisnauigant, quarum quaedam et XXX homines ferunt ’. c) L’uso druidico delle adunanze ‘ sextaluna, quae principia mensum annorumquehis facit et saeculi post tricesimumannum” (n. A. XVI 44 (95), 250), osservasiesteso ad una consuetudine germanica, quella, cioè, di farsi le riunioni popolari ‘ cum autinchoatur luna aut impletur ? (Germ. 11,5). X.A integrare l’ osservazione che la terra germanica è ‘pecorum fecunda”’(Germ. 5, 5), vale quello che notaPlinio sugli ottimi pascoli della Germania:‘ nam quid laudatius Germaniae pabulis?’ (n. A. XVII 4 (3), 26).XI. a) Non appare unaconsuetudine particolare dei popoligermanici, che ‘ leuioribus delictis pro modopoena: equorum pecorumque numero conuicti multantur ? (Germ. 12, 7). Lastessa consuetudine vigeva anche, secondo attesta Plinio, presso gli antichiRomani; 1 Cf. Pompon. Met. chor. III 3, 29 ‘ magna ex parte:siluisac paludibus inuia ”. 108perciocchè ‘ multatio quoque non nisi ouium boumque inpendio dicebatur’, e ‘cautum est, ne bouemprius quam ouem nominaret, qui indiceretmultam’ (n. &. XVII 3 (3), 11). b) Quantunque l’avena si fosse potuta usare per lapreparazione della birra, non è da dirsi incompleta la notizia, che presso i Germani era in uso ‘potui umor ex hordeo aut frumento, inquandam similitudinem uini corruptus’ (Germ.23, 1); poichè, secondo la menzione che se ne legge nella n. 4., se neavvalsero allora più per cibo che per la fermentazione della bevanda gradita: ‘quippe cum Germaniae populi serant eam(sc. auenam) neque alia pulte uivant’ (n. %. XVIII 17 (44, 1), 149).! XII.a) Il vestiario delle donne germaniche non si distingueva da quello degli uomini, se nonche le donne ‘ saepius lineis amictibusuelantur’ (Germ. 17, 10). La stessanotizia appare nella n. A. XIX 1 (2, 1),8 ‘ uela texunt (sc. e lino) iam quidem et transrhenani hostes, necpulchriorem aliam uestem eorum feminae nouere ’. b) La notizia data dalla n. A. XIX 1 (2, 1),9, che in Germania facevasi il lavoro ditessitura in sotterranei : ‘in Germania autem defossae atque sub terra id opus (sc. lina texendi) agunt’, completal’ indicazione dell’uso di quelle abitazioni sotterranee, che nella Germ. 16, 12 si dicono fatte per ‘suffuginmhiemi et receptaculum frugibus ?.* 1 Vedi, quanto ai diversi nomi con cuis' indicava la birra, n. h. XXII 25(82), 164. 2 Pompon, MEL, chor. II 1, 10dice lo stesso dei ‘Satarchae ’, In ciò che nella Germ. 46, 14 dicesi intornoal modo di vivere dei ‘Fenni’, ai quali era ‘ uictui herba, uestitui pelles,cubile humus”, pare di scorgere un caso particolare di quanto si considera, ingenerale, nella n. %. XXI 15 (50), 86, che vi sono delle ‘ herbae sponte nascentes, quibus pleraequegentium utuntur in cibis”, ’ XIV.Dei ‘ Mattiaci’ la Germ. 29, 9 considera il popolo, sottomesso all'impero romano; la n.&. XXXI 2 (17), 20 ne menziona lefonti termali (oggi Wiesbaden).XV. La notizia data dalla Germ.5, 18 sulla moneta antica (‘ serratos bigatosque ’), che era preferita dai Germani vicini alle province romane delReno e del Danubio, negli scambicommerciali, è confermata, per quantoconcerne i ‘ denarii bigati’, dalla n. %. XXXII3 (13), 46: ‘ notae argenti fuere bigae atque quadrigae, inde bigati quadrigatique dicti °. XVI.L’ambra fu in origine un succo di vegetali: nella Germ. 45,22 se ne adduce la sg.ragione: ‘ quia terrena quaedam atqueetiam uolucria animalia plerumque interlucent , quae implicata umore moxdurescente materia cluduntur ’. Alla stessa conclusione si popolo del Chersoneso Taurico: ‘ob saeuahiemis admodum adsiduae, demersis inhumum sedibus, specus aut suffossa habitant’ (Frick). 1 Sact. /ug. 18, 1 aveva prima avvertito cheper i Getuli e i Libii ‘ cibus erat caroferina atque humi pabulum uti pecoribus”,110 perviene, per altra via,nella ». %., in cui sono addutte perprove l’opinione degli antichi e l’etimologia della parola ‘ sucinum ’ : XXXVII 3 (11), 43 ‘arboris sucum esse etiam prisci nostricredidere, ob id sucinum appellantes ?. Nè vi è contraddizione se nella Germ.45, 15 si afferma che gli ‘ Aestii ’,sulla spiaggia orientale del maresuebico, ‘ soli omnium sucinum.... inter uadaatque in ipso litore legunt’, e che essi ‘ pretium (sc. sucini) mirantes accipiunt ’; mentre nella n.%. XXXVII 2 (11), 35 si ripete lanotizia annunziata da Pytheas : ‘Gutonibus Germaniae gente adcoli aestuarium Metonomon nomine......, ab hoc dieinauigatione abesse insulam Abalum , illo per uer fluctibus aduehi et esse concreti maris purgamentum, incolas proligno ad ignem uti eo (sc. sucino)proxumisque Teutonis uendere ?’. Gli ‘Aestii’ avevano le loro sedi accanto a quelle dei ‘ Gutones ° o ‘ Gotones ’, sullespiagge orientali del mare suebico(Baltico); era naturale, per ciò, che l’industria | dell’ambra , così bene avviata presso gli ‘Aestii ’, si fosse estesa, come trapopoli vicini, e forse in dipendenza l’uno dall’altro, anche presso i ‘ Gotones’; e da ciò la notizia registrata nellan. /%., la quale toglie quella rigidezzadi apprezzamento , che traspare dallafrase ‘ soli omnium ’ della Germ., riferita agli‘ Aestii ?. È, inoltre, da considerare che, se i ‘Gutones ” facevano il commercio dell’ ambra coi vicini ‘Teutoni ”, lo vendevano a loro ‘ pro ligno ad ignem ’’;e perciò nessuna contraddizione si può notare con quanto è detto nella n. 4., se gli ‘ Aestii” facevano dellemeraviglie nel vedersi pagare un prezzoper il sucino, di cui si eranocominciate a fare delle ricerche presso di loro , 11da che il lusso romano aveva dato a tale merce un valore notevole!. 1 Un’altra relazione tra la Germ.ei lavori di Plinio avverte U. Zernial, nel suo comm. alla Germ. 3, 15 pp. 22-23,cioè, che la frase ‘adhuc extare’, usatain proposito dei monumenti e tumoli con iscrizioni greche, che allora restavanonel confine della Germania e dellaRezia, si deve riferire a notizie dateda Plinio nei venti libri ‘ bellorum Germaniae. A rendere completo il nostrostudio sulla Germ., ci pare opportunomettere anche in confronto il contenuto di essa con le opere genuine di Tacito.Il confronto sarà ordinato come nel cap.precedente, restringendo il nostro esame ai soli concetti che presentino un qualche indizio di dipendenza o dicorrispondenza tra loro. Ci atterremo, quanto alla disposizione dellamateria, all’ ordine delle opere diTacito. I. a) Che le chiome bionde o rossicce e lacorporatura grande formassero uno dei caratteri fisici della nazionalità germanica è fatto cennonell’Agr. 11, 3 ‘ rutilae Caledoniamhabitantium comae, magni artusGermanicam originem adseuerant ’: risponde alla descrizione che nepresenta la Germ. 4, 6 ‘rutilae comae, magna corpora et tantum ad impetumualida ”. Seneca aveva anteriormentefatto menzione del ‘ rufus crinis etcoactus in nodum apud, Germanos”.! Quantoalla frase dell’Agr.1. c.* magni artus Germanicam originem adseuerant ’,alla quale si riattacca l’osservazioneintorno ai ‘ Bataui * (‘et forma conspicui , et est plerisque procerapueritia’ Mist. IV 14, 6: cf. V 18, 2)ed ai ‘ Cherusci ’ (‘ procera membra” ann. I 64, 7), risponde la considerazione generale intornoai Germa * Per i limiti del confronto, vedil’ avvertenza * a pag. 94. 1 Sen. dial.V 26, 3. 113 ni, che si legge nella Gem. 20, 1 ‘in hosartus, in hacc corpora, quae miramur,excrescunt ?. Cesare aveva primaavvertito che il suo esercito era stato invasodal timore al sentire dai Galli e dai mercatanti la notizia ‘ ingentimagnitudine corporum Germanos, incredibili uirtute atque exercitatione in armisesse’ !; e Mela aveva anche osservatoche i Germani erano ‘ immanes animisatque corporibus ?, perchè attendevano agli esercizi guerreschi ed eranoafforzati dalla ‘adsuetudine laborummaxime frigoris ”. * b) Istituendo unconfronto tra la fioridezza dei Gallinei tempi anteriori e la decadenza che essi mostrarono dopo, Tacito nell’ Agr. 11, 15 avverte: ‘Gallos quoque in bellis floruisseaccepimus; mox segnitia cum otio intrauit,amissa uirtute pariter ac libertate ’. Lo stesso concetto appare nella Germ. 28, 15, allorchè,per dare evidenza al carattere nazionaledei ‘ Treueri’ e dei ‘ Neruii ’, si diceche essi ‘ circa adfectationem Germanicae originis ultro ambitiosi sunt,tamquam per hanc gloriam sanguinis asimilitudine et inertia Gallorum separentur ’. La superiorità dei Galli diun tempo è attestata nello stesso 1. dellaGerm. 28, 1 sull’autorità di Giulio Cesare, che aveva ciò indicato nel b. G. VI 24, 1. c) La discordia tra i nemici di Roma cooperòsempre a costituire la superiorità deiRomani ; onde la considerazione che leggesi nell’ Agr. 12, 4 ‘ nec aliudaduersus ualidissimas gentis pro nobisutilius quam quod in com 1 Cars. db. G.I 39, 1. ? Pompon. Met. chor. III 3,26. CONSOLI : L’ autore dellaGermania. 8 lla mune non consulunt ’. Un pensieroanalogosi manifesta nell’ augurio che 1°autore della Germ. fa a’ suoi concittadini, ‘quando urgentibus imperii fatis nihil iam praestare fortuna maius potest quam hostiumdiscordiam’ (Germ. 33, 9). Da ciò la politica, sì lodata, di Druso nelle relazioni coi Germani: egli ‘haud lene decus quaesiuit inliciens Germanos ad discordias’ (ann. Il 62, 2).!d) Un apprezzamento punto benevolo per la spedizione di Caligola contro i Germani si legge tantonell’ Agr. 13, 9 ‘ agitasse GaiumCaesarem de intranda Britannia satisconstat, ni uelox ingenio mobili paenitentiae, et ingentes aduersus Germaniam conatus frustrafuissent ’; quanto nelle Rist. IV 15, 8,in cui si narra di un Canninefate, che ‘ multa hostilia ausus Gaianarumexpeditionum ludibrium inpune spreuerat ’. Lo stesso apprezzamento era statomanifestato prima nella Germ. 37, 23‘*ingentes Gai Caesaris minae iu ludibrium uersae ?. e) La politica dei Romani solevasi avvaleredi un mezzo più efficace delle armi, pervincere e tenere assoggettati i barbari, l’allettamento dei vizi. Nell’ Agr. 21, 10 sgg. sì deridono gli ignoranti chefanno consistere la civiltà nei ‘delenimenta uitiorum’, che sono 1 Claudio Mamertino ripeté lo stessoconcetto, che le discordie intestine dei barbari erano la fortuna dell'impero:‘ tantam esse imperii uestri felicitatemut undique se barbarae nationes uicissimlacerent et excidant, alternis dimicationibus et insidiis clades suas duplicent et instaurent’ (Pan.genethl. Maxzimiano Aug. d., 16; inBAFHRENS, AZ/ pan. Lat. III, p. 113 sg.).2 Severe sono anche le parole con cui Suetonio giudica l’impresa diCaligola contro i Germani (Calig. 43 e 45-47). Persio la deride (sat. 6, 43 sgg.). CÉ. Cass. Dion.r. Rom. invece strumenti di schiavitù. Similmente uno dei legati dei ‘Tencteri’presso il ‘concilium Agrippinensium’ raccomandava, secondo racconta Tacitonelle hist. IV 64, 19: ‘institutacultumque patrium resumite, abruptis uoluptatibus, quibus Romani plus aduersussubiectos quam armis ualent’. Lo stesso concetto è denotato nella Germ. 23, 6‘si indulseris ebrietati suggerendo quantum concupiscunt, hawd minus facileuitiis quam armis uincentur ”. f) L'esperienza della vita dimostra vera lasentenza che Tacito fa dire a Calgaconell’ Agr. 30, 5: ‘ proelium atque arma, quae fortibus honesta, eademetiam ignauis tutissima sunt’. NellaGerm. 36, 2 la si vede applicata perispiegare la decadenza dei ‘ Cherusci ’, iquali ‘ mimiam ac marcentem diu pacem inlacessiti nutrierunt”; el’autore, considerando che ‘id iucundiusquam tutius fuit”, assurge ad un avvertimento d’ordine generale, che in nessun tempo è datrascurarsi dagli uomini di Stato:‘inter inpotentes et ualidos falsoquiescas ?. g) Nell’apostrofe diTacito al suocero estinto, si legge: ‘ nosque domum tuam ab infirmo desiderioet muliebribus lamentis ad contemplationem uirtutum tuarum uoces, quas nequelugeri neque plangi fas est ’ (Agr.46,3). La frase ‘ muliebribus lamentis’ richiama alla mente la sentenza della Germ. 27, 7 ‘feminis lugere honestum est, uiris meminisse’. E probabilmente tutte e due le espressioni risalgono all’ammonimento di Seneca: ‘ obliuisciquidem suorum ac memoriam cum corporibusefferre et effusissime flere, meminisseparcissime, inhumani animi est. hoc prudentem uirum non decet: meminisseperseueret, lugere desinat’.! Seneca, presso a morire, ripetè in parte lostesso concetto, per confortare laconsorte. La nazionalità degli ‘ Heluetii” è, secondo GIULIO (vedase) Cesare,gallica, poichè egli scrive di loro : ‘ Heluetii quogue reliquos Gallos uirtute praecedunt,quod. fere cotidianis Droga cum:Germanis contendunt’. 3 Dello stessoparere è Tacito che, considerando gli ‘ Heluetii’ quali erano divenuti a’ suoitempi, avverte : ‘ Heluetii, Gallica gens olim armis uirisque, mox memoria nominis clara’ (Rist. I 67, 2). La medesimaosservazione è confermata nella Germ. 28, 8, che considera tanto gli ‘ Falaotit ? quanto i ‘ Boii” come‘ Gallica utraque gens ’ b) Era anazionale dei Germani andare ala pugnacoi corpi nudi a diciamo « ignudi »): lo indica Tacito nelle isf. II 22, 6‘cohortes Germanorum, cantu truci etmore patrio nudis corporibus super umerosscuta quatientium ’. Prima di lui, ne aveva dato notizia Cesare, sebbenela sua osservazione non si restringesse ai soli usi guerreschi : ‘pellibus autparuis renonum tegimentis utuntur, magna. corporis parte nuda ?.! E l’osservaziore di Cesare fu ripetuta nellaGerm. rispetto ai combattimenti (‘ pedites et missilia spargunt.... atque in immensum uibrant, nudi aut saguloleues Germ. 6,7), agli esercizi militaridei giovani (‘ nudi 1 SEN. epist. XVI 4 (99), 24. 2 Tac. ann. XV 63. 3 Cars. db. G. 1 1, 4. 4 CAESs. db. G. VI 21,5. Dice lo stesso dei ‘Suebi’ iunenes .... inter gladios se atque infestasframeas saltu iaciunt” Germ. 24, 2), ealla vita domestica (‘in omni domo nudiac sordidi’ e. q. s. Germ. 20, 1: cf. 17, 2). Intorno alla provenienza dei‘Bataui’ ed ai luoghi da loro occupati, ci informa Tacito nelle Rist. IV 12, 6 ‘Bataui, donec trans Rhenum agebant,pars Chattorum, :seditione domestica pulsiextrema Gallicae orae uacua cultoribussimulque insulam iuxta' sitamoccupauere, quam mare Oceanus a fronte, Rhenus amnis tergum ac lateracircumluit’. Della ‘insula Batauorum’ avevano già fatto menzione Cesare ePlinio Secondo. * Nella Germ. 29, 1 silegge: ‘ omnium harum gentium uirtutepraecipui Bataui non multum ex ripa, sedinsulam Rheni amnis colunt ’; e, quanto alla loro origine, immediatamente dopo si soggiugne : ‘Chattorum quondam populus et seditione domestica in eas sedes transgressus, in quibus pars Romaniimperii fierent ’. d) Narra Tacito(Rist. IV 14, 10) che Civile, in occasione di un banchetto tenuto in un boscosacro, espose ai convitati la necessitàd’insorgere in difesa dei loro diritticonculcati, contro il dominio romano. L’ usanzagermanica di trattare affari, sì privati che pubblici , durante i conviti è menzionata, in generale,nella Germ. 22, 9 ‘ de reconciliandisinuicem inimicis et iungendisadfinitatibus et adsciscendis principibus, de pace denique ac bello plerumquein conuiuiis consultant : e la ragionene è spiegata ‘tamquam nullo magis tempore1 Secondo la congettura del Walch: nel cod. si legge ‘ iuuata sit an”. ? Cars. db. G. IV 10, 1. Prin. n. A. aut adsimplices cogitationes pateat animus aut admagnas incalescat ”. e) Ladisposizione dei Germani per cunei, nelle battaglie, è menzionata nella Germ.6, 20 ‘acies per cuneos componitur ?’. La conferma appare dal modo secondo cui furono disposti i ‘ Canninefates’,i ‘Frisii”, i ‘ Bataui ’, etc. nei combattimenti, durante l’insurrezione di Civile (rist. IV 16. V 16), e dall’ordine del‘ Bructerorum cuneus ” (Rist. V 18, 5).! Ma l’ ordinamento dei combattenti per cunei era stato primaaccennato da Cesare *. Tacito ne fa puremenzione, descrivendo la battaglia diBedriaco 3. f) Nello stesso lib. IVdelle hisé. di Tacito, si nota che i ‘Bataui ’ furono esenti dall'obbligo di pagare ai Romani i tributi: ‘ Batauos tributorumexpertes (list. IV 17, 11); ed è confermatoin un altro luogo : * sibi (sc. Batauis)non tributa sed uirtutem et uiros indici ’(hist. V 25, 9: cf. IV 12, 10). Tale esenzione è notata anche nella Germ. 29, 6 ‘ (Bataui) nectributis contemnuntur nec publicanus atterit ’, per la ragione che essi ‘ tantum in usum proeliorum sepositi, ueluttela atque arma, bellis reseruantur?. g) Civile, nel determinare l’ ordinedella battaglia, ‘matrem suamsororesque, simul omnium coniuges par 1Cf. Tac. hist. IV 20, 11. La disposizione dei combattenti per cunei si continuò anche dopo presso ibarbari: v. Amm. Marc. r. g. XXVII 2,4. 2 Cars. d. G. VI 40, 2: altrove loindicò con la voce ‘phalanx *; db. G. I 52, 4.3 Tac. hist. II 42, ]1 ‘comminus eminus, cateruis et cuneis concurrebant': v. la nota al l. c. nel comm,del VALMAGGI, p. 78, Torino uosqueliberos consistere a tergo iubet, hortamentauictoriae uel pulsis pudorem ” (Rist. IV 18, 14): si soggiugne poco dopo‘ uirorum cantu, feminarum ululatusonuit acies’. Consimile ordine nei combattimenti a cui preparavansi i Germani, è indicato nellaGerm. 7, 11 ‘in proximo pignora, undefeminarum ululatus audiri, unde uagitusinfantium ’. Ma in tutti e due i Il. citatila notizia pare che sia provenuta da quanto avevano scritto prima Cesare sulle donne dei Germaninelle pugne combattute da Ariovisto !, e Strabone intorno alle donne dei Cimbri. ° h) L’ usanza dei Germani di portare neicombattimenti effigie di animali o altri simboli rappresentanti le loro divinità protettrici o qualcheattributo delle stesse, è indicata daTacito, Rist. IV 22, 12: ‘ depromptae siluis lucisque ferarum imagines, ut cuiquegenti inire proelium mos est ’. Nella Ger. 7, 8 si osserva la stessaconsuetudine: ‘ effigiesque et signa quaedam detracta lucis in proelium ferunt ’*. Così, ad es.,gli ‘ Aestii ’ portavano per simboli divini immagini di cinghiali (‘ insignesuperstitionis formas aprorum gestant’ Germ.1 Cars. db. G. I 51, 3. ? STRAB.geogr. VII 2, 3 (C 294), p. 404, ed. M. Vedi anche PLvT. C. Mar. 19, 8, p. 497, ed. Th, Doehner.FLor. epit. I 38, 16-17 (III 3), ed.Halm. 3 Tra le‘ effigies” eranonotevoli il lupo e il serpente (Wadan),l’orso e il capro (Thunar), etc. ; tra i simboli o ‘ signa ’, la lancia(Wodan), il martello (Thunar), la spada (Tiu), etc. : v. F. G. BERGMANN, poémes islandais tirés de l' Eddade Scemund, Paris 1838, pp. 1-185, 243-259,303-319; e le « notes explicatives » pp. 221 - 239, 292 300, 358 - 368; v. anche dello stesso Bergmann la fascination de Gulfi (Gylfaginning), traité de mythologiescandinave, Strasbourg & Paris i Cimbri preferivano il toro di bronzo !.I Germani non rappresentavano in formaumana le loro divinità: ‘nec cohibereparietibus deos neque in ullam humanioris speciem adsimulare ex magnitudine caelestium arbitrantur? (Germ. 9,7). i) Scoppiata l’ insurrezione diCivile, il danno maggiore fu recato dalle ostilità degli insorti controgli ‘ Vbii’, ‘quod gens Germanicaeoriginis eiurata patria Romanorum nomine? Agrippinenses uocarentur (Rist. IV 28,6). Dalla Germ. 28, 19 si apprende che ‘ ne Vbii quidem, quamquam Romana colonia essemeruerint ac libentius Agrippinensesconditoris sui nomine uocentur, origineerubescunt’; e da un luogo degli ann.'XII 27,1-4 si ha la notizia più precisa, che ad istanza di Agrippina, mogliedell’imp. Claudio e madre di Nerone, sicondusse una colonia romana nell’ ‘ oppidum Vbiorum’, onde il nome di ‘ ColoniaAgrippina’ o solamente ‘ Agrippina’, ovvero ‘ Colonia’ che si ebbe dopo.* j) Quel che dice Tacito, isf. IV 61, 1,intorno allo adempimento di un voto diCivile, il quale ‘ post coepta aduersusRomanos arma propexum rutilatumque crinem1 PLvr. C. Mar. 23, 6, p. 499, ed. c.? ‘ Romanorum nomine’ è dovuto a congettura del Weissenborn. Nel cod. è‘nom’. La lez. ‘ Romanorum nomen’, che ilGruter notò, è chiusa dal Halm, dal Ritter, dal Ramorino, etc. tra parentesi quadre. Altri preferiscono ‘Romano nomine’, secondo la congettura del Lipsius. 3 Amm. Marc. r. g. XV 8, 19; 11, 7. XVI 3,1. Ma Io, Harduinus, nel comm. alla n. A. di Plinio, vol. I, p. 225, nota 2?, crede che sia Agrippina la moglie diGermanico, perchè, come egli dice, ‘ueluti mater castrorum procurabat ex eo tractu annonam militibus, qui merebantin exercitu mariti sui : quamobrem et laureato capite pingitur in achateTiberiano ’, è patrata demum caede legionum deposuit’,appare nella Germ. 31, 3, riferito inispecial modo ai ‘Chatti’: ‘ ut primumadoleuerint, crinem barbamque submittere, necnisi hoste caeso exuere uotiuum obligatumque uirtuti oris habitum”.' Anche a Roma non fu, comepare, sconosciuta tale usanza, poichèCesare, per dimostrare il suo affetto aisoldati, ‘ audita clade Tituriana barbamcapillumque summiserit nec ante dempserit quam uindicasset ’. ? kh) Da uno dei legati dei ‘ Tencteri ’ sidiceva: ‘quod contumeliosius est uirisad arma natis, inermes ac prope nudi subcustode et pretio coiremus’ (Qist. IV64, 8). Il portare le armi, e in qualunque occasione, stimavasi dai Germani un segno di valentia edi libertà. Ciò confermasi nella Germ. 13, 1 ‘ nihil autem neque publicae neque priuatae rei nisi armatiagunt’; e si indica il modo con cuifacevasi la dichiarazione d’idoneità aportare le armi. L’ osservazione si ripetenella Germ. 22, 5 ‘ad negotia nec minus saepe ad conuiuia proceduntarmati’. Anche morto, il Germano avevaseco le sue armi (Germ. 27, 4). Tale usanza, del resto, non restringevasi ai soli Germani;Cesare la indica prevalente presso iGalli. 5 1 La stessa usanza presso iSassoni, in tempi posteriori, è riferitada PAvL. pIAC. de gest. Langobard. III 7, p. 438, c. 2?. E nella storia di Norvegia è narrato ilgiuramento del re Harald Haarfager, di non tagliarsi i capelli nè di pettinarliprima d'avere spenti tutti i piccolisovrani che tenevano divisa la patriasua: e dopo lotte accanite che durarono più di dieci anni, adempi quanto aveva giurato: v. R.KeysER, Norges historie, ed. c., vol. I, pp. 204-209. 2 SveTton. diu. Iul. 67. 3 Cas, d, G. V 56, 2: cf. VII 21, 1. 1221) Un altro segno della piena libertà di cui godevano i Germani, e che,come del resto è nell’ordine naturale delle cose, trascendeva talora in dannosieccessi, era quel che nota Tacito nelle Rist. IV 76,9: ‘ Germanos.... noniuberi, non regi, sed cuncta ex libidineagere’. E da ciò quella lentezza nelle deliberazioni delle assemblee, che era veramente un ‘exlibertate uitium’; poichè i Germani ‘ non simul nec ut iussi conueniunt, sed etalter et tertius dies cunctatione coèuntium absumitur’ (Germ. 11, 9). Presso iGalli, nota Cesare, l’abuso era punito;e al principio della guerra, quandotutti i giovani armati dovevano adunarsi inun dato luogo, chi di loro ‘nouissimus conuenit, in conspectu multitudinis omnibus cruciatibusaffectus necatur ?.! m) Nel luogo testècit. delle Rist. IV 76, 10 si soggiugne: ‘pecuniamque ac dona, quis soliscorrumpantur (sc. Germani), maiora apudRomanos. Negli ann. XI ‘ 16, 7 è dettoche l’imp. Claudio si avvaleva del danaro per tenere sotto la sua dipendenza ilre dei ‘Cherusci’, Italico. Or, tanto nel primo quanto nel secondo dei ll. cc.,scorgesi l'applicazione del mezzo che nondi rado usavano i Romani, per meglio asservire il popolo germanico: ondela considerazione che leggesi nellaGerm. 15, 12 ‘iam et pecuniam -accipere docuimus’ ;? e, in particolar modo,intorno ai re dei ‘ Marcomani’ e dei ‘Quadi’ si dice: raro armis nostris, 1 CaEs. db. G. V 56, 2. 2 È noto che, per danaro, la miliziegermaniche marciarono contro gli stessiGermani: v. CAPITOLIN. M. Ant. philos. 21,7; in scriptt. hist. Aug., IV p. 66, ed. P., Mi | Asaepius pecunia iuuantur, nec minus ualent’ (Germ. 42, 9). !n) I Germani ammettevano che le donne di condizione elevata fossero lepiù sicure garentie e i migliori ostaggi, per ottenere l’ adempimento dei patticonvenuti tra popolo e popolo o tra i partiti di una stessa gente. Un caso è rammentato da Tacito, Rist.IV 79, 1:‘orabant auxilium Agrippinensesofferebantque uxorem ac sororem Ciuilis et filiam Classici, relicta sibi pignora societatis’; la quale ‘ societas’sappiamo che era stata già ‘nobilissimis obsidum firmata’ (Rist. 1V28, 2). La consuetudine era stata prima indicata nella Germ. 8, 5: ‘ efficacius obligentur animiciuitatum, quibus inter obsides puellae quoque nobiles imperantur ”. Augusto aveva tentato di trarne vantaggio,chiedendo ad alcuni capi.di nazionivinte, per tenerli in fede e soggezione,delle donne per ostaggio. * o) Persignificare 1° approvazione delle proposte discusse nelle assemblee, i Gallisolevano battere le armi: ‘conclamat omnis multitudo et suo more armis concrepat, quod facere in eo consuerunt,cuius orationem approbant ?. La stessa usanza notavasi presso i Germani : ‘ sin placuit, frameas concutiunt: honoratissimum adsensus genus est armis laudare’ (Germ. 11, 17). Tacito l’accenna nelle Rist. V_ 17,13 ‘ sono armorum tripudiisque, ita illis (sc. Germanis) mos, adprobata suntdicta ’. III. a) La considerazione sulla maniera di com1 V.pag. 12 sg. 2 SvETON. Aug. 21. 3 Cars, db. G. VII 21, 1, Cf. Liv. batteredei ‘Chatti’, che osserviamo negli ann. I 56,16 ‘non auso hoste terga abeuntium lacessere, quod illi moris, quotiens astu magis quam performidinem cessit ’, appare come un’applicazione al casoparticolare dell’ osservazione fatta, in generale, sul carattere, dei Germani:‘ cedere loco, dummodo rursus instes, consiliiquam formidinis arbitrantur’ Germ. 6, 20. Simile usanza presso i‘ Cherusci’ ènotata negli ann. II TIA b) Tacito narra che, dopo la disfatta diVaro, i Germani sacrificarono presso le are i vinti ‘tribunos ac primorum ordinum centuriones’ (ann. I 61,13); e la stessa notizia sui sacrificiumani egli ripete, in proposito della vittoria degli ‘ Hermunduri”’ sui‘Chatti”: ‘ uictores diuersam aciemMarti ac Mercurio sacrauere, quo uotoequi uiri, cuncta uiua occidioni dantur’ (ann.XIII 57, 10). Analoga osservazione era stata fatta nella Germ. 9, 1‘deorum maxime Mercurium colunt, cuicertis diebus humanis quoque hostiis litare fas habent ’; ma placavano Marte ‘concessis animalibus’. I‘Semnones’ anch’essi ‘ caeso publice homine celebrant barbari ritus horrendaprimordia’ (Germ. 39, 5); e con vittimeumane si celebrava il culto della dea ‘Nerthus”o ‘Terra mater’ (Germ. 40, 19). Strabone aveva prima fatto menzionedell’orrendo rito dei sacrifici umani presso i Cimbri '; istituto religioso,del resto, comune a tanti altri popoli primitivi. Iordanis afferma che anche i Goti offrivano a Marte vittimeumane; e 1 StRAB. geogr. VII 2, 3 (C 294), p, 404, ed. M. 2 IoRDAN. de or. act. Get. 5, p. 9, 23, ed. Holder: ‘ opinantes (se. Gothi) bellorum praesulem apte humanisanguinis effusione placandum. Procopio dice che l’orrendo rito si era continuato, per le divinazioni, presso i Franchi giàconvertiti al Cristianesimo. * c) All’indicazione : ‘ certum iam alueo Rhenum ...Vsipi ac Tencteri accolunt’ (Germ. 32, 1), risponde la frase che si nota negli ann. II 6, 13 ‘Rhenus uno alueo continuus’. Mela dà piùchiara spiegazione, ed usa qualcheparola che poi ripetè, sull'argomento stesso, lo autore della Germ.: ‘(Rbenus) mox diu soliduset certo alueo lapsus haud procul a mari huc et illuc dispergitur ?. ? d) Negli ann. II 12, 3 si fa menzione di unaselva consacrata ad Ercole, luogo diconvegno dei Germani. Anche di Ercole edei canti guerreschi, con cui si celebrava quel ‘primus omnium uwirorumfortium’, si trova menzione nella Germ.3, 1 sg.: cf. 9, 2. Evidentemente si allude al culto di Thor (Donar) che,per interpretazione romana, si erarassomigliato ad Ercole. Quanto, poi,all’espressione ‘siluam Herculi sacram?”,che si legge nel 1. c. degli ann., e al ‘ sacrum nemus ”, dove Civile riuniva i suoi (/Rist. IV 14,10), si possono considerare come esempidella consuetudine indicata, ingenerale, nella Germ. 9, 9: ‘lucos ac nemora consecrant’. Dello stesso modo sonda considerarsi come casi particolaridella consuetudine, di cui è discorsonel presente paragrafo, la ‘silua auguriis patrum et prisca formidine sacra’, dove, nel tempostabilito, si adunavano i ‘Semnones’(Germ. 39, 3); il ‘castum nemus’consacrato, in un’isola dell’ oceano, alla dea\ 1 ProcoP. de b. Goth. II25. ? Pompon. Met. chor. Ill Nertbus’(Germ. 40, 9); e quello ‘antiquae religionislucus ’, presso i ‘ Nahanaruali” (Germ. 43, 14). ! e) Nel discorso pronunziato da Germanico aisuoi soldati si afferma: ‘non loricamGermano, non galeam, ne scuta quidemferro neruoue firmata’ (ann. II 14, 10): perciò scarsezza, se non totale mancanza, del ferro presso i Germani. Ilmedesimo concetto è annunziato nella Germ. 6, 1 ‘ne ferrum quidemsuperest, sicut ex genere telorumcolligitur’; ma l’asserzione diGermanico, il quale nella foga oratoria negava a tutti i Germani la lorica e l’elmo, appare mitigatadall’ osservazione che si legge nella Germ. 6, 10 ‘paucis loricae, uix unialteriue cassis aut galea’. Egli è veroche i ‘ Cotini” conoscevano la metallurgia del ferro (Germ. 43, 6), ma i ‘Cotini’” non eranostimati Germani: ‘Cotinos Gallica ... lingua coarguit non esse Germanos, et quod tributa patiuntur’ (Germ.43, 3). Presso gli ‘ Aestii” era ‘rarusferri, frequens fustium usus’ (Germ. 45,12). Nella stessa orazione di Germanicosi nota che i Germani usavano per scudi‘uiminum textus uel tenuis et fucatas colore tabulas’ (ann. II 14, 12): lo stesso avvertesi in generale, intorno agliscudi dipinti, nella Germ. 6, 9 ‘scutatantum lectissimis coloribus distinguunt’. Soltanto gli ‘ Harii” avevano il costumedi portare gli scudi tinti in nero, per atterrire i nemici durante icombattimenti notturni, presentando uncerto ‘nouum ac uelut infernum adspectum’ (Germ. 43, 24), ?ì V. rag 105, per la rispondenza con la n. A. di Plinio. 2 Sull'uso degli scudi dipinti v. EvrIr.Phoen. 142, vol. II, p. 402, ed. Nauck.Cic. de or. II 66, 266. 127 f) Del clima della Germania si dice negliann. II 24, 1 ‘truculeutia caelipraestat Germania’. E l’autore dellaGerm. si domanda: ‘(quis) Germaniam peteret,informem terris, asperam caelo, tristem cultu aspectuque, nisi si patriasit ?° (Germ. 2, 8). Seneca fa unaosservazione consimile: ‘ perpetua illos (sc. Germanos) hiems, triste caelum premit, maligne solumsterile sustentat” e. q. s.! g) Isoldati di Germanico, che sopraffatti dalla tempesta, sì erano dispersi,tornati poi nei quartieri, dopo lungaperegrinazione, narravano cose meravigliose,‘uim turbinum et inauditas uolucres, monstra maris, ambiguas hominum et beluarum formas, uisasiue ex metu credita’ (ann. II 24, 18).Simili notizie favolose sono riferitenella Germ. 46, 25 intorno agli ‘ Hellusii ’ed agli ‘“Etiones’: “ora hominum uultusque, corpora atque artus ferarum gerere’. Ma, mentre unche di ironico traspare dalla frase‘siue ex metu credita’, nella Ger. si.osserva che tali racconti si tralasciano,perchè sfuggono ad un esame giudizioso : ‘ quod ego ut incompertum in medio relinquam’ (Germ. 46,26). Ad una conclusione non dissimileera venuto prima Pomponio Mela, trattando degli ‘Oeonae’, degli ‘Hippopodes’ edei ‘ Panuatii ”. * h) Alludendo adun’età aurea degli ordinamenti sociali, in tempi antichissimi, Tacito osserva :‘ uetustissimi mortalium, nulla adhuc mala libidine, sine probro, scelere eoque sine poena aut coercitionibus agebant’ 1 Sen. dial. | 4, 14. ? Pomp. Met. chor. Ill6, 56. Cf. Plin. n. h. IT 108 (112), 246.IV 13 (27), 95 Sotin. coll. r. m. 19, 6-8, p. 105, ed. Mominsen. Avevstin. de civ. DeiXVI 8, vol. II, p. 135 sg., ed, Dombart.128 (ann. III 26, 1). Simileconcetto, ma col proposito di dareevidenza, mediante l’antitesi, alla decadenza morale dei Romani nell’etàimperiale, è annunziato nella Germ. 19,17 ‘plusque ibi boni mores uwalent quamalibi bonae leges ’. Al medesimo concetto avevano alluso Sallustio! eOrazio. * î) La pretensione vessatricedi Olennio, che imponeva ai ‘ Frisii’ di soddisfare il tributo di pelli dibuoi con pelli di uri, offre a Tacito l’occasione di osservare che ‘id aliis quoque nationibus arduum apud Germanosdifficilius tolerabatur, quis ingentium beluarum feraces saltus, modica domi armenta sunt’(ann. IV 72, 7). Analoga osservazionesui buoi della Germania, che erano piùpiccoli e meno belli de’ buoi degli altripaesi, si nota nella Germ. 5, 5 ‘ pecorum fecunda, sed plerumque improcera. ne armentis quidem suushonor aut gloria frontis’. Cesare l’aveva anche osservato: ‘ sed, quae (sc.iumenta) sunt apud eos nata, parua atque deformia”.? j) Tacito narra che Nerone mandò inBritannia uno de’ suoi liberti, di nome‘ Polyclitus ?, con l’incarico dirimettere la concordia tra il legato e il procuratore, e di rappacificare i barbari ribelli; ma illiberto ‘ hostibus inrisui fuit, apud quos flagrante etiam tum libertate nondumcognita libertinorum potentia erat;mirabanturque quod dux et exercitus tanti belli confector seruitiisoboedirent’ (ann. XIV 39, 7). La storiaci rammenta altri liberti potentissimi presso1 SALL. Cat. 9, 1 “ius bonumque apud eos non legibus magis quam natura ualebat’. ? Hor. carm. III 24, 35 sg. 8 CAES. db. G. alcuni imperatori romani. Eperò, in antitesi a quella superioritàche si riconosceva, dai Germani non sottoposti a monarchi, ai soli uominiliberi, 1’ autore della Germ. osserva: ‘liberti non multum supra seruos sunt,raro aliquod momentum in domo, numquam in ciuitate, exceptis dumtaxat iis gentibus, quaeregnantur ? (Germ. 25, 8: cf. 44, inprincipio). k) Argomento trito eraquello dei vantaggi di cui godeva l’ ‘orbitas ’ di vecchi ricchi. ‘ Hereditatis spes ’, scriveva Cicerone, ‘ quid iniquitatis inseruiendo non suscipit? quem nutumlocupletis orbi senis non obseruat ?’!. Orazio ne fa il tema della sat. quintadel lib. II (cf. anche episf. I 1, 79);e Seneca avverte: ‘in ciuitate nostra plus gratiae orbitas confert quam eripit?. ? Allo stesso argomento si riferisceTacito , scrivendo: ‘ satis pretii esseorbis quod multa securitate, nullis 0neribus gratiam honores cuneta prompta etobuia haberent ? (ann. XV 19, 7); e in altri luoghi adduce per esempi Calvia Crispinilla, ‘ magistralibidinum Neronis?, la quale fu ‘ potens pecunia et orbitate, quae bonismalisque temporibus iuxta ualent” (Risé. I 73, 8); e un tale Pompeo Silvano, che ‘ ualuitpecuniosa orbitate et senecta ’ (ann.XIII 52, 7). L’antitesi sì osserva nel 1Cic. parad. V 2, 39. 2 Sen. dial. VI19, 2; e degli scrittori che, dopo Plinio Secondo, s'intrattennero di taleargomento, v. PLIN. epist. IV 15, 3.IvvenaL. sat. IV 12,99 sgg. PETRON. sat. 1)6, p. 539. MARTIAL. epigr. IV 56,1-6. Amm. Marc. r. g. XIV 6, 22. 3 MaDomizio Balbo era stato ‘simul longa senecta, simul orbitate et pecunia insidiis obnoxius L’autore della Germania le istituzioni tradizionali dei Germani, presso iquali ‘nec ulla orbitatis pretia’ (Germ.20, 18). IV. In tutti i luoghi che nel presente capitoloabbiamo comparativamente esaminati, è agevole osservare che la somiglianza o identità di concettoproviene per lo più dai fonti comuni,donde i pensieri sono stati dedotti ; e,ove tali fonti comuni manchino ovvero nonsi riesca a determinarli, nulla vieta di ammettere che, essendo il tempo della composizione dellaGem. anteriore a quello in cui furono scritte le opere di Tacito, questi, trattando ne’ suoi lavori storici diargomenti analoghi ad alcuni già svoltio menzionati nella Germ., si sia avvalsodi considerazioni , uotizie, insomma dipensieri che erano stati espressi in questo ultimo libro. Nondimeno Tacito non si attenne sempre a taliconcetti, chè talvolta di proposito sene allontanò , o li modificò, o chiaramente li contraddisse. Valgano diconferma i sgg. esempi. a) Dellanotizia, data da Cesare, ! sull’ antica potenza dei Galli fa menzione la Germ.28, 1, indicandone con lode somma ilfonte: ‘ualidiores olim Gallorum resfuisse summus auctoram diuus Iulius tradit’. Lamedesima notizia appare nell’ Agr. 11, 15, ma senza indicazione del fonte autorevole: ‘Gallosquoque in bellis floruisse accepimus’.Anche in un altro luogo dell’ Agr., c.10, si ripete, senza che se ne indichi ilfonte, una notizia data da Cesare.* Soltanto, quando si riferiscono le imprese militari contro laBritannia, si fa 1 Cars, db. G. VI 24,1. ? Cars. b. G. V 13, 1 sgg. Mo]1Bl cenno di Cesare: ‘primusomnium Romanorum diuus Iulius cum exercituBritanniam ingressus ’ (Agr. 13, 3). b)La lingua dei Britanni non era molto differenteda quella gallica, perchè entrambe derivavano dallo stesso ceppo celtico: e su ciò è chiara l’affermazione dell’ Agr. 11, 12. Ma contale affermazione non si può conciliarequanto è detto nella Germ. 45, 9, cioèche gli ‘Aestii’, i quali abitavano sulle spiagge ad oriente del mare suebico, ed avevanocostumanze e riti simili a quelli deiSuebi, adoperassero una ‘lingua Britannicae propior ”. c) La voce ‘Germania’ usata al plur. notasinello Agr. 15, 13. 28, 1: cf. ann. I 46,9; è evitata nella Germ., sebbene inquesta si presenti non rara l’ occasione della sineddoche mediante l’uso delplur. invece del sing. ‘d) Del Norico, che è più volte nominatonegli scritti di Tacito (ist. I 11, 9;70, 16. ann. II 63, 3), non si famenzione nel c. 1° della Germ., nel quale si descrivono i confini dellaGermania: appena, per incidenza, sì notain un altro ]. che la terra germanica è ‘ uentosior qua Noricum ac Pannoniam aspicit’ (Germ. 5,3); il che rende più evidentel’omissione fatta nel c. 1°. e) Colsolo nome ‘Caesar’, Tacito indicò il dittatoreGiulio Cesare (Rist. III 66, 16): più volte premise o aggiunse il titolo ‘ dictator” (/ist. III 68,5. ann. I 8, 27. II 41, 3. IV 34,21. VI16, 2. XI 25,9. XIII 3, 11. XIV 9, 6);una sola volta lo fece precedere dal prenome C. (ann. IV 43, 5). Nella frasedella Germ. 37, 20 ‘ Varum trisque cum eolegiones etiam Caesari abstulerunt’, siindica col solo nome ‘Caesar’ l’imperatore Augusto. ! f) Facendo menzione della vergine fatidicaVeleda, la cui autorità era divenutagrande dopochè ella aveva predetto lavittoria dei Germani e la distruzione dellelegioni romane, Tacito accenna ad un antico costume presso i Germani, ‘quo plerasque feminarumfatidicas et augescente superstitionearbitrantur deas’ (list. IV 61, 10).Nella Germ. si spiega il fondamento di tale credenza: ‘inesse quin etiam sanctumaliquid et prouidum putant, nec aut consilia earum aspernantur aut responsa neglegunt’ (Germ. 8, 6); ma siavverte che le donne fatidiche eranotenute ‘numinis loco’ e venerate ‘non adulatione nec tamquam facerentdeas’. 9g) Per il ritorno degli ‘Agrippinenses ’ in seno alla grandefamiglia germanica, si rendono grazie ‘ communibus deis et praecipuo deorum Marti’(Qisf. IV 64, 4). Nella Germ. 9, 1 siassevera, invece, che per i Germani il precipuo degli dei era Mercurio : ‘deorum maxime Mercurium colunt ’. h)Nelle Rist. IV 73, 12 si fa menzione dei Teutoni accanto ai Cimbri; nella Germ. 37, benchè visi tratti delle guerre cimbriche, siomette qualsiasi cenno intorno ai Teutoni. *i) Per l’autore degli ann. sono ‘clientes’ i compa 1 Negli ann. Augusto é detto una volta‘Caesar Octauianus (XII 6, 14) edun’altra ‘Caesar’ (I 2, 3), riferendosi però atempi anteriori a quello in cui egli prese il nome di Augusto (a. 727 /27: cf. WEISSENBORN, de Titi Liuiiuita et scriptis). La disfatta di Quintilio Varo avvenne nel settembre dell'a.9 d. Cr., cioè 36 anni dopo che Ottaviano era stato insignito col titolo diAugusto, gni dei capi barbari, p. es. i ‘clientes’ di Segeste (amm. I 57, 13), di Inguiomero (ann. II 45, 4), diVannio (ann. XII 30, 7); e chesignifichi ‘ clientela’ per Tacito sideduce dal l. degli ann. II 55,8. Nella Germ., invece, i compagni dei capi son detti, con voce piùnobile e decorosa, ‘comites’ (Germ.13,10, 12, 14, 14,7); ela loro riunione‘ comitatus” (Ger.), non ‘clientela”. j) Secondo la Germ. 4, 6, iGermani hanno ‘magna corpora et tantumad impetum ualida’. Negli ann. II 14, 14si restringe l’obietto di tale considerazione, poichè si nota che il corpo deiGermani è ‘uisu toruum et ad breuemimpetum ualidum ’. i k) L’ autore dellaGerm. non saprebbe affermare ‘nullamGermaniae uenam argentum aurumue gignere:quis enim scrutatus est ?” (Germ. 5, 9). E nondimeno negli ann. XI 20, 11 è detto espressamenteche nell’a. 47 d. Cr. Curzio Rufo ‘inagro Mattiaco recluserat specus quaerendis uenis argenti ’, tuttochè con pocoprofitto e per breve tempo. Se è assodato, da quanto narra Tacito negliann. XIII 57, 2 sgg., che i Germanifacevano uso del sale, non può evitarsiil contrasto con l’osservazione che leggesi nella Germ. 23, 4, cioè che iGermani si preparavano i cibi ‘ sine apparatu, sine blandimentis ?. Ed altri esempi omettiamo, per amore dibrevità. Mende tipografiche . 28 mendacium13 comunica 18 Seguo ll alleleggi mendaciorum comunicavaSeguiamo alle IAt/n^^'^ l^arbarli CollegeEibrarg FROM THE CONSTANTIUS FUND Established by Professor E. A. Sophoclbsof Harvard University for " thepurchase of Greek and Latin books, (theandent classics) or of Arabie books, orof books illustrating or ex plaining sudi Greek, Latin, or Arabie books.»» (Will} La " GERMANIA " comparata CON LA ''^NATÌ^RAUGHfGTOmA ' DI RDIMIO e con le opere di Tacito Altre opere del Prof. Dott. Santi Consoli: Italiensk Crammatik til brug forNorske og Danske. Catania , 1884. L. 3.(in deposito presso E. Hauffs boghandel,Kristiania in Norvegia). Istituzioni dilingua latina esposte, secondo il metodo scientifico, agli alunni delle scuolesecondarie classiche. Catania, F. Tropea Introduzione allo studio del D.N. Torino, F.lli Bocca Fonologia latina Milano, U. Hoepli Letteraturanorvegiana, Milano, U. Hoepli De C.Piinii Caecllii Secundi rhetoricis studiis.Catinae, C. Galatola Il neologismo negli scritti di Plinio ilgiovane. Contributo agli studi sullalatinità argentea. Palermo, A. Reber Neologismibotanici nei carmi bucolici e georglci di Virgilio. Contributo agli studi sullalatinità dell'evo augusteo. Palermo, A. Reber L' autore del libro " Deorigine et situ Cermanorum " : ricerche critiche. Roma, Loescher LA GERMANIA COMPARATA COLLANATVRALIS HISTORIA di Plinio e cosa le opere d.i rPaclto RICERCHE LESSIGRAFIGHEE SINTATTICHE lib. doc. di letteratura e lingua latina nella R. Università diCatania Loescher Bretaehneider e Regenberg Librai di S. M. la Regina d' ItaliaL-t l-l'iZ.i l \ (.Ji'ù i U ta.t ^ tCu>u Y^. (Catai^a^ via MaddemfD. Ttpoffrafia editriceBARBACALLO & 8CUDERI, in Catania. Alla memòria benedetta di mia madre E DIMIA MOGLIE . Il sagio che C. sommettealla benevola attenzione dei lettori ha ilsolo obietto di dare evidenza ad alcune osservazioni lessigrafiche esintattiche, più degne di nota, cherisultano dal confronto della Germania conla naturalis historia di Plinio e con le opere di Tacito. Si ommettono,per tanto, tutte le particolarità, concernenti la lessigrafla e la sintassi,che presentano gli scritti comparati, in quanto che tali particolarità o casiisolati sfuggono ad un'indagine comparativa. Nelle ricerche sulla genesi e losvolgimento delle voci e locuzioni considerate, terremo presente l'uso che ne fecero i più autorevoli scrittori latinianteriori a Plinio Secondo ed a Cornelio Tacito, e quelli ad essi contemporanei. Eviteremo, per ciò, salvo inqualche caso raro, di seguire le vicendedi una data espressione o di un datocostrutto sintattico nell'uso letterario deitempi seriori. Sarà ommessa altresì l' indagine di quei significati delle voci esaminate , i quali ,non essendo stati accolti nelle opereche sono obietto delle nostre ricerche,non sembrano di alcun vantaggio per la comparazione istituita. Al nostrocompito è sufficiente indagare per quale tramite la voce, la frase, ilcostrutto che si esaminano , sì sianointrodotti nelle opere messe incomparazione. Qualche osservazione critica appare, talvolta, nelle note;che, trattandosi di indagini comparative, è necessario, anzi tutto, esserecerti dei termini del confronto ed avernotizia delle vie percorse dalla criticaper fissarli. Quanto al testo diTacito, ci siamo attenuti all' edizione curata dal Halm ; e, per il testo dellanaturalis historia di Plinio, abbiamoseguito l'ediz. Jan-Mayhoff*. Ci è parsoopportuno seguire, quanto al testo dellaGermania, la recente ediz. curata da Io. Mueller ( ' editio maior, IIemendata, Vindobonae, Pragae, Lipsiae,MDCCCC '). Nel citare i passi di un autore, abbiamo eoa viliservato invariata l'ortografia del testo, quale è presentata neir ed. dicui ci siamo serviti : e perciò occorre,qualche volta, leggere nello stesso paragrafo o nello stesso rigol'identica parola scritta in più modi; p. es. ' adgnoscere ' e ' agnoscere ' ,' adgnatus ' e ' agnatus ' , ' caespes 'e ' cespes ', ' conlatio ' e ' coUatio ', ' inlacessitus ' e ' illacessitus ',' inpatiens ' e ' impatiens ', ' inputare ' e ' imputare ', ' inrumpere ' e 'irrumpere ', etc. I passi di Tacito sonodesignati con la indicazione del rigo ,dopo il numero che rappresenta il cap. ; e permaggiore chiarezza, a fin di agevolare le ricerche ed i confronti, si è indicato , ogni volta chesia apparso necessario, anche il num.del rigo nelle citazioni dei passi dialtri scrittori. Ad evitare, però, troppo curaolo di numeri, si è ommessa, nel citare i luoghidi Plinio, r indicazione dei numeri cherappresentano i capitoli e le sezioni:il luogo che si cita è indit^ato soltanto colnumero d'ordine del libro e col numero del paragrafo. Arrogi che , quante volte si è trascritto iltesto di un luogo della naturalishistoria, il numero rappresentante il libro è stato sempre espresso con segniromani ; allorché, invece, si è citatoun luogo della detta opera per semplice confronto o richiamo, senza latrascrizione del testo, si è indicato (da pag. 33 in poi) anche il numero d' ordine del libro con sole cifrearabiche. Non pare superfluo, in fine,avvertire (tuttoché, del resto , si siachiaramente detto e ripetuto nelle prefazioni dei nostri libri sui neologismipliniani e sui neologismi botanici nei carmi bucolici e georgici di Virgilio)che la nostra affermazione sulla novità di unvocabolo o di un costrutto sintattico nelle opere messe in confronto, o sul significato nuovo di vocianteriormente note, il quale si osserva nelle dette opere, va sempre accolta insenso ristretto , cioè in relazione al materiale letterario latino pervenutosino a noi. Certamente né Plinio néTacito si sarebbero serviti di voci nonnote ai loro contemporanei , né a voci usate prima avrebbero assegnatotali significati nuovi da non esserecompresi dai Tettori delle loro opere, A fin di determinare con lamaggiore chiarezza che ci sia possibilele relazioni lessicali tra i due libriconsiderati, pare opportuno trattare prima delle voci e frasi più notevoli, che appariscono usatedagli scrittori anteriori alTetà di PlinioSecondo, con lo stesso valore lessicaleche si nota nella Oerm. e nella nat. hist Sostantivi : 1/ * aduentus ' : Ge^^m. 2, 2 ^ aliarumgentium aduentibus '. n. h. XVII 242 ' Xerxis aduentu ' : cf. XV 52, XXIX 13. Plinio riferì ' aduentus ', oltrechéa persone, anche ad animali: n. h. X 30' ad hirundinum aduentum '. XXV 90 * florent aduentu hirundinum ' ; e acose diverse : v. n. h. II 142. XVIII 218. XXXII 59. C0N30U, La aermania comparata. 1 2 ~etc. : egli perciò si attenne all'uso della voce ' aduenfcus ' accolto nella latinità arcaica e nellaclassica. ^ 2.° ' alea ' vale « giuocodi fortuna , di rischio 5> : Germ.24, 6 ' aleam.. sobrii inter seria exercent '. n. h. XIV 140 ' quantum alea quaesierit tantumbibit '. Per indicare, in sensotraslato, 4; dubbio, incertezza » , laV. 'alea' è accolta nella 7^. ft^ praef. 7 ' M. Tullius extra omnem ingeni aleam positus '. Tantonell' uno quanto nell'altro significato,la v. considerata ha degli esempi intutti gli stadi della latinità. ^ 3.° 'amplitudo ' : Germ. 26, 6 ' nec enim cum ubertate et amplitudine soli laborecontendunt '. n. h. VI 119 ' stadiorumLXX amplitudine ': cf. X 52 ' in magnam amplitudinem crescit '. XIV 28 'foliorum amplitudo atque duritia ' : v. inoltreetc. Nello stesso significato proprio di « ampiezza, grandezza, estensione grande » era stata giàla voce ' amplitudo ' accolta nell' usodella latinità aurea. ^ 4.*^ ' annales ' : Germ. 2, Il ' celebrantcarminibus antiquis, quod unum apudillos memoriae et annali um genus est 'e. q. s. n. h. II 43 ' miraque humani ingenipeste sanguinem et caedes condere annalibus iuuat '. XXXIII 145 'erubescant annales qui bellum ciuile illud1 Vedi p. es. Pacvv. in Non. II p. 178 , 9 ed. Mere. ; p. 121 , a ed. Gerl.-Roth. Cic. de imp. Cn, Pomp, 5. 13. in Pis, 22, 51. p. Mil 19, 49. ad Ait XII 50. Tuse. Ili 14,29. de nat d. \ 38, 105. NtìP. XI (Iph.)2, 5. Sall. lug. 97, 4. etc. 2 VediForcellini-De Vit, lex t. I, p. 189. Georges, ausfùhrl Handwb. I, e. 276. 3 Varr. r. r. II 4, 3. Cic in Verr. IV 49, 109. L'uso fu continuato anche da Tac. hisi. IV 22, 15. IdiaL deoraioribua 37,23}. 3 talibus uitiìs inputauere ' K Taleaccezione di * annales ', per significare una narrazione storica ingenerale, rese possibile la confusioneche Puso seriore fece di * historia ' e* annales ', malgrado le distinzioni d' ordine diverso fatte da Gelilo eServio. ^ ò."" ' appellatio':Germ. 2, 17 * pluresque gentis appellationes '. ^ n. h. VII 59 ' se patris appellationesalutarent': v. anche II 116. XV 138. XXI 50. etc. Con lo stesso significato metonimico di « nome,denominazione, appellativo », oltreché con altri significati, la v. appellatio' appare prima in Cicerone. * 6."* argumentum ' : Germ. 25, 12 ' apud ceteros impares libertini libertatisargumentum sunt. ' n, h. Il 111 ' hautdubio coniectatur argumento ': v. inoltre II7; 8. III 86; 122. X 106; 107. XI 94 . XII 68. XV 12; 134. XXII 39. etc. Lo stesso significato di «argomento, segno , prova di fatto > ,e talvolta « indizio » ha la V. 'argumentum ', oltre ad altri significati, presso gli scrittori anteriori. '^ 1Cf. Tac. ann. II 88, 16. « Gfll. n, A.V 18 , 1-9. Sbrv. comm, in Verg. Aen. I373, voi. I, fase. 1^, p. 125 sg. Th.Cf. Isid. orig. I 43, col. 856. 3 Nonpare che sia degna di essere accolta la lezione congetturata da loh. Mueller :^ plurisque gentes et appellationes '.Abbiamo preferito attenerci alla lezione data dai codd., rifiutando anche il * plurisque ' dato dal Ritter ,Kritz , Haltn * , Zernial, Ramorino, etc: i codd. presentano * pluresque '. ^Cic. de dom. s. 50, 129. ad AH, V 20, 4. Un altro es. leggesi in un I. di Tito Ampio, riferito da Sveton.diu. lui. 77, 2. Vedi anche Tag. ann.Ili 56, 5. 5 V. i numerosi ess. diPlauto, Lucrezio, Cicerone, Livio, etcnel lex. Forcbllini-De Vit, 1. 1, p. 383 e néiVausfiXhrl Handeob, del G^ORGKS, I, e. 528 sg. ~ 4 ~7.** ^ armentum ' : nella Germ. vale a significare in generale « branco di animali grossi domestici» : 21, 3 ^ luitur enim etiam homicidiumcerto armentorum ac pecorum numero '.Plinio l'adopera nella n. h. per denotare branco di cavalli (Vili 165) o dicinocefali (VII 31) di certi buoi dellaFrigia (XI 125) o di animali in generale(Vili 44. XI 263). Per i vari significati dellaV. * armentum ' si erano dati anteriormente degli ess. da Varrone, Cicerone, Virgilio, Orazio,Ovidio, etc. ^ 8.** ' ars ' : Gemi. 24,3 ' exercitatio artem parauit , arsdecorem '. n. h. XVIII 197 ' artis quoque cuiusdam est aequaliter spargere (semen) ' : v. XI 81.XVIII 32. In Terenzio la v. * ars 'aveva di già assunto il significato particolare di « abilità, destrezza ». ^ 9.* ^ bigati ', antiche monete romane con l'impronta della biga : Germ, 5, 17 'pecuniam probant ueterem et diu notam ,serratos bigatosque '. n. h. XXXIII 46 'notae argenti fuere bigae atque quadrigae , inde bigati quadrigatique dicti '.Livio l'usò anche con lo stessosignificato. ^ 10. ** ^ cassis', t. ' cassid- ' : Germ. 6, 10 ^ uix uni al1 Varr. r. r. II 5, 7. Cic. Phil. Ili 12, 31. ad Att VII 7, 7. de r. p, II 35, 60. Verg. bue. 2, 23. 4, 22. 6, 45 e 59. georg. I 355; 483. II 144; 195; 201; 329. III 71; 129; 150;155; 162; 352. IV 223; 3P5. Aen, I 185.Ili 220; 540. VII 486; 539. Vili 214; 360. XI494. XII 688; 719. Hor. carm. I 31, 6. Ili 3, 41. ep. 1 8, 6. Ovid. mei. XV 84. fasi. II 277. « Tbr. Andr. 31 (I 1, 4). adeìph^ 742 (IV 7,24). Cf. Tag. Agr. 36, 2. « Liv. XXIII 15, 15: ò adoperata col valoreprimitivo di aggettivo in XXXllI 23, 7.5 terìue cassis aut galea '. ^Con lo stesso significato (« elmo dimetallo ») la v. ' cassis ' fu adoperata dagli scrittori anteriori. Nella n. h.si presenta col significato metonimico di guerra : XIII 23 ^ istapatrocinia quaerimus uitiis , ut per hocius sub casside unguenta sumantur'. 11.° ^ ciuitas ': l'espressione *Hermundurorum ciuitas \ che leggasinella Qerm. 41, 3, si riannoda direttamentead un* espressione consimile di Cesare. ^ A tale accezione della V. *ciuitas ' si ravvicina il passo della n. h,XXXI 12 ^ Tungri ciuitas Galliae ': cf. VII 200 ' regiam ciuitatera Aegyptii, popularem Attici postTheseum (se. inuenerunt) \ 12.** * colla tio ' ; Germ. 29, 6 ' exemptioneribus et collationibus '. n. h.XXXVII 10 ' Maecenatis rana perconlationes pecuniarum in magno terrore erat '. La v. ^ collatio ' vale per ciò « contributo,sussidio »; e con significato analogoera stata precedentemente usata daLivio. ^ Ma in un altro 1. della n. h. la v. considerata conserva il significato di « confronto,paragone », con cui era stata accolta daCicerone e da altri: * XXXVII 126 * optimaesunt quae in conlatione aurum albicarequadam argenti facie cogunt '.13.** ' color ' : appare nel significato proprio tanto nella Germ. 6, 9 * senta tantum lectissimiscoloribus 1 La differenza tra *cassis ' e * galea ' è notata da Isid. orig.XVIII 14, e. 1272. « Gaes. 6. e. IV 3, 3 * Vbii, quorum fuitciuitas ampia atque florens *. Cf. Tac. hist. I 54, 1 * ciuitas Liiigonum *.Agr. 17, 3 ' Brigantium e. ' 3 Liv. IV 60, 6. V 25, 5. etc. 4 CiG. Tuse \y 38, 83. de natd. ni 28,70. dediu. Il 17,38. etc. 6 distingiiiint ' ; quanto in più luoghi dellan. h. : Viti 193. XI 148; 151; 225. XXXV 81; 82. etc. La v. ' color' era stata prima accolta nello stesso senso daCicerone, Cesare e dai poeti dell' etàaugustea. ^ 14.*^ ' conciliura ': Germ.12, 1 ' licet apud concilium accusare '.n. h. XXXV 59 ' Amphictyones , quod estpublicum Graeciae concilium '. Con lo stesso significato dì « adunanza , concilio » , appare pressogli scrittori anteriori : ' riapparenegli scritti di Tacito. * 15.° 'condicio ': il significato tradizionale della voce ' condicio ' è conservato tanto nella Germ.24, 12 ^ seruos condicionis huius per commercia tradunt ' ; quanto nella n. h. Ili 91 ' Latinae condicionis '.IV 57 ' Aegina liberae condicionis' etc;^ salvo che nella n. h. si estende anche a cose estranee alle condizioni civilidegli uomini : v. XVIII 187. XXIV 158.16.'' ' conditor ': Germ. 2, 12 ' Tuistonem deum terra editum et filium Mannum originem gentisconditoresque '. n. h. XVI 237 ' Tiburno conditore eorum ( se. 1 V. gli ess. addotti nel lex.Forcellini-Db Vit, t. II, p. 283; e UQÌVausfùhrl. Handwb. dei Georges, I, e. 1199.« Il lex. Forgellini-Dk Vit, t II, p. 347, e V ausfùhrl Handwb. del Georges , I, e. 1301 sg. notano, perinesattezza , che Plinio abbia indicatocon la v. ' concilium ' il fiore bianco della pianta * iasine '. Nel passo della n. h. XXII 82 ilfiore della ' iasine ' è rappresentato(secondo i codd. Leid. Voss., Paris. Lat. 6796 e Riccard. di Firenze) dalla v. * concylium ',che V Urlichs ( Vindie. Plinian. ,Erlangae 1866, v. II 484 ) emendò rettamente • conchylium ', quale è stataaccolta nella recente ediz. Mayhoff : *concilium * fu presentato dalla * uulg. * sino all*ed. del Detlefóen, Beri. 1868, voi. III. 8Tac. hi8t. IV 64, 2. 4 Cf. Tag. ann. I16, 13. hist. II 72, 10. tiburtum) ' : v. Vili 61. XXII 5. etc. Nella n. h. si estende ancor piùil significato di ^ conditor ' , riferendosi , secondo esempi offerti dascrittori precedenti , a città : V 86,VI 92 ; 113 ; 177. XVI 216. età ; ^ allearti : praef. 26. XXXIV 89. XXXV 199. etc. ; ^ alla storia : V 9. VII 111. XXXVI 106. etc. ; '^alle leggi t XVI 13; a scuole filosofiche:XXVI 11. etc. * concurrunt multaeopiniones ' : cosi secondo i codd. ;neir ed. Fleckeisen si accoglie la congettura' concurrunt multa eam opinionem *. Cic. p. Rose. Am. 15, 45.etc. 5 Plavt. Men. 756 ( V 2, 4). Cic. Tasc. V 15, 45. Caes. b. e. hi 84, 3. Liv. IX 16, 13. Se ne valse ancheTao. hist I 79, ^ •^ SS."" ^ propìnquìtas ' : Germ. 7,10 ^ non casus nec fortuita conglobalo turmam aut cuneum facit, sed famìliae etpropinquitates ' : in traslato, per indicare « parentela », la V. *propinquitas ' era stata prima usata daCicerone, Cesare, Livio, etc. » Nella n. h. conserva il significato proprio : II 64 ' idemquemotus alias maior alias minor centripropinquitate sentitur ' : v. II 74. Il SIGNIFICATOPROPRIO di propinquitas ' osservasiprima in Cicerone e Cesare. ^34.*^ * quies ' : n. h. XVI 70 ' lenis quies materiae \ ^ XVIII 231 ^ uentorum quiete ' : nello stessosignificato di « calma, tranquillità »Cicerone e Virgilio avevano accolto lav. ' quies '. * Ma nella Germ. ingratagenti quies ', la v. considerata vale a indicare con 1 Cic. de fin. V 24, 69. Caes 6. G. II 4, 4. Liv. IV 4, 6.Cf. Tao. ann. XI 1, 11. È usata al sing e con lo stesso eignificato nei sgg. 11.: Cic. p. Quinci. 6, 26. p. Piane. 11, 27. Nep. X (Dion) 1, ?. XVn (Ages.) 1, 3. « Cic. de inu. rhei. I 26, 38. Phil III 6, 15. de off. Ili 11, 46. Caes. 6. G. li 20, 4. VI 30, 3. b. e. Il 16,3. etc. 3 Cosi leggiamo secondo icodd., tranne il Paris. 6795 (E delMayh.) e TÀrundel. del museo britannico di Londra, e secondo la ' lectiouulg. ' Neired. del Sillig. voi. Ili, Hamb. e Gotba 1853 , si afj^giunge ' est ' a ' quies '. IlMayhoff , ed. Lps. 1892 , innova radicalmentela frase , e legge ' leuisque est ', che siavvicina , nel suono della pronunzia , alla lez. * lenis qui est ', presentata dai detti codd. E e Arundel. L*Urlichs ( Vindie. Plin.y 264; Erlang.1866) si allontana di più dai codd.,, ammettendo la congettura * leui cuiu3'. 4 Cic. de leg. agr. 11 2 , 5 inCaiil. IV 1,2; 4, 7. p, Cael. 17.31>. p. r. Deiot 13, 38. ex libris aeadem. ineeriis tv. 4. defin. I 14, 46. V 20, 55. Tuse. I 41, 97.de r. p. I 4, 8. IV 1, 5. etc. Vbrg.geory. particolarità la « quiete dopo la guerra », come osservasi in Sallustio.^ 35.° ' receptaculum ': appare, nelsenso di « ricovero, rifugio, ricetto »,tanto nella Germ. 46, 20 ^ hoc senumreceptaculum (se. ramorum nexus) ' ; quanto nella n. h. X 100 ^ perdices spina et frutice sic muniuntreceptaculum ut centra feram abunde uallentur \^ E ciò è conforme air uso fattone prima da Cicerone ,Cesare , Livio '. 3 Ma nella Germ.assume anche il significato di «deposito, magazzino » per viveri: 16, 11 ^ subter raneos specus sufTugium hiemiet receptaculum frugibus ': talesignificato osservasi prima in Cicerone. ^36.** ' reuerentia ' : Germ. 29, 9 ' protulit enim magnitudo populi Romaniultra Rhenum ultraque ueteres terminosimperii reuerentiam '. n. h. XXXVI 66 ^ hacadmiratione operis effectum est ut , cum oppidum id expugnaret Cambyses rex uentumque essetincendiis ad 1 Sall. Cai. 31, 1: cf.Cic. de imp, Cn. Pomp. 14, 40. Tacito sivalse della v. 'quies* tanto ìq senso metonimico, per indicare « sogno, visione » (ann. I 65, 6: cf. Cic.acad. pr. II 16, 51. de diu. I 21, 43;24, 48; 25, 53; 28, 58; 29, 61; 43, 96; 55, 126. II 60, 124; 61, 126; 66, 135; 70, 145; etc). quantonel senso proprio di , è adope' ratanella Gemi. 36, 7 * tracti ruina Cheruscorum et L Fosi, contermina gens '; e nella n. h.XVII 245 ' Ne |, ronis principis ruina '. Si noti, però, la differenza :nella I Germ. , come in 11. consimilidi Cicerone, Sallustio, Li S vio, Ovidio, etc. ^, la v. ' ruina' si riferiscealle con p dizioni di un popolo o di uno Stato; mentre nella n. h. - concerne le condizioni di singole persone: di che si i hanno ess. in Cicerone,Orazio, Ovidio, etc. ^ Plinio si valseanche della v. ' ruina ' in senso metonimico : n. h. ^ XXXIII 74 ' flumina ad lauandam hanc ruinamiugis montium obiter duxere ' : ^ cf.XXXIII 66 ^ in ruina ;; montium '. 40.* * saeculum ' : Germ, 19, 9 ' neccorrumpere et corrumpi saeculum uocatur\ Di tal valore metonimico di * saeculum', per indicare i costumi dominanti in un1 Cic p. SesL 2, 5. 51,109. 57, 121. in Vatin. 8, 21. de proo,eons. 18, 43. p. Balb. 26, 58. ep. (adfam.) V 17, 1. Sall. Cai. 31, 9. Liv. XLV 26, 6. Ovid. mei. VII! 498.Vbll. Paterg. h. R II 91, 4. etc. liGborges, ausfiXhrl Handiob.^ II, e. 2165 ,attribuisce per inesattezza a Cicerone la frase sallustiana ' iocendium meum ruina («e. rei publicae) restinguam *(^Cat 31 , 9). La frase di Cicerone (p.Mur. 25, 51) é: * respondisset, si quod esset in suas fortunas Incendiumexcitatum, id se non aqua, sed ruinarestincturum '. « Cic. in Catti I 6,14. eum Sen. grat. egii 8, 18. de fin. I 6, 18: cf. de prou. eons, 0, 13.de dom. s. 36,96. Hor. earm. II 17, 9. Ovid. ex Pont I 4, 5. '^ In simil modo , riferendola a cittàdistrutte , usarono la v. * ruina' Liv.IX 18, 7. XXI 14, 2. Vbll.Patbrc. h. R. II 19, 4; ed altri.19 dato tempo ( i Tedeschi ciòdesigaano con la voce « Zeitgeist ») sihanno ess. precedenti in Terenzio, Virgilio, Orazio, etc. ^; ma il tramite percui dovette passare, per aversi il significato metonimico su cennato, notasi , senza dubbio » conservato neir usofattone da Plinio nel sg. 1. della n. h.XXXVII 29 ' haec fuit suprema ultio saeculum suum punientis ( se. Neronis ) ': V. XXXVII 19. 41.** ^ sagum ': è voce di origine celtica,usata nella Germ. ad indicare il saio ovestito dei Germani : 17 , 1 ^ tegumenomnibus sagum fibula aut, si desit, spinaconsertum '.^ Nella n. h. fu riferita al saio dei pastori : VIII 54 *pastoris Gaetulìae sago ' ; e ad un indumento dei Druidi: XVI 251. XXIX 52 : eciò per analogia dell'uso fattone da Columella, che con la v. ^ sagum ' avevaindicato la veste dei contadini.^ Neil' usoclassico * sagum ' si restrinse a dinotare il mantello dei soldati. ^42*'' ^ sata ' : in diretta provenienza dall' uso fattone da Virgilio, ^ in sostituzione della voce 'segetes ', os 1 Tbr. eun. 246 (Il 2, 15). Verg. georg. I 468. Aen. I 291.Hor. carm. III 6, 17. , che osservasi in Cicerone, ^ per iltramite dell' uso particolare fattone daBruto. ^ 51.** * superstitio *: Germ.39, 10 ^ eoque omnis superstitio respicit '. n. h. XXXI 95 ' superstitionietiam sacrìsque ludaeis dicatum ' : v.inoltre VII 5. XXI 182. XXII 118. XXX 7.XXXVII 160. Si valsero prima della v. '^superstitio ' Cicerone, Virgilio , Livio, Seneca , Columella, etc. ^ 52.** * temperantia ': Gerrn. 23, 5 'aduersus sitira non eadem temperantia '.n. h. XXVIII 56 * multo utilissima est temperantia in cibis \ Col medesimosignificato 1 CiG. de /Ia. I U, 37*doIoris amo tic successlonem efficitudluptatis '. Ma in un fr. dell' esordio del libro Hortensius^ ri* ferito da Avqvstin. de uit ò. 26, io opp, t.I p. 308, Bened. , la V. 3. Tuse. Ili 29, 72. de nat. d. I 17, 45; 20,55; 27, 77; 42, 117. II 24, 63; 28, 70 e71. Ili 20, 52. de diu. I 4, 7. II 7, 19; 39, 83; 41, 85; 60, 126; 63, 129; 67, 136; 72, 148 e 149.de legihm I 11,32. II 16, 40; 18, 45.[Il fr. del 1. de legibus cit. da Serv. eomm. in Verg, Aen. VI 611, voi. II, p;ig. 85, in cuinotasi la frase * auget superstitionem ', ò riferito dal Thilo al 1. cit. II16, 40. Il Nobbe, pag. 1222, lo ascrive,invece, terzo tra i frammenti ' incertorum lib-orum de legibus']. Vedi inoltreVero Aen. XII 817. Liv. XXVI 19, 4. SBN.ep. XX 5 (122), 16 (al quale I. si paragoni XV 3 (95J, 35). Colvm. de r. r. I 8, p 326, 22. Cf. Tac. Agt. li. 11. hist.11 4, 13. V 13, 2. ann. W dì «teiiiperahza, continenza, moderazione» la v.Uernperantia ' era stata accolta nell' uso degli scrittori anteriori. ' transfuga ': nel significato proprio ,secondo f: l'uso accolto prima daCicerone, Sallustio, Livio, etc. ^', siosserva nella Germ. 12, 3 ' proditores et transfugas arboribus suspendunt \Attenendosi, invece, alla tradizioneavente in prevalenza carattere poetico ^,Plinio si valse della v. * transfuga ' nel senso traslato: n. h. XXIX 17 ' solam hanc artium Graecarum(se. medicinam ).... Quiritiumpaucissimi attigere et ipsi statim adGraecos transfugae '. 54.** ^ tributum': nel significato proprio appare egualmente nella Germ. 43, 4 * Osos Pannonicalingua coarguit non esse Germanos, etquod tributa patiuatur '; e nella n. h. XXI 77 ' ceram ir\ tributa Romanis praestet': v. altresì VI 119. XII 112. etc.Del resto, la v. * tributum ', indicandocosa che ha tormentato i popoli in tutti i tempi, fu assai nota agli scrittorianteriori. ^ 55.° ' uilitas : Plinio sene avvalse tanto nel senso r£ proprio di«poco prezzo, buon mercato», secondo glir. 1 CiG. de or. II 60, 247. pari. or. 22, 76.ep. (ad fam.) I 9, 22. Tuae. Ili 8, 16. V 20, 57. de off. Ili 25,96; 33. 116. etc. Cf. Tac. ann. I 14, 4. 8 CiG. de dia. I 44, 100. Sall. lug. 54, 2. Liv. XXIV 30, 6. XXVII 17, 11. etc: cf. epit Z. LI. f 3 HoR. earm. III 16, 23. Lvgan. de b. e. Vili 335. l: •* Cic. m Verr. Il 53, 131; 55, 138. Ili 42, 100. p, Flaee. 9,20. 19, 44. 32, 80. ep. (ad fam.) HI 7,3. XV 4, 2. de off. W 21,74; 22, 76. etc. Cabs. b. G. VI 13, 2.6. e. HI 32, 2. Liv. IV 60, 4. XXIU 31, 1. etc. èss.presentati prima da Cicerone •: n. h. XVIII IS' annonae uilitas incredibilis erat ': v. anche Vili 7. XIV 35; 50. XVIII 273. XXXIII 50. XXXV 47;quanto nel senso traslato di « poco valore, poca importanza »: fi. h. XX i 'nominum uilitate deceptus \ XXXVI 119 *quae uilitas animarum ista ': dello stesso modoII 26. XI 39. XIX 59. XXVI 43. XXXIV 2. A questo secondo significato, che si osserva in Plautoe in altri scrittori, ^ si avvicina 1' uso fattone nella Germ. 5, 11 * est uidere apud illos argentea uasa....non in alia uilitate " quam quaehumo flnguntur '. 1 Cic. in Verr. Ili92, 215; 93, 216; 98, 227. de imp, Cn, Ponip.15, 44. eum pop. graL egii 8, 18. de dom, s. 6, U e 15. 7, 16 de off. Ili 12, 52. « Plavt. eapt 230 (II 1, 37). Pbtron. sat.118 Qvintil i. o.V 7, 23. etc. Cf, 'uilitatem uerbi * in Non. 12, p. 531, 2 ed. Mere; p. 363 a ed. Gerì, e Roth. 3 * Vllìtas ', nel 1. e. della Germ , nonsignifica « vilipendio, spregio » ( «Geriogschaetzung », come commenta U. Zernial,o. e., p. 24), ma «poco valore, poco pregio»; sicché l'intera frase ' non in alia uilitate ' vale, secondola giusta osservazione del Grbverus, Bemerkungen zu Taeiius' Germania, 01denb'urg1850, p. 21, lo stesso che * eodem uili pretio*. La var. * utilitate *, presentata dai codd. Vatic.VRB. 655,- Rom. Àug. bìbl., Florent.Laurent. 73, 20, Viodobon., e sostenuta si vivamente dal Kritz, P. C. Tae.Germania, Beri. 1864, p. 42 sg, cheaccusa di * sententìa prorsus absurda ' la lez. ' uilitate ', probabilmente si deve a quella stessainavvertenza dei copisti, per la qualenel 1. della n. h. XX 1 si legge nei codd. ' utilitate \ invece di 'uilitate 'che è lez. data dal solo cod. Paris.6795, accolta dalla ' uulgata ', e ripetuta nella recente ed. del Mayhoff, voi. Ili, pag. 302, 14. ^ 26II. Aggettivi : 1.^ * arcanus ': Germ. 40, 20 ^ arcanus bineterror '; n. h. XXIX 21 ' arcana praecepta': cosi notasi usato da Cicerone,Virgilio, Ovidio, etc. ^ Ma nella n. h. èriferito anche, secondo V accezione di Plauto, ^ a persona : VII 178 'petiit uti Pompeius a4 se ueniret autaliquem ex arcanis mitteret ' ; per lo più è usato in funzione di sostantivo : n. h. Il 65. VII150. XXV 7. XXVIII 129. XXX 9. La frase * arcana sacra ' osservasi inOrazio e Ovidio ^ prima che nella Germ. 18, 7 ^ hoc maximum uinculum, haecarcana sacra, hos coniugales deos arbitrantur '. 2.^ ^ argenteus ' : nel significato comunedi « argenteo, fatto d' argento » *notasi nella Gerrn. 5, 12 ^ est uidere apud illos argentea uasa ' ; e nella n.h. XXXIIf 142 ' missa ab iis uasaargentea ^ non accepis$e ' : v. in 1Cic. de fin. II 26, 85. Vl^rg Aen. IV 422.VI 72. Ovid mei. IX 516. etc. Cf. Tac.ann. II 54, 13. sPlavt. irin, 556 (li 4, 155): si può aggiungere il v. 518 (II 4. 117) in cui, secondo il commeuto delCocchia, Torino 1886, p. 65, la V. *arcano ' ò agg. di cas>o dat., che concorda con ' tibi': ma nei lessici Forgbllini-De Vit.,t. l, p. 361,é6B0ROES, I, e. 505, ò considerato come avverbio. 3 HoR. epocL 5, 52. Ovid meL X 436. Cf. 'fatorum sacra ' in Vero Aen. I 266. VII123. * Tale significato osservasi inLiv. Andr. Odi9.tv. 5, in PLM edBaehrens, voi. VI, p. 38. Varr. de l L. IX 40, 66, p. 216 Sp. Cic. in Verr, II 19, 47; 47, 115. IV 43, 93.V 54, 142. in Catil. I 9. 24. II 6, 13:cf. de nat d. III 12, 30; 34 84. etc. ^Gli ' argentea uasa * sono prima menzionati da Cic. in Verr, IV 1, 1. Phil. II 29, 73. HoR. sai. II 7, 72sg. etc. Plinio li disse anche ' uasa ex argento ' : n. h. XXXIII 139. oltre Vili 12. XXII 99. XXVIII 82; 126.XXIX 125. XXXIII 52; 53; 56; 151 ; 152.XXXIV 160. XXXV 4. XXXVII 105. etc.Nella n. h. valse apcbe a significare €ornato o ricoperto d'argento, inargentato » ' : XXXIII 53 ^ G. Àntonius ludos scaena argentea fecit' : v. altresì XXXIII 144; 151. etc. ^ «argentino, del colore d'argento » : MI 90 ^ flt et candidus cometes argenteocrine ' : V. inoltre IV 31. XVI 76. XXIV 172. XXXVI 137. XXXVII 146; 147. etc. Ma nel passo dellaOenn. 5, 20 ^ numerus argenteorumfacilior usui est ' , assunse valore disostantivo, come prima in Livio e poi in Vopisco, 3 per indicare certe moneted' argento , per le quali Plinio adoperale espressioni ' argenteus denarius ' (n. h. XIX 38. XXI 185) o ^ nummus argenteus ' (n. h. XXXIII 47). 3.* * ater ' : Germ. 43, 22 * atras adproelia nootes legunt '. ^ n. h. II 79 * atram in obscuritatem ' . Nella n. h. osservasi inoltre r agg. ^ ater 'attribuito al colore: VI 190. XI 171 (cf. XVIII 4). XIII 98. XXX 16. XXXV 127; al sangue: Vili 49; alle nubi:XVIII 355; alle erbe: XVII 33 S; allabile: XXI 176; alle ulcere: 1Significato analogo si osserva io Cic. p. Mar. 19, 40. Liv. X 39, 13. etc. 2 Cosi in Cic. in Verr. IV 20, 42. Vbrg.Aen. Vili 655. Ovid. mei. Ili 407.eie. 3 Liv. XXX Vili 11, 8. Vopisc.Prob. 4, 5. Bonosus 15, 8 : v. seripit hist Aug. XXVIII e XXIX, voi. II, ed.Peter. 4 Cf. HoR. epod. 10, 9 ' atranocte '. 5 Neired. Mayhoff deUa n. A., voi. Ili, p. 283, 6, leggesi per il passo XIX )26, secondo la congettura delSalmasio (PUnianae exereiiaiiones inSolini polghisiora^ Traiecti ad Rheo. 1689;,' albae (ac. lactucaQ) ' , meotre ì codd. , eccetto il Paris. 10318 (Q del Mayh.), e la ' uulgata ' danno ' atrae'. XXtl 154; ad una qualità dì marmo:XXXVl 49. tn accezioni consimili notasila v. ^ ater ' in Cicerone, 0razio, Ovidio, Seneca, etc. * 4.*" ^ caeruleus ' : Tespressione 'caerulei oculi ' si legge nella Germ. 4,6 e nella n, h. Vili 74: in entrambe siscorge r imitazione della frase ciceroniana * caeruleos esse Neptuni {se. oculos) '. ^ Nella n. h. Vepiteto * caeruleus ' è riferito , inoltre , a certi animali : Vili 141. IX 46. XXIX 86; a vegetali: XV 128. XXII 57.XXVII 105; a minerali: XXXVI 128. XXXVII134; alle acque del Boristene nellastagione estiva: XXXI 56. I lessiciabbondano di ess. sull'uso dell' agg. 'caeruleus' nell'età anteriore aquella pliniana. 5.** * equester ' :riferito a cavalleria, gente a cavallo,combattimento equestre , notasi , secondo gli ess. di scrittori precedenti, ^ nella Germ. 32 , 3 'Tencteri.... equestris disciplinae artepraecellunt '; e nella n. ^. Vili 162'in libro de iaculatione equestri condito ': v. XXXIV 66. XXXV 129. XXXVII 111. etc; e per ' statuaequestris ' V. XXXIV 19; 23; 28. etc.Notasi anche nella n. h. riferito all' ordine civile dei cavalieri, come in 11. simili di Cicerone,Nepote, Orazio, Livio, etc: * v. n. h. V12. VI 181. VII 88; 177. IX 1 CiG. Phii II 16, 41. Tuse. V 39, 114.Hor. earm. II 16, 2. OviD. am. I 14, 9.met XV 41. Sen. ep. IV 2 (31), 5 Cf. Tac.hisL V 6, 19..« Cic. de fiat d. I 30, 83. 3Vedi Cic. in Verr, li 61, 150. PhiL IX 6, 13. de fin. II 34, 112.Caes. b, G. Ili 20, 3. Liv. Vili 7, 13. XXVII 1,11 ; 42, 2. etc. 4 Cic. p. Piane. 35,87. ad Q. />. I 2, 2, 6. de r. p. I 6, 10. Nep. XXV (Att.) 1, 1. HoR. sai. II 7, 53. Liv. V7, 5. etc X solo. X 71; 141. XII 13. XVII 245. XIX110. XXXIII 32; 34; 112. etc. dub,seì^m. XV p. 55, 2 ed. Beck. 6.** *feralis ' : Germ. 43, 22 * ipsaque formidine atque umbra feralis exercitus terrorem inferunt '.^ n. h. XX 113 ^ defunctorum epulisferalibus ' : v. XVI 40. L'agg. *feralis', in senso traslato, è adoperato, come in Ovidio, Lucano, etc. 2, anchenella n. h. XVIII 237 ' Caesar et idusMart. ferales sibi notauit scorpionis occasu ' : V. X 35.7.^ ' ferax ' : Ge^'^m. 5,4' satìs ferax ( se. terra ). ' n. h. XV 100 ' minime feraces musti (se.acini) ' : v. XVII 105 ; 124. L' uso di' ferax ' nel significato proprio , or con r ablativo or col genitivo ,osservasi nei poeti deir età augustea,^ 8.^ ' infamis ' : Germ. 12, 4 'corpore infames caeno ac palude...mergunt ' : v. anche 14, 3. n. h. XXXIII48 ' nec iam Quiritiu.m aliquis sed uniuerso nomine Romano infami rexMithridates Aquilio duci capto aurum inOS infudit ' : v. IX 79. In Cicerone si notano numerosi esempi. ^ 9.^ ' infernus ' : usato nel significatogenerale di 1 Con significato simileosservasi V agg. * feralis * in VergAen, IV 462. VI 216. Ovid. irisL III 3, 81 ; 13, 21. etc. Cf. Tac.hisL I 37, 10. ann. II 31, 7. 2Ovid. met IX 213. Lycan de b. e. II 260. Cf. Tac. hisi V 25, 15. ann. IV 64, 2. 3 Con Fablat : Verg. georg. II 222. Colgenit. : Hor. epod. 5, 22. Ovid. met VII470. Col genit. e con T ablat. : Ovid. am. U16, 7. * Cic. p. Rose. Am. 35,100. diu. in Caeeil 7, 24. in Verr. IV9, 20. p. Font. Il, 34/,. Cluent 47, 130. in Caiil. Il 4, 7. p.Cael 22, 55. in Pis. 22, 53. />. Seaur. 2, 8. FhiL XI 3, 7. defin. U 4, 12. Cf. Tac, hist. II 56, 9. ann. I 73,7. VI 7, 6. XV 49, li. y30 « inferiore, di èotto, basso» , osservasi nella n. h. II 128 * illeinfernus (s(7. auster) ex imo mari spirat ' ; ^e prima in Cicerone, Livio, Seneca, Lucano.^ Nella Germ. 43, 23 ^ nullo hostium sustinente nouum acuelut infernum adspectùm ', è adoperato nel significato particolare di «infernale, d'averno », secondo gli ess. checi è dato osservare precipuamente negli scritti poetici del tempo d' Augusto. ^ 10.^ * lineus ' : Qerm. 17, 10 ^ feminaesaepius lineis amictibus uelantur \ n,h. XII 25 ^ uestes lineas faciunt folife\ XXIX 114 ' lineo panno ' : , 236. araam. I 205. ^ 7 Cic. p. SesL 20, 46. denat d. Il' 39, 100. Liv. I 4, 6. Cvrt. hist. A. M. IV 9 (38),J9. * multitudine pìscium fluitante' : v. 15, 63. 16, 168. 37,37. Nella Gemi, 17, 3 ' locupletìssimi ueste distinguuatur non fluitante', è adoperato in traslato, secondo ess.consimili presentati da Catullo, Ovidio, etc. ^ 2.** ^ labans ' : 6r^r/n. 8, 1 * quasdamacies inclinatas iam et labantes afeminis restitutas '. n. h. XXXV 117 'sunt in eius exemplaribus nobiles palustri accessu uillae, succoUatis sponsione mulieribuslabantes, trepidis quae feruntur '. Conformi sono gli ess. che prima ne avevano dato Cicerone, Virgilio , Orazio ,etc. ^ Pel significato proprio dell'agg. ' labans ', v. n. h, XXIV 119 *labantes dentesflrmant '. XXIX 37 ^ dentibus mire prosunt, etiam labantibus '. * 3.** ^ marcens ' : Germ. 36 , 1 ^ Cheruscinimiam ac marcentem diu paceminlacessiti nutrierunt '. n. h. IX 147 'alias marcenti similis et iactari se passa fluctu algae uice ', e. q. s. Ess. anteriori sinotano in Orazio, Valerio Massimo,Seneca. ^ 4.** * auspicatus ' : Germ. 11, 5 ' agendisrebus hoc auspicatissimum initiumcredunt '. n. h. XIII 118 ^ necauspicatior in Lesbo insula arbor '. XVI 75 ' comitantur et spina,nuptiarum facibus auspicatissima '. Nello stesso significato di « prospero, di buono augurio,iniziato sotto 1 Catvll. 64, 68. OviD. mei. XI 470. ars am. II 433 sg.Cf. Tac. hist III 27, 12. V 18, 3.« Cic. p. Mil 25, 68. Verg. Aen. IV 22. XII 223. Hor. carm. III 5, 45. etc. Cf. Tac. hist II 86, 8. ann.XIV 12, 21. 8 Vero. Aen, lì 463. 4 Hor. sat II 4, 58. Val. Max. f. et d. m, II 6, 3. Sen. ep. XIV l (89), 18. Cf.IvsTXN. epii. XXXIV 2, 7. auspicifavorevoli » , era stato prima adoperato daCatullo , Velleio Patercolo, etc. 'Per la forma comparativa ' auspicatius ' con valore avverbiale, v. n. h. 3, 105. 7, 47. 5.'' ' contactus ': Gemi. 10, 13 ^ (equi)publico aluntur isdem nemoribus ac lucis, candidi et nullo mortali operecontacti '. Tale uso di ^ contactus ' in sensot'raslato osservasi prima in Livio, Properzio, Ovidio, Seneca. ^ In più luoghi della n, h. è accoltoin senso proprio: v. 7, 17. 8, 78; 85. 9, 147; 183. 11, 193; 277. 18, 152. 28, 80. 29, 51. 34, 146. 36, 58.etc. 6.° ' effusus ': Germ. 30, 2 ' nonita effusis ac palustribus locis, ut ceterae ciuitates '. Dello stesso modo, per indicareluoghi estesi, vasti, fu usato da Orazio eVelleio Patercolo. ^ Nella n. h., oltre al conservare il significato proprio di « versato, sparso,etc. »: v. 4, 101. 6, 71. 8, 14; 161. 9,102. 16, 2. 20, 90. 22, 145. 29, 50.etc, il quale significato osservasi prima in Cicerone, Virgilio, Livio ed altri ', passa in traslatoad indicare profusione, eccesso, esagerazione: III 42 ' Grai, genus in gloriamsuam effusissimum ': v. 7, 94; eciòse JCatvll. 45,- 26. Vell. Paterc. h. R. II 79, 2. Cf. Qvintil. i. 0, X 1, 85. Col significato più genericodi « inaugurato dopo presi gli auspici »apparo in Cic. p. Rab. perd. 4, II. Hor.carm. Ili 6, 10. 2 Liv. II 5, 2.IV 15, 8. VI 28, 6. XXI 48, 3. etc. Prof. I J, 2. OviD. epist ( her, )4 , 50. Irist III 4, 78. Sen. Phaedr. 714.Cf dial, de oraioribus 12, 8. 3 Hor. €p, I 11, 26. Vell. Paterc. A. R. Il43, 1. 4 Cic. de diu. I 32, 69. Vero,georg. IV 288; 312; 337. Aen, VI 339;686. X 893. Liv. I 4, 4. XXX 12, 1. etc.37 condo gli ess. che neavevano dato Cicerone, Nepole, etc.« 7.** ^ excìsus ': Germ. 33, 3 ^pulsis Bructeris ac penitus excisis uicinarum consensu nationum '. Primala V. * excisus '.era stata riferita nonsolo a popoli ed cserciti, ma anche a città, campi, regioni, etc. : ^nella n. h. si attiene più strettamenteal significato proprio e assume, talora,un significato pregnante: XXXIII 48 *caput eius {se. C. Gracchi) excisum '. ^ XXXIII 139 * anaglypta asperìtatemque exciso circaliniarum picturas quaerimus '. XXXVI 125 ' uias per montes excisas '. Ess. di taleaccezione si osservano in Cicerone,Virgilio, Ovidio, etc. ^ 8.° 'infectus ': Germ. 4, 1 ' Germaniae populos nullis [aliis] aliarum nationumconubiis infectos '. n. h. XXX 8 'infecto, quacumque commeauerant, mundo '. Lostesso significato in traslato osservasi in Cicerone, Virgilio, Livio,Lucano, etc. ^ Nella n. h. appare anche usato nel significato proprio: VI 70 'tinguntur sole po 1 Cic. p. Rose. Am.24, 68. p. Cael. 6, 13. de nat. d. I 16 . 42.Nep. I (Milt.) 6, 2. Cf. Tac. hisL li 45, 11. ann. I 54, 8. « Cic. p. Sesi. 15, 35. in Pis. 40, 96. Caim. 6, 18. Hor. carm. Ili 3, 67. Vell.Patbrc. h. R. Il 115, 2; 122, 2: aggiungiamoII 120, 3 Jelto secondo l'ed. prìnc. del 1520, che nell' apogp. Amerb.si legge ' occìsi exercitus ', invece di ' excisl exercitus '. Cf. Tac. hist II 38, 4. ann. XII 39, 9 3 Cosi nei codd. e nella * iiulgata', ma nelsolo cod. Bamberg. e nelle edd Sillig.,Jan e Mayhoff si legge * abscisum *. 4Cic in Verr. Ili 50. 119 V 27, 68. Vero. Aen II 481. VI 42. OviD ex Pont. Ili 1, 96. V. inoltre Plin. n.h. 35, 94; 154. 5 Cic. ad A ti. I 13,3. Vero. Aen. VI 742. Liv. XL 11,3. Lvcan.de b. e IV 736. Cf Tac. hi8t I 74, 1. ann. II 2, 7 ; 85, 13. 38puli, ìam quidem infecti ': i v. inoltre 8, 197. 9, 18. 11, 31; 32; 154. 15, 87. 20, 25. 21, 26. 28,83; 110. 32, 77. 35, 41. 37, 118. etc.Ess. precedenti di tale uso si notano inVirgilio, Properzio, Mela, etc. ^ 9.'' ^ ligatus ': Germ. 39, 7 ^nemo nisi u inculo ligatus ingreditur '. n. h. IX 103 * breui nodo ligatis ':v. altresì 11, 255. 17, 115. 18, 261. Nello stesso significato proprioosservasi ' ligatus ' in Catullo, Ovidio, Seneca, Columella, Lucano. ^ 10.^ * monstratus': Germ. 31, 11 ' iamque canent insignes et hostibus simul suisque monstrati '.n. h. XXII 44 ' hacherba dicitursanatus, monstrata Perieli somnio aMinerua ' : v. 8, 182. Lo stesso uso di ^monstratus ' notasi prima in Virgilio,Ovidio, Lucano ed altri. ^ 11.^ * nauigatus ': Germ. 34, 5^ ambìuntque immensos insuper lacus et Romanis classibus nauigatos '. n. h. XXXVI 104 'urbe pensili subterque nauigata ': v. 6,72. Un es. consimile si osserva in Mela: ' non nauigata maria transgressus est'; ^ es. fondato sull'uso del verbo ^nauigare ' nelle forme passive, ^ in consegueni Un concetto consimile, espresso anche col verbo * inflcere ', si nota in Sen. Oed. 122 sg. e Here. [OeQ337. « Vero. Aen. V 413. VII 341. Prop.TU 11 ( 18 b ), i (23) Muell. PoMP. Mel.chor. III 6, 51 (cf. Cabs. b. G. V 14, 2). Vedi Tac. hi8t III 11, 1. 3 Catvll. 2, 13.OviD. mei. Ili 575 (cf. Liv. V 27, 9). Sen. Med. 742. CoLVM. de r. r. XI 2, p. 591, 23. Lvcan. de b, e. Vili 61. 4 Vbrg. georg. IV 549. Aen. IV 636 : cf.Aen, IV 483. Ovid. trést III 11, 53. Lvcan. de b. e. Vili 822.Cf. Tac. Agr. 13, 15. hi8i. I 88, 3. Ili 73, 14. 5Pompon. Mei*, ehor. II 2, 26. 6 VediSBN. n. q. l\ 2, 22. Pun. n. h. 2, 167. 6, 175. -.89 «.5Mi deiruso transitivo fattone prima da Cicerone, Virgilio, Ovidio, etc.» 12.** * publicatus ': Germ. 19, 7 *publicatae enim pudiciUae nulla uenia ': tale accezione in senso cattivo del part. * publicatus ' dipende dalsignificato con cui fu adoperato daPlauto il verbo * publicare '; - ma nella n. h. * publicatus ' assume ilsignificato proprio di «pubblicato, resopubblico »: XXXIII 17 ^ publicatisdiebus fastis ' : » v. anche 29, 26. 35, 24. 13/ Si noti, in ultimo, ^ impatiens ', che èforma participiale con la negativa * in- ' premessa. È riferito, in traslato, a cose prive di vita tanto nellaGerm. 5, 4 ' satis ferax (se. terra),frugiferarum arborum impatiens '- quanto nella n. h. XXXVI 199 ' est autemcaloris inpatiens (se. uitrum) ' : v. 33, 162. 37, 26. Nella n. h. è riferito pure ad animali: v. 8, 28;167. 10, 170. 23, 67. etc.; ed a piante:v. 14, 28. 16, 219. 18, 123. 19, 166.21, 97. etc. Dell' estensione intraslato del significato di ^ impatiens ' si asservatto ess. anteriori inOvidio, Curzio, etc.^ Quanto alreggimento di ' impatiens ', v. il cap. Ili, C,II, 3% *. IV. VerU :1.° ^ absumere ' : Germ. il, 10 ^ sed et alter et tertius diescunctatione coéuntium absumitur '. n. h. VI103 * quia maior pars itineris conficitur noctibus propter » Ctó. de M' '1 34, use. Vbro. Aen. I 67. Ovid. mei, XV 50. « Plavt. Baeeh. S%3 (IV 8, 22). » Cf Vkl. Patbrc. h. R. Il 114, 2. * Ovid. ara am. II 60. C^rt. hiéi. A. M. ì\ 4 kìò), U. aestuus etstatiuis dies absumuntur ' : cf. 5 , 58. 22 , 98. Nello stesso significato , riferito alconcetto di tempo, era apparso prima inCicerone, Livio, Ovidio, etc. ^ Nella n.h. , secondo gli ess. presentati dagli scrittori anteriori,^ appare ancheristretto al significato proprio : II 45 ^ quem (se. umorem) solis radiiabsumant ': V. inoltre 9, 119 ; 121. 28,267. etc. ; e quanto alla forma passiva 'absumi ', v. 2, 184. 6, 91. 9, 153.11, 128. 14, 33. 25, 57. 36, 131. etc.cf. 5, 56. 2.° ^ adfectare ' ; Germ.37, 24 ' occasione discordiae nostrae etciuilium armorum expugnatis legionum hibernis etiam Gallias adfectauere '. n.h. XXXIV 30 * Sp. Cassius, qui regnumadfectauerat ' : cf. 34, 15. Con lostesso significato concernente l' ordine politico, appare in Sallustio, Velleio Patercolo, etc. ^ Nellan. h. si attiene anche, come osservasi negli scrittori precedenti, * ad UN SIGNIFICATO PIU GENERALE diligentiam superuacuis adfectare ': v. 7, 8. 17, 84. 22,69. 25, 73. etc. 1 Cic. p. Quinci.10, 34. Liv. XXII 49, 9. Ovid. irist IV 10, 114. Cf. Tac. Agr. 21, 1. ann, II 8, 9. « Plavt. Cure. 600 (V 2, 2). most 235 (I 3, 78). Ter. haut 458 (III 1, 49. Phorm. 834 (V 5, 6). Varr. r. r. IH 17, 6. CaTVLL. 64, 242. Vero. Aen. Ili 257. Hor. earm. II14, 25. ep. I 15, 27. Liv. XXIV 47, 16.XXX! V 7, 4. Sen. de ben. VII 31, 5. 3Sall. lug. 66y 1. />. hiat. I in Avgvstin. ciu. Dei III 17, p. 122, 19 ed. Dombart, v. I. Vell. Patbrg. h. R 1139,1. Cf. Tac. Agr. 7, 6. hiat I 23, 2. IV 17, 5 ; 66,2. 4 Plavt. Baech. 377 (III 1, 10).Cic. p. Rose. Am. 48. 140. Seript. rhet.ad Her, IV 22, 30. Nep. XXV ( Att. ) 13, 5. Vero. georg. IV 562. Liv. I 46, 2. XXIV 22, 11.Ovid. am. Ili 8/51 (1. sospetto per R.Ehwald, praef., p. XII) ars am. Il 39. ex Pont IV 8, 59. Val.Max./, et d. m. Vili 7, ext. 1. Cvrt.hisL A.M. IV 7 (32), 31. Cf. QviNTiL. i.o. Ili 8, 61. -. 41 3.^ * adiigare * : Oerm, 24, 10 ^ quamuisìiiuenìor, quamuis robustior adligari se ac uenire patitur \ n. h. XVI 239 * Argiselea etiaranum durare dicitur, ad quamIo in tauram mutatam Argus alligauerit' : v. altresì 12, 45. 16, 176. 17,211. 18, 241; 262; 267.21, 166. 27, 101. 28, 93; 98. 31, 98.32, 7; 113. etc. In tale significato era stato accolto da Catone, Cicerone,Virgilio, Seneca, etc. ^ Nella n. h.vale eziandio ad indicare, come osservasi in generale negli scritti di Seneca eLucano, ^ un effetto di azione chimica concernente i colori : IX 134 ^(bucinura) pelagio admodum alligatur ' .XXXII 66 ^ ita colorem alligans, ut elui postea non possit '.i."" ^ adsignare' : Germ. 13, 7 * insignis nobilitas aut magna patrum merita principis dignationemetiam adulescentulis adsignant '. n. /i. X 141 ^ quibus {se. auibus) rerumnatura caelum adsignauerat '. Con lo stesso significato proprio di « assegnare» era stato usato da Cicerone , Orazio ,Livio , Celso , Columella , etc, ^'Anche nel senso traslato di « attribuire , ascrivere » notasi nella Oerm. 14, 5 ^ sua quoque fortiafacta gloriae eius adsignare praecipuum sacramentum est ' ; e nella n. h. VII 197 ' cui (se. Soli Oceanifilio) Gellius medicinae quoqueinuentionem ex metallis assignat '. iCat. de a. e. 39, 1. Cic. in Verr. IV 42, 90. V28, 71. Tuse. Il 17, 39. Verg. Aen. I 169; cf. georg. IV480; Aen. VI 439. Sen. dial. K 13, 6. Cf. dial. de oratoribus 13,15. « Sen. ep. VI 3 (55), 2. Lvcan. deb. e. IX 527. 3 Cic. Phil II 17, 43. adAH. III 19, 3. de r,p. II 20, 36. Horep. II 1, 8. Liv. V 7, 12; 22, 4. XXI 25, 3. XXXIX 19, 4. XLII 33, 6. Cbls. de med. Ili 18, p. 92. 3. Colvm.de r. r. XII 2, p. 622, 26. Cf. Tag. hist l 30, 19.XXV 26 ' iauentionem eius ( se. berbae ) Mercurio adsignat ' : di tale uso si hanno ess.anteriori. * 5.** ' adsimulare ' :Germ. 9, 7 ^ neque in uUam humani oris speciem adsimulare (se. deos) exmagnitudine caelestium arbitrantur \ Sinotano in Cicerone, Lucrezio , Virgilio , etc. ^ ess. consimili , nei quali ilverbo ' adsimulare ' è adoperato nelsignificato proprio di « assomigliare,fare qualcosa simile ad un'altra ». Nellan. h. appare particolarmente usato, come in molti ess. di scrittori anteriori, ^ nel senso di «simulare, fingere, prender sembianza » :Vili 106 ^ sermonera bumanum Interpastorum stabula adsimulari {se. ab hyaenis) ' : V. inoltre 3, 43. 9, 10; 34; 113. 37, 179.etc. 6.° ^ ambiri ' : Germ. 17 , 17 'qui non libidine , sed ob nobilitatempluribus nuptiis ambiuntur '. n. h. XVII266 ^ eontra urucas ambiri arbores singulas a muliere incitati mensis ' e. q. s.: v., oltre 1' es.cit. , 2, 80. 14, 11. 19, 60. 37, 203.L' espressione che notasi nel 1. e. «CiG. Bruì. 19, 74. in Verr. V 50 , 131. p. Rab. P09L 10 , 21. ad Q. fr. 14, 1. de fin. V 16, 44. de r. p.VI 15, 15: cf. ep. (adfam.) X 18, 2.Vbll. Patbrc. A. R. II 38, 6. Vedi pjr altriess. sull'uso del v. * adsignare ' : n. h. 2, 23; 104. 15,65. 18,64. 19, 50. 25, 60. 28, 33. 29, 2. etc.quanto alle forme dell'attivo; e per leforme del passivo: 18, 18. 22, 44. 24, 2. 25, 34 ; 87. etc.« Cxc. de inu. rhet I 28, 42. in Verr. II 77, 189. Lvgr. de r. n. II 914. Vbrg. Aen. XII 224. Cf. Tac. Agr. 10, 11. 3 Plavt. eiBt 96 ( I 1, 98 ). Epid. 195(\\2, 11 ). mil. gì 792 (HI 1, 197).Poen. 599-600 (IH 2, 22 sg.). Stick. 84 (I 2, 27 J. Ter. Andr. 168 ( I 1,141). haut. 888 (V 1, 15). eim. 461 (III 2, 8 ). Phorm. 128 (I 2, 78) ; 210 (I 4, 32^. Trag.ine. fr. 0. 3, io Cic. de off. Ili 26, 98. Cig. p. Cluent. 13, 36. p.CaeL 6, 14. de r. p. I 21, 34. Vbrg. Aen. X 639. Ovid. mei. XIV 656. etc. ^ 48 «della Germ. pigliò, probabilmente, le mosse dalla frase virgiliana ^ conubiis ambire Latinum \ ' 7.° * animaduertere ' : Germ. 7, 4 * nequeanimaduer* tere neque uincire, neuerberare quidem nisì sacerdo* ti buspermìssum '. n. h. Vili 145 ^ cum animaduerteretur ex causa Neronis Germanici fili in TitiumSabinum et seruitia eius '. Lo stessosignificato di « dannare a morte »presenta per eufemismo il verbo ^ animaduertere ' in Cicerone e Livio. ^ 8.** ' animare ' : Germ. 29, 13 ^ ipso adbucterrae suae solo et caelo acriusanimantur '. Uguale significato delverbo * animare ' (=« dotare d'un temperamento, preparare l'animo»),derivato dal tema della v. ^animus',appare prima in Plauto e Cicerone. ^ Nella n. h, * animare ' presenta ilsignificato che si fonda sul tema dellaV. * anima ', cioè € dar la vita , vivificare , far vivo » : ^ VII 66 * tempore ipso animatur{se. semen) ': V. anche 10, 184 ; e perle forme del participio : 2, 155. 5, 44. 7, 1. 11, 77. 18, 4. 23, 83. etc. 9.^ * ascendere ' : Germ. 25 , 11 Mbi enimet super ingenuos et super nobilesascendunt '. Con lo stesso significato e del medesimo modocostruito con ' super ' e Tace, il v. ^ascendere ' era stato adoperato prima da1 Verg. Aen. VII 333: v. Drabger, ueberSynt a. S*. d. Tae. «, p. 128. Cf. Tac.hi8t. IV 51, 6. 2 CiG. p. Cluent, 46,128 : cf. p. Rose. Am. 47, 137. in Verr. I33, 83. m Caiil. I 12, 30. p. Mil 26, 71. V. inoUre Liv. XXIV 14, 7; e et Tac. hisL I 46, 26; 68, 16; 85 ,3. IV 49, 26. Svbtqn. Aug. 15, 1. 3 Plavt. Men. 203 (I 3, 20). Cic. de diu. II 42, 89. ^ Talesignificato si osserva ifi più 11. degli scrittori anteriori: Enn. ann. I fr. 59, ia PLM. voi. VI, p. 69,ed. Baehrens. Pagvv. irag. 91 (citato daCic. de diu, I 57, 131). Cic. top. 18, 69. de Velleìo Patercolo. ^ La forma delpassivo, secondo gli ess. precedenti diCesare , Vitruvio, Properzio, VelleioPatercolo,- è pneferita nella n. h, XXXVI 88 ' portìcusque ascenduntur nonagenis gradibus ' ; ^ ma non èesclusa la forma attiva: IX 10 ^ascendere eum nauigia nocturnistemporibus ' ; cf. 35, 59. 10.°^ augurari ': Germ. 3, 4 ' futuraeque pugnaefortunam ipso cantu augurantur '. n, h. XVIII 225 ' ex occasu eius ( se. sideris ) de hiemeaugurantur quibus est cura insidiandi,negotiatores auari • : v. inoltre 6,192. 10, 154. Accolto similmente in traslato e col significato genericodi « profetizzare, predire », osservasiin Cicerone, Ovidio ed altri. *11.° ' canore ' (con la penult. lunga) : Germ. 31, 11 ^ iamque canent insignes et hostibus simulsuisque monstrati \^ Con un significato più ampio, a dinotare « es nat d, I 39, 110. de r. p. VI 15, 15. Lvcr.de r. n. V 145. Ovid. mei. IV 619. XIV566. Colvm. de r. r. VI 36, p. 492, 17. Vili 5,p. 527, 20 e p. 528, JO. Scribon.Larg. conpos. 70, p. 29, 32; 95, p. 40,26 ed. Helmreich. J Vell. Patbrc. a. R.II 53, 3. Nei deal, de oraioribus 7, 9 é preferito ' supra ' con 1* acc. Ciceronelascia V acc. semplice : p. Font. 1, 4.p, Cluent. 55, 150. p, Mur. 27, 55. de diu. I 28, 58. de off, li 18 , 62 ; ovvero T accompagna conla prep. * in ' : p. Cluent 40, HO. p.Sulla 2, 5. de dom. 8. 28 , 75. p. Mèi 35, 97.PhiL III 8, 20. de fin. Il 22,74. Tusc. I 46, IH. Cai. m. 10, 34. Lael 23, 88. « Caes. b. e. I 79,2. ViTRvv. de areh. Ili 4 (3) Pkop. V 3,63. Vell. Paterc. h. R. il 53, 3.8 Neil' ed. Jan 1. e, voi. V, p. 121, 15, e nell'ed. Maylnff, voi. V, p. 339, 6 si legge * descenduntur ', invecedi * ascenduntur *. Si noti la frase *gradibus ascen Jere ' in Cic de fin. V 14, 40.4 Cic. Tuse. I 40, 96. Ovid. mei. III 519. Cf. Tao. hisL I 50, 20. 5 Un che di simile notasi in Vero. Aen. V416. 45 sere di color chiaro, biancheggiare »,notasi nella n. h. XVIII 65 'fortunalara Italiam frumento canere candido ' : ' ess. poetici di tale usoerano stati presentati da Virgilio,Ovidio, Silio Italico. ^ 12.*' ' cedere' : Germ. 36, 7 ' Chattis uictoribus fortuna in sapientiam cessit'. n. h. XXIII41 ' in prouerbium cessit sapientiamuino obumbrari '. XVIII 110 * in bonura cedit '. XXXV 91 ' cessit in gloriamartiflcis '. Analoghi ess. si notano in Virgilio , Livio , Curzio , etc. '^ Per altri usi del v. * cedere ',notati nella Germ. e nella n. h.y siosservano ess. negli scrittori precedenti. *IS.'' ^ eludere ' : Germ. 45, 22 ' terrena quaedam atque etiam uolucriaanimalia plerumque interlucent , quaeimplicata umóre mox durescente materia cluduntur '. w. h. latera cluduntur tabulis' : v. inoltre 18, 330. 33, 25. Il verbo^ eludere ' per ' clau 1 Cosi leggiamosecoDdo 1* ed. di Gelenio e il cod. Paris. 6795. II Detlefsen ed il Mayhoff sostitui?cono a *canere ' il v. * serere *, poggiandosi sur un* emendazioQe di seconda manofatta nel cod. Vatic. 3861 ; ma in d^cod. , come nei due codd. Pariss. 67U6, 6797 e nel Leid. si legge * carere *.Si potrebbe anche addurre per es. il 1. 17, 34, letto secondo Ted. Jan. 2 Vero, georg. II 13; 120. llf 325. etc.Ovid. met I \\0: fast, III 880. SiL.1t. Pan. I 205. XIV 362. Cic. preferi la formi incoativa 'canescere*: Brut 2, 8(òf. Qvintil. L o XI 1, 31). de legibusI 1, 1; la quale forma incoativa fu anche gradita a Plin. n. h. 7, 23. 17, 34 (letto secondo la *uulg.' e V ed. Mayhoff). 20, 262. 30, 134. 31, 106. 35, 186. 3 Vero. Aen. VII 636, Liv. VI 34, 2. Cvrt.hisi. A. M. Ili 6 (16), 18. Cf. Germ,14, 15. 4 Cosi per Germ. 6, 20 * cedereloco *: cf. Nep. XI I (Chabr.) 1. 2.Liv. II 47, 3. Ili 63, 1; per n. h. 33, 59 e 35, 80; cf. Cic. de nai. d. II 61, 153. Cabs. 6. e. Il 6, 3. Ovip. metVI 207. 46 dere ' * è proprio della lingua popolare ;osservasi anche in alcuni scrittori anteriori all' età di Plinio. ^ 14.° ' cohibere ' : 6r^rm. 9, 7 ' neccohibere parietibus deos ex magnitudinecaelestium arbitrantur '. Lo stessosignificato proprio presenta il v. ' cohibere ' nella ». h. 24, 6. 27, 93. 28, 61; 62. 29, 39; 49.36, 29. etc; quale prima era stato usatoda Plauto, Cicerone, Orazio, Ovidio, Celso, Curzio, etc. ^ 15.° ' commìgrare ' : Germ. 27, 11 ^ quaenationes e Germania in Galliascommigrauerint '. n. h. XXXV 135 'captoque Perseo rege Athenas commigrauit ( se.Heraclides Macedo pictor) '. Lo stesso significato del v. ^ commigrare ' si osserva in Plauto,Cicerone, Livio, etc. ^ 1 Nei framm.cho ci restano degli otto libri c^uò. serm, di Plinio , si conserva costante laforma * claudere * : II e, p. 15, 7. IIA, p. 19, 15, XV p. 55, 22 ed. Beck. 8Varr. r. r. HI 3, 5. Scribon. Laro, eonpoa. 42 , secondo la ' ed. princ. Ruellii * (neired. Helmreìch p.21, 8, Lps. 1887, sì legge ' ducenda ', invece di * cludeada ', conforme alcod; Laudan. eoncordato col testo diMarcello, edito dal Cornario). Lvcan. deh, e. Vili 59 (ma si legge * clausit * nei codd. Vossian. XIX e Bruxell. 5330).Sil. It. Pun. XV 652. Cf. Tac. hist. I 33,7. [dial. de omioribus 30, 28]. In uni.di Cic. de nat d. II 39, 100 il Baiterlegge ' cludit ' la v. * eludit ' data dai codd., che altri, p. es. Heind., Schoem., C. F. W. Mueller,leggono * alludit '. 8 Plavt. mil gì596 (III 1, 1). Cic. p. Casi 5, 11. de nat, d.II 13, 35. de fai 9, 19. Qatm. 15, 51. Script h. Afr^ 98, 2. Hor.earm. I 28, 2. Ili 4, 80; 14, 22. IV 6, 34. 8at II 4, 14. ep. II 1, 255.OviD. mei. XIV 224. Cels. de med. VIII 4, p. 314,7. Cvrt. hist. A. M. VI 2(5), 11. X 3 (12), 6. 4 Plavt. eisi 177(I 3, 29;, irin. 1084 (IV 3, 77>. Cic. ad Q.fr. II 3, 7. Liv. I 34, 1. XLI 8, 7. Ommettiamodi citare Ter. adelph. 649( IV 5, 15 ;, perché nel cod. Bemb. ( Vatic. 3226 ) si legge * migrarant' : negli altri codd, ' commlgrarunt '* ^ 47 16."* ' continuare ' ; con significatoindicante spazio e in forma passivamediale, si nota nella Germ. 44, 20 'Suiontbus Sìtonum gentes continuantur ' : così in Cicerone. * Nella n. h.presentasi anche nella forma passiva eriferito al tempo: VI 220 * dies conti uuaren tur... noctesque per uices '. XVII 13 ' si plures ita continuentiir anni ' : cf.10, 94. 11, 103; ma talora presentasi nelle formedelPattivo: XIV 145 * biduo duabusquenoeti bus perpotationem continuasset '. XVII 233 ^ si post brumam continuauere XL diebus ' : ^ ef.3, 101. 16, 100. 18, 362. 20, 35. 30,60. 17.* ' emergere ' : Germ. 45 , 4 'sonum insuper emergentis (se. solis ) audiri.... persuasio adicit '. n. h. II 58 ' amplior errantium stellarum quamlunae magnitudo colligitur, quando illae et a septenis interdum partibus emergant ' : v. 2, 100; 179. Del v.' emergere * riferito al levar degliastri si notano altri ess. in Cicerone e Livio. ^ Nella n. h. appare, inoltre,nel significato proprio di « venir su, venire a galla >: XIII 109 ^- ad exorlus solis emergere extra aquam acflorem V Cic. de nut. d. I 20, 54 II45, 117. * CdQsitnile accezione notasiia Gic. Ta9e. II 17, 39. Hoa 9at. II 6,108. OviD ex Pont I 2, 26. Cf. Tag. a/i/i. XVI 5, 10. 3 É mesatta V effefoiazione del Gboroes,ausfuhrL Hnndwb,^ If, e. 2240, rrpeiutanel Z>«fio/i. Gborgbs-Calonghf, Torino 1896,e. 924, che a Plinio e Tacito si debba Festensione del significato del V. ' emergere * • vom Aufgang der Sonneund der Gestirne » ; poiché tale estensione si osserva prima in Cic de natdi. Il 44, 113 "^ut sese ostendensemorgit Scorpios alte* (ò trad. d* UQ'passo del carme di A^ato) ; e in Liv. XLIV 37 9 , 6 ; 3 (12), 12. 3CiG. in Verr. IV 41, 88. Ovid. mei. IH 448.4 CiG. de leg. agr. II 32, 87. de fln, IV 15, 40. Liv. XLII 55, 10, secondo Ted. Weissenborn, Lps. 1887:nell'ed. Weissenborn, Beri. "Weidmann 1876, si legge * speratus *, iavece di ' separaluserat*. 5 V. per gli ess. di autorianteriori i 11. citati nel Lex. Forcbllini-Db ViT, t. V, p. 453, e neWausfùhrli/anrfeo6. del Georges, II, e. 2338. Cf. Tac. Agr. 31, 21. In Tacito inoltre ilv. * se pcDere* APPARE USATO NEL SENSO DI « aljontaoare, relegare, spargere ' :Oerm. 17, 7 * eligunt feras et detracia uelamina spargunt maculis pellibusquebeluarum ' : in senso traslato consimile era stato adoperato da Virgilio ; ^ e, riferito ad irradiazioniluminose, si nota, oltreché in Virgilioe Ovidio, ^ e nei contemporanei di Plinio,'^ anche nella n. h. XXXVII 181 *solis gemma candida est , ad speciem sideris in orbem fulgentis spargens radios '. Appare eziandionella n. h. in senso traslato, persignificare « aspergere , inumidire », secondo gli ess. anteriori di Virgilio eOrazio : * XIII 132 ' si semine, madidumaut , si desint imbres, satum spargitur' ; ma nello stesso tempo vi è accoltocol significato proprio : ^ IV 101 ' ( Rhenus ) ab occidente in amnemMosam se spargit.' : v. 11, 123. 12, 42.16, 141. 24, 178. etc. ; ovvero in senso pregn.: XXI 45 ' genera enim tractamus in species multassese spargentia '. 49.° ' superesse ' :Germ, 6, 1 ^ ne ferrum quidem superest'. 26, 5 ' arua per annos mutant, et superestager '. n. h. XVI 224 ' pinus, piceae, alni ad aquarum ductus in tubos cauantur ;, mirum in modumfor tiores, si umor extra quoque supersit ' : cf. 25, 14. 34, 36. Terenzio e Cicerone avevano prima usatoil v. * su liandire »: hisL I 10, 5(secondo i'emend. dell' Acidalio) ; 13, 17;46, U] 88, 1. II 33, 9. ann. Ili 12, 8.1 Vbrg. bue. 2, 41. Aen. VII 191.« Verg. Aen. IV 584. XII113. Ovid. met. XI 309. 8 SBN. Med. 74.Petron. sai. 22, p. 74, l. Sil. It. Pan. V 56. * Vero, georg. IV 229. Hor. earm. II 6,23. 5 Dello stesso modo in Vjprg. Aen. II 98. Hor. mì II 5, 103. LvcAj?. de b. e. Ili 64. etc. Cf. Tao. hisL peresse ' nello stesso significato di « abbondare,ridondare ». ^ 50.** * triumpbare ' :Germ. 37, 26 * rursus inde pulsiproximis temporibus triumpbati magis quam uicti sunt'. ». /i. V 36 * omnia armis Romanis superata eta Cornelio Balbo triumphata \ V uso del v. ' triumpbare ' nelle forme personali del passivo appare perla prima volta nella poesia dell' etàaugustea : ^ Cicerone aveva soltantoadoperato come v. impersonale il passivodell' intrans. * triumpbare '. ^V. Avverbi : 1.° * aliquanto ', forma ablativale infunzione di avverbio: Germ. 5, 1 * terra etsi aliquanto * specie differt'. 1 Ter. Phorm. 69 (I 2, 19> 162 (I3, 10;: nel l* ed. Fleckeìsen ò accoltala grafia ' super erat, super est *. Cic de or, II 25, 108. in Verr. a.pr. 4, 13. ep. (ad fam.) XIII 63, 2 de dia. I 52, 118. II 15, 35. Cf. Tag. Agr, 44, 5. 45, 23.hist I 51, 9; 83, 10. an/i. I 67, 7. XIV54, 12. « Vbrg. georg. III 33. Aen. VI836. Hor. earm. Ili 3, 43. Ovid. am. I15, 26. fast. Ili 732. Cf. Tac. ann. XII 19, 10. 5 Cic. de off.II 8, 28. Dopo Cicerone, se ne valse Liv. III 63, ll.XLV 38,2.•* Ad * aliquanto ', dato nel 1. e della Germ. dai codd. ', tranne ilBamberg. (B del Massmann) che presenta ' aliquando ', TErnesti sostituisce 'aliquantum '; e ilHalm, che nella 2.* ed. delle opp. diTac. (Lps. 1871, voi. II, p. 194) aveva accoltosenza alcuna esitazione * aliquanto ', nella 4.» (Lps. 1883, voi. II, p. 222) dubitò che si dovesse sostituirecon 'aliquantutn \ e confortò il dubbiocon la frase dell' Agr. 24, 9 ' haud m u 1turo a Britannia differunt*. IlRamorino (Cora. Taciti opera quaesupersunt, Milano 1893, voi. Il, p. 210) contrappone, in sostegno di 'aliquanto*, il 1. di Plin. n. h.XXXV 80 'quanto quid a quoque distaredeberef: e Tosservazione di lui ò ripetuta da Io. Mueller, ed, e. , p. 6. n. h. XXXV 56 ^ eosque, quimonochromatis pinxerint.... aliquanto ante fuisse '.^ Nella n. h, la v. ' alìquaato ' si accompagna anche coi comparativi : V 3 * euicino tractii aliquanto excelsiore '.XXI 27 * folio aliquanto altiore ' : sene notano ess. precedenti in Plauto, Cicerone, Nepote, Sallustio e Livio.* 2.° * ceterum ' : è assunto in più funzioni: a) per riprendere il discorsointerrotto da una digressione : Germ. 3, 9 ' ceterum et Vlixen quidam opinantur' e. q. s. n. h. V 149 ' ceterum intus in Bithynia colonia Apamena ' e. q. s. : cf. 2, 30.^ h) per significare quasi la stessaopposizione indicata da ' sed ', inprincipio di una frase: Germ. 2, 19 * ce1 Un altro es. da addarsi sarebbe presentato dal 1. della n. h, XXXV 134 * et aliquanto praeferturAthenion ' ; cosi letto secondo i codd. Riccard., Paris. 6797 e Paris. 6801: ilJan, voi. V, p. 91, 26 ed il Mayhoff,voi. V, p. 278, 6, vi sostituiscono * aliquando '. Analoga costruzione della v. ^ aliquanto 'coi verbi osservasi in Cic. de inu. rhetII 51, 154. p. Quinci, 12 , 40. p. Rose.Ara. 45, 130. in Verr. Ili 17, 44. IV 39, 85; 63, 141. p. Caeein. 4, 11. in Cam. Ili 5, 11. p. Sull. 20 , 56. dedom. s. 23 , 59. 38, 102. p. Sest. 35,75. in Vatin. 10, 25. ep. (ad fam.) IX 26, 4 der. p. VI 9 (1), 9. de legibus II 26, 64. de off. I 23, 81. etc. « Plavt. aul 539 (III 6, 3). Epid. 380 (III2, 44). Cic. p. Rose. Am. 2, 7. 9, 26. diu. in Caecil. 5, 18. 15, 48. in Verr. I 1, 2; 27, 70; 54, 140. II 1, 1. Ili 38, 87; 43, 102;47, 113; 63, 148; 64, 150; 57, 131 ; 92,214. IV 34, 76. de leg. agr. II 2, 3. p. Rabir. perd. 3, 8. de har. resp. 22, 47. p. Cael. 3, 7.aead. pr. II 29, 93. de fin. IV 3, 7 V2, 4. Tuse. II 27, 6, e poi qualsiasisegno divinatorio o presagio in generale, passò a significare la ^ consecratio\ come nel 1. e. della Germ. S."" ^ intumescere ' : notasi inpiù 11. delle poesie di Ovidio, accoltoin senso proprio ed in traslato; ^ dipreferenza fu usato neir età postaugustea : Oerm. 3, 8 ' obiectis ad os scutis , quo plenior etgrauior uox reperoussu intumescat'. n.Ti. II 196 'sine flatu intumescente fluetu subito': v. inoltre 2, 198; 217;232. 6, 128. 18, 359. etc. ^ Quanto all'uso del v. ' intumescere' in senso proprio, v. n. h. 2,233. 8,85. 11, 179. 13, 124 14, 82. 17, 145. 20, 51. 21, 151. 22,136. 23, 163. 28, 218; 242. 30, 38. etc. 1 Cia in Fallii. 10, 24 ' indicem inrostris , in ilio, io^uam auguratotempio ac loco conlocaris ' ed. C. F. W. Mu^ller. « Ovio. fast l 215. II 607. VI 700. ex PontIV 14, 34. etc. 9 Id senso trasl.l'usarono pure Colvm. de r. r. 14, p. 318,29. Tac. ann. I 38,5: cf. hist. Considerianoo ora quelle espressioniche, sebbene usate dagli scrittori anteriori, presentano nella Germ. e nella n.h.y come in altri scritti del primo secolo d.Cr., UN SIGNIFICATO [non SENSO – H. P. Grice] NUOVO. Sostantivi.blandimentum' : fu adoperato al plur., secondo raccezione classica , nelle sgg. frasi pliniane : n. h. VII 71 ^ fortunae blandimenta poUicentur '. XXVI 14 * alia quoque blandimenta excogitabat '. Significò « cura assidua » in un1. della n. h. XVII 98 * hoc blandimento inpetratis radicibus Inter poma ipsaet cacumina ' ; d' altro canto, valse, per estensione, ad indicare « leccornie, ghiottornie », facendosisinonimo di ' condimentum ' : v. Germ. 23, 4 ' sine blandimentis expelluntfamem '. Questo ultimo significato notasi in un 1. del sat. di Petronio. * 2.**' meatus ' : Germ. 1, 10 ' donec in Ponticum mare sex meati bus erumpat '. n. h. IV 75 *angusto meatu inrumpit in terras ' : v. 5,3. 16, 184. etc. ; e cf. 19 , 85. 22, 117. 28, 197. Nello stessosignificato metonimico di « via, corso », la v. ' meatus ' fu accolta dagli scrittori del tempo di Plinio. ^ Ma, persignificare moto, la V. ' meatus ' fuusata da scrittori anteriori ^ e da 1Petron. bcU. 141, p. 665, 12 ' aliqua inueniemus blandimenta, quibus saporemmutemiis '. « Val. Flacg. Ar^on. Ili 403. Cf. Tag. ann.XIV 51, 4. 8 LvcR. de r. n. I 128. Verg. Aen. VI 849. Sil. It. Pan. XII102. etc. 73 Plinio stesso: n. ft. X 1 1 1 * aues solaeuario meatu feruntur et in terra et in aere ' ; v. inoltre: 6, 83. 9, 95. 11,264. etc. II. Verbi :1." ' firmare ' : Germ. 39, 2 ' fides antiquitatis religioneflrmatur '. Con lo stesso significato in traslato , riferito a cose religiose, appare prima in uncarme cit. da Cicerone e nei carmi diVirgilio. * Nella n. h.y oltre alpresentare in più 11. il significato di « fermare, rassodare, rinforzare » : v.10, 94. 17, 206; 212. 18, 47. 20, 212.35, 182. etc, (il quale significato osservasi prima in Cicerone, Virgilio,Livio , Curzio , Columella ^) , si attiene , come si ha es. da Celso in poi ,=^ ad argomenti di medicina: v. n. h.14, 117. 21, 180. 24, 119. etc. 2." ^ imputare ' : apparve nellalatinità dell' evo augusteo, col significato in traslato di « attribuire come colpa, imputare »: * uso continuato poi daValerio Massimo , Seneca , Plinio Secondo , e indi da Quintiliano, 1 CiG. de dia, 1 47, 106 'sic aquilaeclarum fìrmault luppiter omen '. Verg. Aen, II 691. XII 188: cf. XI 330. « Cic. Tuse. II 15, 36. Verg. geonj. Ili 209. Aen. HI 659. Liv. XXVII13, 13. CVRT. hisL A. M. IV 9 (38), 18. IX 10 (41), 18 CoLVM. de r. r. VI 27, p. 486, 38. Cf. Tag.ann, IV 73, 7. 3 Cels. de med. Vili 7,p. 320, 5.. La frase * f. aluum solutam *,che il Georges, ausfiXhrL Handwb,^ I, e. 2572 , attribuisce a Celso, appartiene invece a Plinio: v. n h,XIV 117 * est centra Lycia (8C. uua)quae solutam ( se. aluum ) firmat *. La fra^^egenuina di Cels. de med. I 3, p. 20, 3 è la sg. : * aluum firmare is,cui fusa. * * OviD. episL {her.) 6,102. mei. II 400. XV 470. Vedi Krebs-Sghmalz, aniib. I, p. 640. T4Tacito e altri. MI v. ' imputare ' fuaftche adoperato oell' età postclassicain senso traslato , per significare «ascrivere a merito, attribuire come merito »: Germ. 21, 15'gaudent muneribus, sed nec dataimputant nec acceptis obiigantur '. n.h. Vili 60 ' ut facile appareret gratiamreferre et nihil inuicem iuputare '. Lo stessosignificato notasi in Seneca padre, Fedro, Seneca figlio, etc. ^ Assume anche nella n. h. ilsignificato semplice di « assegnare,indicare »: XXIV 5 ' ulcerique paruomedicina a Rubro mari inputatur '.3."* * prouocare ' : Oerm. 35, 9 * quieti secretique nulla prouocant bella '. n. h. XXXIII 4 ' didicithomo naturam prouocare': v. 6, 208. 19, 5. Con significato consimile si nota inCicerone , Livio , Velleio Patercolo ,Lucano, etc. ^ Plinio usò pure in traslato il v. ' prouocare ' : n. h.XVI 32 ^ omnes tamen has eiusf'sc. roboris)dotes ilex solo prouocat cocco ' : v. 9, 66. 35, 94; e cf. 21, 4: tale uso fu continuato da Quintiliano,Tacito, Plinio il giovane, Suetonio,etc. ^ 4.'' ' submittere ': nelsignificato di : VII 112 ' fasces litterarum ianuae submisit is cui se oriens occidensque submiserat ': v. 8,3. 10, 132. 11, 260. etc. ; ^ quanto nelSENSO TRASLATO neque enim pudor , sed aemuli pretia summittunt. Avverbi. 1.** ^ adhuc ': Germ. 19, 10 ' melius quidemadhuc eae ciuitates, in quibus tantumuirgines nubunt. ' n. h. XVIII 24 *quandoquidem qui adhuc diligentius eatractauere ' e. q. s. L' avv. ' adhuc ', usato per particellarinforzativa col comparativo, invece della v. 'etiam' preferita nel periodo aureo della lingualatina, appare nella latinità argentea.^ È anche postclassico l' uso di iSBN. dial XI 17, 5. ep, XIX 5 (114), 21. Plin. episL VII 27, 14. SVBTON. din, lui. 67, 12. 2 Cosi in Liv. II 7, 7. XLV 7, 5. Ovid.fast. Ili 372. 5 Lteato in trasl.,appare prima in Cic. diu. in Caeeil 15, 48.p. Piane. 10, 24. Vbrg. Aen. IV 414. XII 832. Liv. VI 6, 7. Ovid. epist (her) 4, 151. Sbn. de ben. V 3, 2. ep.VII 4 {66) y 6. XIV 4 (92), 2. * SBN. ep. V 9 (49;, 3. Qvintil. e. o. I 5,22. II 15, 28 e 29. X 1, 99. SvBTON.Tib. 17, 1. Vedi Goblzer, grammatieae in Sul-pieium Seuerum obaeruaiionea. Par.1883, pp. 92-93. L'es. apparentemente simile, ma in realtà diverso* di uà 1. diCelio in CiG. ep. (adfam.) Vili 7, 1 'eo magia, quo adhuc feliciua remgessìsti *, è ben chiarito neir antib. Krbbs-Schmalz , I, p. 87. et Hand, Turs. adhuc ', invece di ' praeterea', nei segg. 11. Germ. 10, 9 ^ sinpermissum, auspiciorum adhuc fldes exigitur. 'n. h. XXXIII 37 ' sunt adhuc aliquae non omittendae in auro diflferentiae '. ^ Notasi inoltre 'adhuc ' nella n. h. col valore di 'hactenus ' : XXXVII 27 ' magnitudo amplissima adhuc uisa nobis erat ' e. q. s.; ^ e nella Germ. in sostituzione delleespressioni classiche ' tum ', ' etiamtum ', ' tum etiam ', etc. : ^ 28 , 5 ^ occuparet permutaretque sedespromiscuas adhuc et nulla regnorumpotentia diuisas '. * 2.*" 'clementer ' : Germ. 1^ 8 * Danuuius molli et clementer edito mentis Abnobaeiugo effusus '. Prevalse neir etàargentea della lingua latina 1' uso di riferire' clementer ' a luoghi : ^ Plinio lo riferi ad animali, e, trattando dell' addomesticamento deglielefanti , osservò: n. h. Vili 25 ' argumentum erat ramus homine porrigente clementer acceptus (se. abelephante) '. ^ 3.° ' hodieque ' :Germ. 3, 12 ' quod (se. Asciburgium) inripa Rheni situm hodieque incolitur '. n. h. Ili 124 ' Nouaria ex Vertamacoris, Vocontiorumhodieque pa 1 V. ess. consimili in Sbn.n. q. IV 8. Qvintil. i. o. 11 21, 6. 2Per la differenza tra ' adhuc ' e * hactenus ' v. Ha.nd, Turs. IH pp. 4-14. Krebs-Schmalz, antib. I, p. 587sg. Cocghca, sint lai. § 85, XII, p. 199. 3 Gandino, sint lai. I, es. 71, n. 3, p 120.II, es. 150, n. 4, p. 97. 4 Cf. Tao. Agr, 16, 24. 37, 1. hist I 10, 1 ; 47, 8. ann, I, 5 13; 48, 2; 59, 11. II 46, 8. IV 56, 8. XI 23, 9.etc: nei quali 11. la v. ' adhuc ' òriferita ad un* azione passata. 5CoLVM. de r. r. II 2, p. 332, 19. Sen. Oed, 281. SiL. It. Pun. I274, Cf. Tac. hist III 52, 2. ann. XII 33, 8. XIII38, 13. fi Cf. Gell. n. A. V 14, 12: visi menziona il racconto di Apion Plistonlces intorno al leone di Androclo. go,(se. orla est) ' : v. inoltre 2, 150. 8, 176. 16, 10 ; 15. 18, 65. 30, 2; 13. 36, 189. etc. L'uso di 'hodieque ' nel significato delleespressioni classiche ' hodie quoque', 'etiam hodie ', o semplicemente ' hodie ', ^ si comincia ad osservare negli scritti della etàpostaugustea, alcuni dei quali anteriori alla Germ. od alla n. h. ^ DL' uso delle voci, delle quali si tratta nella presente sezione, apparisce tanto nella Gerani, enella n. h,^ quanto negli scritti, a noipervenuti, del V sec. d. Cr. : negliscritti anteriori non si osserva traccia alcuna di tali voci, I.Sostantivi : 1.^ ' adfectatio ': Germ. 28, 15 ' Treueri et Neruii circaadfectationem Germanicae originis ultro ambitiosi sunt '. 3 n. h. XI 154 ' tanta est decorisadfectatio ut tin 1 Vedi Krebs-Schmalz,aniìb. I, p. 597. Gandino, sint lai. II, es. 150, D. 4, p. 97. Cocchia, sint lai. §137, rZ, p. 305. « Vell. Paterc. h. R.I 4, e e 3. II 8, 3; 25, 4; 27, 5. Val. Max.f. ei d. m. Vili 15, 1. Sen. consultum Claudianum de iure honorum Gallisdando ( tav. di Lyon ) , col. Il, 12 : vedi Dessau, insertpi. Lai., voi I, Beri. 1892, p. 53.Sen. de clem. 1 10, 2 (ma nel cod Leid.suppl. 459 [Lips. 49] si accoglie la lez. * hodie '). n. q. I proL, 3. ep. XIV 2 c90), 16 ; 25 ;33. Cf. Qvintil. i. o. X 1, 94. dial. deoraioribus 34, 37, secondo i codd. Vatic. 1518 e Farnes. : il Halm vi accolse la lez. * hodiequoque '. 3 II FiNCK ( Tao. Germ.erìàuleri, Gòttingeii 1857 , p. 227 ), ilKritz (op. e, p. 43) ed altri, valendosi della lez. presentata dai codd. Vatic. 1862 , Vatic. 2964, Leid. ,Venet. , leggono * nulla affectationeanimi' nel I. della Germ. 5, 19, dove gli altri codd. danno * offcciir De '. Quanto al I. sopracih "della Germ 28, 78 giiantur oculi quoque '. XXXIV 6 * circa idmultorum adfectatio furit '. Appare conlo stesso significato in Seneca, Tacito,Suetonio: ^ l'assumono in senso retoricoQuintiliano e Io stesso Suetonio. ^2.** ^ boraicidium ' : Germ. 21, 3 ' luitur enira etiam homicidium certo armentorura ac pecoruranunaero '. n. h. XVIII 12 ' suspensumqueCereri necari iubebant grauius quam inhomicidio conuictum '. Della v. * homicidium ', invece della v. classica 'caedes ', si valsero anche Seneca padre,Petronio, Quintiliano. ^ 3.° ' intellectus ' : Germ. 26, 10 ' hiemset uer et aestas intellectum ac uocabula habent '. Con lo stesso valore passivo, adindicare « significato, senso, concetto »di qualche cosà, appare la v. ^ intellectus ' in Quintiliano. ^ Nella n.h, presenta il significato, in generale,di « sentimento, percezione, senso »: XI 174 ' intellectus saporum ceteris in prima lingua, homini et inpalato '. 15, i codd. Monac, Rom. (Aug. bib.l. ), Hummelian., Stotgard.presentano la lez. ' affectionem * : migliore ò la lez. ' adfectationem', data dal cod. Leid. e da altri, poichò, come nota il Dilthey {Tae, Germ. libellus vollstaendiy erlàuiert,Braunschweig 1823, p. 176) « ' affectio' ist jede die Seele aufregende Leidenscbaft,* affectatio * hiogegen das oft ins Laecherliche getriebene Streben nacheiner Sacho Letzteres steht also hier (Germ, 28, 15) an seiner Stelle. » 1 Ben. ep. XIV 1 (89), 4. Tao hi8t I 80, 7.Svkton. TU. 9, 5. 2 QVINTIL. i. O. I 6,40. SVBTON. Tiò. 70, 3. etc. 8 Sen. rhet. conirou. IV 7, p. 270 , l.Petron. sai. 137, p. 653, 16. QviNTiL. L o. III 10, 1.4 QviNTiL. i. 0. I 1, 28. VII 9, 2. Vin 3, 44. eie. Il 1« es. e. dì Quintiliano é a torto attribuito a Senecanell'aus/ì^/ir^. Handwb,^ II, e. 291,del Georges, e nel dizion. lat-it. GsoRaEs-CALONOiii, ed. oit,e. XI 280 * neque enim est intellectusullus in odore uel sapore ' : v. 2, 149.13, 35. 19, 171. 31, 87; 88. etc. : è riferito talvolta ad animali : X 108 'columbis inest quidam et gloriaeintellectus ' ; per altri ess. v. 8 , 1 ;3; 48; 156; 159. 9, 148. 10, 33; 43; 51; 137. 28, 19. 29, 106. etc.4.** * repercussus ' : Germ, 3, 8 ^ quo plenior et grauìor uox repercussu intumescat '. n. h. XXXVI 99 'turres septem acceptas uoces numerosorepercussu multiplicant. ' In altri 11. della n. h. la v. ^ repercussus 'presenta significati che si diramano dal concetto comune del fenomeno di riflessione fisica : II 45 ^in repercussu aquae '. V 35 * solisrepercussu '. V 55 ^ etesiarum eotempore ex aduerso flantium repercussum '. XII 86 * meridiani solis repercussus '. XVI 6 ^occursantium inter se radicum repercussu'. XXXVII 22 * colorum repercussus ' :v. inoltre 10, 43. 11 , 148 ; 225. 31 , 45.33, 128. 35, 97; 175. 37, 76; 104; 137; 165. etc. Altri scrittori del periodo postclassico si valserodella v. ^ repercussus '. ^ II. Verbi.1.^ * excrescere ' : Germ. 20, 1 ' in omni domo nudi ac sordidi in hos artus, in haec corpora,quae miramur, excrescunt '. Lo stesso uso di ' excrescere ' si nota in Seneca. ^ Niella n. h. è, come nel de r.r\ di Colu 1 Vedi Plin. epist II 17,17. Non è cit. eoa esattezza nel Lex,Forcellini-De ViT, t. V, p. 176 , e neWaunfuhrl. Handiob. del Georges, II, e. 2074, il passo di Flor. epitI 38 [III 3], 15, in cui legges': * exsplendore galearum aere repercusso quasi ardere caelom uideretur* (Halm). L* imitò Macrob. sat. I 7, 25. Vedi perrargomento le philologisehe Ahhandlungen di M. Hertz, Beri. 1888, p. 41. 2 CiG. p. Ro^e. Am, 22, 63. de fin. Ili 19, 62. V 14, 39. 8 Cabs. b. e. II! 92, 2. 4 Cf. Tac. Agr. 20, 7. 5 Liv. XXII 12, 7. XXXII 4, 4. Cf. Cic. denat d. II 57, 144. 6 Pompon. Mbl. ehor, II 3, 34. Ili 1, 8 e 9 e 10 ; 8, 81. Plin. n. h IV 76. 84etc. ,* anche nella Germ. 27, 6 ' lamenta ac lacrimas cito, dolorem et tristitiam tarde poniint '.Plinio adoperò la V. ' lamentum ' in traslato: n. h. X 155 ' lamenta circapiscinae stagna mergentibus se puUis natura duce '. S.** ' lasciuia ' : Germ. 24, 5 ' quamuisaudacis lasciuiae pretium est uoluptas spectantium '. Con significati vicini a quello che si nota nel 1. e. dellaGerm. la v. ' lasciuia ' era stataaccolta da Pacuvio, Cicerone, Lucrezio, Seneca. ^ Plinio , oltre all'adoperarla secondo l'uso comune (v. n.h. 5, 7. 9, 34. 18,364. etc), la rivolse, in traslato , a denotare quelli che anoi paiono capricci della natura : n. h.XI 123 ^ nec alibi maior naturaelasciuia '. XIV 15 ' est et illa naturaelasciuia ' : V. 8, 52. 26, 2. 36,12. 9.° ^ nodus ' : Germ. 38, 5 ^insigne gentis obliquare crinem nodoquesubstringere '. Ovidio aveva riferito ' nodus ' all'acconciatura dei capelli. ^Similmente nella n. h. si adopera la v.' nodus ' in senso proprio: XXVIII 63 'uulnera nodo Herculis praeligare '; * ma vi è anche accolta in traslato, orariferita ad argomenti zoo 1 Cic. inPi8, 36, 89. p. Mil. 32, 86. Tuse. II 21,48. de legihus II 25, 64. Cai. m. 20, 73. Vero. Aen. IVG67.,Pergli ess. di Lucrezio e di Livio , V. i' ausfuhrl. Handwb . del Georges, II, e. 483. Cf. inoltre Tac. Agr, 29, 3. hist IV 45,5. 8 Pacvv. in CiG. de diu. I 14, 24. Cic. de fin.II 20, 65. Lvcr. de r. n. V 1398. Sen. dial. XII 18, 5. Cf. Tac. hist. Ili 33 ,13. ann. XI 31, 14; 36, 12. 3 OviD. ars am. Ili 139. Lo ripetè, più tardi, Martial. epigr. V 37, 8.* Del * nodus Herculis ' o * Herculaneus * è fatta menzione da Sen. ep. XIII 2 (87), 38. Cf. Pavli exc. exUh, Pomp. Fesii^ voce • cingillo ', p.44, 24 ed. Thewr. d. P. 85 logici: V.11, 177; 217. 28, 99; » o botanici : v. 13, 52.16, 158; 198, secondo ess. precedenti ; ^ ora ( e , come pare, per la prima volta) a minerali: v. 34,136. 37, 55; 150; ovvero ad indicaretumori o indurimenti del corpo umano: v.24, 21 ; 24. 30, 110: cf. 11, 216. 10.° ' potus ' : Gerani. 23, 1 * potui umorex hordeo aut frumento '. n. h. XXII 164^ ex iisdem (se. frugibus) • fiunt etpotus '. Altri ess. della v. ^ potus ' presenta la n. /^., tanto nel significato di bevanda,quanto in quello di « bere, tracannare», secondo l'accezione precedente diCicerone, Celso, Curzio, etc. : ^ v. n. h, 8, 122 ; 162; 209. 9, 46. 10, 201. 11, 176; 283. 13, 25;51. 14, 137; 149; 150. 16, 4. 21, 12.23, 37. 26, 17. 28, 53; 55; 84; 197. 29,26. 31, 33. 32, 34 ; 54 ; 57. 34 , 151. 36, 156. etc; * ma per la prima volta notasi nella n.h, nel significato di « escremento umano » : v. 9, 138. 17, 51. 11.° ' pubertas ': n. h. VII 76 ' uidimuseadem ferme omnia praeter pubertatem inAlio Corneli Taciti ' e. q. s. cf. 21,170. Con lo stesso significato metonimico , perindicare il segno della pubertà, se ne valse Cicerone. ^ Ma la V. considerata assume il nuovosignificato metonimico di 4c forza virile, virilità, facoltà di generare » nella Germ. 20, 6 * sera iuuenum uenus ,coque inex ^ Cosi anche in Cabs. b. G.VI 27, 1. Vbrg. Aen. V 279. LvCAN. de h. e. VI 672. etc. * Ess. precedenti se ne osservano in Verg.bue, V 90. georg, II 76. Aen. VII 507.Vili 220. IX 743. XI 553. Liv. I 18, 7. Sen.de ben. VII 9, 2. Colvm. de arb. 3, p.670, 5. « Cic. de diu. I 29, 60. Cels.de med. II 13, p. 56, 28. Cvrt. hi8i. A. M. VII 5 (21), 16. Cf. Tao. ann.XIII 16, 4. 4 Vedi Krbbs-Schmalz,antib., v. * polio und polus ', II, p. 308.5 Cic. de naL d. II 33, 86. hausta pubertas': appare nella n. h.^ riferita, in traslato, alle piante: v. 23, 7. * Quanto a ^ pubertas ' insenso proprio, v. 25, 154. 12.°* raptus': valse da prima a significare « ratto, rapimento per amore » ; - nella n. h. fuusata anche per indicare « strappomediante uno strumento , piallata »: XVI 225 ' pampinato semper orbe se uoluensad incitatos runcinae raptus '. NellaGerm. si assunse nel significato dellav. ^ rapina ', accolta dalla latinità classica, cioè « ladroneccio, rapina »:35, 10 ^ nullis raptibus aut latrociniis populantur '. ^ 13.° ' sagitta ' : nel significato propriodi « freccia , dardo, strale, saetta »,^ osservasi nella Germ. 46, 15 ' solaein sagittis spes '; e nella n. h. VII 201 ^arcum et sagittam Scythen louis filium , aliisagittas Persen Persei filium inuenissedicunt ': v. 11, 279. 16, 161. etc. Manella n. h. vale eziandio non solamente a indicare, secondo gli ess. discrittori precedenti, una specie di sorcoloo magliuolo:^ v. 17, 156; e una costellazione : '^ v. 17, 131, 18, 309; 310; ma anche a designare (aquanto pare. 1 In un altro 1. dellan. h. ò sostituita a ' pubertas ' la vocepropria : 12, 131 'in prima lanugine '.2 CiG. in Verr. IV 48, 107.Tuse. IV 33, 71. Ovid. fasi. IV 417.Sen. dial IV 9, 3. Plin. n. h. 34,69. Cf. Tac. ann. VI 1, 15. 3 Lo stessocongiungimento di ' raptus * al plur. con * latrocinium ' o ' praeda ' siosserva in Tac. hi9t I 46, 13. ann, II 52, 4.4 Vedi Cic. in Verr. IV 34, 74. Phil II 44, 112. aead. pr. II 28, 89. de fin, III 6, 22. Tuse. I 42, 101.II 7, 19. de nat d. I 36, 101. II 50, 126. etc.5 CoLVM. de r. r. Ili 10, p. 384, 1-8 ; 17, p. 393, 9-10. 6 Cic. Arai phaen. cum Groti suppl. vers. 84(325), pag. 369. Gbrman. Arai, phaen. v.315, in PLM. voi. I, p. 166, ed. Baehrens. AviBN. Arat vv. 669, 689, 985, 1117, 1258 ed.Breysig. per ia prima volta) lapianta detta comunemente € lingua di serpente »: XXI 111 * idem (se. Mago)oiston adici t a Graecis uocari, quàminter uluas sagittam appellamus '. ^14.** ' satisfactio ' : voce usata prima da Cicerone, Cesare, Sallustioper significare « discolpa, scusa ». ^ NellaGerm, conserva lo stesso significato, aggiuntovi il concetto della pena:21, 3 ^ luitur enim etiam homicidiumcerto armentorum ac pecorum numero recipitque satisfactionem uniuersadomus '. Plinio la riferì agli animali e, trattando delle colombe , scrisse :n. h. X 104 * tunc plenum querela guttursaeuique rostro ictus,- mox insatisfactione exosculatio '. 15. "*' sedes ' : in senso traslato, per indicare « soggiorno, stanza, dimora, paese,patria », secondo l'accezione classica, ^ appare nella Germ. 2, 3 'classibus aduehebantur qui mutare sedesquaerebant ': v. 25 , 2. 30, 1. Plinione fece uso tanto in senso traslato, analogo al precedente: v. n. h. 2, 102. 11, 138 ; 157. 22, 14. 33, 74. 36, 102 ; ^quanto in senso metonimico : v. 22, 61;143. 23, 75; 83. 26, 90 32, 104 : in questa se1 * Oiston • legge nel 1. e. della n. h. Ose. Weise ; v. Jahrbb. del Fleckeisen, 1881, p. 512. 1 codd. Paris.6795, Riccard., Leid. Voss. e Ted.Detlefsen (voL III, Beri. 1868) danno * pistana \ « CiG. ep. (ad fam.) VII 13, 1. Caes. 6. G.VI 9, 8. Salì.. Cat 35, 2. etc. 3 Cic. p. Cluent 61, 171. 66, 188. p. Mar,39, 85. p. Sulla 6, 18. p. Areh, 4, 9.de proo, eons. 14, 34. p. Marcel. 9, 29.Caes. b. G. IV 4, 4. Sall. Cat 6, 1. Verg.Aen, XI 112. Ovid. mei.Ili 539. XV 22. etc. 4 Cf. Caes.6. G. I 31, 14 ^ aliud domicilium , alias sedes... petant '.88 conda accezione non pare chealtri V abbia preceduto, le."* 'tristitia ' : nella Oerm. e nella n. h. è accolta nel significato proprio di « mestizia,tristezza », secondo l'uso che se ne era fatto dagli scrittori precedenti;' Germ. 27, 7 ^ dolorem et tristitiamtarde ponunt '. ^ n. h, XXIV 24 'inuenio potu modico tristitiam animiresolui': v. pure 21, 159. 23, 38. 25, 12. 35, 73. Plinio usò, inoltre, la v. ' tristitia ' in sensotraslato, riferendola a cose inanimate : n. h, II 13 ' hic (se. sol) caeli tristitiam discutit '. XVIII 184 ' sarculatioinduratam hiberno rigore soli tristitiamlaxat temporibus uernis ': e in ciò egliseguì gli ess. analoghi presentati da Cicerone; 3 ma, probabilmente per ilprimo, appropriò la V. considerata adanimali : n. h. IX 34 ^ delphinorumsimilitudinem habent qui uocantur thursiones. distant et tristitia quadam adspectus ' : v. 11, 63(per le api). 32, 60 (per le ostriche).Aggettivi: 1.° ' asper ': appare, usatoin traslato, in un 1, della Germ, 2, 8 *Germaniam peteret , informem terris , asperam caelo ' : * nella n. h. è assunto, come in 11. di 1 CiG. de or. II 17, 72. eum sen. grai, egii 6, 13.Lvcgbivs, in Cic. ep. {ad fam.) V 14, 2.Sall. Cat 31, 1. Hor. carm. I 7, 18.OviD. mei. IX 397. Val. Max. / et d. m, 1 6, 12. II 6, 14. Sen. dial IX 15, 1. « Consimile frase * tristitiam poni ' silegge iti Ovid. ex Pont II 1, 10. 3 Cic. ad Ait. XII 40, 3. de nat d II 40, 102. de off, I 12, 37. * Vi ha analogiacon Taso fattone da Ovid. me^. XI490. Vell.Patbrc. h. R. II 113, 3.89 autori precedenti, » nelsignificato proprio: v. 3, 53. 6, 167.17, 43 ; ed è anche riferito al senso del gusto : *^ V. 2, 222. 12, 27. 19, 111. 20, 97. 25, 159;e, probabilmente per la prima volta, al senso dell'odorato: XXVII 64 ^ radice longa, aequaliter crassa, odorisasperi '. ^ 2.** ' uoluntarius ' :adoperato in senso obiettivo, perindicare ciò che si compie per libera volontà, appare, come in Cicerone, Livio, Valerio Massimo,etc, ^ anche nella Qerm. 24, 9 ' uictusuoluntariam seruitutem adit '; e nellan. h. VI 66 ' uoluntaria semper morte uitamaccenso prius rogo flnit ': v. 37, 3; e cf. 28, 113. Ma nella n. h. si estende alla designazione difatti naturali: 1 Varr. r. r. II 5,8. Cic. pari, or, 10, 36. Lvcr. de r. n. VI1148. Vbrg. bue. X 49. georg. II 413. Liv.XXV 36, 5: cf XXXVH 16, 5. OviD. mei VI76. 2 Cosi in Plavt. capi. 188 (I 2, 85); 496 (III 1, 37). Ter. hauL 458 (III 1, 49). Verg. georg IV 277.etc. 3 II Georges nel suo ausfùhrl.Handwb, I, e. 581, in conferma del riferimento deli'agg. * asper * ai sensi delgusto e dell' odorato, cita il 1. di Cic. de fin, II 12, 36 * quid iudicantsensus ? dulce amarum, lene asperum ', e. q. s. ; e la citazione si ripete nel dizion, laL-iL Georges-Calonghi,c. 250. Senza dubbio, r affermazione è esatta quanto al ' dulce amarum 'rife* rito al gusto; ma ci pare inesattoriferire il * lene asperum ' airodorato, perchè nei citati vocabolari, in conferma del riferimento di * asper *al senso dell' udito, si ripete , poco dopo ,lo stesso 1. di Cic. ' lene asperum *, con V avvertenz% che ad * asper ' si contrappone * lenis ' :osservazione giusta questa ultima, inquanto che nel 1. e. di Cic. le antitesi sgg. * prope longe, stare mouere, quadratum rotundum ' nonescludono che r antitesi * lene asperum* si possa riferire al senso dell' udito.4 CiG. ep. iadfam.) VII 3,3. Liv. XXVI -36, 8. XXVIII 7, 9. Val.Max. /. et d. m. I 8, 3. Cf. Tac. hisL II 45 , 3. [ deal, deoraiorihuB 41, 17]. pinguius (se. serpyllum) uoluntarium etcaildidioribus foliis ramisque '.III. Verbi: 1.° * adgnoscere ' : Germ. 5, 15 ' formasquequasdam nostrae pecuniae adgnoscuntatque eligunt '. n. h. XXIX 19 ^ alienisoculis agnoscimus ' : v. 35, 89. Con talesignificato il V. ' adgnoscere ' era stato usato prima * ; ma nella n. h. è riferito anche ad animali: IX23* nomen Simonis omnes (se. delphini)miro modo agnoscunt '. 2.° ' colligere: Germ. 37, 8 ' ex quo si ad alterumimperatoris Traiani consulatum computemus , ducenti ferme et decem anni colliguntur '. n. h. XIII85 * ad quos (se. consules) a regnoNumae colliguntur anni DXXXV ': 2 cf. 6,59; e, per la forma attiva, 2j 186. ^Nella n. h. è riferito pure, tanto nella forma passiva quanto nella attiva, a misure di lunghezza:IV 87 ' ad OS Bospori CCLX M pass,longitudo coUigitur ' : 1 Cic. defin. V 18, 49. Lael 27, 100. Caes. 6. e. H 6, 4. Vbrg. Aen. I 406. HI 82; 351. IV 23. Vili 155. X843. XII 260. Ovu). fasi. V 590. Lycan,de h. e. II 193. Cf. Tag Agr. 32, 18. 8II n.o DXXXV nel 1. e. della n. h, leggesi neir ed. Mayhoff, voi. II, p. 332, 18 ; e, in proposito del d.^aura., non è nolata alcuna variante presentata dai cod J. Tuttavia il Georges,auifàhrl. Handùcb., J, e. 1185, e ilValmaggi, dmi. degli oratori eommenLTorino 1890, p. 66, T hanno mutato in DXXXXV: non sappiamo spiegarcenela ragione. 3 Cf. deal de oraioribus17, 16 * centuna et uiginti anni abinteritu Ciceronis in hunc diem colliguntur*. È usato nella forma attiva in 24, 14 * cum praesertimcentum et uiginti annos ab interitu Ciceronis in hunc diem [effici] ratiotemporum collegerit ' : espunto 1' 'effici ' secondo la proposta del RoenBch,in Rev, de Vinsir. pubi, en Belg. 1865, p. 301. 91 V. 2,245. 36 , 178. etc. XII 23 ' sexagintapassns pleraeque orbe colligant ' : v.3, 132, 5, 136. 36, 77. etc.3.° ^ eualescere ' : verbo usato da Virgilio , Orazio , Seneca, Lucano, etc. ^ fu da Plinio per laprima volta riferito a vegetali: n. h.XV 121 * quae (se. myrtus plebeia)postquam eualuit flauescente patricia ' : v. 16, 125. 17, 116. Nella Oerm. è usato tanto insenso proprio: 28, 4 * ut quaeque gens eualuerat'; quanto in traslato, per indicare la prevalenza dideterminate voci neir uso comune : 2, 22^ ita nationis nomen, non gentis eualuisse paulatim lucrari ' : Germ. 24, 6 ^aleam, quod mirere, sobri! inter seria exercent , tanta lucrandiperdendiue temeritate, ut ' e. q. s. Conlo stesso significato proprio il v. ^lucrari ' fu adoperato da Cicerone e Orazio. ^Nella n. h. acquista il significato particolare di « guadagnare medianteil risparmio » e perciò « risparmiare » : XVIII 68 ' quod {se. marina aquasubigi panem) plerique in maritimis locis faciunt occasione lucrandi salis '.Nello stesso senso pare che si debba intendere il V. ^ lucrari ' nel 1. dellan. h. XXXIII 45 ^ ita res p. dìmidiumlucrata est ', cioè lo Stato risparmiò la metà della spesa, accrescendo ilvalore di alcune monete, al tempo dellaseconda guerra punica. 5.** * obtendere' : con la forma mediale assume, per laprima volta, nella Germ. e nella n. h. un signifl 1 Vero. Aen. VII 757. Hor ep. II 1, 201. Sen. ep. XV 2 (94) , 31. LvcAN. de b. e, I 505. IV 84. Cf.Qvintil. L o. II 8,5. X 2, 10. « Cf.Qvintil. l o. IX 3, 13. Tac. hist I 80, 8. ann XIV 58, 17. 3 Cic. in Verr, V 24, 61 ; 25, 62. p. Flaee.14, 33. de off. II 24, 84. parad. 3, 1 (21). Hor. ep. II 3, 238. Quanto al senso trasl. del v. ' lucrari ', vedi Cic. in Verr. I 12,33. Hor. earm. cato locale d' uso geografico, ed ìndica « estendersi dinanzi »: Germ. 35, 3 ^ Chaucorura gens omniumquas exposui gentium lateribus obtenditur , donec in Chattos usque sinuetur '. n. h. Y 77 ^ buie(se. Libano) par interueniente uallemons aduersus Antilibaaus obtenditur '. * Nella n. h. presenta inoltre ilsignificato , che notasi in Virgilio, ^di « stendere dinanzi , porre dinanzi »: XI 153 ' omnibus membrana nitri modotralucida obtenditur ' : v. 37, 100.e.*" ^occurrere': presentasi la prima volta con significatogeografico nella Gerrn. e nella n. h.-/^ Germ,33, 1 ' iuxta Tencteros Bructeri olim occurrebant ' n, h. Ili 95 ' quem locum occurrens Terinaeusstnus paninsulam efiìcit '. V 84 ' apud Elegeam occurrit ei {scEuphrati) Taurus mons': v. inoltre 6,114; 128. etc. Presenta anche nella n. h, tanto il significato, in traslato, di «rimediare, essere d'aiuto », secondo gli ess.dati prima da Cicerone, Nepote, Valerio Massimo^ Persio: "* XVIII189 ' constatque fertilitati non occurrerehomines ' : v. 18, 332. 20, 225. 30, 107. 31, 118. 32, 1; 99. etc. ; quanto il significato di «presentarsi alla mente o alla vista,sovvenirsi y> quaesdonem occurrereuerisimile est omnium , qui haec noscant ,cogitationi ' : cf. 24, 156. Questo ultimo significato os 1 Cf. Tao. Agr. 10, 7. « Vero, georg. 1 248 : cf. Aen. X 82. 3 A tale sigoiflcato dovette certamente pervenireper il tramite deir uso fattone da Liv. XXXVI 25 , 4 * in asperis locis silex paene inpenetrabilis ferro occurrebat*.Cf. Pompon. Mel. ehor. Ili 9, 89. Tag. Agr, 2, 9. 4 CiG. in Verr, IV 47, 105. p. CluenL 23,63. Nep. XVI (Pel) 1, 1. Val. Max. f. et d. m. VIII 5, I. Pers. sai. 1,62, 3, 64. 93 I servasi prima in Cicerone, Cesare,Orazio, Seneca, Cur ' zio, Columella, etc. *7.° ^ periclitari ' : con valore intrans, pregn. di « arrischiare,essere intraprendente », appare la primavolta nella Gemi. 40, 1 ^ plurimis ac ualentissimis nationibus cincti(se. Langobardi) non per obsequium, sedproeliis ac periclitando tuti sunt ' ; cf. n. h. 18 , 302. In Cicerone e Cesare ^ ha il significatogenerico di ¥. fare esperimento, farprova ». In alcuni li. della n. h. conserva la qualità di v. intrans., ed èriferito , come in Celso, ^ ai pericolicausati da certi morbi : XXX 114 'utilissima sunt in iis ulceribus, quae uermibus periclitentur '. XXXII 54 ^cinis eorum ( se. cancrorum fluuiatilium)seruatus prodest pauore potus periclitantibus ex canis rabiosi morsu ': v.altresì 17, 217. 20, 165. 26, 112.etc. 8.** ^ praetexere ' : G^rm. 34, 4' utraeque nationes usque ad OceanumRheno praetexuntur '. n. h. VI 112 'semper fuit Parthyaea in radicibus montium saepius dictorum qui omnes has gentes praetexunt '.Con significato consimile era stato prima adoperato da Virgilio. ^ Nella n. h. assume altresì , in traslato , ilsignificato generico di « preporre,porre avanti »: XVIII 212 ' quos JCic. de or. Il 24. 104. Ili 49, 191. p. Mil. 9, 25. Tuse. I 22, 51. Caes. b. G. VII 85, 2. Hor. sat. I 4, 136. Sen. deal. I 6, 4. CvRT. hisL A. M. Ili 8 t21), 21. Colvm. de r. r. Il 2, pag. 334, 34. Cf. Tac. ann. XIV 53, 22. « Cic. de off. III 18, 73. Caes. b. G. II 8,1. 3 Cels. de med. Il 1, p. 30, 14. V 26, 24, p. 178, 37. eie. 4 Verg. bue. 7. 12. Aen. VI 5. Cf. Colvm. der r. X 296, p579, 37. 94 (se. auctores) praetexuimusuolumini huic ': v. praef. 21. 16, 4.» 9.** ' rarescere ' : eoa l'accezionein traslato, per siguijfìcare « diminuire , divenire raro » , notasi la primavolta nella Germ. 30, 3 ' durant siquidem col les, paulatim rarescunt'.2 Nelsignificato proprio fu adoperato, dopoLucrezio, Virgilio, Properzio, Columella,^^ da Plinio: n. h, XI 231 ' quadripedibus senectute (pili)crassescunt lanaeque rarescunt '. 10.° ' tolerare ' : Germ. 4, 8 ^ minimequesitim aestumque tolerare '. n. h. XXVI 3 ' foediore multorum , qui perpeti medicinam tolerauerant ,cicatrice quam morbo '. Lo stessosignificato notasi in Terenzio, Cicerone, Sallustio, etc. ^ In un altro 1. lan. h. presenta il V. ' tolerare ' per ilconcetto di « mantenere , sostentare », secondo l'uso fattone da Cicerone,Cesare, Virgilio, Columella , etc. : ^ VII 135 ' plurimi iuuentam inopem in caliga militari tolerasse '. XXXIII136 ^ (Ptolemaeum) octona milia equitumsua pecunia tole 1 Fu continuato taleuso da Plin. pan. 52, 1. s Si ripete ,poi , nella stossa accezione da Amm. Marc. r. g. XXII 15, 25. XXVI 3, 1. 3 LvcR. de r. n. VI 513. Vero. Aen. IH 411. Prof. IV 14 (15), 33. CoLVM. de r. r. Ili 16, p. 392, 38. Cf.Sil. It. Pun. XVII 422. 4Ter. hee. 478 (IH 5, 28). Cic. in Verr. Ili 87, 201. in Caiil. II 5, IC; 10, 23. ep. (ad fam.) VII 18, 1. adQ. fr. I 1, 8, 25. de fin. IV 19, 52.Tuse. II 7, 18; 13, 30. V 26, 74; 37, 107. de din. II 1, 2. Caes. b. G. V 47, 2. Sall. Cai.10,2. 20, 11. lug, 31, 11. Cf. Tac. histn 56, 12. ann. Ili 3, 9. 5 Cic. p.Foni. 2, 13. Caes. b. G. VII 71, 4 Ccitato per inesattezza dal Georges, ausfiXhrl. Handwb. II, e. 2821,con le indicazioni 7, 41, 7). h. e. Ili49, 2; 58, 4. Verg. Aen. Vili 409. Colvm. de r. r. Vili 17,p. 547, 19. Cf. Tac ann. II 24, 7. IV 40,8. XV 45, 18 95 rauisse '. Ma vi si accoglie, per la primavolta , tanto nel significato di : Germ. 27, 9 ' haec in commune de omnium Germanorum origine ac moribusaccepimus '. 38, 4 ' quamquam in communeSuebi uocentur ' : cf. 40, 6; altrove(5, 1. 6, 14) si preferisce l'espressioneavverbiale equipollente ' in uniuersum '. n. h, XVII 9 ' quae ad cuncta arborum genera pertinent incommune de caelo terraque dicemus '.XXIII 36 ' reliqua in commune dicentur '. Di una sola voce osserviamo essersifatto uso, perla prima volta, tantonella Germ. quanto nella n.h.: è la v. 'glaesum ', d'origine germanica, adoperata particolarmente dai soldati persignificare l'ambra: " Germ, 45, 15* soli omnium sucinum, quod ipsi glaesum uocant, inter uada atque in ipso litore legunt '. n. h.XXXVII 42 ' certum estgigni ininsulisseptentrionalis oceani et abGermanis appellari glaesum, itaque et ab nostris ob id unam insularum Glaesariam appellatam '. Ma,come si osserva nel 1. e, la Genn.accoglie anche la v. ' sucinum ', che trovasi nella n. h. identificata con I' 'electron ' dei Greci : III 152 ' iuxta eas Electridas uocauere in quibusproueniret sucinum quod illi electrumappellant': v. 4,103.8,137. 37, 31; 33; 43-45; 204. e te. ^ J Tale uso deirespressione avv. * incommune * fu conlinuato da QviNTiL. L o.VII 1, 49. Tag. ann, XV 12, 17. « Plin.n. h. IV 97 * Glaesaria (se. insula) a sucino militiaa appellata, a barbaris Austerauia *. 3 Vedi il nostro libro sui Neologismibotanici nei earmi bu" coliei egeorgiei di Virgilio, Palermo. Ad un buon numero delle relazioni lessicali si èdata, di mano in mano, evidenza, mediante opportuni confronti e richiamiindicati in fine delia maggior parte delle note che corredano le relazionilessicali tra la Gemi. e la n. h. di Plinio. Restringiamo, ora, il nostrocompito a dare evidenza ad alcunerelazioni lessicali tra la Germ. e gli scrittidi TACITO (vedasi), nelle quali non si scorge, salvo di rado e in modoindiretto, l' intermedio della n. H. Sostantivi: annus: Ge7^m. nec arare terramaut exspectare annum tam facile persuaseris \ Agr. 31, 5 ' ager atque annus in frumentum conteruntur '. Della V. ' annus ', adoperata per significare « ilraccolto o provento, la produzione dell'annata », un primo accenno appare in Cicerone * : fu accolta da Properzio, epoi dai poeti e prosatori dell' etàpostaugustea. ^ Nella n. 1 Cic. inVerr, a. pr. 14, 40. « Prof. V 8, 14.Lvcan. de b. e. Ili 452. Stat. sii III 2, 22.Plin. pan. 29, 3. Consoli, LaGermania comparala. T 98 h. la V. * annus ' conserva il significatotemporale: v. 2, 13. 9, 162. 18, 211.28,22. etc. ; e solo si può scorgere come un tramite per giungere alsignificato sopra notato nei sgg. 11. : XV 98 ^ fructus anno maturescit \ XVI95 ' sunt tristes quaedam ( se. arbores )quaeque non sentiant gaudia annorum \2.** * audentia': Germ. 31, 1 ' et aliis Germanorum populis usurpatum raro et priuata cuiusqueaudentia apud Chattos in consensum uertit' e. q. s. 34, 10 ' nec defuit audentiaDruso Germanico', ann. XV 53, 9 * utquisque audentiae habuisset '. ' Audentia ' è voce della l^tiqità argentea : altri ess. se neosservano in Quintiliano e Plinio il giovane. ^ Nella n. h. si notano soltantole forme della flessione del participio ' audens '; V. 17, 222. 32, 53. 35, 61. etc. 3.** ^ copiae ' : consideriamo soltanto laforma del plur. : 6r^rm. 30, 13 ^ omnerobur in pedi te, quem super arma ferramentis quoque et copiis onerant '. his£. Ili 15, 13 ' ut specie parandarum copiarumciuili praeda milites inbuerentur. IV22, 5 ' parum prouisum ut copiae in castra conueberentur ': V. Agr. 22, 9.Prima che nei 11. ce. la voce di formaplur. ^ copiae ', col significato di € provvisioni, provvigioni, viveri,alimenti », era apparsa in Cesare, Livio, Velleio Patercolo. ^ 4.** ' fortuna ' : Germ. 21, 9 ' prò fortunaquisque apparatis epulis excipit '. ann. II 33, 13 ' quaeque ad usum parenturnimium aliquid aut modicum nisi ex fortuna possidentis ': v. IV 23, 11. XIV 54,9. La forma 1 QviNTiL. I. o. XIIprooera. , 4. Plin. episL Vili 4, 4. «Vedi gli ess. citati dal Gboroes , ausfuhrl Handicb , I, e 1573: V. inoltre Plin. pan. sing. ' fortuna', usata invece della forma plur. per indicare « ricchezze, beni di fortuna,averi, sostanze », osservasi accolta daNepote, Orazio, Ovidio, poi da Quintiliano, ^ probabilmente per il tramitedella frase ciceroniana : ^ cuius denique fortunae studia tum laudi et gratulationi tuae se non obtulerunt ? '" Valgano per il confronto i sgg.11. della n. h.i 11 118 ^ non erantmalora praemia in multos dispersa fortunae magnitudine '. VII 130 * siuerum facere iudicium uolumus acrepudiata omni fortunae ambitione decernere , nerao mortalium est felix ' : ma è accolta la formaregolare del plur. in XXXVII 81 ' illeproscriptus fugiens hunc e fortunisomnibus anulum abstulit secum ',S."* ' pignora ' : consideriamo la sola forma del plur.:: Germ. 7, 11 * et in proximo pignora, undefeminarum ulula tus audiri, unde uagitusinfantium ' : ann. XII 2, 3 'baudquaquam nouercalibus odiis uisura Britannicum e^Octauiam, proxima suis pignora ': v. XV 36,14; 57, 14. Agr. 38, 6. La forma plur. ^pignora ' era stata accolta nella poesiadell'età augustea, '^ per significarefigli, madri, mogli, insomma persone legate con intimi vincoli di parentela; donde la formola di 'obsecratio ' giudiziaria: ' percarissima pignora'; della quale famenzione Quintiliano.* 6..'' ' suffugium ': Germ. 16, 11 ' solent et subterra 1 Nbp. XXV (Att.) 21, 1. HoR. ep, I 5, 12. Ovid. trist V 2, 57. QVINTIL. /. 0. VI 1, 50. « Cic. Phil. I le, 30. 3 Prof. V 11, 73. Ovid. meL III 134. XI 543.episL (her.) 6, 122. 12, 192.L'espressione * amoris pignora' di Liv. XXXIX 10, 1 ha un altro significato. * QviNTiL. I. 0. VI 1, 33. neos specusaperire suffugiura hiemi et receptacu lum frugibus \ 46, 17 * nec aliudinfantibus ferarum imbriumque suffugium'. ann. IV 47, 7 ' sanguine barbarorum modico ob propinqua suffugia ' : v. Ili74, 5. La V. ' suffugium ', propriadella latinità argentea, * si osservaprima in Seneca e Curzio. ' Tacito se ne valseanche in genso traslato, ^ accostandosi all' es. che ne aveva presentato Quintiliano.* Aggiungiamo altri due aggettivi di formaneutra plur., assunti col valore disostantivi : ^ I 7,** ^ ancipitia ' :Gemi. 14, 10 ' facilius inter ancipitia |clarescunt '. hisL III 40, 10 ' mox utrumque consilium aspernatus, quod inter ancipitia deterrimumest '. ^ ann. XI 26, 12 ' scelusqueinter ancipitia probatum ueris moxpretiis aestimaret '. Tacito adoperò anche al sing. l'agg. ' anceps ' sostantivato: ann. I 36, 9' in ancipiti res publica '. IV 73, 16 'ille dubia suorum re in anceps tractus '. Nella n. h. la v. ' anceps ' conservala ftinzione di aggettivo: IV 10 'ancìpiti nauium ambitu '. VII 149 'ancipites morbi '. IX 152 ' periculum anceps \XVII 191 ' anceps culpa '. XVIII 210 ' res anceps '. J Si ha però un es. nel carmepseudo-ovidiano * nux ', v. 1 19 * quid,nisi suffugium nimbos uitantibus essem *.8 SBN. dial IH 11, 3. CvRT. hUt A. M. VII! 4 (14}, 7. 3 Tac ann, IV »56, 11. XIV 58, 12. 4 QviNTiL. I. o. IX 2, 78. 5 V. la monografia di Th. Panhoff, deneuiriui generis adieeiiuor. subsianiiuo usu ap. Tao. 1883. « F. RiTTBR, P. Corn. Tae. opp., Lps. 1864,p. 525, 20 espunge dal testo tacitianole parole ' quod - est \ chiudendole tra parentesi quadre. 101 XXIII31 ' ancipiti euentu \ XXV 16 * ratio inuentionis anceps ' : v. inoltre 10, 17.22, 97. 23, 17 ; 20. 24, 75. 28, 21. 29,1. etc. 8.** * missilia ' : Oerm. 6, 7* pedites et missilia spargunt, pluraque singuli '. hist. IV 71, 24 *paulummorae in adscensu , dum missilia hostiumpraeuehuntur \ V 17, 14 ' saxisglandibusque et ceteris missilibus proelium incipitur '. L' uso di dare ilvalore di sostantivo all'agg. ' missilia ', per indicare, in generale, proiettili di guerra , come saette , pietre , etc. ,appare prima in Virgilio e Livio ; ^ poisi usò con lo stesso significato anchenella forma del sing. ' missile ': - ne abbiamo un es. nel sg. 1. della n. h. XXVIII 33 ' feruntdifflciles partus statim solui, cum quistectum, in quo sit grauida,^transmiserit lapide uel missili ex iis, qui tria animalia singulis ictibus interfecerint '. Del resto ,nella n. h. è preferito V uso di 'missilis ' come aggettivo : v. 8, 85;125. 34, 138. etc. II. Aggettivi. Annoveriamo, per la loro funzione, tra gli aggettivi le sgg. forme participiali: 1.** ^ inlacessitus ' : Germ. 36, 1 *Cherusci nimiam ac marcentem diu pacemini acessiti nutrierunt'. Agr. 20, 1Vero. Aen. X 716. Liv. II 65, 4. VI 12, 9. IX 35, 5. XXVI 51, 4 XXXTV 39, 2. L'espressione * missiliafortunae ', che osservasi iu SBN. ep, IX 3 (74), 6, pare che abbia schiusol'adito ad un nuovo significato della v.' missilia ' (= « doni largiti al popolo»), che appare in Sveton. Aug. 98, 19. Ner. 11, 11. « Vedi LvcAN. de b. e. VII 485. Vbget. epitr. m. (ed. C. Lang) I 4, p. 9, 8; 14, p.18, 6: in III 24, p. 117, 14 leggesi ' missibilia ', ma nel cod. Perizon. F 17 si nota ' missilia' ; e ' missilia ' osservasi anche nel cod. Palai. 909, corretto da 'missibilia nulla ante Britanniae noua pars pari/&r illacessita transìerit '. Il part. sempl. ^ lacessitus 'notasi nella n. h. Vili 23 ' nec nisilacessiti nocent '. 2.** ' intectus ',con la particella premessa Mn - ' divalore negativo: Germ. 17, 2 ^ cetera intecti totos dies iuxta focum atque ignem agunt '. hist Y 22,12 ^ dux semisomnus ac prope intectus errorehostiura seruatur \ ann. II 59, 5 ^pedibus intectis ': e nel senso traslato,per significare « aperto , schietto , fidente >, ann. IV 1, 12 * sibi uni incautum intectumqueefflceret \ ' » 3.** ' promptus ' :Germ. 7, 2 ' duces exemplo potius quamimperio, si prompti , si conspicui , si ante aciem agant, admìratione praesunt '. ann, IV 17, 16* neque aliud gliscentis discordiaeremedium quam si unus alterne maxime prompti subuerterentur ': v. II 81, 7. IV 51, 16, XIV 40, 8. Con lo stesso significatodi « coraggioso, audace, valoroso », appare la v. ' promptus ', nel grado superlativo, in hist. I 51, 24. II 25,13. Ili 69, 13. IV 14, 9. Agr. 3, 12.Quanto all'agg. 'promptus' riferito a cose, V. n. h. 8, 129. 9, 112. 11,24. 4.** ' reuerens ' : Germ. 34, 12 'sanctiusque ac reuerentius uisum de actis deorum credere quam scir^ \ hist. I 17, 3. 'sermo erga patremimperatoramque reuerens '. Lo stessosignificato presenta la v. * reuerens 'in Properzio. ^ Cicerone conservò T usq psi^rticipiale di ' reuerens ' : * multa aduersa reuerens '. ^Plinio vi a, anche nei sgg. 11. di Tacito: Agr. 34, 13 * transigite cum expeditionibus '. hist III 46, 14 * quodCremonae interim transegimus '. Il tramite, per giungere al significato sopranotato, dovette essere il valore giuridico chesi attribuì in principio al v. * transigere \ cioè « venire a patti , definire la pendenza con unamichevole accordo > , insomma concludere qualcosa di definitivo per dirimere le questioni. * 5.** * uocare ' : Germ. 14, 16 * nec arareterram aut exspectare annum tam facilepersuaseris quam uocare hostem etuulnera mereri \ hist IV 80, 10 ' ncqueipse deerat adrogantia uocare offensas. ' ann. VI 34, 1 ' Oroden sociorum inopem auctus auxilioPharasmanes uocare ad pugnam \ Uequipollenza di ' uocare ' e * prouocare' muove dalla frase virgiliana * uocare hostem. ' 2 IV.Avverbi : 1.*" * adductius' : Germ. 44, 1 ' Gotones regnantur ,1 Cf., per r uso deUe forme passive di * transigere ', Cic. p. Quinci 5, 20. in Verr. a. pr. 10, 32. Tuse.IV 25, 55; e, quanto alle forme attive:p. Rose. Am. 39, 114. p. Cluent. 13^ 39. Phil. II 9, 21. etc. « Vbrg. georg. IV 76 * magnisquo uocantclamoribus hostem '. Sbrv. eomm. inVerg. georg. 1. L, voi. Ili, fase. 1*^, p. 326 Th., commenta: ' uocant hostem, prouocant '. Vedi11 comm.del Heraeus a Tao. hist. IV 80, 10.105 paulo iam adductius quamceterae Germanorum gentes \ hist III 7, 4 ' Minucius lustus.... quiaadductius quam ciuili bello imperitabat,subtractus militum irae ad Vespasianummissus est '. Nei due 11. citati il valore lessicale della v. ' adductius ' = «con maggior rigore, più severamente ,con freno più stretto », si deve farerisalire alla frase di Cicerone ^ adducere habenas ', che è in contrapposto conV altra ' remittere habenas. ' ^ 2.*" L' espressione ^ haud perinde ',priva di valore comparativo, adempie unafunzione brachilogica: Germ, 5, 10 'possessione et usu haud perinde adficiuntur '.34,2 ' aliaeque gentes haudperinde memoratae. ' ann, II 88, 16 'Romanis haud perinde Celebris. ' IV 61 , 4 ' monimenta ingeni eius haud perinderetinentur. ' Alla negativa * haud 'talvolta sono sostituite altre voci negative : ' non, ^ ne-quidem, ^ nec '. ^ Per r espressione comparativa ' haudperinde quam ', invece della classica *h. p. atque ', v. hist. II 27, 1. Ili 58, 14. IV 49, 26. ann. II 1,8; 5, 9. XIV 48, 7. XV 44, 18. Osservasianche ^ nec perinde quam ' o ' neque p.q. ' in hist. II 39, 12. IV 72, 16. ann.XIII 21, 7. 3.** * longe ' puòadempiere V ufficio di rinforzare il1 Cic. Lael. 13, 45. 2 Tac. ann.II 63, 10. Cf. Plin. epéaé. I 8, 12. Sveton. Aug. 80, 6. Galb. 13, 1. deperdit librorum relL p.294, 2, ed. Roth. 3 Tac. Agr. 10, 19(secondo la congettura del Grozio: nei codd.* proinde '). Cf Sveton. Tib. 52, 3 sg.4 Liv. IV 37, 6. - 106comparativo, col significato di « molto » : * Germ. S, 3 'quam (se. captiuitatem) longe impatientius feminarum suarum nomine timent'.ann, IV 40, 10 Monge acri US arsuras '. XII 2, 6 ' longeque rectius Lolliaminduci '. Altri ess. ne erano apparsi in Virgilio, Fedro, Velleio Patercolo. ^ BÈ notevole che Tacito si valse in più luoghi de' suoi scritti di alcune espressioni o frasi che siosservano nella Germ. : daremo evidenzaalle più importanti di esse,disponendone i confronti secondo l'ordine cronologico delle opere di Tacito.^ I.Per il libro de uila et morihus lulii AgHcolae: 1.** Germ. 36, 4 ^ ubi m a n u a g i t u r '.Agr. 9, 6 * plura manu agens'. 1 L'uso classico deU'avv. Moage' sirestringe a rinforzare il superlativo oad accompagnare » per renderne più efficace lasignificazione, alcune voci particolari, quali * alius> aliter,diuer* sus, dissimiiis ', etc. ; e iverbi: ^abesse*, v. Cic. ep. (ad fatn)II 7, 1. ad AiL VI 3, 1 ;"* antecellere *, v. id. in Yert, IV53, 118. p. Mxir, 13, 29; * anteponere*, v. id. de or. I 21, 98; * dissentire ', v. id. Lael. 9, 32; • praestare ',v. id* Brut. 64, 230 ; e simili. Quantoall'uso dell'avv. * longe ' col superlativo, v. inoltre Plin. n. A. 3, 5. 4, 66. 5, 70. 9, 131. 19,146. 23, 92. 24, 125. etc. 2 Vero. Aen,IX 556 * longe raelior \ Vell. Paterg. h. R» II74, 1 * 1. tumultuosiorem *. Phaedr. /a6. Ili 7, 6 *L fortior'. Cf. Pbtron, sat 9, p. 39, 1 ' 1. malore nisu '.98, p. 465, 5 * 1. blaiidior '. 3 Nelconfronto sarà incluso VAgr.^ tuttoché comunemente si ammetta che questo sia stato scritto primadella Germi le ra^ gioni sono stateesposte a lungo nel nostro libro sopra citato,V autore del l * de origine et situ Germanorum ', Roma, 1902. 1072.** Germ. 4, 4 ' unde habitus quoque corporum.... idem omnibus. Agr. \\^ 2 ' habitus corporumuarìi \ ' 3/ Gemi. 6, 14Mn uniuersumaestimanti plus penes peditem roboris '.Agr. 11,9 Mn uniuersum tamen a e stimanti Gallos uicinam insulam occupasse credibile est'. ^ 4.** Germ. 30, 13 ' orane r o b u r in p e di t-e ': cf. 6, 14 ' plus penes peditemroboris '. Agr, 12, 1 M n pedite robur'.Livio preferi la frase ' lecta roborauirorum '. ^ 5.** Germ. 17, 6 'ut quibus nuUus per commercia cultus '.24, 12 ' seruos condicionis huius per commercia tradunt '. Agr. 28, 14^ percommercia uenumdatos '. 39, 4 * emptisper commercia'. 6.** Geì^m. 21, 12 *notum ignotumque quantum ad ius hospitisnemo disceruit '. Agr. 4:4^ 7 *quant u m a d gloriara, longissimum aeuumperegit '. Vedi inoltre hist V 10, 8.Della espressione * quantum ad ',sostituita alla comune ^ quod attinet ad ', si osserva prin^ft un es., non incensurabile, in Ovidio:lo agcolse, poi, Seneca. ^ Ma un terminedì passaggio tra le due 1 L'espressione ' habitus corporis ' fu , poi, ripetuta da Pliii. efii8t VI 16, 20 e da Svbton. deperdiLUbrorum reli pagt ^9^ 12, e4 Ralh. Plin. n. h, U, 224 menziona i ^siqgulos anitpihabitus '. « Vedi il cap. Ili, C, III, 2^ 3Liv. VII 7, 4: cf. Vili 10, 6. XXX2. 1. 4 OviD ars am. I 744 ' quantum adPirithoum \ Skn. ^^ XII 3(«5?, 14 ' quantum ad habitum mentis *. Un altro ea^ di Seneca è citneWausfùhrl. Handwh. del GaoaeES, II, o. 19091. Vedi G. Leopardi , penneri di Daria filoso^ e dibelln leUenklura » Firenze, suec. LeMounier, 1898 ; voi. I, p. 256.locuzioni notasi nelle frasi dì Seneca il retore: ^ quantum ad meum stuporem attinet; quantum ad iusattinet '. ' II. Per le historiae : 1.° Germ. 25, 6 * occidere solent, nondisciplina et seueritate, sed impetu etira '. hist I 51 , 5 ' asper^ftomilitiam tolerauerant ingenio loci caeliqueet seueritate disciplinae'. La stessa frase , espressa in forma di endiadi come nellaGerm,, appare prima in Cicerone e nelbeli. Alex. ^ 2.** Germ. 3, 18 'exingenio suo quisque demat uel addatfldem '. hist. I 82 , 13 ' manipulatimadlocutl sunt ex suo quisque ingenio mi tius aut horridius '. Vi sìaccosta la frase plìniana ; * uariacirca hoc opinio ex ingenio cuiusque'. "^3.° Germ. 13, 20 ' ipsa plerumque fama bella profi igant '. hist. II 4,11 ' pr fi igauer at beli u m ludaeicumVespasianus '. IV 73, 6 ' profligato bello '.La frase * proflìgare bellum ' risale a Cicerone e Livio: •* si resed'estensione maggiore, sostituendosi ai Sen. rhet. eonirou. VII 1 (16-, 1, p. 298, 18. X 5 (34), 16, p. 509, 8, ed. e. Nella n. h. 25, 12 sì nota *in quantum *. s Cic. p. Cluent 46, 129 * magister uelerisdisciplinae ac soueri tatis ' : cf. mCatil. I 5, 12. Script b, Alex. 48, 3 *mìlitarem disciplinam seueritatemque minuebant '. 65, 1 ' quae dissoluendae disciplinae seuor it a t i s q u e essent ' (Kuebler). Cf. Liv. XXXIX 6, 5. 3 Plin. n.h. 8, 48: cf. 34, 57; e Liv. Ili 36, 1.4 CiG. ep. dadfam.) Xll 30, 2. Liv. IX 29, 1 ; 37, 1. XXI 40, 11. XXXV 6, 3. XXXIX 38, 5. V. i commentiOrelli-Meiser, Heraeus, Valmaggi a Tag.hist. II 4. - 109 ' bellum ' gli aec. * aciem, classem, copias,hostem, iaimicos, proelium ', etc. ^4.° Germ. 3, 18 'ex ingenio suo quisque demat uel addat fidem'. hist II 50, 7 ' itauolgatis traditisque demere fidem nonausim \ III 39, 3 ' a d d i d i tfacinori fidem': v. ann. IV 9, 5. Sinotano ess. delle locuzioni ' demere fidem ' e ' addere fidem ' in Livio e Ovidio : ^ in un 1. diCicerone i due verbi ' addere ' e 'demere ' sono disposti in antitesi ,come nel 1. e. della Oerm. ^5.*" Germ. 42, 8 ' sed u i s et p o t e n t i a regibus ex auctoritate Romana'. hisL III 11, 15 ' uniAntonio uisac potestas in utrumqueexercitum fuit '. ** L' espressione *uis ac potestas ' del 1. e. delle hist siconnette con la frase di Cicerone: ' u i m omnem deorum ac potestatem'. ^ 6.'' Germ. 36, 7 ' tracti ruina Cheruscorumet Fosi '. hist. III 29, 5 ' quae (se,ballista) ut ad praesens disiecit obruitque quos inciderat , ita pinnas acsumma i Plavt. mil. gL 230 (II 2, 75. Cic. p. Rab. FosL 15, 42. Phil XIV 14,37. Cabs. b. e. II 32, 11. Nep. XIV vDat.) 6, 8. Liv. Vili 8, 9. X 20, 14. XXVIII 2, li. SiL. It. Pun.XI 398. Tac. ann. XIV 36, 7.« Liv. II 24, 6. OviD. rem. am. 290.8 Cic. aead- pr. II 16, 49. Vedi per altrie?s. di posizione in antitesi dei vv. *demere ' e ' addere * 1' ausfùhrl Handwb. delGeorges, I, e. 1903. 4 u!Zbrnial, op. e, p. 81, aggiunge al confronto un 1. del dial. de oratoribus 19, 24 ' qui u i e t p ot e s t a t e , non iure aut legibuscognoscunt '. 5 Cic de nat d. III 36, 88. Cf. seripL rhet adHer. I 5, 8no ualli r u i n a sua t r a x:i t ' : ma nel 1. e. della Germ. ' mina' ha significato metaforico. * 7.°Germ. 44, 1 1 ^ m u t a b i 1 e... hincuel illinc r e m i g i u m '. hist III 47, 18 ' pariutriraque prora et mutabili remigio, quandobine u e 1 illinc appellere indiscretum et innoxium est ' : v. anche ann. II 6,7. 8.° Germ 24, 13 ' ut se quoque pudoreuictoriae exsoluant '. hist III 61, 15 *p u d o r e proditionis cunctos exsoluerent'; arrogi ann, VI 44 , 20 ^pudore proditionis oranes e x s o 1 u i t'. ^ In simile accezione metaforicaappare il v. ' exsoluere ' in Terenzio,Cicerone, Virgilio, Livio, etc.'* 1Cf. la frase * tra bere ruinam' in Verg. Aen, II 465 ?g. ; 631. Vili 192. IX 712 sg. ^acostruito ^ proditur ' nella Germ. 8, 1 ' meraoriae pròdilur quasdamacies inclinatas iam et labantes a Sforni nis restitutas '. ^ Consideriamo le leggi sintattiche aventi perobtóÉto r uso dei casi. I.Accusativo : l.*' L' acc. direlazione, in dipendenza da un aig^tivo da un participio, osservasi nella Gemi.17, 12 ' nudae brachia ac lacertos '; enella n. h, XIII 29 ' uitilem sibi arborique indutis circulum '. Ess.consiirfli 1 Quanto alla costpuzionedel v. * narratur ' con Tace, e Titifin.,invece di * narra ntur * col nominativo e l'infin, per significare, come scrive G. Helmrbigh, c b e s t i m ra te Angaba und M'itteilung, auch durch Schriftsteller, im Gegensatz zu vagemGorùcht »: V. la recensione del l'bro del Wormstall, uebèr aie Chamaoer, Brukterer und Angrioarier ole, nelJahreàbèrìcht ueber die Fortschritie derclass. Alteri humswissensehaftyXVll(1889;, 2. Abtheilung, p. 255 (Jahresb. ueb. Tao.), « In altri 11. della n. A. ò preferita la frma attiva * narrkht *: V. 2, 126 ; 236.8, 35. 32, 75 etc. 3 OviD. mei. XV 311sg. ' admotis Aihamanas aquis actiiàhdere Jignum | narratur *. 4 Un costrutto analogo osservasi in Liv. XXV 31,9 Val. Mix. /. ei d. m. II 6, 10. Cf. Caes. b. G. V 12 1.Tac. ann. Ili 65 , 9.[dial. de orato ribus 32, 27].136 si notano in Virgilio ^ edaltri poeti delPetli augustea: nepresenta anche la latinità argentea , i cui scrittori predilessero i costrutti poetici e di fontegreca. ^ 2.^ L'acc. ' cetera ' è assunto, talvolta , in funzione avverbiale:Germ. 17, 2 ' cetera intecti totos dies iuxtafocum atque ignem agunt '. 29 , 12 ^ cetera similes Batauis '. 44, 20 ' cetera similes unodifferunt '. n. h. Vili 40 ' tradunt inPaeonia feram quae bonasus uocetur equina iuba , cetera tauro similem '. XXII133 ' est etiamnum aliud sesamoides ,Anticyrae nasqens , quod ideo antiquiAnticyricon uocant, cetera simile erigerenti herbae '. La prosa latina avevagià accolto lo acc. ' cetera ' infunzione avverbiale, ^ ed anche prima raveva accolto la poesia, che ne continuò V accezione neir età augustea. * 1 Verg. Aen, IV 558 sg. Non ó es. sicuroquello dell' Aen, I 320 ' nuda genu ',in cui ^ genu ' può essere accettato per ablativo. Per la stessa ragione ilDraegkr, ueber Synt u. Si, d, Tac^y §39, p. 19, riconosce es. noi sicuro di acc. di relazione il 1. degli ann. XVI 4, 11 * flexus genu'. 2 Vedi gli ess. in Màdvig, lai.Sprogl.'y § 203, a, Anm., p. 154.Cocchia, sint. lai., § 55, p. 1 17 sg. Valmaggi, comm. hist Tae. lib. 1, p. 134; lib. 11, p. 34. Cf. inoltre*Tag. hist IV 81, 9. ann. VI 9, 13. XV64, 15. e te. 3 Cic. orai, 25, 83(letto secondo il cod. Viteberg., / del Friedrich). Sall. lug, 19, 7; cf. hisL IV 9 (Kritz). Liv.I 35,6. Vell. Paterc. h. R,l\ 119, 4. Cf. Tac. Agr, 16, 10. ann, VI 15, 5; 42, 12. * Enn. ann, 1 fr. 32, in PLM. , voi. VI, p.64, ed. Baehrens. Verg. Aen. Ili 594: IX656: cf. Serv. eomm. in Aen. IX 653, p.368, voi. 11, fase. 2.o Th. Hor. earm, IV 2, 60. ep, I 10, 2 e 50. Vedi Madvig, lat Sprogly § 203, a, p. 154. Cocchia,sint lai, , § 60, b, p. 131. ILGenitivo : ^ 1.^ Il genitivoparti ti vo trovasi in dipendenza dal relativo neutro * quod ', posposto, chefunziona da soggetto della proposizione sg. : Germ. 15, 8 * conferre principibus uel a r m e n t o r u m uel f r ug u m quod prò honore acceptum etiamnecessitatibus subuenit '. n. Ti. XXX127 * feni Graeci quod III digitis capiatur '. Ess. anteriori si notano inCesare e Livio. ^ Vi ha, però, chi nel1. e. della Gemi.y facendo precedere al ' quod ' una virgola, trovi uncostrutto ellittico, che nella sua interezza somigli ad un altro 1. della Germ. 18, 6 ' ipsa armo rum aliquid uiroadfert ', 3 simile al 1. della n. h. XXVII 130 / additur piperis aliquid etmurrae '. Ma, se cosi fosse, avremmo unacostruzione ellittica isolata , priva di base , se ne togli un ravvicinamento, del resto nonimprobabile, col passo degli ann. diTacito XV 53, 8 ' iacentem et impeditum tribuni et centuriones et ceterorum ,ut quisque audentiae habuisset, adcurrerent trucidarentque '. ^ 2.** Per l'uso del genitivo in dipendenza daun comparativo neutro plur., considerato come sostantivo, vi è rispondenza tra la Germ. 41, 1 'insecretiora Ger 1 Vedi U. Zernial, seiquaedam eap. ex genet usu Toc., Gòtt.1864. « Caes. 6. G. Ili 16, 2. Liv. XXVIII 8, 9. Cf. Tac. hisL II 44, 20 3 U. Zernial, Germ. erkl p. 41. Cf. il comm. del Heraeus alle hisLdi Tac. II 44. 4 Vedi CoNSTANs, études. L langue d. Tac, n.^ 81, p. 45. figli crede probabile che sì tratti di uncostrutto ammesso dalla lingua popolare:non ne adduce però le ragioni.138 maniae porrìgìtur ', ^elsin.h. XVI 187 ' et sabuci interiora mire firma traduntur ' : cf. 6, 33. Sene osserva qualche es. in Cicerone ^,a** Tra gli aggettivi che, tanto nella Germ. quanto nella n. h., hanno, talvolta, il loro complementoin una forma nominale di caso genitivo,si debbono annoverare i sgg. : a) 'fecundus ' : Germ. 5, 5 ' pecorum fecunda '. n. h. XXXIII 78 ^ nulla fecundior metallorum quoqueerat tellus '. '^ Ma nella n. h, èammessa anche la costruzione con r ablativo : XI 233 * numeroso fecunda parta'.* b) * impatiens ' : Germ. 5, 4 'frugiferarum arborum impatiens '. ^ n.h.XXl 97 ' unum autem caulem rectumhabet uetustatis inpatieutem '. ^ Questa costruzione appare la prima volta nella lingua poeticadell' età augustea; poi si estese alla lingua della prosa. ^ J Vedi Valmaggi, il geniiioo ipoiaitieo inTae.\ in Boll, di ^lol class., a. IV, n.» 6, pp. 130-135. 2 Cic. ad AH. IV 3, 3. Cf. Tac. hist. II 22,3. V 16, 5: nel secondo de' due 11. ce. il cod. dà la lez. * propiora fluminisTransrhenani tenuere ' ; il Nipperdey, il Halm, il Ritter e altri vi sostituiscono * flumìni '. 3 La costruzione col genit. notasi prima inHor. carm. IH 6, 17. CoLVM. de r. r, IX 4, p. 552, 5 Cf. Tac. hist.I 11, 3. ann. VI 27, 16. XIV 13, 4 * V. ess.anteriori in Ovid. mei. Ili 31. X 220. Cf. Tac. hist. I 51, 26. Il 92, 6. IV 50, 22. ann. XIII 57,2. 5 L'espressione * patiens frugum ',in antitesi a quella u^ata nella Germ.1. e , osservasi in Tac. Agr. 12, 16. 6V. altri ess. sopra, cap. I, A, 111, n.« 13, p. 39. 7 Vero. Aen. XI 639. Ovid. ars am. II 60. mei. VI 322. XIII 3. trist. V 2, 4. Vell. Paterc. /i. i? II 23,1. Cvrt. hist. A. Ai. Ili 2 (5j, 17. IX4 (15). 11. Cf. SiL. IT. Pan. Vili 4. Tao.hist. II 40, 11; 99, 7. ann. Il 64, 13.IV 3, 5; 72, 2. VI fó,8. XII 30, l.139 e) * superstes ' : Germ. 6, 24 * muHique «operdtites belloruminfamiam laqueo flnierunt '. n. h, VII 156' M. Perpennaet nuper L. Volusius Saturninus omnium... superstites fuere ' : v. 7, 134. Cicerone neaveva dato r es.* Nella Qerm. siaccoglie anche la costruzione di 'superstes ' col dativo, secondo gli ess. di scrittori precedenti : 2 14^ 3 *infame in omnem uitam ac probrosum superstitem principi suo ex acie recessisse'. 4.** Quanto al genitivo * moris 'col verbo * esse ' valgano i sgg. confronti: Germ. 13, 2 * arma sumere non ante cuiquam moris, quam ' e. q. s. 21,13 ' abeunti, si quid poposcerit, concedere moris \ n. h. XIX 51 ' usque ad eum (se. Epicurum) moris nonfuerat in oppidis habitari rura ' : v.17, 66 ; 214. La locuzione * moris esse' col soggiuntivo retto da * ut ' o con Tinflnito, era stata adoperata daCicerone, Livio, Velleio Patercolo,Valerio Massimo, Seneca, etc. ; ^ poi, per iltramite di Tacito e di Plinio il giovane, * passò nell'uso 1 Cic. ad Q. fr. l 3, 1. Cf. Tac. Agr. 3,13. ann. I 61, 14. Il 71, 11. Ili 4, 11. 8 Plavt. asin. 21 (I 1, 6). Ter. haut. 1030(V 4, 7). Ovid. ara am. Ili 128. mei. XI552. etc. Cf. Tac ann. V 8, 12. Nei sgg.11. : Plavt. irin. 57 (I 2, 19); Cic. ep. {ad fam.) VI 2, 3; HoR. e. saee. 42, resta io dubbio se la v. 'superstes ' sia costruita col genit. ocol dat., essendo forme dell' uno e dell' altro caso ì rispettivi complementi : ' uitae tuae, reipublicae, patriae '. 3 Cic. in Verr. I26, 66. Liv. XXXVI 28, 4. Vell. Patbro. A.K lì 37, 5 ; 40, 3 Val. Max. /. et d. m. II 8 , 6. Sbn. disi. X 13, 8.4 Tac. Agr. 33, 1. 39, 2 (Ietto secondo il cod. Vatic. 342(), A del Halm). 42, 19. hist I 15, 3. ann. I 56,17 ; 80, 2. IV 39, 3. Plin. epi%t II 19,8. Ili 21, 3. degli scrittoriseriori, ^ invece della est ', preferitadalla latinità classica. ^ III. Dativo : ^1.° Il dat. di attribuzione trovasi, talvolta, sostituito al genitivo, in dipendenza da alcunisostantivi: Germ, 16, 11 ' solent et subterraneosspecus aperire , suf fugium hiemi ^ et receptaculum frugibus '. 44, 11 'est apud illos et opibus honos '. n. h.XXXVI 198 ' maximus tamen honos in candido tralucentibus {se. uitris).-^ Il dativo di attribuzione osservasi , sebbenedi rado, negli scritti anteriori al 1.''secolo dell'impero : ^ dopo. 1 Cf. IvLiAN. ìq dig. HI 2, 1. Vlpian. in dig.XLVIII 19, 9. 2 Vedi Georges, ausfuhrl.Handwb. , II, e. 904. Nella n. h, si accoglie anche la locuzione classica ' mosest*: v. 4 , 33. 11 , 184. 19, 73. 25,77. 28, 36. 29, 4. 33 , 11; 21. 34 , 16. Si nota * in more est * in 16, 13. 3 Vedi, quanto ali* uso del dat. lamonografia di W. Knoess, de dat. fin.qui die. usa Tac. eornm., Vpsaliae 1878; e quella di A. CzYGZKiEWiGz, de dat. usu Taeit.y BroJyHiemi ' ò la lez. data dai codJ. Il Reifferscheid ed il Halm congetturano * hiemis *; il Halra peròdubita: * aa hieme? * Certo è che la costruzione di * suffugium * col genitivoosservasi in un altro 1. della Germ. 46,18 * ferarum imbriumque suffugium * ; ed ò preferita da Qvintil. L o. IX 2, 78* suffugia infirmitatis*; e da Tac aan. IV 66 , 11 * urguentium malopum suffugium •.5 In Tac. Agr. 21, 9. hist. I 21, 6 * honor ' si accompagna col genitivo. Anche col genitivo sono costruiti 'rector* e * subsidia * nella n. h. 2,12. 35, 102. 6 Caec. Stat. eom, rei. ll9(Ribbeck) * meaemorti remedium *. Cic. de or. I 60, 255 * subsidiura... senectuti * ( ma nello stesso 1. * subsid. senectulis '). in Catll. II 5,11 * huic..bello..ducem *. Catvll. 63,15 * mihi comites *. Vero. Aen. V 111 * pretiumuictoribus '. r uso siestese di più. * 2.° Nella Germ. enella n, h. si accoglie T uso del ^datiuus absolutus' : - Germ. 6, 14 * ìq uniuersurn a estimanti plus penespaditein roboris \ n. h. XVI 178 'proxirneque aestimanti hoc uideantur esse,quod in interiore parte mundi papyrum ' : v. inoltre 15, 72. 16, 200; e cf. 36, 120. Costruttianaloghi sì notano in Cesare, Virgilio, Livio, Ovidio. '• 3.** Degli aggettivi che, tanto nella Germ.quanto nella » Vedi Tac. hisL 1 22,11 ; 67 , 4 ; 88 , 5 ( ma ' minister ' colgenit. in hisL II 99, 13: cf. Verg. Aen. XI 658). II 1 , 2. Ili 6, I. IV 19, 6; 22, 17; 61, 15 ( ma • pignus *col geoil. in hisL III 72, 4 ; 76, 4. V8, 2. ann. I 3, 1 ; 22, 1 ; 24, 9; 56, 16. II 21, 13; 43, 27; 46, 23; 60, 18; 64, 18; 67, 12. Ili14, 18; 40, 5 e 13. IV 60, 8; 67, 8. VI20, 2 ; 36, 12 e 14; 37, 14. XI 8 , 4. XII 22, 10. XV 53, 5. etc. * Il Cocchia, sinL lai., § 73, IH, p. 159,lo chiama 'd«t. iudicantis '. Vedi Draeger, ueber Syni. u. Si, d. Tao. 3, § 50,p 24; e Valmaggi, comm hisi. Tac, lib.II, p.' 96 II Constans, étude 8. llanyued Tac-y n.^ 91, p 51, nega C come lo Sghmalz, lat. Sf/ni. 426) che sia costruzione greca, e locrede « un datif de rinterèt atlénué »:tuttavia, mentre egli ammette che nell'A/yr.II, 10 « le datif n'est pasdouteux », per il 1. delUi Germ. 6, 14dee « qu* il est trés probable »: n ^* 250, 2", p 114. 3 Caes b. e. Ili80, 1. Verg. Aen. Vili 212. Liv.: cf. X 30, 4. Ovid. meL VI 656. VII 320. Cf. Tau Agr. 11, 10. hist II 50, 12. Ili 8, 6. IV 17, 16. V 11, 18: aggiungiamo Agr,10, 12, conservandovi lì lez. * transgressis ', data dal cod.Vatic. 3429 (A del Halm). B Renano,seguito dal Halm ( e, nella ed. torinese deWAgr., 1886, p. 23, dal Decia) lamutò in * transgressa ': il Ritter,accogliendo la congettura del Busch, Tespunse. L'osservazione sul dat. assolutoresta ferma, ancorché si voglia accettare l'emendazione del Doederlein, che farientrare ' trans-^ gressis ' nellaproposizione seg., dopo * sed *.142 n. /i., reggono il dativo,ci sembrano degni di nota : aji> *diuersus ' : Germ, 46, 11 ' quae omnia diuersaSarmatis sunt, in plaustro equoque uiuentibus '. n. h. XII 97 * pretia nulli diuersiora '. ^Cicerone non evitò il costrutto coldat., " ma si avvalse anche di quelloCOR' r ablativo. ^ h).'auspicatissimus ' : Genn. 11, 5 ' agendis rebushoc auspicatissimum initium credunt '. * n. h. XVI 75 * spina nuptiarum faci bus auspicatissima '.^ 4.° Quanto ai verbi composti che sonousati col dat., ^ notiamo i sgg. : a) ' accedere ' : Gey^m. 4, 1 ' ipse eorumopinioni bus ^ accedo '. n. h. IX 17 'nec me protinas huic opinioni eorumaccedere haud dissimulo ' : v. inoltre 6, 213. 7, 146. 15, 14. 32, 143. 34, 8. 37, 101. etc. Maess., tuttoché non frequenti, ne avevano dato Ennio, Cicerone, Nepote, Orazio, Livio, Velleio Patercolo,Columella, etc. ^ 1 'Dtiiemus* ècostruito col genit. in Tao. hist. IV 84,2. ann. XIV 19, 5. « Cic. de leg, agr. II32, 87. Cf. Vbll. Paterg. h. R. II 75, 2.3 Clc. Brut 90, 307. •* VediDraeger, ueber Syntu. SL d. Tao, 3 , § 206, B, b, p. 83. CoNSTANS, étude s l langue d, Tae. , n.** 95,3, p. 54. 5 Vedi 60pra, cap. I, A, III, 4.", pag. 35. 6 Vedi Av Lehmann, de tteròf'8 compos. apudSali, Caes., Tae. cum dat siruet,Breslau 1863. 7 II Meìser e il Halmsostituiscono * opinioni * ad *opinionibus'che ò lez. data dai codd.: ò una sostituzione che non fa venir meno 'a nostra osservazione: v. la nota 3,pag. 14. 8 Enn. ann. XIV fr 260, inPLM., voi. VI, p 95, ed. Baehrens (cf.Magrob $at VI 5, 10) Cic. ad Q. fr. I I, 1. ad Ait V 20, 3. Nbp I (Milt.) 4, 5. HoR. sai II 5, 71 sg.Liv. XXVI 50, 12. VEJ.L Patebc. h i?. I8, 5 C0J.VM de r r III 21, p. 398, 8. Cf.-- 143 b) ' eximere ' : Oey*m.29, 6 ' exerapti oneribus et collationibus '. n, h. XXX 51 ' canìnus (se. lien)si uiuenti exinaatur et in cibo sumatiir', e. q. s. La costruzione col dat. erastata prima accolta da Plauto, Virgilio, Livio, Seneca, Curzio, etc. ' e) ' interuenire ': Germ. 40 , 7 'interuenire rebus hominum '. n. h. XXI68 * in Italia uiolis succedi t rosa,buie interuenit liliura ' : v. 18, 342. 33, 127. È costruzione classica,confermata dagli ess. di Cicerone. ^5.*" Il dat. appare usato per complemento di un verbo passivo air infinito o in un tempo finitosemplice : ^ Germ. 16, 1 ' nuUasGermanorum populis urbes habitari satis notum est'. 39, 13 * centum pagi iishabitantur '. ^ n. h. II 247 ' quem (se.Eratosthenen) cunctis QviNTiL. L 0. IX 4, 2. Tac. hist. I 34, 2 ; 57, 7 ; 59, 8 ;70, 4. II 33, 1 ; 58, I. etc. 1 Plavt. mere, 127 (l 2, 17). Vero. Aen. IX 447. Liv. Vili 35,5. Sen. de ben. VI 9, 1. Cvrt. hist A. M. VII l (l), 6. È dubbio se sitratti di dativo o di ablativo nei ?gg. 11. : Hor. carm. II 2, 18. ep. I 5, 18. Liv. V 15, 3. VI 41,2. XXVIII 39, 18. XLV 31. 12. CvRT. histA. M. VI 3 (7», 3; 11 (43., 24. Quanto allacostiuzione col dat., cf. Qvintil. i. o. X 1, 74. Tao. ann. I 48 , 7; 64, 9. IV 35, 4. XII 56, 17. XIV 48, 9;64. 2 (ma con Tablai. retto da * e ' inAgr. 3, 14}: vedi ilcomm. del Nipperdey ad ann.XiV 64. Per la condizione postclassica del v. 'eximere' col dat. nella prosa latina, v. Krebs-Schmalz, antib.I, p. 497. 2 Cic. de or. II 3, 14. adQ. fr. l 2, 1,2. de fin. I 19, 63. Cf. Liv.I 6, 4 ; 48, 1. XXIII 18, 6. Ovid. met XI 708. Tac. hist IV 85, li. 3 II dat. usato col part. perf. e coi tempicomposti di un verbo passivo è un costrutto più frequente, anche nei tempidella latinità aurea. Vedi Cocchia, sintlat , § 73, V, p 160. ^ Nei codd. silegge ' pagis habitantur*: noi ci atteniamo all' enoendazione del Brolier, *pagi iis habitaniur ' , accolta dalMa^sroenn, dal Riiler,d8l Halm, dal Kritz, dal Finck, etc La. 144probari uideo * : v. 3, 9; 54. 16, 249. 36, 12. etc. Cicerone se n' eraavvalso, sebbene di rado, massime con rintendimento di significare un'azione vantaggiosa all' autore di essa. ^ IV.Ablativo: 1.** All'accusativopredicativo trovasi sostituito l'ablativo ' loco ' col genitivo : Ge?^m. 8, 9 *Velaedam diu apud plerosque numinis locohabitam '. n. h. Vili 173 ' est inannalibus nostris peperisse saepe (se. mulas),uerum prodigii loco habitum '. La sostituzione è riferita anche alnominativo : n. h. XXXIII 46 ' hic nummus {se. uictoriatus) ex lUyrico aduectusmercis loco habebatur': cf. 11, 191.Cicerone, Cesare e Bruto avevano dato i primi ess. di tale uso sintattico.^' 2.° L'ablativo di luogo appare privodella prep. ' in ' nei sgg. 11. dellaGerm.: 10, 13 Msdem nemoribus.ac lucis'.37, 3 * utraque ripa'. 40, 18 ^ secreto làcu abluitur '. etc. Lo stessoosservasi nella n. h. II 168 ' siue ea {se. palus Maeotica) illius oceani sinusest...., siue congettura deirErnest!, ^ pagis habitaot ' , fu seguita dal Dilthey, dallo Zernial, da Io. Mueller, etc. IlKiessiing riproduce la lez. dei codd ,*quamquam nibil', egli soggiunge, op. e, p. 143,' adhuc ex scriptoribus Latinis afferri potuit, quod hunc huius uerbì usum confirmaret*. 1 Cic. pari. or. 5, 15 m Verr. V 45, 118. adAH. 1 19, 4. Tuse. V 24, 68. de off. Ili9, 38. Cai. m. 11, 38. Cf. Tag. Agr. 10, 7.hi9i. I 11, 9; 27, 9; 35, 8. II 80, 21 ann I 11, 11; 17, 23. II 57, 18. XII 1, 9; 9, 8 etc. « Cic. de inu. rhei. II 49, 144. de dom. s 14, 36. ep. (ad fam.) VII 3, 6. Caes. ò. G. vi 13, 1. Brvt. in Cic.ep. ad Brut I 17, 5. Cf Tac. hisi. II 91, 2. IV 26, 7. ann. XIII 58, 4. Vedi Cocchia, ami.laL, § 12, V, e, p. 18. 145 angusto discreti situ restagnatio \ Vili 99' hiberno situ membrana corporis obducta ' : y. 6, 74. 10, 62. 19, 48. 25 , 63. etc. * Nella Germ. si accoglieanche 1' uso della prep. ' in ', quandocon 1' ablat. di luogo si accompagni il pron. * idem ', p. e. 12, 10 * in isdemconciliis ', che sintatticamente risponde al 1. e. sopra, 10, 13 ' isdem nemoribus '. Similmente nella n.h, 2, 205; 219 osservasi 1' espressione' in eodena loco '. ^ Così nella Germ.36, 1 si legge ' in latere Chaucorum ' :costrutto accolto nella n. h. 3, 22. 9, 50. 35, 22. etc. , ma rifiutato in 2, 73; 168. 4, 40; 110. 5,72; 74. 6, 191. 24, 160. etc. ^ 3.** Gli aggettivi ' ferax ' e ' ingens 'sono usati nella Germ. con uncomplemento di relazione in ablativo :a) Germ. 5, 4 ' satis ferax ' : al contrario n. h. XV 100 ' qui {se. acini) minime feraces musti '.Il costrutto 1 Potremmo aggiungere n.h. XXXVII 19 * exposìta occuparent iheatrum peculiare trans Tiberim h o r t ì s' secoado la lez. data dai codd. e dalla* uulgata ', accolla neir ed. Harduin, II,p. 767, 9, ma rifiutata dal cod. Banberg. e dalle edd. Jan (vo^ V, p. 145, 38) e Mayhoff (voi. V, p. 388,10}, che ammettono ' in hortis •. Cf.Tao. hisL I 64, 17. II 1, 13; 43, I ; 50, 9 ; 62, 2; 66, 4. III 22, 15; 38, 3; 61, 5. V 5, 21. ann. I61, 12; 65, 20. Ili 38, 10. IV 43, 9.XlV 61, 3. etc. 2 Negli scritti di Tac.si preferisce, in tal caso, respingere laprep. * in •; valgano d'es. hisL I 55, 10. II 45, 12. Ili 13, 16; 72, 17. IV 53, 4. ann. I 31, 12. II 24, 11. XIV44, 12. etc. Vedi la monografia di F.Schneider, quaesL de obi. usu Tao., I, Lìgniciae 1882. 3 Tac. accolse tale costrutto in ann. III74, 10; lo rifiutò in ann. XV 38, 17.Per V uso classico dell* ablat. di luogo senzala prep. * in ', v. Cocchia, sinL lai., § 78, I, p. 178 sgg. Consoli, La Germania comparata. 10 146col complemento in ablat. è dato da Virgilio; ^ m&. il costrutto col genitivo è presentato da Orazio, Livio , Ovidio , e seguito da ValerioFiacco , Tacito , etc. ^ : d' ondequella incertezza d' uso, che si osserva in Plinio il giovane, ^ salvo che sivoglia attribuire quella che può parereincertezza, a difTerenza di significazione, secondo che propria o in traslato,della v. ' ferax '. b) Genn. 37, 2 * parua nunc ciuitas, sed gloriaingeas ' : cf. n. h. 23, 75. Il costrutto di' ingens ' con r ablat. era statoadoperato da Virgilio : * Sallustiopreferì, invece, il costrutto col genitivo. ^ DLe osservazioni che seguono si restringono a determinare le relazionisintattiche concernenti 1' uso dei modi:quello che e' è da dire in rapporto all' uso dei tempi, sarà trattato in dipendenza dall' usodei modi del verbo. 1 Vero, georg. II 222 * illa ferax oleosi' (Ribb.) , o maglio ' oleo est \secondo la lez. preseatata dai codd. Palat. e Rom., confermata da Nonio Marcello (p. 500, 23 ed.Mere; p. 341, 6 ed. Gerlach-Roth) e daArusiano (VII 473 K). « HoR. e. aaee. 19. epod. 5, 22. Liv. IX 16, 19. Ovid. mei.VII 470: cf. am. II 16, 7. Val. Flagg.Argon. VI 102. Tac. ann. IV 72, 9.etc. 3 Plin. episi. IV 15, 8 * ferax...bonis artibus *. II 17, 15 * arborum .. ferax *. Vedi Draegbr, hist Synt, §206, 3, p. 441 sg. ueber Synt u. Si. d. Tac. 3, § 71, a, p. 33. 4 Vero. Aen. XI 124; 041. Cf. Stat. sii. I4, 71 sg. Tac. hisL I 53, 2; 61, 1. II81, 3. ann. XI 10, 12. XV 53, 7. 5Sall. hisi. III 10, ed. Kritz. Cf. Tac. hist IV 66, 17. ann. I 6% 4.147 I. Indicatwo:1.** L' indicativo retto da * dum ' conservasi anche nelle proposizioni subordinate che si trovinoin dipendènza da altre subordinate: Oerm. 12, 5 ' diuersitas supplicii illuc respicit, tamquam scoleràestendi oporteat , dum puniuntur, flagitia abscondi '. Lo stesso si osserva nella n. h. XXVII 42 *uolneribus sanandis tanta praestantia est, ut carnes quoque, dum cocuntur, conglutinet addita '. ^ Cicerone neaveva dato qualche raro es., seguito poi da Livio e da altri scrittori. ^ 2."* Risponde all' uso sintattico piùcorretto * prout ' con r indicativo :Germ. 3, 6 ^ prout sonuit [acies '. n. h. XII 121 ' prout quaeque res fuìt \ XXXI 58 *prout res exiget ': v. 10, 180. ^ Ma in Plinio si amplia l'uso di' prout ', talché questo occorre anche col soggiuntivo: V. n. h. 2, 152. 5, 51.28, 17. 29, 30. 33, 164. ^ 1 Siaccompagna anche col soggiuntivo nella n. h. XXVIII 1 70 * carnesque uesci eas et, dum coquantur,oculos uaporari iis praecipiunt '. « Cic. p. Cluent 32, 89. de fin. V 19 , 50. Liv. XXIV 19, 3. CvRT. hi8i. A, M. VII 1 (3), 18; 8 (34), 14. etc. Cf. Tao. héat. I 33, 6. Ili 38, 22; 70, 12. V 17, 6. ann. II81 , 9. XIII 15 , 24. XIV 58, 15. XV 45,16; 59, 13. Idial de oraioribus 32, 34J. Vedi Draeger, ueher Synt a. SL d. Tao.», § 168, p. 68. Cocchia, 8int lai, §173, IH, a, p. 417. Frigell, epileg. ad T, Liuii Cosi Cic. in Verr. II 34, 83.ad AH. XI 6, 7. Caes. 6. e. Ili 61, 3.Liv. XXXVIII 40, 14; 50, 5. Cf. Qvintil. i. o. I 7, 2. VII 2, 57. Tac. hisL I 51, 17. Il 10, 9. ann. XII58, 9. idial de oraiorihm 31, 20]. 4Vedi SBN. ep. XII 3 (85), 11. Tac. hist I 48, 20; 59, 5 ; 62, 15. ann. XII 6, 15. XIII 8, 12. Vedi inoltreValmaggi , eomm. hist Tae. I, p.22. 148 3.** La cong. causale ^ quaQdo ' è ordinatacon l'indicativo: Germ. 33, 8 ' duretque gentibus, si non amor nostri, at certe odium sui , quando... nihiiiam praestare fortuna maius potest quam hostium discordiam '. n. h. XVIII 126 ^quando alius ususpraestantior ab iis non est': v. 17, 13;16. 21, 1. 34, 57. etc. Numerosi sonogli ess, di tale costrutto presso gli scrittori anteriori. ^ Nella n. h,trovasi anche la cong. ' quando 'ordinata col soggiuntivo : XVII 27 ' neque fluminìbus adgesta semper laudabilis, quando senescant ^sata quaedam aqua ' : v. 10, 58. dub.semi. XIII, p. 44, 14 sg., ed. Beck. Lostesso costrutto col soggiuntivo si osserva in Livio e, poi, in Tacito. ^ 4.** L'espressione ' ut qui ' con l'indicativo si nota nella Qerm. 22, 2 *lauantur saepius calida, ut apud quosplurimum hiems occupat': cf. n. h, 30, 10. Nella n. h. si accoglie ' ut qui ' col soggiuntivo: XXXI 83 ^ quercus optima, ut quae perse ci nere sincero uim salis reddat ' : v. 18, 134. 36, 120. ^ Certo è che nelmi 1 Plavt. cist 116 (I 1, 118). Ter.adelph. 287 (II 4, 23;. Cic top. 5, 26. de fin. V 23, 67. Tuse, IV 15,34. Sall. lug. 102, 9. Vero. Aen. X 366.Hor. sai. II 5, 9; 7, 5. Liv. XXXIX 51, 9.Cf. SiL. IT. Pun. XIII 768. Tag.hi$i. I 87, 1 ; 90, 10. ann. I 44, 12.Vedi Cocchia, Bini, lai., § 169, VI, avv. 2, 6, p. 407. * La lez. * senescant ' nel 1. e. della n./i. ò presentata dai codd. e confermatadal Mayhoff, voi. Ili, p. 72 , 14 : nella ed.Sillig. (v. Ili, Hamb. e Gotha, 1853) si legge 'senescunt'. 3 Liv. Ili 52, 10. Tac. hisi li 34, 4. IH 8,13. ann. IV 64, 10. XII 6, 2. 4 Agli ess. dedotti dalla n. A. si puòaggiungere 31, 31, ove si vogliaaccogliere la lez. * ut quae *, che ò presentata dai codd. Paris. 6795 e Riccard.», e accettatadalla ' uulg. * e dalle edd. Harduin.II, p. 551, 6; Mayhoff, voi. V, p. 12, 9: il Jan, voi IV, p. 266, 2 la rifiuta. 149 -^giior tempo della lingua latina si diede la preferenza al soggiuntivo; ^ e qualche es. contrario cheosservavasi in Cicerone, è stato convenientemente emendato dagli editori moderni. ^ Negli scritti diTacito appare costantemente lacostruzione col soggiuntivo. ^ II. Soggiuntivo : 1.** Osservasi, talvolta, il presente delsoggiuntivo retto da ' donec ', perindicare una circostanza reale oun'azione che si suole ripetere per abito: Germ. a) 1, 10 ' donec in Ponticum mare sex meatibuserumpat '. 35, 5 * donec in Chattosusque sinuetur '. h) 20, 5 ' donec aetasseparet ingenuos, uirtus adgnoscat '. 31, 10 * donec se caede hostis absoluat': v. inoltre 31, 16. 40, 16. Ai 11. ce.della Germ. si possono confrontare i sgg.> Cic. Phil XI 12, 30. Caes. 6. G. IV 23, 5. Livio accoglie tanto lacostruzione con 1* indicativo : V 25, 9 ; quanto quella col soggiuntivo. Vedi Riemann, op. e , § 115, n.3, p. 291. Cocchia sint lai, § 160, III,ò, p. 372 sg. s Cosi, p. es, in Cic. ad.AH. IV 16, 6 leggevasi prima • ut quiiam intellegebamus * (v. ed. Nobbe, p. 847) ; ora si legge * quod iam i. * (v. ed. Alb. Sad. Wesenberg,par. Ili, voi. II, p. 148, 10, in cui il1. e. ò trasportato in IV 17 (18), 3). Parimente ad Ali. Il 24, 4, nel passo ' utpote quinihil contemnere soleinus, (V. ed. Nobbe, p. 834), si ò sostituito 'soleamus'nella cit. ed. Wesenberg, voi. cit., p.85, 20. 3 Tac. hist III 25, 4. ann. II10, 12. IV 62, 6. etc. : perciò ilPrammer sostituisce nel testo della Germ. 22, 3 ad ^ occupat ' la forma del soggiuntivo ^ occupet *. Il Halm, al contrario, estende r accezione dell* indicativo dal 1. e. anche al 1.della Germ, 17, 6, supplendo il v. «eat*nella frase ellittica * ut quibus nullus per commercia cultus ' : v. Germ ed.Halm, Lps 1883, p. 231, nota. -150 della n. h.: IX 133 * donec speisatis fiat, uritur liquor \ XVIII 103 'postea operiuntur in uasis, doaec acescant ':e similmente 30, 86. 34, 122. etc. Se ne erano dati degli ess. prima daOrazio, Livio, Curzio ed altri. ^ Manella Germ. 37, 24. 45, 19 la v. ' donec ' si accompagna, secondo l'usosintattico comune, con V indicativo.2.** La deviazione sintattica di ' quamquam ' col soggiuntivo appareprevalènte nella Germ.j poiché per ottovolte che tale voce è adoperata, in due (5, 13. 17, 14) si nota al principio di una proposizioneprincipale, in funzione , come osservail Draeger, ^ di avverbio ; ^ in un 1.(4, 5) non è seguita da un verbo di modo finito; in quattro 11. (28, 20. 29, 15. 35, 3. 38, 4)regge il presente il perfetto del soggiuntivo : in un 1. (46, 3) si accompagna col presente indicativo. Dellostesso modo osservasi nella n. h. la v.' quamquam ' col verbo all' indicativo (16, 161 ; 204 ; 206. etc.) o alsoggiuntivo (18, 125 : cf. dub. serm. IIi, p. 20, 13 , ed. Beck ) : si osservaanche ' quamquam ' coi participi: v. 15, 52. 18, 265. 19, 50. 25, 87. 26, 21. 30, 13. etc. ; econ gli aggettivi: V. 15, 52. 29, 1. 30, 13. etc; talvolta si riferisce ad unverbo sottinteso : v. 3, 55. 8, 120. 16, 151.34, 62: cf. dub. serm. II e^ p. 14, 27, ed. Beck. Or, la deviazione sintattica di ' quamquam 'col soggiuntivo, la quale è notata di preferenza nell'età impe 1 HoR. ep, I 18, 63 sg. II 3, 155. Liv. XXI 10, 3. XL 8, 18. CvRT. hisL A M IV 7 (31), 22. Cf Qvintil. L a XI 3,53. Tac.hist II 1, 8. Ili 47, 17. V 6, 21. anr^, II 6, 16. etc. Vedi RiBìfAKK, op. e, p. 297, n.1. 2 Drabgbr, ueber Synt u. Si. d.Tacs, § 201, p. 81. 3 C£ Tac. ann. XII65, 12. Idial de oratoribua 2B, 9^ 33^ Ili.riale , appunto perchè allora , per etócàcia dèi ^rlafé del volgo, sì cominciò a far confusione trale funzióni del modo indicativo e quelledel soggiuntivOj mostrasi anche nell'età aurea della prosa latina , ma solo nelcaso che il pensiero che s' intende esprimere richieda, indipendentemente dalla presenza di 'quamquam ', raso del soggiuntivo nella proposizione; come, p. es., per indicare possibilità o condizione : *talvolta, e ciò bófte avverte ilRieraann, 2 pare che la deviazione si debbaattribuire ad errore di copisti.3.** Il soggiuntivo nelle proposizioni relative , tanto consecutive quanto finali, è d'uso ordinarionel latino: Gef^m. 29, 4 ' in eas sedestransgressus, in quibus pars Romaniimperii flerent '. 32, 2 * quique terminus essesufflciat '. 35, 8 ^ quique magnitudi nem suam malit iustitia tueri \ n,h. XXXIII 84 ' remedium abluere idlatumet spargere eos, quibus mederi uelis ': v. 34, 122; 134. etc. ^4. Per il tramite della frase pliniana, n. h. XXXVI 113 ' cuius nescio an aedilitas maximeprostrauerit mores \ modellata sullafrase di Cicerone, de fin. V3, 7 ^ quem... haud scio an rectedixerim principénl ', dò 1 Varr. inGbll. n. A. XIV 8, 2. Cic. de or. II 1, 1. Ili 7,27; 26, 101. p. Piane. 22, 53. de fin.Ili 21, 70 (v. comm. Madvig). Tuse. I45, 109. V 30, 85 (v. comm. Kuehner). delegibus IH 8, 18. Nep. XXV (Att) 13, 6. Sall lug. 3, 2. 83, 1. Cf. Verg. Aen.VI 394. Liv. XXXVI 34, 6. Tao. Agr. 3, 1. 13, 5. hist. I 9, U. II 20, 5. Idial de oraioribus 34, 14]. « RlEMANN, op. e, § 126, p. 300 sg. V.iaoltre Cocchia, slni. lai, § 181, III,p. 444. Georges, ausfuhrl. Handwb., II, e. 1906. 8 Per la conferma con ess. di Cic. v.Cocchia, séni, lai, § 160, I e II, p.366 sgg. Cf. Tag. Agr. 34, 12. hf'ai. I 15, 18. IV 8Ì^ 3. ann. I U, 9; XV 47, 6. etc. 152vette, probabilmeQte, penetrare nella elocuzione della Germ. e di altri scritti dell' età argentea ^V uso del perfetto soggiuntivopotenziale nelle proposizioni subordinate: Germ. 2, 5 ' immensus ultra utquesic d i x er i m aduersus Oceanus raris ab orbe nostro nani bus adi tur '.Infinito : 1.° Dell' infinitodescrittivo si hanno ess. nella n. h. :V. 14, 6. 28, 146. etc. ^ Nella Germ. V infinito descrittivo giunge apenetrare nelle proposizioni relative improprie. 7, 11 ' et in proximo pignora,unde feminarum ululatus a u d i r i ,unde uagitus infantium '. ^ Sallustio aveva ammesso l' infinito descrittivonelle proposizioni comincianti col pronome relativo; * e l' es. di lui fu in più luoghi continuato da Tacito. ^ 1 Vedi QviNTiL. i. o. V 13, 2. Tao. Agr.3, 13. ann, XIV 53, 13. Idial. deoraioribus 34, 8. 40, 19J. Plin. episL II 5, 6. pan 42, 3.2 Si notino gli ess. analoghi di Vbrg. georg. I 200 (cf. Aen, II 169). Aen. IV 422. VII 15. 3 Cf. Tag hist. IV 80, 13. ann. VI 19, 12. Alcuni annotatori e editori della Germ. non hanno accolto laforma ' audiri ' nel 1. e, perché, comescrive il Kritz, op. e, p. 47, * infinitiuus historicus ut iam per se h. 1.ferri nequit, ita multo minus exrelatiua particula aptus esse potest ' ; ed hanno mutato * audiri * in * auditur ' ( Kritz ), 'audiunt ' (Madvig), * audias ' (Woelfflin),* audiant ' (Hirschfelder), * est audire * (Schuetz e Maehly): il Heraeus ha aggiunto * possit 'dopo * infantium *; il Ritter ha espunto* audiri '. 4 Sall. lug. 70, 5 *litteras mittit, in quis mollitiam socor diamque uiri accusare, testari deos 'e. q. s. 5 Tac. hist I 52, 16; 81, 4.Ili 63, 13. IV 84, 3. Vedi P.153 2.** Tra i verbi che nella Germ.si accompagnano con r infinito, invecedi reggere, secondo l'uso più comune peralcuni di essi, il soggiuntivo con * ut ' o * ne ', notiamo i sgg. : 'coarguere, consentire, obsistere, persuadere , quaerere, suflìcere '.Ommettiamo di trattare dei vv. 'coarguere, ' obsistere, *• sufflcere ', ^ perchè non ci è dato trovarne adatto riscontro né nella n.h. né negli scritti di Tacito : èprobabile, però, V analogia di costrutto tra ' obsistere ' con l' infinito e^prohibere ', che Plinio usò pure con Vinfinito. * Crbusny, de U8U inf. hiatap. Tao. ; in Méaeel philol. liòellus,Bresiau 1863. * Il V.'coarguere' costruito con TinfiiL appare, oltre che nella Germ, 43, 4, anche in Qvintil. L o. IV2, 4 e in un 1. del 6. Alex, 68, 1, chesia letto, però^ come è presentato daicodd., cioè col v. ' coarguisset * dopo T infinito * recipere *, enon come leggesi ora neir ed. B.Kuebler. Lps. 1896, p. 43, 26, col V. *coarguisset * mutato di posto. * Il V.* obsistere * con l' infìn. si nota nella Germ. 34, 11 * obstitit Oceanus in sesimul atque in Herculem ìnquiri '. Pressogli altri scrittori si accompagna col soggiuntivo retto da ' ne ' o * quo minus ' ; p. es. Plavt. miì. gì 333 (II 3, 62 ). Cic. in Verr. V 2, 5. ad AH,VII 2, 3. de nai, d, II 13, 35. Nbp. I (MilL)3, 5. etc. •* * Suflìcere * conV infin. è costrutto poetico , dato da Vero.Aen. V 21 sg. , e ripetuto nella Germ, 32, 2 * quique terminus esse suflìciat *. Plinio Secondo preferiaccompagnarlo col gerundio dativo: v. n. A. 13, 79. 18, 249. 36» 57; o colgerundio accusativo retto da 'ad *: v.n. h, 24, 147. Plinio il giovane loassociò con * ut* o 'ne* e il soggiuntivo: v. epist IX 21, 3; 33, 11.4 Plin. n. h, XXII 90 * Cleemporus nigro prohibet uesci ut morbos facìente '. Cf. Tag. hist, I 62, 13.ann,\ 69, 3. Vedi Madvio, lai, SprogU § 344 e § 350 Anm. 3, pp. 239, 244.Cocchia, 9ini, lai, , § 168, I, avv. 6,p. 391. -184 a) La oastruzione del v.^ consentire ' con V infinito sì notanella Oerm. 34, 9 * in claritatem eius referreconsensimus \ Nella n. h. si ha tanto la costruzione con r infinito : XVII 80 ^ Graeci auctoresconsentiunt non altìores quìno semipedeesse debere': v. 18, 312; quanto lacostruzione con * ut ' e il soggiuntivo : XIV64 * Tiberius Caesar dicebat consensisse medicos ut nobilitatemSurrentino (se. nino) darent \ La costruzionecon r infinito non fu estranea a Cicerone e Quintiliano ; ^ ma nemmenofu trascurata quella con * ut ' e ilsoggiuntivo. 2 h) Il V. 'persuadere ' è usato con V infinito nellaGerm. 14, 16 * nec arare terram aut exspectare annum tam facile persuaseris '. La n. h. presenta *persuadere ' tanto con l' infinito : XXIII 40 ^ at nos e diuerso fumi amaritudine uetustatem indui persuasumhabemus ' ; quanto con * ut ' e il soggiuntivo : XXXVII 88 * persuasimus deinde Indis, ut ipsì quoqueiis gauderent '. ' e) La costruzionedel v. * quaerere ' con l' infinito, nelsenso di « ad oprarsi , cercare , tendere », appare gradita ai poeti: * osservasi nella Oerm. 2,3 * classi i Cia de leg. agr. I 5, 15.Phil. II 7, 17. IV 3, 7. Qvintil. L e.Ili 7, 28. IX 1, 17. etc. Cf. Tao. ann. VI 28, 7. « Vedi Liv. XXX 24, II. ' Per la dìffereuza neiriuK) classico tra 'persuadere ' eoi ^ggìuotivo cetto da * ut ' o senza, vedi Cocchia, sint tei, g163, X, avv. 1, a ed e, p. 380. * LvcR. de r. n. I 103, Vbrg. Aen, IV 6Sl. Hor. eai^m. ì 16, 26. OviD. am. I 8, 51. episi, (her.) 12, 176. irèst V 4, 7. Phabdr. fab^. m proL 25. IV 9, 2. ete. ^ 166 bus aduebebantur qui mutare seclesqui^rebant * ^ * e nella n. h. Y 54 ^Inter occursantis scopulos noB floereinmenso fragore quaerit sed ruere '. Vili 214 * potia» simum e montealiquo in alium transilire quaerens*.Non è certo cbe un costrutto consimile sia stato fpi^ ma adoperato da Cicerone. Participio: 1." ^ Velut ' è usato con unparticipio, iaveoedi ìmm proposizioneretta da * uelut si ' : Oerm, 7, 7 * uelutdeo imperante', n. h. X 47 ' uelut ideo tela iigiiAta cruribus suis intellegentes '. In Livio tal^uso notasi più di frequente. ^ Z."" Participio perfetto aoristico: Germ. 40, 11 * is adesse penetralideam intellegit uectamque bubus feminismulta cum ueneratione prosequitur '. n. h.XXXVII 54 * nunc gemmarurn confessa gea^ra dicemus ab laudatissimisorsi': v. inoltre Zy 44, 5, 54. 1 U.Zernial, commentando il 1. e. della Germ. p. 19, %vv^.rte: « quaerebant e. inf.bei Tao. nur hier >. t In un 1. diCic. de inu. rhet II 26, 77 s? legge : ^ quaerat tamen aliquam defensionem, et factiinutilitatem aut turpitudinem cum indignatione ppoferre '. Ma i codd.Herbipolit. {H) il Paris. 7774 A (P) eil Sangall. (5) ommettoùo T infln. * proferre', che il Friedrich (Lps. 1893,par. I, voi. J,p. 201, 16-17) chiude tra parentesi quadre. Ammessa, per tanto,V Interpolazione del V. ' proferre*, siavverte nell'an^eò. Krbbs-Sghmalz, II, p.395, che il costrutto di cui ò discorso « ist nicht nachzuahmen » ; e ilGeorges, ausjuhrl Handtob. , lì, e. 1896 , citando in proposito la hisi Synt III 301 derDraeger, nota che in questa è da cancellarsi Tes. di Cic. de ina. rhet , 1.e. 3 Liv. I 14, 8; 29, 4; 31, 3; 53, 5. Il 12, 13.XXV 39, 4. etc. Cf. Tao. hi8t. IV 70, 5;71, 7. 156 11, 22; 187; 217. 16, 163. 30, 1. 34, 63.36, 54. etc. L'uso del participio perfetto aoristico si nota prima in Cicerone, Cesare ed altri. ^ 3.** Participio futuro attivo nelle funzionidi una proposizione subordinata : Germ. 3,1* Herculem memorant, primumqueomnium uirorum fortium i t u r i inproelia canunt '. n. h. XXXV 92 ' Apelles inchoauerat et aliam Venerem Coi, superaturus etiaraillam suam priorem ' : v. inoltre 7,143. 16, 10. 17, 9; 173. 25, 22. 26,117. 29, 19; 29. 34, 36. 36, 119. 37, 20. etc.L' uso sintattico di cui si è fatta menzione, fu evitato nella latinità aurea, ^ e, come è noto,cominciò a prevalere da Livio in poi. ^1 CiG. p. Mur. 30, 63. Gaes. ò. G. II 7, 1. V 7, 3. VII 32, 1. etc. Quanto ai confronti con 11. di Tac, v.Draeger , ueber, Synt u. St d. Tac. 3 ,§ 209 , p. 84. Vedi anche Madvig , lai.Sprogl, § 382, 6, p. 263. Cocchia, aint lai. , § 128, 6, IV, avv.1.% p. 282. Ramorino, i eomm, de b. G.ili. pp. 68, 156. 2 Vedi Madvig, lai.Sprogl, § 377, Anm. 5, p. 260 sg. GandiNO, 8ini. laty I, es. 4, n. 3, p. 6sg. 3 Cf. Tac Agr. 31, 2. hist. I 27,17. II 53, 7. ann. 128, 1; 31, 4; 36, 5;45, 8; 46, 7. II 17, 4. etc. Quanto ai numerosi ess. che presenta Tito Livio, v. Guethling, de T.Liuii orai, diì^puiatio^ LiegQitz 1872,cap. II, p.5 sgg. Kuehnast, die Hauptpunkte d.lioianischen Synt, Beri. 1872, p. 267 sgg. Vedi anche la monografìa diF. Helm, quaesL synt. de pariie. usa Tac. Veli.Sali , Lps. 1879 ; e la monografia di S, Lichotinsky , suir uso del participio in Tac, Kiew 1891. CAPITOLO QUARTO Relazioni sintattiche tra la Qermania e le opere di Tacito. Le più notevoli relazioni sintattiche tra laGerm, e gli scritti di Tacito sono staterese evidenti, mediante appositiconfronti segnati nelle note, nel cap. precedente, in cui si sono trattate lerelazioni sintattiche tra la Germ. e lan. h, di Plinio : nel presente capitolo ci restringiamo, per evitare inutiliripetizioni , a notare quelle pocherelazioni sintattiche tra la Germ. e leopere di Tacito, per le quali non siamo riusciti a trovare nella n. h. dei termini sicuri diconfronto. L Quanto agli usi particolari di alcune partidel discorso, notiamo : 1.** iPpron. Mpse ', in funzione appositivaal soggetto, trovasi unito con un part. perf. passivo costrutto assolutamente, par supplire alla mancanza delpart. perf. attivo : Germ, 37 , 15 'quid enira aliud nobis quam caedemCrassi , amisso et ipse Pacoro, infraVentidium deiectus Oriens obiecerit? '. Agr. 25, 21*diuiso et ipse in tris partes e x e r e it u incessit': cf ann. XIV 26, 2.Analoghi costrutti presenta Livio nelle frasi : ' causa ipse prò se dieta, quindecim milibus aeris damnatur '. ' dimissis et ipse * adticis nauibus .... nauigare Aegyptumpergit '. ' È 1 Liv.IV 44, 10. XLV JO, 2: cf. XXX VIU 47, 7. Vedi Naegels3ACH, lai. Siy § 97, 2, 6,p. 262 sg. possibile che tale uso delpron. * ipse ' sia stato introdotto dopo l'uso analogo fatto da Sallustio delpronome * quisque \ * 2.** Laparticella comparativa ' quam ' è adoperata,talvolta, con V ellissi dell'avverbio corrispondente * potius ' ; Germ.6, 20 * cedere loco, dummodo rursus instes, consilii quam formidinisarbitrantur'. hist. Ili70, '6 * ctir enim e rostris fratrisdomura quam Auen Untim et penates uxoris petisset ? ' : v. inoltre hist IV 5B, 6; 83,20. ann. I 58, 6. IH 17, 16; 32, 9. V 6, 10.Xin &y 16. XIV 61, 22. etc. L'ellissi di ' potius ' not»sA pure inPlauto, Nepote, etc. ^ 3.*^ Quo modo 'è usato ad esprimere paragone, coalpe *ut*: Germ. 41,2 *quo modo paulo anteRhenura, aie ttunc Danuuium sequar '.Agr. 34 , 6 ' quo modo eiiutts saltusquepenetrantibus fortissimum quodque animal centra mere, pauida et inertia ipsoagrainis sono p^Ilebantur, sic acerrimiBritannorum ìam pridem ceciderunt '. ann. IV 70, 14 ' quo modo delubra^etaltafìa, sic carcerem recludant ' : v. ann. IV 35, 7. XVI 31, 8; 32, 14. [dial. de oratoripus 36, 35].Quanto alla rispondenza * quo modo - ita', \*. hist. IV 8, 19; 1 SAll. lug,18, 3 ' multis sibi quisque itnperium petentibus \ Pel Bignificato di ' et ipse ' in casiaualoghi, v. la monografia di J. Prammer, ' et ipse ' bei Tae. ; iù Zisehrf. f. d, oesierr. Gymn, 1881, 500; e il comm. del Valmaggi aTae. hist I 42, J, p. 69 ; Il 33, 17, p.62. * Plavt. rud. 1114 (IV 4, 70).Afe/i. 726 (V 1, 26). Nep. XIV (|)at.)8, 1 ' statuii congredi quam ' cet. , secondo 1* ed. Halm ; ina accolta la congettura del Fleckeisen 'statim maluit con»gnodi^V si rendei non adatta la nostra citaxióne^ Cf. Val.Flagg. Argon. VII 428. 16964, 18; 74, 9. ann. XIV 54, 5. XV 21,5. XVI 16, 11.» Anche in Cicerone, oltre al significaredomanda o ammirazione, osservasi V espressione ' quo modo ' adoperata incorrelazione con ' sic ', di rado * ita '. '^4.'' La prep. ' ex ' talvolta è usata con significato modale : Germ. 7, 1 * reges ex nobilitate,duces ex uirtute sumunt ' : v. 3, 18. Agr. 40, 10 ' siue uerum istud, giue ex ingenio principis fictum accompositum est '. hist. I 27, 16 *animum ex eaentu sumpturi ' : v. inoltre hist. 1 82, 14. II 85, 18. ann. 1 58,4. Ili 69, 7. IV 64, 5. VI 11, 16. XllI9, 4; 46, 19. XV 72, 3. etc. Di tale usodella prep. ^ ex ' si notano numerosi ess« presso gli scrittori precedenti.^ 5.** La prep. * per ' ha valoremodale neir espressione ' per otiura ': Germ. 15, 1 ' non multum uenatibus, plus per otium transigunt \ ann. I 31, 12 'isdem ae^ stiuis in finibus Vbiorumhabebantur per otium aufc leuia muniaNotevoli ess. ne avevano 1 V. ilcomm. del Heraeus a Tao. hist III 77. * Cic. de leg. agr. II 1, 3. aead. pr. II 12, 38; 47, 146. de fin. Ili 20, 67. Tùse. I 38, 91. Ili 17, 37. IV 13, 28. V 7, 18. de legibua I12,33. de off. I 38, 136. É inesatta, per ciò, raffermazioue delio Zernial , op. e. , p. 80 , che è « *quo modo ' =: ' ut ' imVergleìchuDgssatze wie Agr. 34, 6; bei Cic. nur in dar Frage ».3 Tbr. haut 203 a 2, 29;. Varr.de l. L. VI 7, 64, p. 96, 12 Sp. CiG. deina. rhei. II 45, 132. p. Quinci. S, 30 e 31. dia. in, Caeeil. r», 19. ep. (ad fam.) II 7, 3 ; 13, 4. XII 4, 2. XIII 56,3. de fin. II 11, 34. etc. Liv. I 23, 7;40, 6. V 14,2. XLII 23, 6; 25» 11; 30,6, Vedi Drabgèr , hist Sini, § 287 , 2 e 6, p. 592 sgg. ; u^er Synt u. St d. Tae. 3, § 96, p. 41. ^ et A. G^RBBR, nonn» de usu praepQ8.ap.ITac, Glueckstadt 1871. 160 dato prima Cicerone e Livio.* 6.^ La rispondenza' siue -seii ', chesi osserva nella Germ. 34, 8 ' siueadiit Hercules, seu quidquid ubiquemagnificum est, in claritatem eius referre consensimus ' ; e negli ann.XIV 59 , 1 ' siue nullam opem prouidebatinermis atque exul , seu taedio ambiguaespei ' : V. XII 8, 1 ; 26, 8 ; fu prima applicata da Virgilio: ^ e dalmodo di applicazione il Woelfflin ne dedusse che € dieso Variation flndet sichnur bei ungleich gebauten Saetzen oder Satzteilen, » ^ II.Due osservazioni si debbono aggiungere quanto all'uso dei casi. * l.'' Il V. * inuidere ' costruito conl'ablativo di cosa: Germ. 33, 5 * nespectaculo quidera proelii inuidere (se.nobis) '. ^ ann. I 22, 9 * ne hostesquidem sepultura 1 Cic. de inu. rhetI 3, 4. Liv. Il 39, 11. IV 58, 12. VI 27 , 7. XXI 28, 4; 33, 10; 55, 1. XXVII 2. 9; 46, 10.XLIV 38, 10. etc V. la monografia di F.G. Hensell, de praepos. * per ' usu Tao,Maìb. 1876. « Vbrg. Aen, IX 680.Vedi Manil. asiron. I 132-135. Caes b.G, I 23, 3 ed aJtH presentano la relazione invertita * seu siue ', che osservasi anche in Tac. ann. I 11, 9 *seu natura siue adsuetudine '. Nella n. h. di Piiaio notasi la rispondenza 'siue uel ': XVII 223 ' siue fungumplacet dici uel patellam '. 8Woelfflin, 1. cit. dallo Zbrnial, op. e, p. 67. 4 Vedi la monografia di R. Seelisgh, deeasuum obi ap. Val. Max. usu Liu. et Taeiiei gen. rat. hab.,Monasterii 1872. 5 Alcuni commentatori della Germ. dichiarano che * spectaculo ' nel 1. e.è dativo, come in Tac. ann. XIII 53, 12 ; e XV63, 10 : V. Zbrnial, op. e, p. 66. Pais, op, e, p. 53. Ma anche nel 1. degli ann. XV 63, 10 la frase * noninuidebo exemplo * presenta, secondoafferma il Draeqer, ueber Synt. u. St. d,Tae.^, § 64, p. 29, l'ablativo * exemplo \ • 161inuìdent '. Quintiliano avverte in proposito : ^ si antiquum sermonemnostro comparemus, paene iarn quidquidloquimur figura est : ut « hac re inuidere » non , ut ueteres et Cicero praecipue, « hanc rem »'. ^Il costrutto considerato ha la confermain alcuni 11. di Livio e di Lucano.^ 2.° L'agg. * ferox ' con uncomplemento dì relazione in ablativo:Germ. 32, 9 ' prout ferox bello et melior *.Agr. 27, 1 ^ cuius conscienlia ac fama ferox exercìtus '. hisL I 51, 2 ' ferox praeda gloriaqueexercitus': vedi inoltre hisL III 77,21. IV 28, 12. V 15, 13. ann. 1 3, 20.Conformi sono gli ess. presentati da Cicerone, Sallustio, Orazio, etc. ^ Ma inaltri 11. di Tacito V agg. ' ferox ' siaccompagna col genitivo, * come in Ovidio; ^oppure con la prep. ' aduersus ' e l'accusativo. ^ III.Per quanto concerne V uso dei modi e deitempi del verbo, si deve osservare :I.v la costruzione del v. ' merere ' con V infinito : Germ. 28, 20 * (Vbii) quamquam Romana coloniaesse » QviNTiL. i. o. IX 3, 1. VediCic rase. Ili 9, 20. Hor. sai. 1 6, 49sg, « Liv. Il 40, 11. LvcAN. de b. e,VII 798. Ct Plin. n, h. 35, 92. Ciceroneaccompagna ' inuìdeo * con V ablativo di cosa retto dalla prep. 'in * ; v. de or. II 56, 228. p.Flacc. 29, 70. Vedi Madvig, lai. Sprogl;e il coram. del Cocchia a Liv. II 40,11; Torino 1888, p. 130 sg. 3 Cia inVatin. 2, 4. Sall Cai, 43, 4. Hor. earm. I 32, 6. 4 Tao. hist I 35. 6.ann, I 32, 11. IV 12, 7. 5 OviD. mei,VIII 613. 6 Tac. hisL III 69, 26. Notisi il costrutto col dativo in Liv. VII 40, 8.Consoli, La Germania comparata. U .162 mèruerint '. ann. XV 67, 7* diim amari meruiisti ': v. *XIV 48,14: tale costrutto fu accolto da Ovidio, Fedro,ètc; ^ mentre Cicerone ed altri, attenendosi all'uso plautiriOj'diederola preferenza al costrutto con ' ut ' o ^ ne 'e il soggiuntivo. ^ 2.** ilparticipio perfetto neutro usato al singolarecome sostantivo, in funzione di soggetto della proposizione : Germ. 31,1 ^ et aliis Gèrmanorum populisusurpatum raro et priuata cuiusque audenlia àpiid Chattos in consensum uertit , ut primuraadoléuerint , ìc'rihem barbamquesubmittere'. hist I 51,23 'accessitcatlide u o 1 g a t u ni , temere e r e d i t u m , decumari iegiones et promptissimum quemque centurionumdimitti '. ann. Ili 22, 3 ' adiciebantur adulteria, ùerieiia q u a e s i t u m q u e per Chaldaeós indoirium Caeàaris ' : à V. ann. Ili 9, 12. XV 58, 7. ** Tale sostantiva 1 OviD. in'sL V 11, 10. ex Pont IH 2, 20.Phaedr /dò. ìli 11, 7. Val. Flacc.Argon. I 519. V 223. Cf. Qvintil. /. o. X 1, 72 2 Plavt. Baceh. 1184 (V 2, 65). capt. 422(II 3. 62; secondo V ed. comm. dalCocchia). Epfd. 712 (V 2, 47). Men. 217(I 3, 34). Sdcfì. 24-26 il 1, 21-26;. Teii. Andr. 281 (I 5, 46). hee. 760 (V l, 34). Cic de or, I 54. 232.ep.' (ad farà.) XÌV 6. de fin. li 22,74. de net. d. I 24, 67. (cf. in Ver\ IV 60, 135). Ckiss.'b. G. VII 17, 5. Liv. VII 21, 6. Plin./i. /i. 35, 8. Vedi KuEBS-ScHMALz,antìb., II, p. 70. 3 II CoNSTANSammétte da prima che nel 1. e. degli ann IH22, 3 ci" sia Tuso del participio perf. passivo neutro comòsoggetto della proposizione {éiude s l. languì d. Tac. , n.° 246, p. 112); poi riconosce nello stesso pariìcipioperfetto una proposizione infinitiva e non più una sostantivaz-one do!participio (op. e, n.o 282, 12.^ p.136): è una inesattézza dovuta a distrazione.4 Nel citare l'es. ann. XV 58, 7 ci siamo attenuti alla * 1. ù'ulg.': 'Taelatum erga coniuratos *. Nel cod.Med. &i legge •latatum'»163 isione del participio perf.neutro, che manca di ess. in Cesare eSallustio, presentasi come un costrutto sporadico in Cicerone; frequente,invece, in Livio. ' Avvertenza, NellaGerm. non osservasi alcuno esempio del perfetto soggiuntivo di conseguenza,dipendente ^a un tempo storico: talecostrutto notasi, al contrario, piùvolte negli scritti di Tacito. -cheper il Haase diviene * non celatus tantum *, per il Halm * clam actum *, e per il Ritter ' laeta tumnerba '. Il Ramorino sospetta * iactatumerga coniuratos osculum. Cic. parL or. 33, 114. Liv.. XXVIII 26, 7. (cf. XXVII45, 4). etc. Vedi DRA.EGER, ueber Synl.u. Si. d. Tae, 3, § 211, p. 86. RieMANN, op. e, § 22, p. 104 sgg. « Vedi Madvig, lat Sprogl, § 337, Anm. 2, p.235. DRAEGEa, hi8t. Synt,, § 133, p. 241sgg.; ueber Synt u. SL d, Tae, 3, § 182,p. 74. CoNSTANs, étude s. l langue de Tac. ANNOTAZIONI CRITICHE AIiIiEsatire II MI e IV di Persio^>4>^sK-V ROMA ERMANNOLOESCHER & C.'> (Bretschneider eRegenherg) Librai di 8. M. la Reginad'Italia 1905 Prezzo L. l.m i 'à^. SAiT'rxcoM'sorii HS^a, Btevi Annotazioni Critiche alle satire II III e IV di Persio RomaErmanno Loescher & C''. (Bretschneidei eRegenberg) Librai di S. M.la Regina d' Italia 1905, S\ pp, z8. Af. BREVI ANNOTAZIONI CRITICHE HLiLi^satire II MI e IV di Persio ROMA ERMANNO LOESCHER & C:^ (Bretschneider e R^gimherg) Librai di S. M, In Reggina d* Italift IpW.\d3.T H»*v«?ti CdUgi Utwy Gìh efMmri* H. Morgan Jan. l Idia Proprietà letteraria dell' autore (Catania^ via Maddem, lu 160) Tipogr&iia editrice Homa dei FratelliPer rotta, in Catania, 'imn^^'' cuy » -cg jAQO/N g» . -co^oor g» Nel cod. Moatepessulano (P) il Buecheler lesse indeciso ' patru,. ' ; più chiaramente V Owen vi lesse* patruuin ' , che, por correzione sovrapposta, osservasi, come sopra si è detto, nelMonacense M 67. A ine pare che si debba restituire nel testo di Persio la lezione ' patmuni ' presentatadal P. In fatto, tra i voti immorali chesi fanno alla divinità il poeta include quelloper primo, che si erediti preato dallo zio ; ma la crudezza di tale voto, che muoia presto il parente perereditare i beni di lui, si vuoleoccultare con la finzione del decoro della famiglia, in modo che non si chieda ^ o si ebuUiatpatruus ', ^ espressione troppo dura e volgare^ ancorché si accompagni tostocon. l' espressione vanagloriosa 'praeclarum funus ! ' ; nemmeno si chieda' o si ebulliat patrui praeclarum funus ', frase meno cruda ^ senza dubbio ,della precedente , ma che spiace perchè èsempre il funerale dello zio, che ardentemente si desidera : si chieda, invece, alladivinitàcheun 'praeclarum funus ', quando che siaj *ebulliat ' cioè dia evidenza ai meriti civili, alle qualità morali , alladistinzione della nobiltà e delle ricchezze ,magnifichì insomma il nome autorevole del parente. Cosi non si avrà V impudenza di cliiedere a Giove lamorte dello zio , ma con un certoeufemiemo si manifesterà il desiderio che unfunerale splendido illustri, quando che sia, il nome e il casato dello zìo^ e in tal modo il desiderio dellamorte del congiunto appare subordinatoo, dico meglio, con ipocrisia mascherato dalvoto, certamente lodevole, che sia splendidamente illustrato il nome della famiglia, sebbene in circostanzaluttuosa. Del resto, il V, ^ obullirc 'jusato transitivamente, ebbe sempre, anche nellaIn tal caso accanto ad ^ ebulliat * si dovrebbe sottintendere la voce ^animam \ la quale, invece^ appare espressa nelle frasi : * animam ebulliit ' di Seneca, lud, de mori, Claudii4, 2 e di Petronio, sat cap. 42 p, 189,2; * animam ebulUui* dello e tesso Petronio, sat cap. 62 p. 313, 1 : per Ja prima volta Persio sarebbesiprivato, senza ragione, di apporre V uùQ, * animam ' al v. ^ tsbuHire ' ?latinità classi cdj il sìgniricato di ^ ìactare^ ostentare^ praedicare '; od lina conferma ci è dato osservarlfty comeebbi a scrivere nelle annotazionicritiche al testo di Persio p. tì3^ nota 1, in un luogo delle Tuìsc. di Cic*III 18^ 42 ' tj^ui si uirfcntes ebollire 'uolent et sapientiaa cet, ' Restituendo^ adunque, nel testo dì Persio lavoce * patrnuni ^ non solo ai farà attodì debito omaggio all' autorità del cod,Jpf uìa, tra il contrasto dei codd. e delle edd.j si verrà a determinarela lez, in modo meglio rispondente al pensiero che il poeta volle significare nei versi 10 esegg. SaL li 52, Tutti i codd. di Perno, che finora sonostati collazionati o soltanto consultati, danno costantemente per il v. 52 la voce^ incussaqne ^; lo stesso osservasi ncù codd, degli e^rcerpta^ noi quali è contenuto il y. citato* Un solo cod.di Persio fa eccezione ed è il P che presenta ' incusasque ' ; la coiTcttura 'incusaaquo * che notasi nello stesao, è di seconda mano, T^a Ica. ^ ineussaquo ^ fu dal Jahn (ed Ma laspiegazione data dallo scoliaste fu disapprovata anche dall' Achaintre (ed.Par. 1812 p. 57). A me pare che si debba preferire la lez. ^laeto ' non solo perchè ha perfondamento V autorità del cod. P. , ^ ma eziandio perchè è nell' ordinenaturale delle cose che , al riceversiun ricco dono,- il cuore per la grande gioia o , come dice una ^ La vecchia interpretazione delloscoliaste fu confermata dal Beniley, m Hor, carm. II 19 , 6 con le parole *pect. laeu . s. sinistra parte pectoris,ubi cor salit et sudor erumpere solet ' ; e dal Koenig * cor in laetitiam pronum in sinistra pectoris partelacrumas tibi excutiat ipso gaudio ' : ea' nostri giorni è stata ripetuta dal prof. Geyza Nómethy nel comm. alle satire di Pers. edito aBudapest nel 1903 p. 143. Alla medesimaattenendosi tradussero il Monti « il cor nel lato manco >; il Wagner * aus der linken Brust » ; ilKayser * unter der linken Brust » ; ilWeber « zur linken Brust » ; il Binder « links aus der Brust » ; il Duentzer « die Brust dir zurLinken » ; il Hemphill « drops beneathyour left breast». Sfuggi la questione il Fuelleborn (ed. Wien 1794 p. 61) , che tradusse « wie schlaegt voruebergrosser Freude dir | das Herz empor! Schweiss rollt von deiner Wange, | und Freudenthraenen stroemen dir herab » :e la sfuggirono anche i due traduttori francesi di Persio, F. Duboys -Lamolignière (ed. Par.: « je vois le trouble de vos sens, | et votre coeur s'épuise en longs remercfmens » ) e Vict.Develay (ed. Par. 1897 p. 1G2: « tu te pàmerais de joie et ton coeur bondirait d' allégresse ». 2 La postillamarginale * uel leuo * (sic) del cod. P. è dovuta ad un correttore antichissimo il quale, negliemendamenti apportati alle lezioni genuine del cod. P, dovette aver presentequalche esemplare della recensioneSabiniana. ^loBsa del cod, Ottoburano , ^ ^ prac g:amlio esliìlaratuiu 'sì sprema in gocce dentro il petto , chenon può non sentir la letìzia di cnieanlta il cuore. Né C' 6 ripetizione di concetto dieendoBi ^ pectore laeto ' accanto a *laetari praetrcpidum ' ^ poiché in questa ultima ea press ione è indicatasoltanto una condizione o tendenza dell' animo commosso per il donoricevuto, mentre con ^ pectore laeto 'si esprime quel che ne consegue inrealtà per effetto dell' offerta dei doni. All' accoglimento della lez- * laeto ' nemmeno osta lavicinanza delle due voci * laeto ' * laetari\ in quanto che è noto che ai Romani nonriuBci sgradita la prossimità di parole provenienti da una stessa radice, ^ Leggo^ per ciò^ col Pithou : I . 38i^ siano chiari e * V.^ Alattliias ^illober, eim^ neiwHandschrift der nf'chs Satìrm dfx A.Pers. FI , Augsburg 18tì^2 p, 24, col. l^2 VJ per es. * omnibus ]aetitiis laetam. ' Cic. df fin. Il 4^ IB ; *Ime purgati one purgatus erifc ' Cat. dea. e. 157, Vò ' gauisurum gfiudia ' Ter.Andr. 9Gi (V 5, B) ; * qvianfca gaudia. ... gattdeat CatuU. 61,llìi-116; * gaudi um gauderemuis * Cnel.ap- Cìc. fuìn. Vili 2, 1: cf. BiòL Toh, 11,21 *cum gaudio magno gauiai sunt ' ; lùan. 3, 29 * gaudio gaudet ' ;eoe. veridici e d'efficacia maggiore quanto alla previsione del futuro, più esplicitamente egli soggiunge : « persomnia enim siue insomnia intellegit praemonstratas curationes ac ^^py-nalo^c;». Ma il Plum bene avverte che all'interpretazione del Casaubon osta « ipsaseries orationis , cura in praecedente commate non de corpore curando agitur , sed de re struenda ,quae potius ad Mercurium quam adAesculapiura pertinet ». Ne ci si parli disogni incatarrati o non incatarrati, da inferirne, come pensò il Turnèbe, che « pituita purgatissima » valga «maxime carentia pituita », o, comescrisse Eilhard Lubin, « omni pituita uacuaet carentia, id est nera, certa, non nana et temeraria »; perocchépossono bensì gli uomini essere oppressi dalla ^ pituita ' o malore catarrale, ma non i loro sogni. Lo scoliaste di Pers. 2, 57 indica chiaramentein che consista la ' pituita * ( ^purgatio cerebri uel morbus gallinarum ' ), mane conclude che gli uomini gravati da essa ^ non bona somnia uideant '; sicché egli associa ' pituita 'con ' homines ', non con ^ somnia ' : esulP avviamento dello scoliaste i commentatori moderni di Persio parlano degliuomini che ^ pituita stomachi grauantur ' (ved. Némethy op. e. p. 147 ; e cfr.Hor. sat. II 2, 75 sg.), ma evitano dicongiungere in istretto legame ^ somnia ' con ' pituita '. Questo però nondovette essere il pensiero di Persio chemise in istretta relazione ' somnia 'con ' pituita ' ; e per tanto V epiteto ' purgatissima \ al quale si attengono tutte le edd. delle satire diPersio, perchè confermato da quasi tutti i codd. , non può rappresentarci latradizione sincera di ciò che scrisse il poeta e si lesse dagli antichi sino al tempo della recensione di TryfonianoSabino e forse anche dopo. Per buonafortuna il cod. P, col quale concorda inquesto luogo il cod. Trevirens. del sec. IX/X, rappresenta la lezione più sicura e genuina 'purgantissima ', la quale vedesi penetrare anche nelle letture del medio evo ,come ce ne fa fede il vestigio 'purgantis ' presentato dal cod. B àe\V opuspì'osodiacum di Micene , verso 300 , in cui si cita appunto il veraci diPeri, 2, 57. * Or ^ con V epiteto purgantissima tutta^ a mio parare, si rendechiaro, tanto lo stretto legame eli 'somuìa ' con ^ pituita \ ostuIantea oracula per somnani '; ed è noto^ comeosservava Ci e* nelle Tnsv. IV lOj 23che ^ cum aanguis corruptus est a ut pituita redmidat aut bilis^ in corpo re morbi aegrotatlnneaque nascuntur'. Sat. II 71:5. Codici j editori e imitatori di Persio nonsono di accordo sulla forma definitivacon cui debba essere fissata la voce * animxis ^ nel V. 73. La tradizione man user itta chemuove dalla recensione Sabiniana afterma la lez, ^ animo \ che si osserva neicodd* A Eh sopra citati j - nei trecodd. del sec. XI Laurentianpi. LXVIII 2% Paris, no. S049j Paria, no. ^^:?72;nel Monacens, e. B del sec. XII e nelfìerolineus. no. 2 del see, XII o XIII;nel Bernens* no. 648 del scc. XIII; nei due codd. del sec. XIV Paris, no. 8050 e Rehdigeran. I; nei cinquecodd. del sec. XV Berolinenss. no. *-)He no. .-^9 , Monacenss. no. 260 e no. \y2ij^Kehdigeran, II; ^ nel cod, Berolinens, no, 9 del aec. XVI e nel * V'^edi i Carmina Ct^nluìeiìsm p, ù^O^moinun. Germ^ hùtt^ poeL Lat ii^uiCaroìini tom. IH ex recens, Lud. Traobe, BeroU 1B96. ^ Si scoree anche ' animo ' nella lez. ^animimo ^ presentata dnl cod. B di fonteoabmìana ^ I due codd, della biblioteca Jiehdigerana , Turio in pergamenadel sec. XIV e l'altro cartaceo del sec.XV, furono collazionati dallo TzRchirnerin servizio dell' ed, del KauthaJ : della collazione usufruì il Jahn per la ' ed. maior ' del 1843. 1'Erlangens. anch' esso di data recente. La tradizione degli imitatori di Persio,che si prolungò per tutto il medio evo, si attenne alla lez. ' animi ' , laquale, in fatti, si legge nelle citazioni di Lattanzio (diu.instit. II 4 p. 1261. 1 Lut. Paris. 1748), dello scoliastedi Stazio (Theb. II 247 p. 81 Par. 1618), di Giovanni di Salisbury (poi. V 16 p. 319 Lugd. Bat. 1639) e del Petrarca (epist. de rebus fam. VI 1 p. 309 voi. I ed. Fracassetti,Firenze 1859); e si legge nei codd. degli excerpta Paris. 7647, Paris. 17903 e Vatic. Reg. 1428(deflorationes Persii), e nei rimanenti codd. di Persio, finora noti, eccettoil cod. P ed il Monacens. no. 83 delsec. XII, i quali danno ' animos '.Nemmeno gli editori di Persio, antichi e moderni, sono concordi sullascelta : alcuni preferiscono la lez. ' animo ' , ^ altri la lez. ' animi ' ; ^ nessuno ha scelto lalez. ' animos ' , la quale credo chedebba essere restituita nel testo, perchè è genuina e meglio adatta al contestodella frase in cui è collocata. Che siagenuina, non alterata dalla recensione Sabiniana, ce ne affida V autorità del cod. P che lapresenta ; che si adatti meglio allafrase risulta dalle segg. considerazioni.Il pensiero dell' autore intorno agli elementi costitutivi della santità dei costumi e della perfezione moraleè evidente: col ^ compositum ius fasque' ha voluto significare, anzi tutto, V elemento estemo e formale, ossial'elemento giuridico-religioso, il piùimportante per le funzioni dell' organismo sociale róma i Vi le edd. Casaub. 1647 p. 8; Schrevel. 1648 p. 573 e 1664 p. 542 Wetsten. (1684) p. 50 ; Prateus 1699 p. 335 ;Walth. 1765 p. 28 ; Bipontina del 1785 p. 11 ; Passow 1808p. 13 e 1809 I p. 24 ; Weber 1826 p. 11;Hauthal 1837 p. 22; Jahn 1843 p. 28, 1851 p. 15, 1868 p. 21 ; Jahn -Buecheler 1893 p. 22; Owen (Oxford, senzadata e senza pag. nam.); Némethy 19C6 p.27 ; ecc. « VM e edd. Monti p. 638;Achaintre 1812 p. 61; Casaub. 1889 (Duebner) p. XXV ; Duentzer 1844 p. 32 ;Hermann 1879 p. 7 ; Bucoiarelli 1888 p.51; Kamorino 1905 p. 37; ecc. 11 Hermann aggiunge (praef, ed. Lps. 1879 p. XIV) che * genetiuum tuebunturetiam * uerba animi > luuen. I 4, 91': cf. dello stesso Hermann lect. Pera., Marb. 1 842 III p. 12» p«^lt*- 15 ilo, con ^ anim. sanctosquerecessus mentis ' V eleùietito psichicoo intimo ; e con 1' ' incoctura generoso pectus honesto ' V elementoetico dipendente dalla legge morale universale. Or, ciò che è enunciato nel v. 73 si presentacostituito di due parti, di cui la primaè ' compositum ius fasque ', la seconda ^ anim.sanctosque recessus mentis \ Nessun dubbio che la prima parte sia bimembre, cioè: a) ^ compositum ius '; b)^ et fas ': perchè si conservi ladisposizione simmetrica della frase, è necessario che anche la seconda parte sia pure formata didue elementi coordinati; e se uno di questi elementi è ' sanctosque recessusmentis ', V altro non può non essere costituito dall' idea espressa mediante la voce ^ animus '.' La quale ,coordinandosi , quanto alladeclinazione, nello stesso caso in cui sono espressi i ' sanctos recessus mentis ', come prima il ^ compositumius fasque % deve essere nella formadell' acc. 'animos', non del genit. 'animi' nédell' abl. ' animo ', che se, rispetto alla sintassi, possonotollerarsi, per quel che spetta alladisposizione simmetrica della frase edall'espressione del concetto, non sono, a mio parere, sostenibili. ^ Delresto , 1' avvicinamento di ' animus' con ' mens ', che potrebbe parere una espressionesovrabbondante, per la prossimità di significato delle due voci considerate ,non era per i Romani cosa insolita.Plauto scrisse (trin. 454 [II 4, 53]): ' satintu's sanus mentis aut animi tui '; ^ e Cicerone (Cat. m. 11, 36): ' nec nero corpori solum subueniendum est,sed menti atque animo multo magis'; eVirgilio (Aen. VI 11 sg.): ' magnam cui mentem animumque | Delius inspiratuates ' ; e Orazio (epist. I 14, 8 sg.): ' istuc mens animusque | fert '; e Stazio (silu. Per tal motivo gli edd. sonostati costretti a metterà il gen. ' animi ' o V abl. ' animo ' in dipendenza da^ fasque ', disquilibrando cosi tutta lafrase e confondendo quanto si attiene ai sentimenti deir animo con le esteriorità del formalismo religioso:cf. Servio, camm. in Verg. georg, I 269, p. 193 , voi. Ili Th. * adreligionem fas, ad homlnes iurapertinent. ' 2 Neil'ed. Ck>ccbia , Torino 1886 p. 69, 4 è scritto: * satin tu sanu's m. a. a. t. '9g,) : ' et te iara fecerat ilH[ men^ aniinusque patroni * : altri ess,per brevità cimmetto. Leggo, per tanto,i w. 73-74 della sat. II di Persio ; *composi tuta ìus fasqae, anitnos sanctosqua recessus mentiS} et in eoe tutu generoso pdctuahonesto \ Bai, II T:). Dalla recensione 8abiniana dovette prenderele mosse la lez, * adiiioueani ' che ^Weditori di Persio, quasi tuttij ^ fissarononel V* 75 della sat. II : e se noi cod. B^ di tonte, conte si è dettOj Habiniana , appare ^ adinoucani \ laquale lez, riappare circa cinque secolidopo^ nel cod, Rebdigeran, I, ciò si deve ,giusta la nota avvertenza del Criisiusj - al fatto che nei coddantichinon si distinzione chiaramente le forme del verbo ^admoucù^ da quelle del verbo ^admoneo \ Lalez. *adnìoneani' trovasi semplificatain Mnoueani' nei codd. del sec. XI Pariss,nobenhavn) no* 2028, Monacens.no. Ìì80; nel cod. Ebneriano del sec* XI/XII,collazionato dal Hermann; nel Bernens. no. 048 del sec. XIIT, nel Paris, no. 80p")0 dfd sec. XIV: esono variazioni dovixtc a deviazioni dicopista negligfontc u troppo dotto le forme' uoueam ' del cod. Bernens. no. f-ì98 del sec* X, * moneas ' del cod. Paris» no.8055 del sec. XI e *admoueas' del cod. Einsiedlens. no. i\2% del sec* XV. Anteriore alla recensione Sabiniana dovetteessere la lez. ' admoueant ', di cui cidà una preziosa testimonianza il cod.' Dico n quaìi tutti > ^ perchè ho letto * advnouoant ' soltant3nelle due edd. 1048 e 1GG4 delio Sdireveli us e uell* e^l. preparata dal Wetstenius.* Crusius , in Sueton. dia.Clmtd. 39^ (ir cf, K F. C. Wunderlich j inTiòulL IV Ij 189 Cpaneg. Mesmllat^) F^ *confermata , molto tempo dopo ^ dal cod. BeroliOp no, 49 del sec, XVI j e, nella forma semplificata 'moucant \ dal cod, Monacens, M 67 delsec* XV* La lez, del P si adatta meglioalla frase esaminata, poiché, disponendone in modo diretto le parole , bì ha ^ cedo ut admoiieant (se.homines) templi^ haec i. e. composìtumìua fasqne, anim. sanct. ree. ment. ^ etincoct, gen* p ect. hon.j et farro litabo \ Sicché il pensiero dell'autore sarebbe: lascia che gli uomini ai accostino al tempio, avendo nell'animo i nobili sentimenti dìgiustizia, di pietà, di onestà ecc., edallora anch' io farò un sacrificio semplice e gradito di farro. Le parole 'conipositum Ìu3 fasque cet* * sono usatenel 1. cit. con la funzione sintattica di coniplcm* oggetto di * admoueant ', e la sintesi delle stessesi compendia nel pron, * haec 'ì e perònon si deve distìnguere con forte interpunzionela fine del v, 74 dal principio del v. 75, dove il prou, ' liaec ' serve , come ho detto , di riepìlogo ai dueversi precedenti : * basta la vìrgola,leggendosi così il testo: ' e. i. f., a. s. r. | m.^ et Ìp g, p, honesto, | haec cedo ut admoueanttempi is, et farre litabo ', IIBuecheler riconosce che il /* dà ' admoueant * , ma, quasi petf confortare con la tastimoniaaza del F la le^.^ adnioueam \ che egli ha scelta^soggiunge che le due lettere finali nt rassomigliano alla m; ras^ somiglianza che non osservò , e perciò non neprese nota , V Owen , il qnale^ dopo ilBuecheler, riesaminò e collazionò il cod. F. Perciò segnarono inopportunamenteil punto fermo dopo * honesto * ilWaltbard, il Monti, il Passo w, il Casaubon (ed. Duebner, 1839), il Jahn (edd. 1851 e 1368), il Hermann, ilBucoìarelli, ecc. ; il punto interrogativo il Casaub. (od. 1647), lo Scbrevel.^il Wetsten*, 1^ ed, Biponfc. , V A^chaintre^ il Kamorino, ecc.; il punto interrogativo insieme con Vammirativo il Hauthal; il segno dì due punti il Prateus , il Weber , ilBue^ cheler (III ed. del 1B93), l'Owen,il NémethVj ecc. La virgola dopo la V. 'houesto ' fa segnata dal Jahn neir ed. del 1843 e dal Duentzer nell'ed. 1644. Gongoli, BreiJÌ aimot crit alle satin II,Iti e IV di Fersw, À Sat. Ili 23. La tradizione manoscritta, sia quella chemuove dalla recensione Sabiniana ed ha i suoi più autorevoli rappresentantinei codd. A B, sia quella che provieneda una recensione anteriore allaSabiniana ed è rappresentata dal cod, P, dà concordemente per il V. 23 dellasat. III la lez. ^ udura et molle lutum est': presentano anche ^ est ' il cod.reg. Londinens. e due codd. del sec. XV,cioè il Monacens. M 67 ed il Basileens.F. III. 6. Quante edd. di Persio ho avuto sott' occhio, sino alle tre più recenti, cioè Ted. inglese delPOwen,Ted. ungherese del Némethy e Ped.italiana del Ramorino, presentano costantemente, invece di *'est', la lez. ^es', la quale siosserva in alcune imitazioni della frase di Persio fatte nel medio evo, come p,es. in quello che scrissero Hildeberto,vescovo Cenomanense, nella mordi, philos.quaest. I n. 40 col. 1037 B t. CLXXI ed. Migne, e Giovanni di Salisbury nelpolìcrat, lib. VII cap. 19 p, 484 ed, Lugd.Bat. 1639. Ma Pietro di Blois, che cita lo stesso luogo di Persio jxqWepist, LXXIV ad G. archidiaconum p. Ili col. 1* ed. Sim. Piget, Par. 1667, ommette il verbo, scrivendo ^ udum et molle lutum nunc nunc properandus, cet. '; e da tale ommissione è facileargomentare che egli abbia letto ' est ' nel testo di Persio , forma verbale più agevole asottintendersi che non ' es '. La stessaommissione notasi nel cod. Berolinens. no. 2del sec. XII o XIII, che presenta ' lutum nunc es properandus ' ; sicché con ' lutum ' si chiude la primaproposizione e, cominciando con ^ nunc ' la seconda , non si può prescinderedallo accompagnare ^ es ' con ^properandus ' anziché con ^ lutum '.Credo, per tanto, che si debba restituire nel testo di Persio la lez. presentata dai codd. PAB e da altricodd. di minore autorità, leggendosi nel1. e. ' udum et molle lutum est ' comeuna considerazione in generale , che fa il censore , introdotto nel discorso dall' autore, sul tempo piùopportuno per ottenere il maggiorprofitto dall' educazione e dall' istruzione. Poi lo stesso interlocutore, volgendosi al giovaneneghittoso, lo ammonisce , come passando dalla considerazione generale al casoparticolare di lui : ' nunc nunc properandus es ' ; ed insistendo neir immagine tratta dalP arte del vasellaio, soggiunge : ^ et acri fingendus essine fine rota \ Cosi si viene a dare allevoci ' udum et molle ' una funzione predicativa di ' lutum ' {' lutum est udum et molle '), come sedicesse: la creta è umida e morbida eadatta ad essere maneggiata dal vasellaio. Quale necessità di rivolgersi all' adolescente perfare una considerazione generale e impersonale, che la creta è pronta ? Eopportuno, invece, il rivolgere la parola al giovane per esortarlo a educarsi ed istruirsi , essendone in tempo.L' imbarazzo degli edd. dovette essere,se mal non mi appongo, quell'incontro di^ udum et molle lutum est ' con le due forme participiali di gen. maschile ^ properandus ' e ^ fingendus'; e però s'indussero a fare di ^ udumet molle ' un attributo di ' lutum ' , costituendo ' tu ' soggetto sottintesoanche della proposizione che deveconservare un carattere objettivo di concetto generico e indipendente dalle condizioni degli interlocutori.Ma la difficoltà si elimina agevolmente fissando da prima una fortepunteggiatura dopo ^ est ' , perchè resti nettamente determinato il concetto generale dell' età più adatta all'educazione intellettuale e morale; epoi, sulla traccia della lez. ' nunc es properandus ' presentata dal cod. Berolinens. no. 2 sopracitato , scrivendo properandu's efingendu's. Sai. Ili 60. La lez. 'dirigis ', accolta dal maggior numero dei codd. e degli edd. di Persio, piglia le mosse dallarecensione Sabiniana e fondasi sui duecodd. A B, Il correttore antichissimo del cod. P, il quale dovette avere aguida pelle sue emendazioni un esemplare di fonte Sabiniana, accetta anch' eglila lez. dirigis . Un’emendazione di seconda mano fatta sul cod. A muta dirigisin derigis, lezione approvata e accolta dai recenti edd. di Persio, Buecheler(Beri), Owen, Némethy. Il cod. P presenta, invece, In lez. dì modo soggiuntivodirìgas, la quale, sebbene trascurata da tutti gli edd.j a me pare che debbaessere restituita nel testo di Persio,in quanto clie vale a denotare la possibilitàche ci sia qualche cosa verso cui si diriga l’arco, dello stesso modo come più sotto è detto securus quo pesferat Maj perchè bene si adatti il v. dirigas in dipendenza dalla frase estaliquid, è necessario, per rispondenza simmetrica delle parti nello stesso periodosintattico, che il verbo precedente tendis posto anch'esso in una relativasubordinata, si muti in tendas. Cosicché j ove si voglia fare lieta accoglienzaalla lez. presentata dal cod, Pf è necessario che il verso citato sìa lotto: ^ est alìquìd quo tend&s et ìdquod dirlgas arcani \ JSat, III93. Nulla avrei da osservare sullalegittimità della fonna chiusa di part.futuro ^ loturo ', che loggesi in quasi tutte le edd, di Persio nel v, cit., ne della forma apertalauturo ^, la quale fu accolta dalHauthat (ed. Lps.) : ^ questa ultima èpresentata dai codd. del sec. XI Paris, no. 8049; Paris, no. 8272, Monaeens. F//, Monaceus, no. 330; daaltri due codd. Monacensi del sec. XII ,cioè Ìl cod. e. 3 e quello contenuto nel cod. segnato Kr/89. a ; e dal cod.Guelferbyt. Aug, 29. 12 del sec. XIII.La forma chiusa ^ loturo ' risale ad un' emendazione di seconda mano fatta alcod. A. , poiché tanto questo i[uantQ ilcod. B hanno ^ locu}>o ' , in cui il Buecheler credette scorgere ' locnro '; ed osservasi anche nelcod. XXXVII 19 della bibl. Laurenzianajdel ecc. XI, esaminato di recente dalKamorino. Leggesi * laturo ' nelcod. P e noi due codd. del sec, XIParis, no, 8048 e Bemcns, no. 327: nel cod. mutilo Bernens. si legge ^laturo ' con la lettera ù sopra- Egli però non ne addusse le ragioni nelleAnmerkufìgen ^sur drUten iSatirejscritta all' a ; e perciò la lez. si ricongiungerebbe con V emendazione anticasegnata da seconda mano nel cod. A. Ma, se leforme ^ lauturo ' e ' loturo ' non sono da rifiutarsi , si puòdichiarare senz' altro come inaccettabile la forma ' laturo ', scritta prima, come pare probabile, ^ luturo ' nelcod. P ? Io credo che no ; perciocché ,se accanto al v. ^ lauere ' fu accoltonella lingua il v. ^ lauare ' , la forma del supino preclassica e classica ^ fu sempre ^ lauatum' , come la forma classica del part.perfetto fu sempre ^ lautus '. Non e' è dubbioche dal tema del supino classico ' lauatum ' sia nato il part. futuro ' lauaturus ' , che si osserva inOvid. fast. Ili 12 ^ sacra lauaturasmane petebat aquas ' : e da ' lauaturus ' , per il tramite normale laaturus,ebbe origine per contrazione la forma 'laturus ' , di cui il cod. P ed altri codd. sopra notati ci danno conferma. Nonsarebbe, dunque, contrario alle leggi fonetiche dell'idioma latino l'accoglierenel testo di Persio la lez. ^ laturo ',che ha per fondamento l' autorità del cod. P : e della presente annotazione vorranno tener conto, miauguro, i lessigrafi della lingua latina. Sat. Ili 97. Il cod. P dà ^sepellitur istas ' per il v. 97 della sat. Ili:nei codd. ^ JS si legge ^ sepeliit urestas', che gli edd. tutti di Persio hanno interpretato ' sepeli: tu restas' , aggiunto o non il puntointerrogativo in fine. Per ispiegare la frase ^ tu restas ' , alcunicommentatori di Persio ricorrono al sottinteso' mihi sepeliendus ' ; ^ altri equiparano ^ tu restas ' a ' uiuis adhuc et uiuis , ut mihi grauia praecipias '^ ovvero a ' tu A Vedi Terent.hautt. ; Hor. sat 1 3, 137. * Il Némethy, ed. cit. p. 200, a confermadelle voci da sottintendersi ^ mihisepeliendus ' adduce il confronto con Hor. sat l 9, 28 : ' omnes conposui. felices! nunc ego resto '. 3 Vi V ed. del Prateus, Lond. iiiìlii adlmctutor restaa ': altri ancora, come Tommaso Farnal)io itA.) , interpretano ' tucout(?m[)tnr pliiloi^opliorum r4 p. 557t, e dal Wetsteu. p. l>5 &. ^ V*i luoghi Gitati delle edd, SchreveL e Wetsten. J Forse per tal motivo, o nonper nuovo e più diligente esame del cod., il Jabn s^ indusse it scrivere nelle note critiche delU sua ed. 4 ' sepsi itur istas ' C, che iìqIP ei. IBJl p* 20 aveva scritto * seppelHtur istag ' C. ^ La ragione metrica rifiuta altresì DelInogo commentato la formu. * sepe.lil 'j morfologicamente corretta, che dmmo due codd. del sec. X, cioè il Bernens, no. 257 ed il Leìdoiis. no.7H; due codd. del se&. XI, ossia ilBernens. no, ^J2T ed il Paria. 8070; il Behdigerdu. II del sec. XVj e inoltre il cod. reg. Londinens , la cuicollazioaej fatta dal Bentley, fupubblicata nel Chtìisk. Jouni, Il cod. Beroens, del sec. XIII, che presenta ' sepeliui * , ommette di couseguenza il ' tu ' a fin d'evitare che un piede deir esametro dattilico sia di tre sillabe lunghe. Debbo notare che vi è incertezzaintorno alla parola in esame, citata da Nonio Marcello. L' ed. Aldina Vea, dà ' riisitatis *; T ed.dicativo di ^ risito' la seconda pers. sing. dovrebbe essere stata,secondo la flessione normale, *risitas, da cui, per sincope della i breve della penultima sillaba, graditaforse nel linguaggio familiare, sarebbe nata ' ristas ' = « ridi spesso, rididi frequente ». E però nel v. cit. di Persio ben si adatta ' tu ristas ?' per significare il pensiero del giovane avidodi piaceri anche presso a morire, ilquale al monitore risponde : " non essermicome un tutore ; da più tempo V ho fatto seppellire „ : e, quasi accorgendosi d' un sorriso ironico sullelabbra dell' interlocutore che lo vedemorente per intemperanza, gli chiede : « tu ne rid i spesso ? » Talché il monitore, annoiato ditanta persistenza nel male, gli risponde: ^ perge, tacebo '. Concludendo, ioson d' opinione che si debba rendere ancheper il V. 97 il dovuto omaggio al cod. P, leggendo : ' iam pridem hunc sepeli. tu ristas ? * 'perge, tacebo '. Sai. Ili 107. Gli edd. di Persio leggono, tutticoncordemente, il v. su indicato : ^ tange, miser, uenas et pone in pectoredextram ' . Non nego che si possaleggere bene cosi il v. di Persio ; ma il cod.P invece di ' dextram ' presenta ^ dextra ' : non si può in alcun modo far posto a tale lez. ? I concettiespressi nel verso sono due, bendistinti V uno dall' altro : a) tocca i polsi ; b) metti la destra sul petto : il complem. oggetto delprimo verbo ^ tange ' è ' uenas ' ; delsecondo verbo ^ pone ' è ^ dextram ' . Nulla però vieta che si possa intendere che i polsi sitocchino con la destra ; né e' è nulla che vieti che la destra, dopo avertastati i luniana Antv. risitant * (ecosi è citata nel Ipssìco Forcellini-DeVit la 2^. ed. Merceriana Par.risitantis '. Carrio lesse *risitantes ', donde la congettura del Bothe ' missitantes % gradita al Georges,ausfUhrl. Handtvb, II col : al Vossio piacque congetturare ' usitant '. polsi, sipoggi sul petto dell* ammalato. Può^ quindi^ il primo concetto mettersi in istretto legame colsecondo mediante il aervizio comunedella mano deatra j come se T autore dicesse:^ Ungej mìser, uenas dextra ot pone («e, eam) in pectore \ E ciò può ben risultare dal verso considerato,leggendolo : tange, miser^ uenaa (et pooe in pectore) dexfcra ^ , Cosi nulla vieta che si dia posto alla lez.* dextra ' del cod. P\ sebbene da quelloinciso ' et pone in pectore ' derivi , uèconvengo anch' io^ un che di stenta to^ cUe^ del rcsto^ non sarebbealieno dallo stile di Persio e di altri poeti satirici latini. SaL IV 9.Son d- opinione che nel cit. y, 9 si debba restituire il pron, ' il] ut % nella fonna appunto che èpresentata dal cod» P, e la restituzionedebba farai in tutti e due i luoghi^ nei quali ivi è adoperato; ^ cosicché il v, di Persio siada leggersi: hoo puta non ìustum est^illat male, recti ub illut ^ . Né ostaall' accoglimento di ^ illnt ^ la singolarità della forma con la desinenza in -tj che non è rara , comea prima vista potrebbe parere* In fatto^come è notOj altri ess, di ^ illut ' ciporgono i coddp Plautini ^ uetus ' o Vatìcanno (B) e ^ decurtatus ^ delse e» XI (C) al presente di nuovo inHeidelberg ; il cod. Tereuziano Bembin. o Vatican, delsec. IV/A-^ (A) ; il palinsesto torinese del sec. IV/V (orazione dì Cic. prò Tuli.) ; il palinsesto Vatican.Reg. 2077 del sec. ^ Avverto^ innota, che nel 2^* dei due IL indicati sostituiscono * istud ' al pron. dimostrativo che ivi è adoperatoquattro codd. del sec, XI^ cioè iMonacenss, Ffl e no. 330 ed i Pari ss. no- 8048 e no* 8070 ; tre codd. del sec. XII, che sono il Monacens. no. 83,il Paris. 8246, il Berolinena, no. 2; edaltri codd, più recenti. contenente le Verrin. di Cic. ; il cod. Vatican. -Basilio . H 25 del sec. IX, in cui sicontengono le Philipp, di Cic. ; ^ ilcod. Paris. 5764 del s. XI/XII, che contiene i comm. de 6. ciu. di Cesare; il palinsesto veronese delsec. V delle institutiones di Gaio ; ecc.^ Altri ess. presenta il Corpus inscr. Lat. : . ecc. Sat. Tanto il cod. Pquanto i codd. A B danno concordemente 'potis est ' per il v. 13 : la stessa lez. si ripete nel florilegio contenuto nel cod. Monacens. no. 4423 delsec. XV. Una correzione di seconda mano fatta sul cod. A sostituisce ' potis es' ; e questa lez. osservasi nel cod.Laurenziano 19 del sec. XI e, sottocancellatura, nel cod. Paris, no. 8272 del medesimo sec. ^ Gli edd. di Persiohanno tutti accettato V emen- dazionedel correttore del cod. A, scrivendo il v. di Persio : * et potis es nigrum uitio praefigere theta'. Io credo che si debba ritornare allalez. dei codd. P A B, restituendo neltesto di Persio V espressione ' potis est ' : e mi conferma in questa opinione, anzi tutto, ilfatto che i dotti del medio evo lessero^ potis est ' nel verso citato , come ne fannofede Isidoro (sec. VI -VII) * e Giovanni di Salisbury; ^ e in secondoluogo una ragione ermeneutica. Al gio-A Vi Mai, class, auct t. II pp. 7 e 810. Il Neue (Formenlehre der lateinischen Sprache, III Auflage von C. Wagener, Beri.Calvary) nelP elenco degli ess. sopramenzionati trascura la lez. del cod. P di Persio. ^ Non si può tener conto della lez. ,evidentemente errata , * potis e nigrum' , che presenta il cod. Paris, no. 8048 del sec. XI. 4 Isidorus, on'g. I 23, 1 col. 837, 18 : *et potis est nigrum uitio prae- figeretbeta '. 5 Ioannes Saresberiensis ,policrat VI 18 p. 371, 36, ed. Io. Maire ^Lugd. Bat.: et potis est nigrum uitiis praefigere theta '. vnìmaiiibizinso, ^il qua lo * inveii ìum e è rerum prudentia Meìùi I ante pìlos neiut ' , il saggio pn^cettoredico : ^ scia etenim iu-^ ttum geuiinasuspendere [unee | ancipiti^ librac '5 e tosto 90"^*i giunge : ^ rectuui diseeniis ' ; e di tailediscernimento fa, quanta air obietto,tre ipotesi: a) ubi inter curmi aubit ' (^c. roc*' tuiuj , cioè, couie spiega il prof. GeyzaNémeth^j etiam tuTii, cum difficìlo est rectum a non rectodiscern^ra * ; ò) ^ nel cuui fa Hit pedoregula uaro ' , perehn il ^ aumnium iua ' è nondi rad^ì ^ aumina iniurjfi \ donde la necossità di mitigare U ri- gore delle leggi eoi principi dell'equità; e)^ et potis est Jii- gi'Uin uitiopraefigere tlieta % ossia la possibilità, in generale^ di punire ì colpevoli. Questa terza ipotesi vin istretto legame, logieo e sintattico,con la precedente; e su il poeta ha preferitoavvalersi generalmente de IT espressione ^ uel cum fnllit \ non potevasi, tanto per V unità di concettoquanto per la diretta di- pendenza di ^potis ,.. ' dalla stessa espressione ' nel cum ' eli e regge il ' fallìt * precedente, nonpoteviisi^ dicevo^ venire al verbo difeconda pers. es ' , ma era da con servarsi, per V ob- biettività (mi si conceda V uso, quinecessario, della voce nuo- va) dellaconsiderazione generale, la stessa terza pers. che si V notata tanto in 'fallii ' quanto in * subit\ 1 jCggo , d un q ne, coi miglio r ico dfl . di Pc r sio e sccond o la tra -dizione conservata dai dntti nell'etìi di mezzo; et potis est nigrumuitio praefigere thefca, Jn tutte leedd. di Persio si leggr; ' ingetntfc ^hoc bene sìt ' tunicatum ciirn stile mordenscae|)e ^ , Kémethy, op, eìt. p*21% Ma il cod. P dà ' mordes ' invece di^ mordens ' ; e , tutto- ché ilcorrettore antichissimo vi abbia apposto V emciidazioiui ' mordens ' , fondata sulla recensioneSabiniana , io non credo che la lez.genuina del P si possa senz' altro rifiutare. Tutti i commentatori spiegano il passo cit. che Vautore ci voglia pre- sentare un tristoavaro , il quale , mordendo una cipolla consale, mormori soddisfatto ' hoc bene sit '. Secondo la lez, del cod. P appare, invece, che l'avaro non sicongratuli soltanto con sé stesso delvilissimo cibo che mangia, ma ne faccia quasiun'esortazione a chi conversi con lui, sulla bontà dei cibi frugali, dipoca o nessuna spesa; onde il verso dovrebbe leggersi: * ingemit « hoc bene, si tunicatum cum salemordes caepe » ' . E in tal modo si rende necessario mutare ^sit ' ì\\ ^ si ' ; ma con ciò io noncredo che si venga a forzare la parchi percoordinarla con la lez. del P ^ mordes ' , poiché a me pare di essere nel vero ammettendo che la t finale di^ sit ' sia dovuta air efficacia dellapronunzia dejla lettera iniziale della voceseg. ^ tunicatum ' : e non é improbabile che chi scrisse il P abbia trovato, nelP esemplare da cui traeva Vapografo, il nesso ^ situnicatum ' e Vabbia diviso, senza ben riflettere al mordes seg. , in sit tunicatum '. Laonde non credo di esserein fallo riconoscendo per vero cheTryfoniano Sabino, quando i^i accinse ademendare il testo di Persio, siasi trovato , recensendo il v., dinanzi alladifficoltà del ' sit ' coordinato con mordes e che abbia opinato di superarlalasciando ' sit ' e correggendo ^ mordes' in ^ mordens ' , che poi si ripetè nei codd. che ebbero a fondamento la recensione di lui. D'altro canto, non sarebbe sintatticamenteinesatto se ai lasciasse coesistere il ^ sit ' col ^ mordes ' , leggendo :ingemit « hon (bene sit !) tunicatum cum sale mordes caepe t;ma spiace quell' indicazione di un fatto come realmente avve- mitojmediante il ^ inordos ' di modo indicativo, laddove s' intenda t* eprime re uninvito o consiglio o sollecitazione a man-g"iare cipolle con sale. Larestituzione della lez. presentata dal P, con la sostila- aion© della voce ^ si ' al v. * sit \ haquesto di vantaggio sulla lez. coin uneniente segui taj che, oltre al dare maggiore evidenza alla tìgura delP avaro che predica agli altrila bontà dei cibi tiomplici y naturali edi poco o nessun costo ^ ha il merito dievitare il cumolo dei due participi ' metuena ' e ^ niordens ' (oincidens come è scritto nel cod, Paris, no. 8050 dell' a. 1321} e di conservare meglio la simmetria dellafrase. Sat- IV 51. La lez. * est ' invece di ' es ' nel v. 51 èdata tanto dal cod- P quanto dai codd,di fonte tSabiniana A B; e si osservaripetuta nel cod* Paris, no, 80oO scr. nel sec. XTV e nel cod. Basileens. f\ III. 6 dtjl sec, XV, Olì edd,tutti l'hanno rifiu- tata, ma a torto ^ed hanno ammesso la lez. * es ' che apparela prima volta in nn^ emendazione di seconda mano notata nel cod, A e si ripete nel cod. LaurenzianoXXXVII 19 del sec. XL Dico eh a gli edd.l'hanno rifiutata a torto ^ perche ilpensiero dell' autore non è di consigliare il rifiuto dì ciò che una perso uà non èj ma il disdegno per tuttoquello che in real- tà non t% cioè ildisdegno per lo vane apjiarenze e per le coseche non hanno valore alcuno: insomuia, il contenuto del consi- glio che da 1' autore ha un* estensioneobjettiva maggiore chn non restiespressa col verbo in seconda persoua * es \ Io cre- do, per tanto ^ che si debba ritornare allalez, presentata dai codd, piliautorevoli, leggendo il verso su indicato di Pera io: respue quod non estj tolUt sua muoeracerdo K\in opere del Prof. Dott. SantiCirasDli : IIuIIòitkIc sninimntlk Ul brng for Koriitke og Danske, Catania ,1BB4. L. 3. (in Oì?itu presso E.Ilaul'fs boghantlel, Krif>tiauìaj in Norvegia). MHit/Aoiil di Ihii^nm kitmti espoF^te,fieeondo il mefcoLlo scientìfico , aglial u imi dille scuole secondarie olaasicho. Ci^taaia^ F, Tropea,18BT« L. :i, 50 (esaurito), Iiitrodii/ioue il Ilo studio del l>. K. —Torino^ Fratelli Bocca, ItiSH. L. Ci(esaurito). Fotioloiriu lutimu —2'' ediz. riveduta e migliorata. — Milano, U. Hoepli. im-2. L. 1, 50. Lettera! lira no r ventatiMilano^ U. Hoepli DeCp Ffìiiiì CiiceilH 8ceiiiidl rlietorick s^tudll^, Catiuae , C. Galatola , 18^7, L 3 (esaurito). Il neoloferismo iioflì Berltti di Plinio lìgiovane. Contributo agli studi sullaUitiiiit^'i ar^outeti. ^ Palermo, A. Reber^ 1900. L. 3. Neidosrìsnii 1)otiimei nei earinì biieoUei eg^jorgricl di Yì Icilio, Contributo agliytudl sulla latlcitfi dell' evo augusteo»Palermo , A* ftebor . Té* ttIlio re ilei libro De origine et sitn (Teruiauorum ,| ; ricercke critiche, Jtioma, E. Loeseher & a-, . L. 8. Li Germauia, comparata con la Natni'alislilstoria, di Plinio e eoli lo opero di Tnelto: ricerche lessigrafiche esìutiitticbe. E orna, E. Loe^cher &C", 19(Xl L a ^^otc eritieiic eliìbilogi^Uciie di lettemtura latina^ puutata. I. Catania^Barba gai lo Lt Scuderi A« Pernii FI aeei saturartim libtr ; recensuit,adnotatione critica instruxit, testimolila usque ad saeculum XV addidlt Santi Consoli. Editio maior. llomae, apud Hermannurn Loescher etsocium. Note eritlelio e bibUoj^i'atìclie di lettemtuni latina, puntata II.Catania, Fratelli Perrotta, MM, L1, A. Pei-sil Flacei satnrariini Hbcr ;recensuit Santi Consoli. Editio miaor.EomaOi apud Hermann uni Loescher et socium, 19CM. L. 1, Di prossima pubblicasiione : Le fonti delie satire di Persio. Up Bf«v!afinm^lonE (critiche alle Set ì. Santi Consoli. S. Consoli. Consoli. Keywords:deutero-esperanto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Consoli.” Consoli.
Luigi Speranza -- Grice e Conte: laragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del sacrificio – scuoladi Pavia – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pavia).Filosofo paviano. Filosofo Lombardo. Filosofo Italiano. Pavia, Lombardia. Grice: “Must say I love Conte – hehas almost the same talent for linguistic coinage that I do! In Italy ‘filosofia del diritto’ is much more respectable a disciplinethat it is at Oxford! But Conte managed to keep it philosophically interestingfor the philosopher’s philosopher that I am!” “Conte proves that moralphilosophy is at the heart of philosopohy qua-uni-virtue – for the critique ofreason must include the buletic – and that’s all that Conte dedicates hisphilosophy too! Into the bargain, he expands into concepts like sacrifice,punishment, ‘fiducia’ (my principle of conversational trust), and so muchmore!” “He plays with language the way only Heidegger did in German and I inEnglish!” Grice: “Conte is what I – and Italians – would call a ‘Griceianconversationali pragmaticist.’” Studia aPavia e Padova. Si laurea a Torino sotto Bobbio con “Ius naturale.” Insegna aPavia. Si occupa della semiotica del performativo deontico o buletico, laregola eidetico-costitutive, validità buletica – desirabilita -- deontica, modoimperativo, prammatica conversazionale – alla Grice. In che cosa consistequell’’impero’, dal quale il modo imperativo prende il nome. Altre opere: “Interpretazioneanalogica. Pavia, Tipografia del Libro, “Ius ed ordine” (Torino, Giappichelli).Primi argomenti per una critica del normativismo. Pavia, Tipografia del Libro,Ricerca d'un paradosso deontico” (Pavia, Tipografia del Libro); Nove studi sullinguaggio normativo. Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggionormativo. I. Studi; Torino, Giappichelli, Filosofia del linguaggio normativo.II. Studi; Con una nota di Bobbio. Torino, Giappichelli); Imperativo ed ordine.Studi Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio normativo. III. Studi,Torino, Giappichelli); Filosofia del diritto” (Milano, Cortina); Ricerche diFilosofia del diritto” Torino, Giappichelli); “Res ex nomine” (Napoli,Editoriale Scientifica); “Sociologia filosofica del diritto. Torino,Giappichelli); “Adelaster. Il nome del vero” (Milano, LED). È inventore delgenere da lui chiamato "eido-gramma" ed autore di numerosieidogrammi, solo parzialmente éditi:Nella parola. Osnago, Pulcino elefante, Kenningar. Bari, Adriatica. "Peruna critica della ragione deontica" (introduzione alla Filosofia dellinguaggio normativo). Pragmatica. Filosofia del diritto Logica deontica Ontologia Performativo(atto verbale) Pragmatica Semiotica Semantica.To undertake to set forth withany definiteness the ‘religious’ – or eschatological -- ideas of ''aRoman philosopher'' – FILOSOFO ROMANO -- would be an extremely difficulttask.Those, ideas would differ with the individual and the sect, beingdetermined or varied by a number of considerations and influences — bylocality, education, and temperament. SILIO would not hold theviews of SEIO. We may speak of the state religion – colto officiale -- of ROMA,as distinct from various other ‘religions’ tolerated and practisedin different parts, but it is scarcely possible to define the contents ofthat ‘state religion’ – il SACERDOCIO. There are certain specialpriests and priestly bodies who see to it that certain rites andceremonies are performed scrupulously in a prescribed manner and onprescribed dates. But these are officers of the state – LO STATO ROMANO-- whose knowledge and functions are confined to the ritual observanceswith which they have to deal. They are not persons trained in asystem of ‘theology’, nor are they preachers of a code of doctrines ormorals. They have no "cure of souls," and belong to no church. Theyhave no credo and no Bible or corresponding authorityto which to refer.Though most well-informed persons will know the prominent deitiesin the calendar — such as IOVE or MARTE, or QUIRINO -- perhaps scarcely any onebut an encyclopaedist or antiquarian could have named one-half of thetotal. It is not merely that the deities on the list are so numerous.There are other reasons for ignorance or vagueness. In the first place,the line between the operations of one deity and those of another isoften too fine to draw, and deities originally more or less distinct cometo be confused or identified.Secondly, it is often hard, if notimpossible, to make up one's mind whether a so-called deity — suchas SPES — is supposed to have a real existence, or whether it is simplythe personification of an abstract quality. Thirdly, divinities fall out offashion, and to a large extent out of memory, while new ones come, orwere coming, into vogue. The state possesses its old-establishedcalendar of days sacred to a number of deities, and its code of ritual tobe performed in their honour. There are ancient prescriptions as to whatcertain priests should wear, what they should do or avoid in theirpriestly character, what victims — ox, sheep, or pig — they shouldsacrifice, what instruments they should use for the purpose, and in whatformula of words they should pray in particular connections. There isa standing commission, with the PONTIFICE MASSIMO at this date thatexcellent religious authority, theemperor — at its head, to safeguard thestate religion, to see that its requirements are carried out, andthat no one ventures to commit an outrage towards it. But the state willnot tell you with any precision that you must believe in just somany deities and no others. It would not tell you precisely what notionsto entertain concerning those deities whom it does officially recognise.The state dictates no theological doctrine; neither does it dictateany moral doctrine beyond those which you would find in the secular law.It reserves the right to prevent the introduction of a foreign divinityif it finds sufficient cause; but so long as the temples, the rites andceremonies, the cardinal moral axioms of the Roman ''religion,'' and thebasic principles of Roman society are respected, the state practisesno sort of inquisition into your beliefs or non-beliefs, and in no wayinterferes with your particular selection of favourite deities.Poly-theismin an advanced commimity is always tolerant, because it is necessarilyalways indefinite.What it does not readily endure is an organisedattack upon the entire system, whether openly avowed or manifestlyimplied. Even undisguised unbelief in any deity at all it is oftenwilling to tolerate, so long as the unbelief is rather A MATTER OFPHILOSOPHICAL DIALECTICS than anything else, and makes no attempt at acrusade. When a state so disposed is found to interfere with anovel religion, it will generally be easy to perceive that the jealousyis not on behalf of the deities nor of a creed, but on behalf of thecommunity in itspolitical, economic, or social aspect. Let us endeavourto realise as best we can the religious situation among the Romanpopulation. Though we are not here directly concerned with thesteps by which the Roman religion had come to be what it was, we canscarcely hope to understand the position without some comprehension ofthat development. The Romans are a CONSERVATIVE people, and many of thepeculiarities of their worship are due to the retention of old formswhich had lost such spirit as they once possessed.In the infantdays of the nation there had been nosuch things as gods in human shape,or in recognisable shape at all. There were only ''powers" or"influences'' superior to mankind, by whose aid or concurrence man mustwork out his existence. The early Romans and such Italian tribes - asthey became blended with were, as they still are, EXTREMELEYSUPERSTITIOUS. In a pre-scientific age they, like other peoples, are at aloss to understand what produces a thunder or a lightning, rain, thefertility or failure of crops, the changes of the seasons, the flow orcessation of springs and streams, the intoxication or exhilarationproceeding from wine, and a multitude of other phenomena. Fire is aperplexing thing; so is wind. The woods are full of mysterious soundsand movements. They could comprehend neither birth nor death, northe fructification of plants. The consequence is a feeling that thesethings are dueto some unseen agency; and the attempt is made tobring those powers into some sort of relation with mankind, either by thecompulsion of magical operations and magical formulae, or by sacrifices andofferings of propitiation, or by promises. A superhuman power might beplaced under a spell, or placated with food and drink, or persuaded by avow. Such "powers" were exceedingly numerous. Greatest ofall, and recognised equally by all, was the power working in the sky withthe thunder and the rain. Its presence was everywhere alike, and itsbperations most palpable at every season. Countless others wereconcerned with particular localities or with particular functions. Everywood, if not every tree, and also every fountain, was controlled by somesuch higher 'power'; every manifestation or operation of naturecame from such an 'influence.'' There was no kind of action orundertaking, no new stage of life or change of condition, which did notdepend for help or hin- drance upon a similar power. At first "the''powers" bore no distinctive names, and were conceived in nodefinite shapes. They were not yet gods. The human being who sought towork upon them to favour him could only do, say, and offer suchthings as he thought likely to move them. But in process of time itbecame inevitable that these superhuman agencies should be referred tounder some sort of title, and the title literally expressed theconception. Hence a multitude of names. Not only was there theever-prominent Jupiter or sky-father " ; there was a veritablemultitude^ of powers with provincesgreat and small. Among the largerconceptions the power concerned with the sowing of seed was Saturn,that with the growth of crops was Ceres, that with the blazing of firewas Vesta. Among the smaller, the power which taught a babe to eat wasEdulia, that which attended the bringing home of a bride wasDomiduca. The ability to speak or to walk was supposed to be imparted byseparate agencies named accordingly. Flowers depended on Flora andfruits on Pomona. But to assign a name is a great steptowards creating a ''power'' into a ''god,'' and such agenciesbegan to take shape in the mind of those who named them. This was thesecond stage. Jupiter, Ceres, Satmn, and almost all the rest became"gods." The powers in the woodlands — a Silvanus or Faunus— became embodied, like the more modem gnomes and kobbolds. Onceimagine a shape, and the tendency is to give it visible form in an image"like unto man,*' and to honour it with an abode — a temple orshrine. The earliest Romans known to us erected no images ortemples, but they were not long in creating them. Particularly rapid wasthe reducing of a god to human form when they came into close contactwith the Etruscans and the Greeks. For all the important deitiespoetry and art combined to evolve an appropriate bodily form, whichgradually became conventional, so that the ordinary notion of aJupiter, a Juno, a Mercury, or a Ceres was approximately that whichhad been gathered from the statue thus developed. This trouble was nottaken with all the most ancient divinities. Many of the old rural andlocal deities, and many of those with quite minor provinces, were leftvague and unrealised. They were represented in no temples and by nostatues. Natiu'ally as the Roman state grew from a set of neighbouringfarms into a great city, and from a small settlement into a vast empire,the little local gods fell into the background. The deities whichconcerned the state, and to which it erected temples, were thosewith the more far-reaching operations — such as thegods identified withthe sky and its thunders, with war, with fertility, with the sea, withthe hearth-fire of all Rome. The rest might well be left tolocalities or to domestic worship. From the early days ofRome there existed a calendar for festivals to certain divinitiesimportant to the little growing town, and a code of ceremonies tobe performed in their honour, and of formulae of prayer to be offered tothem. The later Romans, in their characteristic conservatism, adhered tothose festivals, to that ritual, and to those formulae, even whensome of the deities had ceased to be of appreci- able account, and whenneither the meaning of the ritual nor the sense of the old words was anylonger imderstood by the very priests who used them. Reflecta moment on this situation. First, we have a number of deities of thefirst rank, housed in temples, embodied in statues, and recognised inall the Roman world; next a number of minor divinities whoseoperations and worship may be remotely rural or otherwise local, andwhose functions are by no means always distinguishable from those ofthe greater gods; then a series of more or less un- intelligibleceremonials carried out by ancient rule in honoiu" of divinitiesoften practically forgotten ; outside these a number of vague powerspresiding over small domestic and other actions; finally, apeculiar Roman tendency — in keeping with the last — to erect intodivinities, and to symbolise in statues housed in temples, all manner ofabstract qualitiesand states, such as Hope, Harmony, Peace, Wealth,Health, Fame, and Youth. Reflect agam that, when the Romans, asthey spread, came into contact with Greeks, Egyptians, or otherforeigners, they met with deities whose provinces were necessarily oftenidentical with or closely akin Fio. 110. — ASacrifice. to their own. Then remember that there isno church and no official document to define the complete list ofRoman gods. Does it not follow, as a matter of course, on the one hand,that the importation of new gods was an easy matter, and on the other,that no individual Roman could draw the line as to the number ofeven the old-established deities in whom he should or should notbelieve?The guardians of the public reUgion were satisfied if thedue rites were paid by the state to those deities, on those. dates, andprecisely in that manner, which happened to be prescribed in the officialreligious books. For the rest they left matters to theindividual. So much it has been necessary to say in order toaccount for existing attitudes. We must use the plural, since theattitude of the state officials is but one of several, and, inasmuch asthe state officials themselves were not a theological caste butonly secular servants of the community administering theregulations for external worship as laid down in the records, it oftenhappened that their official attitude had nothing to do with theirindividual beliefs. Often they did not know or care whether therewas a real religious efficacy in the acts which they performed ;sometimes all that they knew was that they were doing what the staterequired to be done properly by some one. Cicero quotes adictum of a Pontifex Maximus that there was one religion of the poet,another of the philosopher, and another of the statesman. This istrue, but it is hardly adequate. We must at least add that of the commonpeople. A well-known statement of more modern birth puts the case —rather too strongly — that at our period all religions wereregarded by the people as equally true, by the phi- losopher as equallyfalse and by the statesman as equally useful. We may begin with theordinary people of whatever station, who were not poetsnor thinkersnor magistrates. It is an error to suppose that such Romans of the firsteentiu'y were either atheistic or indifferent to religion. Theirfault was rather that they were too superstitious, ready to believetoo much rather than too Uttle, but to beUeve without relating theirbeUef to conduct. They did not question the existence of the traditionalgods, nor the characters attributed to them; they were ready toperform their dues of worship and to make their due offerings, but allthis had no bearing upon their own morality. They believed with theterror of the superstitious in omens and portents, and in rites ofexpiation and purification to avert the threatened evil. They werealarmed by thunder and lightning, earthquakes, bad dreams, ravens seenon the wrong side of the road, and other evil tokens. They commonlyaccepted the existence of maUgn spirits, including ghosts. They wereprepared to believe that on occasion a statue had bled or turnedround on its base; that an ox had spoken in human language; or that therehad been a rain of blood. There were doubtless exceptions, andsuper- stition was less dire and oppressive than once it was. Morethan fifty years before our date Cicero had said that even old women nolonger shuddered at the terrors of an underworld, and fifty yearsafter it the satirist asserts the same of children. But both writers arespeaking somewhat hyper- bolically. Doubtless it had been wonderedhow two augurs could look at each other without a smile, but thereis nothing to show that even aminority of augurs were acutely consciousof any- thing to smile at. In the multiplicity of deities theordinary people were prepared to accept as many more as you choseto offer them, especially if the worship attaching to them containedmystic or orgiastic ceremonies. By this date the populace had becomeexceedingly mixed, especially in the capital, and the coolhard-headed Roman stock had been largely replaced or leavened byforeign elements, especially from the East. The official worship of thestate was formal and frigid ; it offered nothing to the emotions or thehopes. Many among the people felt an instinct for something moresacramental, and especially attractive was any form of worship whichpromised a continued existence, and probably a happier existence, afterdeath. Even the mere mysteriousness of a form of worship had itsallurements. Hence a tendency to Judaism, still more to the Egyptianworship of Isis and Osiris. The latter made many proselytes, particularlyamong the women, and contained ideas which are by no means ignoblebut to our modern minds far more truly ''religious'' than anything to befound in the native Roman cults. To pass through purification, to practiseasceticism, to feel that there was a life beyond the grave apportioned toyour deserts, to go through an impressive form of worship heldevery day, and to have the emotion^-thus worked upon — all thissupplied something to the moral nature which was lacking in the chillsacrifices and prayers to Jupiter and the other national divinities. Invain had the authorities, in their doubt as to the moral effects, triedon several occasions to suppress this foreign worship; it always revived,and it now held its established place both in the imperial city andinthe provinces, particularly near the sea, for it was especially asailors' religion. Rome, like Pompeii, had its temple of Isis and herdaily celebrations. There was, however, no necessary conflictbetween this worship and the oflScial religion. It was quitepossible to accept Isis while accepting Jupiter. Nor, though this particularcult has required mention, must it be taken as belonging to more than asection of the Roman population. Most Romans would look upon it andother deviations with acquiescence, some with contempt, and perhaps somewith a shake of the head, while themselves satisfied with anindifferent conformity to the more estabUshed customs of thestate. Setting aside the devotees of the mystic, the moreordinary point of view was that between Romans and the established godsof Rome there is an understanding. The gods will support Rome so long asRome pays to them their dues of formal recognition. Their ritual mustnot be neglected by the authorities; it is not necessary for anindividual member of the community to concern himself further in thematter. The state, through its appointed ministers, will make thenecessary sacrifices and say the necessary words; the citizen need notput in an appearance or take any part. He will not do or say anythingdis- respectful towards the deities in question, and he will enjoythe festivals belonging to them. If remarkable portents and disastersoccur, he will agree that there is something wrong in the behavioiu* ofthe state, and that there must be some public purification or otherplacation of the gods. If the state orders such a proceeding, he willperform whatever may be his share in it. So far he is loyal to the''religion of the state.'' In his private capacity he has hisown wants, fears, and hopes. He therefore betakes himselftowhatever divinity he considers most likely to help him; he makes hisown prayers and vows an offering if his request is granted. Reduced toplain commercial language his ordinary attitude is — no success, nopayment. A cardinal difference between the religion of the Romans and ourown is to be seen in the nature of their prayers. They always ask for somedefinite advantage — prosperity, safety, health, or the like. Theynever pray for a clean heart or for some moral improvement. Of moreimportance than the man's moral condition will be his scrupulousobservance of the right external practices. Unlike the Greek, hewill cover his head when he prays. He will raise his hand to his lipsbefore the statue, or, if he is appealing to the celestial deities, hewill stretch his palms upwards above his head ; if to the infernalpowers, he will hold them downwards. These are the things thatmatter. At home, if he belongs to the better type ofrepresentative citizen, our Roman has his household shrine and hishousehold divinities, whom he never neglects. If he is very pious, he maypray to them every morning, or at least before every enterprise. Inany case he will remember them with a small offering when he dines. Thereare the ''gods of the stores" — his ''penates'' — certain deitieswhom he has selected as guardians of his belongings, and who havetheir little images by the hearth in the kitchen. There is the household''protector," or more commonly there are two, who may bepainted under the form of Ughtly-stepping youths in alittle nicheor shrine above a small altar. To these he will offer fruits, flowers, incense,and cakes. And there is the ''Genius'' of the master of the house,who is also painted on the wall, or who may be represented by his ownportrait bust or by the pictxu-e of a snake. That "Genius"means the power presiding over his vitality and health and well-being. If he is an artisan and belongs to a guild, he will pay specialworship to the patron god or goddess of that, guild — to Vesta, if he isa baker, to Minerva, if he is a fuller. Out of doors he will find astreet shrine in the wall at a crossing, pertaining to the tutelarygod of what may be called his ''parish,'' and this he will not neglect.Like all other orthodox Romans he will not undertake any new enterprise— betrothal, marriage, journey, or important business — withoutascertaining that the auspices are favourable. In a general way hehas a notion that the gods are displeased at certain forms of crime, andthat they approve of justice and the carrying out of compacts. Thegods overlook the state, because the state engages them so to do, andtherefore to break the laws of the state is to anger the gods of thestate. But this is rather subtle for the common man, and there isgenerally no understood immediate relation between these gods and hismoral conduct, unless he has sworn an oath by one or other of them. Thepurpose of calling a god to witness is to bring upon a perjurer theanger of the offended deity. But he entertains no such conception as themodem one of "sin" or of "remorse for sin.""Sin" is either a breach of thesecular law or breach of acontract with a deity, and ''remorse'' is but fear of or regret forthe consequences. His morality is determined by the laws ofthe state, family discipUne, and social custom. For that reason hisvices on the positive side will mostly be those of his appetites, and onthe negative side a want of charity and compassion. He may be guiltlessof lying and stealing, murder and violence; he may be honest andlaw-abiding ; but there .is nothing to make him temperate, continent, orgentle. His avowed code is duty,' and duty is defined by law andtradition. If this is the religious condition of the conunon-place man or woman — a blend of superstition, formalism, and tolerance —it is by no means that of the educated thinker. Such persons were forthe most part freethinkers. Many of them, finding no better guideto conduct, conform to the "religion" of the state without anyreal belief in its gods or attaching any importance to its ceremonies.They do not feel called upon to propagate any other views, and theyprobably think the current notions are at least as good fqr the ignorantas any others. If they are poets, like Horace or Lucan, they will dressup the mythology, mostly from Greek models, and write fluentlyabout Jupiter and Juno, Venus and Mercury, either attributing to them therecognised characters and legends, or varying them so as to makethem more picturesque and interesting — perhaps even improving them — butall the time believing no more inthe stories they are telling^ or in thedeities them- selves,* than Tennyson need have beUeved in KingArthur and Guinevere. The gods are good poetic material and are sure toafford popular, or at least in- offensive, reading. The poets doubtlessdo something to hiunanise and beautify the popular conception of adeity, but they seldom deUberately set out with any such purpose. If theeducated are not poets, but pubUc men of affairs, they may beUeve just asUttle, and yet regard the established cult of the gods as anexcellent discipline for the vulgar and the best known means of upholdingthe national principle of ''duty.'' If they are philosophers they maynot, and the Epicureans in reality do not, beUeve in the gods atall — certainly not as they are generally conceived — and willopenly discuss in speech and in writing the ques- tion of their existenceor non-existence, and of their character and nature if they do exist.They will endeavour to substitute for the barren formalism of ritesand ceremonies, or the inconsistent or incomplete traditional morality ofduty, another set of principles as a sounder guide to life and conduct.Some are monotheists, some are simply in doubt. Says Nero's owntutor, Seneca, ''Do you want to propitiate the gods? Then be good. Thetrue worshipper of the gods is he who acts like them.""Better," remarks Plutarch, "not believe in a God at allthan cringe before a god who is worse than the worst of men."In the actual worship of images none of them believe. One conspicuouswriter of the time says : "To look for a form and shape to a god, Iconsider to be a mark ofhuman feebleness of mind." Concerning theschools of thought and in particular the tenets of those Stoics andEpicureans whom St. Paul met at Athens, and whom he could meet ineducated circles all over the Roman Empire, we shall have to speak in afollowing chapter, when sununing up the intellectual and moral conditionof the time. Meanwhile it should be under- stood that, though a profoundor anything approaching a professional study of philosophy wasdiscouraged among the true Romans — more than once the profes-sional philosophers were banished from the capital — there were fewcultivated persons who did not to some extent dabble in it, and even goso far as to profess an adherence to one school or another. None ofthese men believed in the "Roman religion" as administered bythe state, although many of them were administering it themselves. Thesame man could one day freely discuss the gods in con- versation ora treatise, and the next he might be clad in priestly garb and officiallyseeing that the rites of sacrifice were being religiously carried outin terms of the books, or that the auspices were being properlytaken. It does not, however, follow at all that because poetor public man cared nothing for the pantheon and all its mythology, hewas therefore without his superstitions. He might still tremble at signsand portents, at comets, at dreams, and at the un- propitiousbehaviom* of birds and beasts. He might believe in astrology and resortto its professors, called the ''Chaldaeans." On the other hand hemight laugh at such things. It was all amatter of tempera- ment. It certainly was not every man who daredto act like one of the Roman admirals. When it was reported thatthe omens were unpropitious to an inuninent battle because the sacredchickens ''would not eat," he ordered them to be thrown into thesea so that at least they might drink. The freethinkers were inadvance of their times. "Science" in the modern sense hardlyexisted, and until phenomena are explained it is hard to avoid aperplexity or astonishment which is equivalent to superstition. Consider now these various states of mind — that of thepeople, ready to add almost any deity to the large and vague numberaheady recognised ; that of the poet, who finds the deities such usefulliterary material ; that of the magistrate or public man, who,without enthusiasm or necessary belief, regards reUgion as a thing usefulto society; and that of the philosopher, who thinks all the currentre- Ugious conceptions unsound, if not absurd, and morally almostuseless. Manifestly a society so composed will be one ofunusual tolerance. The Romans had no disposition to force their religionon the subject provinces of the empire. Their religion was the Romanreligion; the rehgion of the Greeks might be left Greek, the Jewishreligion Jewish, and the Egyptian religion Egyptian. Any nation had aright to the religion of its fathers. Nay, the Jews had such peculiarnotions about a Sabbath day and other matters that a Jewwasexempted from the military service which would have compelled himto break his national laws. All religions were permitted, so long as theywere national religions. Also all religious views were permitted tothe individual, so long as they were not considered dangerous to theempire or imperial rule, or so long as they threatened no appreciableharm to the social order. If a Jew came to Rome and practisedJudaism, well and good. It was, in the eyes of the Romans, anarrow-minded and uncharitable religion, marked by many strange andabsurd practices and superstitions, but if a misguided oriental peopleliked to indulge in it, well and good. Even if a Roman became aproselyte to Judaism, well and good, so long as he did not flout theofficial reUgion of his own country. If the Egyptians chose to worshipcats, ibises, and crocodiles, that was theii^ affair, so long as theylet other people alone. In Gaul, it is true, the emperor Claudius,predecessor of Nero, had put down the Druids. Earlier still the Druidshad already been interfered with ; but that was because the Druids —those weird old white-sheeted men with their long beards andstrange magic — are performing human sacrifices — burning men alive inwicker frames — and such conduct was not pnly contrary to the secular lawof Rome, but even to natural law. And when Claudius finallysuppressed them, or drove the remnant out of Gaul into Britain, it wasnot simply because they worshipped non-Roman gods and performednon- Roman rites, but because they were, as they had alwaysnotoriously been, a dangerous political influence interfering with the propercanying out of the Roman government. And when we come toChristianity it must be remarked that, so long as that nascent religionwas regarded as merely a variety of Judaism, it was actu- allyprotected by the Roman power, and owes no little of its original progressto the fact. In the Acts of the Apostles it is always from theRoman governor that St. Paul receives, not only the fairest, butthe most courteous treatment. It is the Jews who persecute him and workup difficulties against him, because to them he is a renegade and isweaning away their people. To the philosophers at Athens he appearsas the preacher of a new philosophy, and they think him a "smatterer"in such subjects. To the Roman he is a man charged by a certaincom- munity with being dangerous to social order, to wit, causingfactious disturbances and profaning the temple; and since he refuses tolet the local author- ities judge his case, and has exercised his citizenprivilege by appealing to Caesar, to Caesar he is sent. And, when aprisoner in somewhat free custody at Rome, note that he is permitted tospeak ''with all freedom,'' and that in the first instance he isacquitted. True, but the fact remains that Nero bimitChristians in his gardens after the great fire of Rome, and that certainlater emperors are found punishing Christians merely for avowingthemselves such. Why was Christianity thus singled out? It was notthrough what can be reasonably called ''religiousintolerance/' for, ashas been said, the Romans did not seek to force Roman religion on otherpeoples, nor did they make any inquisition into the beUefs ofRomans themselves. The reasons for singling out Christianity for specialtreatment are obvious enough. The question is not whether the reasonswere sound, whether the Romans properly understood or tried tounderstand, whether they could be as wise before the event as we areafter it, but whether the motive was what we should call a religious"one. To allow Epicureans to deny the existence of gods at all, andto make scornful concessions to the peculiar tenets of Jews, could not bethe action of a people which was bigoted. If there was bigotry andintolerance, it was political or social bigotry and intolerance, notreUgious. To prevent any possible misconception let the presentwriter say here that he considers the principles of Christianity, as laiddown by its Founder and as spread by St. Paul, to have been the mosthumanizing and civilising influence ever brought to bear uponsociety. But that is not the point. The early Christians weretreated as they were, not because they held non- Roman views, but becausethey held anti-Roman views ; not because they did not believe inJupiter and Venus, but because they refused to let any one elsebelieve in them; not because they threatened to weaken Roman faith, butbecause they threatened to weaken and even to wreck the whole fabric ofRoman society ; not because they were known to be heretics, butbecause they were supposed to be disloyal; not because they convertedmen, but because theyappeared to convert them into dangerouscharacters. As it has been put, the Christians were regarded as the''Nihilists" of the period. We are apt to judge the Romans from thestandpoint of Christianity dominant and understood; it is fairer to judgethem from the standpoint of a dominant pagan empire looking on at astrange new phenomenon altogether misunderstood and often deliberatelymisrepresented. Moreover — and the point is worth more attentionthan it commonly receives — we have only to read the Epistles to theCorinthians, to perceive that the early Christian gatherings were by nomeans always such meek, pure, and model assemblages as they are almostalways assumed to have been. Some of the members, for instance,quarrelled and ''were drunken.". There were evidently many unworthymembers of the new communion, and of course there were also manymanifestations of insulting bigotry on their part. The class of societyto which the Christians belonged was closely associated in the Roman mindwith the rabbleand the slave, if not with criminals. What the paganobserver saw in the new religion was "a pestilent superstition,""hatred of the human race," "a malevolentsuperstition." He thought its practices to be connected with magic.The intransigeant Christian refused to take the customary oath in the lawcourts, and there- fore appeared to menace a trustworthyadministration of the law. He took no interest in the affairs ofthe empire, but talked of another king and his coming kingdom, andhe appeared to be an enemy to the Roman power. He held what appeared tobe secretmeetings, although the empire rigidly suppressed allsecret societies. He weakened the martial spirit of the soldier. Hedivided f amiUes — the basis of Roman society— against themselves. He wasa socialist leveller. He threatened with ruin all the tradesconnected with either the established worship — as amongst thesilversmiths at Ephesus — or with the luxuries and amusements of Ufe.Those amusements in circus or amphitheatre he hated, and thereforeappeared misanthropic. He not only stood aloof from the religiousobservances of the state and the household, but treated them withcontempt or abhorrence. Moreover, at this date, he refused toacknowledge the one great symbol of the imperial authority. Thiswasthe statue of the emperor. When that statue was set up in every town itwas not understood by any intelligent man that the emperor was actuallya god, or that, when incense was burnt before the statue, it wasbeing burned to the emperor himself as deity. But just as everyhouseholder had his attendant Genius'' — the power determining his vitalfunctions and well-being — which was often represented as a bustwith the man's own features, so the statue of the Augustus, ''HisHighness," represented the Genius of that Head of the State, and theoffering of incense was meant as an appeal to the Genius to keepthe emperor and the imperial power ''in health and wealth long tolive." The man who refused to make such an offering was necessarilyconsidered to be ill- disposed to the majesty and welfare of the Head oftheState, and therefore of the state itself. The Roman attitudetowards the early Christians was partly that of a modern governmenttowards Nihilists, and partly that of a generation or two ago to a blendof extreme Radical with extreme atheist.We are not here concernedwith the whole story of the persecution of the Christians, but only withthe situation at and immediately after the date we have chosen. Itis at least quite cer ain that when Nero burned the Christians in theyear 64 he was treating them, not as the adherents of a religion, but associal criminals or nuisances. How far his notions of Christianitymay have been influenced by Poppaea we do not know. At least he believedhe was pleasing the populace. Grice: “Conte quotes from Aristotle’sSoph. El. On the ‘homonimia’ of deon’ – “sometimes for the good, but sometimesfor the bad.” Conte distinguishes between semantic ambiguity – surely ‘must’ orthe imperative mode does not have TWO senses – and ambivalenza prammatica.Since Aristotle is refusing to use Frege’s idea of ‘Sinn’, and keep referringto ‘semeion’ (Latin segnare) rather, we may well conclude that Aristotle isjust Greek Grice. Conte does not dwell much on the imperative mode. Modoimperativo is qualified. Modo is qualified as being modo verbale – the mode ofthe verb impero. But then the future in French has a ‘valore imperativo.’ Conteis more interested in the ‘must.’ But surely his quoting from Philippa Foot andhis joint work with von Wright into Kant’s hypo versus cate is very Griceian! Ontop, Conte has a taste for local historical analysis and has discovered somegems in some jurisprudential philosophers of his ‘paese’!” Amedeo Giovanni Conte. Keywords: ilsacrificio, the sorry story of deontic logic, fondatore della logica deonticaal Ghislieri di Pavia, il giuridico, giudicare, giuridicare, impiego, employ(as noun), employ-ment, empiegamento, Conte e Wright – Wright cited by Grice,alethic --. Wright on change cited by Grice in “Actions and Events”, MarioCasotti, Volere, Grice, Volere --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conte” –The Swimming-Pool Library. Conte.
Luigi Speranza -- Grice e Contestabile:la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di BRVNO al rogo – scuoladi Teano – filosofia casertese – filosofia campanese -- filosofia italiana –Luigi Speranza (Teano). Filosofo casertese. Filosofo campanese. Filosofoitaliano. Teano, Caserta, Campania. Grice: “I love Contestabile; I love aphilosopher with a sense of humour! At Oxford, it hasbecome increasingly difficult to laugh at people’s surnames! But ‘grice’ means‘pig,’ in Norwegian! – Anyway, Contestabile contests a revisionist account ofBruno’s life – “surely he wasn’t a coward – I know because of his links with theCampanella whom my family supported in his fight against the furriners!” Cacciatocon una telefonata» Intervista di Dino Martirano, Corriere della sera. Con ilPsi non ho ricoperto grandi incarichi ma ho avuto l'onore di essere stato amicodi Craxi. Mi mancherà la politica ma non è una tragedia. Torno ai miei studi,alla filosofia medioevale. Mi mancheranno certi momenti. Io, che ero stato nelPsi fin quando la procura della Repubblica lo ha sciolto, ricordo bene i mesitrascorsi al ministero della Giustizia: col ministro Biondi fummo iprotagonisti del tentativo fallito, però generoso, di riportare la giustiziasui binari della normalità. Sciolto il partito [Psi], chi si è fattomaomettano, chi ebreo, chi cattolico. Però sempre socialisti siamo rimasti. Avvocatoe politico italiano Sottosegretario di Stato del Ministero della GiustiziaPresidente Berlusconi Predecessore Sorice Successore Mirone Vicepresidente delSenato della Repubblica Presidente Mancino Senatore della Repubblica ItalianaLegislature Gruppo parlamentare Forza Italia Circoscrizione Lombardia Collegio CiniselloBalsamo, Vigevano Incarichi parlamentari Sottosegretario di Stato per la graziae giustizia Sito istituzionale Dati generali Partito politico FI Titolo distudio Laurea in giurisprudenza Professione avvocato. Avvocato e politicoitaliano. Laureato in giurisprudenza,esercita la professione di avvocato. Entra in politica iscrivendosi al PartitoSocialista Italiano (partito a cui è appartenuto fino agli eventi che hannotravolto tale formazione politica)[1]. In seguito aderisce a Forza Italia,affermando che in tale movimento politico l'area socialista era ben accolta erappresentata. Viene eletto senatore ed è rieletto anche nelle due successivelegislature. Vicepresidente del Senato. Incarichi parlamentariModifica Ha fattoparte delle seguenti commissioni parlamentari: Affari costituzionali egiustizia; Difesa. Membro, inoltre, della giunta per le elezioni e immunitàparlamentari. Sottosegretario di StatoModifica È stato sottosegretario diStato per la Grazia e giustizia nel primo governo di Silvio Berlusconi. Tutti ifigli e i figliastri del garofano. su qn.quotidiano.net. Adnkronos - Psi: C. aDe Michelis, noi stiamo bene in FI ^ Senato - XIII legislatura Voci correlate ModificaGoverno Berlusconi I Partito Socialista Italiano C., su Senato.it - legislatura, Parlamentoitaliano. C., su Senato.it - XIII legislatura, Parlamento italiano. DomenicoContestabile, su Senato.it - legislatura, Parlamento italiano. BiografiePortale Biografie Politica Portale Politica Socialismo Portale Socialismo. PAGINECORRELATE Fabrizio Cicchitto politico italiano Maceratini politico eavvocato italiano Scamarcio politico italiano Altre saggi:Bruno: una revisione contestata” – La storia della filosofia è continuarevisione, e non mi scandalizzo per il revisionismo bruniano. Mi sembra peròche questi non colga nel segno. La vita diBruno, dalla fuga da S. DomenicoMaggiore a Napoli fino al rogo di Campo dei Fiori a Roma, è di singolarecoerenza. È una vita “contro”. L’accusa implicita di opportunismo mi sembraperciò singolare. E’ vero che, durante il processo, ritratta molte sue tesi, eavrebbe avuto salva la vita se continua in questo atteggiamento. Alla fine peròsi stanca, e scolge lucidamente di morire.È opportunista chi cerca solodi salvare la pelle, e poi decide di morire perché ritiene che il suoi giudiceha esagerato? In quanto alla tesi sul Bruno spia elisabettiana, essa non è provata,anzi è smentita dalla comparazione tra la grafia di Bruno e quella deibiglietti di spionaggio. Infine, la tesi a proposito della relazione traCampanella e Bruno non mi ha mai convinto. Campanella (la sua rivolta e finanziatadalla nobile famiglia C., come ricorda Firpo nel suo ottimo saggio sul processoa Campanella) vuole poi un regime “comunista”? A leggere “La città del sole”non si direbbe. (CA ui i) e iui Mia ba, VA dai ‘agiLS it Il EGR Ln i \ LA va Di = | Pome RmTe ti n. i Li I e Aa Kt Hlirpogt] lb pi n 9 ha So Rif [a E Ji> a ILLE di pe LIS ia Giordano Bruno DRAMMAMILANOTipografia Commercial n als dtt, TORIO EMANUELE,Carnevale.{Resta sapore PERSONAGGIBRUNO (si veda) Sig. G. SALASSALORENZO (figlio naturale di GIORDANO BRUNO, «dot- tato:da)..... ». > A.D'ANDRADE ROMANO DEI LOMBARDI «+. > F. MIGLIARA LEANDRO giovine patrizio. S.ra ANGIOLETTI LAURA figlia di ROMANO.>» A. Busi IL GRANDE INQUISITORE . Sig. SALVARANI ROCCO LILLEDAMIANI ANDREA. Ni agN° UNGUARDIANO) che nonparlano N.N. UN OsTE .. Ni Ni Giovani e Nobili Veneziani, Servi diRomano, Gondolieri, Seguaci di Bruno, Soldati, In- quisitori, SiServi del S. Uffizio, Frati e Popolo. L'azione del 1.° e 2.°Atto è in Veni quella del:3.° e 4.° Atto in Reber apieni Sofee bi; pece SUIT ZIA PIAZZA IN VENEZIA,Un’Osteria e alcune seggiole. In fondo un canale praticabile, chetraversa la scena. Sul canale un ponte, che mette in un viottolo,sull'angolo del quale sorge a destra, un magnifico Palazzo illumiminato a festa, prospiciente sul Canale. .Un in- gresso laterale,illuminato da faci fisse ai muri, con- ducedal viottolo nel Palazzo. Laporta principale verso . il Canale è aperta; durante la scena seguente,visi vedono approdare gondole, dalle quali scendono personeragguardevoli, che, ricevute dai servi, entrano nel Palazzo. Sera. i TI, GIOVANI eNOBILI VENEZIANI, parte ‘in abiti fanta- stici con mezza maschera alvolto, e parte in abiti comuni, vengono da sinistra, traversano ilponte, e dalla strada entrano nel Palazzo. LEANDRO, ROCCO ed altriGiovani vanno e vengono ferman- dosi sulla Piazza, cantando e ridendo,Poi LQ- RENZO e LAURA. Leandro (accompagnandosi collaghitarra) A te, Venezia bella, adorata, A te, mia sposa, laserenata. HEVVPETIAIAMITEREZI LIA VITE RENTAL rara rr ovinantosinezineneisevazizevecio sinioneee IVTIPRErTA:Itr rara rirevenaatos aes szereris cva:i0evice vi’ veve’ ’avurecovio sr 0uIvI vare ri [tti STA Hocco(Volgendosi all’osteria) Leandro, scuotiti! Le muraadori?... Vieni ove brillano Divini amori, Ove donzelleCotanto belle Potrai mirar. Coro dei nobili Al conviton’andiam! alla festa! Leandro Prima di venir allagran festa Distruggere io vo’ un'idea funesta! Oste, su viaporgetemi Vino di Cipro; a questo petto ardenteOccorre del piùvecchio e più potente. Vivan le belle Danzanti; volano. Gli occhifiammeggiano Più che le stelle; Ne’ Joro vortici Mi rubanVanima.... sui Crudo gioir! «__°’Più non mi muovoSuolodolcissimo, ir belt r__Frrrrrr n -a-rt-rvreorosoeeriovoe nueva zeranen sonia miseeeerarmierereriiovnieteacivoteote0ie Nido mio nuovo!Muoio in tue braccia... Santo delir! | A te, Veneziabella, adorata, A te, mia sposa, la serenata, Coro AI Convito! n’andiam alla festa. (S'appressano in una gondolaLAURA e LORENZO)Eaurna Sul mare immenso più non impera Nè sulla terra che la circonda.Venezia, è fango la tua bandiera! Lutto e nonfeste! Pianga e s’ asconda. Core (con alto di cu iosità)E un amante e la sua Della Chepasseggiano alla luna; Laura sembra la sua stella, Ma egli fa pocafortuna. Seguiam tutti i vaghi amanti, E vediam, se pur n’ èdato, In fra i suoni, i balli e i canti Di trovarl’innamorato. È Lorenzo di Giordano, Che fuggì dalsacro tempio ; lì Lorenzo... il vil, l’insano Che ne porge untriste esempio. Lorenzo (con ira) . È rivolta a mel’offesa? L’alma freme, batte il core! - Già suonaronl’ultim’ ore; - E voi tutti io sfiderò. Laura Erivolta a te I’effesa; rato L’alma freme, batte il core!... Giàsuonaron l'ultim’ ore Io con te li sfiderò. (LORENZO furente siscaglia contro ROCCO, e gli toglie la spada. Gli altri NOBILIsguainano. le proprie e si schierano în fondo) SCENAII. Detti, ROMANO dei LOMBARDI entra frettoloso dalla casadi destra, seguito da servi con torce accese, Bomano Chi grida? Chi chiama? Qual chiasso villano? Non son cîttadini, ma plebebriaca ! Lorenzo, tu?... Il ferro in mano hai snudato?....Parla! Che avvenne! Sei pazzo ?... Ti placa! Laura (atterrita alla vista delpadre) Che mai dirà Al Genitor?... paVoce nonha, Non ha più cor.Lorenzo (con timore) Che maidirò AI Genitor?... Voce non ho, Non ho più cor. Leandro (con circospezione) Il segno di croce facciamoci... eandiam via! Quel vecchio è uno sgherro dell’ Inquisizione.Partiamo, fuggiamo... La belva più ria, E un angelo a petto di questodemòne. Romane (ai Nobili) Non chiedo ragioni divostra contesa, Fra tenebre nacque... in tenebre resti; E calmi lanotte col sonno gli. ardori Di giovani folli, di stolti furori....Partite! Or è cauto lontani restar. Coro di Nobili (infimoriti daRomano). Fuggiam dal feroce Vegliardo Romano : Colfiato ne ammorba Il truce, l’insano; nea Quitutto è sospetto.... Amici, fuggìam.1 NOBILI, it CORO, LEANDRO eLAURA sì riti- rano pel ponte ed entrano nel Palazzo. L’OSTE hachiuso ed è scomparso durante la rissa, ROMANO fa un cenno ai Servi diallontanarsi. SCENA III. ROMANO e LORENZORomano Vengo, tu il sai, da Roma; e il Santo Re e Ponteficearmava il braccio mio. ‘Or sotto il ferreo terribil manto Dellasuprema Città di Dio L’ Inquisizione veneta sta; E a Roma soloubbidirà. Dell’ eresia le vampe infeste Soffocherò . tutte leteste D’ un colpo all’ idra io troncherò. Lorenzo Fuil Campanella scoperto e preso? Romano Libero ei 8° agita...Ma il gran sovrano De’ rei, che Italia e il mondo ha accesoControla Chiesa santa, è Giordano. Presso i suoi complici quì ascoso stà! Lorenzo Odio quel uomo tanto... tel giuro. Romano Non basta odiarlo: questo io non curo; Tu quìarrestarlo ora dovrai: (Musica da ballo neil’interno delPalazzo) In fra le maschere lo scoprirai, Ed il porrat nelle mie man. Lorenzo Sichiede un atto di traditor?... Romano Queste ai novizi prove sidan. Lorenzo Tradir ricuso; son uom d’onor. Romano (consdegno) A me tu, folle, devi? RANA RARA pinete Lorenzo Obbedienza ! Homano Ed alia Chiesa! Trema... .Lorenzo (soffocando il furore) Obbedienza! Romano Dunque?... Lorenzo (con sottomissione) Giordano io scoprirò! Eomano(ricomponendosi) Tuci giovanili e schictti Modi ti gioveran, semanca il senno Di età maggior, Tuo sguardo onestà; ispira, K assaitua voce ad ascoltarti attira. Per la grand’ opra non sarai solo,D’altri miei fidi 1’ aiuto avrai; Pronto a miei cenni sempresarai, Uno per ‘tutti sia il mio voler.Lorenzo (con dolore) L’iniqua trama ahi mi colpisce! La terra, il cielo pur n’hanno orror!... Vile è colui, ch’ altri tradisce, Nè v' hapietade pel traditor. ERomano (imperioso)Come voglio, siafatto. Or d’ altro; è m'’ odi. Dal dì che ardenti e improvidiSguardi su Laura hai posti, Travolto dalla subita Cicca passion tufosti; N | Una rea febbre 1° agita Tutte le membra osiolto, E vedo nel tuo volto Il fuoco del delir.Bada! io ti scruto, o giovine, E leggo il tuo desire; Guai se talfiamma ignobile Io non vedrò svanire. Tu sogni; ma chi vigilal'e per tuo ben consiglia; Dimentica mia figlia, O trema del tuoardir. (parte da sinistra mentre sì volge ancora con fierosguardo su LORENZO). Lorenzo (con dolore): SO Soloalfin... solo quì sono... Piangere, impallidir, tremar t’è datosaPovero cor! Ma dannate in eterno ei Son mie lacrime in lor focod'inferno. Ci i . . 0 cielo, perchè l’aere Fa A ._ ©. Spargide’ tuoi profumi? CRT a O terra perchè il giubilo. SADelle tue stelle assumi? © nare: A me negata è l'estasi. da D’ ognidolcezza umana, No: ae d'ogni gioia lè vana (ale EZIO Larva,che fugge ognor; TERIOS L’ amor che è riso d’ angioli, 0; DiNel povero mio cor. i Strazio divien di dèmone, WA Delirioagitator. pr | Amar non posso... 0° AARON] eta P, ‘L'odio mirestag» SS CE ao ag Son stretto a questa to; LR 1 sur aRatalità.EI _: Vò di te vincere. | Con santo zelo, .. Servir vo’ ilCielo... E questa l’ ultima. Mia volontà. (parte con fretta per ilponte).‘ Cala la Vela.arnie,onere ge oi SALA NELPALAZZO LOREDANO Una splendida sala da Ballo nel Palazzo diLore- dano a Venezia, con colonnato per modo che si possa figurarel’accesso in altre sale. Illuminazione splen- didissima. SCENA L Coro degl’Invitati ($ acc incantodell’ebbre sale! Che ballo immenso! Sarà immortale. Quest’ è lareggia della letizia; Il, paradiso. d’ ogni. delizia. Deh! nonfuggire, tempo; t’ arresta; Bearsi al lungo delir giocondo Dellafatata splendida festa Tutto in. Venezia vorrebbe il mondo.{Gl’invitati s'allontanano in varie parti) SCENA ILLBRUNOentra con cautela e colla maschera in mano, poi gliamici.drrezadzanzecezanconca n ionici oc. c0100 dnaenricicondiizeotentoro neo dan'ontooarcrroniòolo /Tasos signor cecanzara anee Giordano Quì ognun danza e delira Spensierato edemente. E niun ragiona, E senno e cuore ha niuno. xtutto quì è in periglio, ove il Leone Alato di San MarcoProstrato dalla Santa Inquisizione Ai piè, scordò ilruggito Di cui tremò per secoli ogni lito (volgendosi infondo) Ecco gli amici: ma assai lenti e scarsi. Alcuni deiPrimi Luce! Giordano Giustizia a tutti! E Primi Everità! Alcuni dei Secondi [venendo oltre) Luce! Giordano Giustizia a tuttiE Secondi E libertà!Giordano Grazie diletti ! Sian pochi i detti; Moltal’opra. A ingannar V'astuta Corio Dei biechi Inquisitori Ho sceltoqueste sale Di Loredano. È pronto ognuno ? CoroOgnuno! Giordano L’ ardir pari del vero allagrandezza? Ed uniti? Coro Siam tuoi, GiordanoBruno! Giordano e Coro Nel popol vero s’ incominci 1’opra: S° illumini! Bugiarda è la parola Di Roma e ilsuo Re, che Dio si noma, Sull’ alma i Papi vogliono l’ imperoPer posseder la terra; E coi libri e col braccio ttViva facciasi ovunque eterna guerra Allo spirito, al verbo, aogni menzogna, Con che farci suoi schiavi Roma agogna SCENAIII. DETTI e LAURA che entra anelante dalla sinistra collamaschera in mano.Enura Signor, fuggite! Giordano Io?no! non fuggo. Coro (insospettito) Fuggiamo.... È pazzo!(fuggono da va»ie aio Giordano (con ira) Vili! Tu hai fede? (aLaura) ERaunna (sempre ancelante) Gran Dio! In questesale Circondavi un estremo ‘ Periglio. Per voi tremo...Fuggite per pietà. IIIEEZZZERETET TEZIEXIZZELUPPEE PE CETO CE TI CE CESCECI ICI IA CIT ALIZICI AZIO LETO EI Va besasnza rea dI gra rirvaraition Giordano (simulando) Fuggir?... Da chi fuggire? Laura Da tutti! I delatori, Cui fia virtùtradire, Vi cercano là fuori... Son mille a me bennoti, Fierissimi e devoti Al sacro Tribunal. Giordano (sorpreso) Mi conoscete? Eguana APadova Vi scorsi il«dì che ardito Nel fiume vi gettaste, E unfanciullin tornaste Vivo al materno sen. L’ Inquisizionseguiavi Co’ mille sgherri suoi Per arrestarvi; e voi Tra ilpopolo festante Poteste in un istante Securo allor fuggir. Giordano (simulando la calma) Bruno era quegli, che allormiraste! Io non lo sono!... Mal giudicaste, i Laura (sorpresa) Credetti... ho divinato! © ; Voisiete il gran filosofo. Giordano Oh certo s’ èingannato Il vostro giovin cor. Laura Perdonate se unlembo alzo del velo, Che a me vasconde... (solleva: dl velo) Io v'ho scoperto!... siete... Celarvi non potete... Giordano E chison io? Laura Giordano Bruno, cittadin diNola!Durante quest’ultimo colloquio, LORENZO entra da destra, LEANDROda sinistra; si fermano in - fondo, e, non veduti funno alto diattenzione). “erimmiberarisisaorizeoeee Mi nisi bro aravrariszazazezea ripa paio : Lorenza ngi Ho. inmani, alfin 1, dai i ‘Ch’ ha Italia avvelenato; ‘Salvo da Inimille: anime! a Il mondo mi sia. EH 9 Leandro (LormNZO | consimulata ironia) % TAL il salverài, mia “tnamo, | ) Èquegli'il gran? ; Filosofo) di Il celebre Giordanb. VESTA DalTribunal del Dèmoni Ù 401 1 PR. E O ARNO E ‘JRARE. | Baura (| ‘801 ‘presa vi ala PISAE) | dia 39 DS IDE Lorenzo! dui GicoL.. (a o pi di te-che mai sarà? F a iI Gietiala (con dolore) Fui tradito!..-Oh cerudoltà So IV I Santo phrto) Tana ‘in Cactpnsedeg Di palpiti, di ladina, Tempo,non è, mio cuore; .: .Salvarlo,fat Miracoli. DERE eo -0t devo ame l'amore. OL DI Giordano© La luce tua mi sfolgora, Fanciulla,nel pensiero; Se il mio profeta! Libero Trionferà il miovero. (poi fissando LORENZO) Quel volto! V° è 1’immagine Impressa di Teresa... Misto è quel volto... eannunziami La gioia ed il dolor! (Prendendo per manoLORENZO) Giovane, dimmi: sei tu di Roma? La tua favella meldice... Parla! Dimmi: tua madre come sì noma? Teresaforse? Lorenzo Teresa?... Sì! In fondo appare ROMANOcon SERVI e SOLDATI poi vengono gl’Invitati).Giordano L’ inquisizione! Oh quale orror! (a Lorenzo) E tu con essa? Ah traditor!o Io a te la vita diedi... e la morte - Tu, iniquo, appresti alGenitor!... A te l’ inferno schiuda le porte... Sii maledetto, vildelator. fekresrey=neoan0enencastec pregsoneeaossog @zorrorerovrseereeeericrone cer csvpirtetronertpariosonnen contiene nanenene Lorenzo Tu... padre mio? Che mai feci io!... Padre,perdonami _Se pur ancora ‘ Merto pietà. GU INVITATI cheriappariscono da destra e sinistra e detti. GI Envitati eLeandro La festa è orrenda! Fuggiamo tutti; Qualtradimenti! > > Keco distrutti --- Degl’ innocentiGli almi piacer. HEomano Grazie, o Ciel! Nelle miemani Or Giordane io vedo tratto! Roma esulti...! Il suo desìoFinalmente è soddisfatto. Lerenzo Orrenda infamia! Tuil. padre mio?... Ah me infelice! Che mai fec? io! Padre,perdonami... O Ciel, pietà!ERA EeIOrtitiezast:nuvo cene cenvinariesazyaza cc uPONPPA PESSANO MT RI Laura (a BRUNO)Delleamarezze il calice Berrò con te, Giordano; Già in senoil duolo squarciami Il core a brano a brano; Peno per te, pelfiglio Mio primo e solo amor. Leandro Ohcome ovunque penetra La santa Inquisizione ! Come saràterribile La sua imputazione ! In lui perdiamo unfiglio, Che della patria è onor.Giordano (4 LAURA) Ahno! Laura, non piangere... Giordano ha l’alma forte ! PelVero è pronto a vincere Il duolo pur di morte! Dio deh!ritorna il figlio A Laura e al Genitor, Lorenzo Sento nel seno piovermi D'un aspro duol le stille!... Il padre...oh! il padre scorgere ab 0); Temon le miepupille! Com'è infelice un figlio Ribelle al genitor!Romano Entro mi serpe un fremito, Che mi sconvolge ilcore, Veggendo quest’ eretico Di scismi banditore,Che, della Chiesa*figlio, Divenne traditor! LeandroTu piangi?... Incauto, a Lui {affida Pel suo perdono;ma l’alma infida Nel suo rimorso gran pena avrà. Coro(a LORENZO) Che piangi?... Ognuno vile ti grida; Se’ untraditor; se’ un parricida! Nè Dio, nè il mondo n’avran pietà. (I SOLDATI circondano GIORDANO e cala la tela/. IITTTTAAEIAIII RA CORTI Affo CerzoIN ROMA Sala nel palazzo dell’Inquisizione. In fondo, nel mezzo della parete unacortina nera che chiudela scena, A sinistra una finestra aperta conferriata. In fondo un tavolo coperto con un tappeto nero, a cuisiedono il grande INQUISITORE e DUE SCRIVANI; ai lati siedonogl’INQUISITORI, e, di fronte, BRUNO, R0MANO e LORENZO, Porte a destra e a sinistra. SCENA I. Romano {> iordano! Voi siete’ D’innanzi ai vostri giudici, al supremo Tribunal della terra! E quidovete, Smésso l’antico stile, Risponder vero, obbediente,umile. “cà ra G. Inquisitore Vostro nome èGiordan Bruno? Giordano Di Nola. mrantsiorizea nano AMDI ATTI ANI ANAZANAZA NZ RATTI TIT IATA TERI riprenpaniananan ananarenaenzanaG. Inquisitore Vi conosciamo!Voi correste in terre D’eretici; lè in Praga, in Francoforte. ‘ Epredicaste spesso agl’ infedeli La santissima Chiesadileggiando Di Roma, tutti i novator germani Esaltando. D’Iddio 1’ essenza in false Forme sponeste; come v’ inspiravaMal talento. D’ Iddio la legge in pubblici E in segreti convegnicommentaste; Le coscienze fùr guaste. Giordano Mentite! Solo io dissi agli uomini Il mondo ha unavisiera Di antiche, immense tenebre ; Cerchi la luce vera.Dio vuol che l’uomo spinga L’acuta sua pupilla Fin dove in cielobrilla L’eterno suo splendor. Coro d’Inquisitori D’ anime felle Empia utopia! Il tuo, ribelle, Un Dionon è. Non ha che larve - Tua fantasia; .0 et gi ver disparve ; “Se in eresia ft foi AI fuoco, ‘al fuoco: © Sia condannato! 1 “REP carcer. poco,s ra ! tal OmpIO, egli de (Si apre la cortina’ dalla’ quale‘escono pina DTA io GRANDE INQUISITORE, quindi ROMANO, poi gliSCRIVANI, ‘gi ISQUISITORI, ed sea pIoR-SSf DANÒ accompagnato, dalleGUARDIE. : Gala la cortina e solo LORENZO rimane în‘scend),DÒ dt e Laura 01,3 (LAURA entra dalla'sinisird e presi itasi) di LORENZO | in atto supplichevole). SÉ Roe dia eor ATI v Rat Laura! moi (HI dÉ tiaKoi i È et Loréiizo i «105si vo MREPSRI RATA GIL Lorenzo Diea DO Ur PA Ale 2 i sd Met: la "I Che vuoi tut ot Raid) fai I nSetdi o SERRA 2 Senti la ToRe.e. un uomoRico tu soi. “ rE: Lorenzo Tinura! Da meche brami? Sento straziarmi il cuore... Laura Ah! tu il padre salvar déi, Se una belva ancor non sei. Lorenzo Tact Laura! Il ver dicesti È mio padre! Io losentìa Quando'.il labbro suo: terribile. Me colpevolemaledia. È mio padre! Ancor lo sento AI perenne! e fiertormento.‘ ©’ Che m’ opprime e strazia il cor. Laura | Pietà del misero. Tuo genitor. LorenzoL’accento tuo terribile E un dardo al traditor. ebicLaura Lorenzo. it i #1) Ma shananorazi scenza sanacenencacaeecena sane oeanconeesccnionaaceaeae@ce0cui0reò’npsQa”ncceinci’’’ ne Agpipmpasrssssso Lorenzo Nol posso! Laura Va da melungi, o perfido, Se nieghi al genitor Salvar lavita. E sorga il dì terribile Che ognuno, otraditor, Ti nieghi aita. Lorenzo Taci!....e che far poss’ io? Laura Aiutarmi a salvarlo; tu lopuoi! ‘Ei fugga da quell’ orrida Fossa in serena terra,Ove su lui degli uomini Taccia sì cruda guerra. Ove un deméncarnefice Non trovi nell’ amico, Nel figlio, un traditor; Oveil sovran suo spirito Onnipotente e pio Possa inalzarsilibero Di tutti al Padre, a Dio; E riabbracciar qui unfiglio,Che traviò pentito, Stringendolo al suo cor. . pra,im masasena nanasasesc’poossoncostor09posporooscoesaesose®Lorenzo Quell’ardire, che in volto a te brilla, La speranza,la fede m' ispira: E una sacra, divina favilla Dellafiamma, che tarde nel cor. Raura e Lorenzo (assieme) Con te nutro la credula speme, Che a giustizia il trionfo sorrida;Siamo uniti per vincere insieme Od insieme da forti morir.(partono). Muta la scena. Carceredi BRUNO con porte in fondo: dentro vedesi un giaciglio di pietra, unaseg- giola ed un tavolo su cuì arde una lampada. A sinistra una scala da cui siaccede agli Uftizii del- l’ Inquisizione.Giordane (seduto sulgiaciglio) «Ecco, o Roma, l’eretico In questo tetrocarcere rinchiuso ! Del sangue suo dissetinsi I tuoiInquisitori Ebbri di gioia in lor ciechi furori! (GleasoSul rabido rogo dall’empio innalzato La fiamma divampasanguigna e stridente, Ma in mezzo all'incendio securàpossente Del martire invitto la voce s’ udrà. Il rogo nonstrugge la libera idea; Ma, eternafenice risorge o sfavilla;Delvasto creato nel verbo s'inslillaTe dense tenebre del mondo afugar. In mano ai carnefici chi, miser, mi trasse, Tu fosti, miofiglio; tu sli maledetto ' 9 Ma nomaledirti, + ma no, nol poss’io: La morte è un trionfo per me, figlio mio! SCENA IV. LORENZO apre con furia la porta del fondo che mette nel carcere;indi entra anche LAURA. Entrambi «$0NO Raealii in domino nero come iservi del- V’ Inquisizione. Lorenzo (di piedi di BRUNO)Padre mio! Tuo figlio... Giordano Non sogno!Lorenzo Si, son io, ch’ hai maledetto ; Ma figlio tuo! Ripeti unaltra volta La tua maledizione i Coll’ accento d’ un padre, ed almio cuore Più cara suonerà di quel che fora Del sacerdote labenedizione ; Ah! lasciami morir a pieid tuoi. TIrCItIVISIÀpoorrcensersantisaazuztt=veSnII=TIERERA TATE conuaca riv ertaziori (apusa rarara zar sara ra bist enaneronesane ‘GiordanoFelice è un talmomento! A me t’ adusse Iddio; Ora tu sei redento! M’abbraccia, o figlio mio.LorenzoPadro' i] mio cuore un balsamoNella tua voce trova! Col tuo perdon risorgere Misembra a vita nuova.Laura Redento il figlio,accoglierlo Ben può il paterno core; Quale inattesa grazia!.., Disparve ogni terrore. Mutti (inginocchiandosi) Gran Dio, che fra le angoscie Apri a quest’ alma il riso,E mesci ai loro spasimi In terra un paradiso. Ate, che i santi vincoli Riannodi di natura, Salga da questemura L’ inno de’ nostri cor. Giordano (STO ER Dalfondo del cor mio 2/0 SARA Grazie a te sien, gran Dio! a Pi E | re k » à, s ER wr: DETTI, e ROMANO, chepresentasi in cima della >° dente. Fissa collosguardo LORENZO, indi scende rapidamente. Lo seguono il GUARDIANORetles va x carceri e i SERVI del S. UHEIZIO: - da si‘Romano < È Come tu qui?... La figlia ancor Di vedo, ea Oh miofurore ' eco 3 F : x Laura e Lorenzo 00 o O qual terror! > ua| » Romano È ‘ Giiordano..- Questa ou fatale a me una figliann dio Spa ma a te la vita. (LEANDRO, il GUARDIANO delle carceri eiSERVI. del S. UFFIZIO mascherati ed armati si ap- dpressano). Lg i VEL7 Pi AE Li unisoseorevrespropeosovo Romano (a BRUNO) Trencar ti voglio, qual vilestelo; Delle tue carni la terra e il Cielo Io colle fiammeconsolerò. Lorenzo Ed io fidato m’ ero a tal jena ?Tutto l’inferno qui si scatena, E cielo e terra han di te orror.Laura e Leandro Sublime martire! La tua gran vitaTronca in un lampo tra l’infinita Gioia... Qual strazio sento nelcor! Giordano Del mio carnefice sul volto scritto Sta collivore il suo delitto; Solo dal Cielo giustizia avrò. Romano(a° Soldati) Innanzi al Tribunal condotto sia. Coro (Servi eSoldati) S'innalza un turbineDi guai novelli. Su de’fratelli Tratti in error. E l’empio eretico < «N° èlavcagionez 9:13 <L Maledizione Sul corruttor! Al rogoignifico ‘ Condotto Sia. © Chi l’eresia Tra noi portò. Leggeinviolabile Il turbolento A tal tormento Già condannò.RIC FROCIO RA ATONTAITA Atto QuartoGran sala nelPalazzo dell’Inquisizione in Roma. Nel fondo una Galleria apertàsostenuta da colonne, fra ile quali: si, aprono grandi fin:stre chelasciano tra- vedere le cupole e i colli di Roma. Porta: a de- stra e a sinistra. Nelmazzo un tavolo con quattrocandelabri. Siedono al tavolo il grandeINQUI- SITORE, ROMANO e ) UE SCRIVANI.DUE SERVI «ai. lati, quindi gl’ INQUISITORI, i SCENAI. Coro d'Inquisitori || |) eo nembo dall’aere pioveLupa ' Di Giordano su:l’empia cervice! "Non v'ha niun chel’appelli infelice, Non v'ha cor che si muova a pietà. Prontoè il rogo, la fiamma divampa... E pur essa la vittima è pronta!AI gran Nome Cristiano quest’onta. Or. dal fuoco purgata sarà.} SCENA II, Giordano (appressandosi). O sommoInquisitor! Giunta è l'estrema Ora, che me a gran prova. al rogo.appella! G. Inquisitore (alle guardie) Fuor della porta vigilate! (le guardie e i servi partono) O Bruno DiNola! Quest’ è 1’ ora che vi chiama Alla prova del fuoco.... a morte....0 a vita Lieta d'ogni uom nel mondo! E a voi concesso Ciò e’ hanessuno fu giammai; la scelta Fra la vita e la morte!Scegliete. Ein, vostre man la vostra sorte!Giordano (Mi tentan!) Che si vuol dams? Parlate. G. Inquisitore Qui in faccia a tutti,dichiararvi figlio Della Romana Chiesa ora e in eterno E vi doniamla vita; rimarrete Prigion; ma al figlio libertà darete!Giordano. Dèmonetentator! Nol vò.... nol posso! G. Inquisitore (qa RomaANO)] Perduto! Udiste ?... La sentenza è data!(Parte coi servi, Le guardiecircondano GIORDANO e partono. Romano (in preda a soffocatosdegno). Cieco sirumento io sono all’empie voglie Dicostoro! Ubbidir sempre... e frattanto Spezzare di mia figlia il vergincore, Serbando la mia vita al lutto e al pianto! O Laura, tul’adori D’averno il rio Filosofo, Che con l'accento magicoTuo cuor conquise già. Or ei morrà sul rogo!... Ma temo per miafiglia. Dal duol trafitta, all’empio Vicina ella cadrà!... Senza lafiglia, il padre Più viver non potrà. To l’adoro! In leiTiposi Ogni speme ed ogni alta; La mia luce, la mia vita Conla sua si spegnerà. Volgi, o Dio su me, su lei Un tuo sguardoprotettor, E la figlia, che perdei Deh! ridona algenitor.(ROMANO parte da sinistra e nell'uscire si. moontra conLAURA).Laura (apprdssandosi ‘a ROMANO) Ah! padre caro, mibenedici! Quel divin spirto, che t’empie il core, Io pur lo sento!Odio i nemici Di quel gran ùomo;-che' giùsto muore. Ma tu, che. il puoi,deh! tu lo salva;; Se Do, «con Lui io morirò. : (Romano La rea fiamma, che in cor ti VE Per chi scuote de’Papi l’impero, Sulla fronte il delitto’ ti Stampa Che tu svolgi nelcupo pensiero... “Salvo tu vuoi Giordano ? Iniqua ! Nolsperar... tu Il chiedi > invano. i (parte) Laura (condisperazione) Più di salvarlo non v' ha speranza! L’ala nel tempo batte spietata! Ah! la fatale ora 8° avanza. i Con teGiordano io morirò. ( prende il veleno) A morte infame traggono. ;L’ apostolo del vero; Ma dal suo rogo. pallida; | La fiamma sorgerà.Che sovra. il cieco popolo... La luce porterà; COLERENè piùpotrassi spegnere Quel fuoco che foriero Sarà di libertà. | Coro frecta judicate filù hominum Laura Quaivoci ascolto! Lugubre E questo il canto estremo, Ch’ ora alsupplizio adduce- L’apostolo del Ver. Coro Rectajudicate fili hominum Laura Con te Giordano! Morirvoglio! Al gaudio tuo volar desio.SCENA Ve {LORENZO e LEANDROcol corteo funebre s’inol- trano nella scena. GIORDANO Tifo, le guardiesi fa avanti nel mezzo). Giordano. Gran Dio! la vittima. Tuvedi pronta Il rogo a scendere \a 1 1 Per la tua,fe;CERRI TERA ee L'ira de’ perfidi, Ovunque.conta, Oggi terribile Piombò su di me. Coro Etenim in corde iniquilates operamini; Injustitias manus vestraeconcinnant.Lorenzo. Si squarcino le tenebre Or dell’umanpensiero, E torni vivo a splendere Il sol di verità, Chestrugga alla tirannide L’ atroce maestà, E’ incenerisca ifulmini Del mistico nocchiero Nella futura età.. Giordano eLeandro Da’ rei carnefici Il rogo ardente Pel nuovomartire E posto là; Ma la giustizia Di Dio clemente Lebraccia schiudere A Lui vorrà. BRUNO circondato ddlle guardie parte colcorteo. Leandro, Cero (partendo) In terra injustitias manus.vestrae concinnant.(LORENZO s’appressa a LAURA, che si troverd,vicina. a ROMANO), i Lorenzo (con disperazione) O Padre, addio. Per me l’estrema Ora fatale suonata è già?Guarda tuo figlio, che più non trema Nel vendicare la verità.A me di Laura l’amor fu tolto : Perchè un mistero buiosognai... Ah! padre, credilo, tutto: ignorai; Solo or la lucescorgo del Ver.ER omamno Lorenzo! Lorenzo[trattosi dall’ abito uu pugnale, si ferisce. Laura! Laura (riavendosiavvicinasi a LORENZO) Al gaudio Ei vola. Romane (sorreggendoLORENZO) Serbate a quanti spasimi E il povero mio cor? o aaravai -ercerecote e meriei ve oraconcorsoee «n -peacee -LilsSTFri= pone rete na dor e.LorenzoÈ tardi, o padre, ilpiangere... . Anche Lorenzo... muor! (gli cadde aipiedi).Romano./Odesi “una campana a lenti rintocchi;avvicinandosi a LAURA e sorreggendola/ Orribil pena mistrazia il core... Un disumano fui genitore...! Non v’ha infeliceal par di me! Laura (presso LORENZO) Lieta è quest’ora... della mia vita... Bel paradiso la via... m’ additaGiordano.... Io volo... In ciel... con tel (Da una finestravedonsi le fiamme del rogo, ed un urlo di popolo annunzia la finedello spettacolo. Cala la tela], op de nia - oevr 2A SNDI LESANIA AL TR I RRIA Ji ) _ DE saNI Ao AME Ta0 “Si 1 iLVPI, | ati Lion "Ulci Li TR PSR = Hi (i dI - Un pi Hi3 i si f VI % Y, ILA } 4 ” ; A Yy 4Pi f f lo L É } 1} Ì ; A ADomenico Contestabile.Keywords: BRVNO, nobilita italiana, la famiglia Contestabile financia larivolta di Campanella -- filosofia medioevale, Bruno, il melodramma. Refs.:Luigi Speranza, “Grice e Contestabile” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Conti: laragione conversazionale e l’implicatura conversazionale VIRGILIANA – La nuditàeroica d’Enea -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice:“Conti is a good one – he reminds me of Bosanquet and Pater – the decadents inItaly came AFTER them at Oxford! Conti philosophised on many aestheticsubjects, such as man, masculinity, and maleness --!” Di una famigliaoriginaria di Arpino, dove frequenta il locale liceo. Si ccupa di filosofiaestetica. D'Annunzio lo cita nel “Giovanni episcopo” e si ispira a lui per ‘DanieleGlauro’ in “Il fuoco”. Insegna a Firenze presso la Galleria degli Uffizi ed aVenezia presso l'Accademia di Belle Arti. Saggio: “Zorzi; o Giorgione –l’estetica di Zorzi” -- Tornato a Firenze, “La beata riva”, raccolta di saggiche delineavano la sua concezione critica ed estetica, ispirata dichiaratamentea Platone, Kant e Schopenhauer. La prefazione fu curata d’Annunzio, il qualescrive di stimare molto Conti e di ammirare il suo “ascetismo” estetico. Direttore delle Antichità di Roma. Direttoredella Reggia di Capodimonte a Napoli. Si ispirò alla poetica del filosofooxoniese Pater e Ruskin. Altre saggi: “Giorgione,Firenze, F.lli Alinari, “Catalogo raggionato delle regie gallerie di Venezia,Venezia, Tip. L. Merlo); La beata riva, Milano, F.lli Treves); Sul fiume deltempo, Napoli, R. Ricciardi); “Dopo il canto delle Sirene, Napoli, R.Ricciardi); Domenico Morelli, Napoli, Edizioni d'arte Renzo Ruggiero); “SanFrancesco, con un saggio di Giovanni Papini, Firenze, Vallecchi); “Virgiliodolcissimo padre, Napoli, R. Ricciardi). Praz nota che Parodi era solitoleggere La beata riva di Conti prima di addormentarsi; quando morì, la letturanon era stata ancora terminata. DizionarioBiografico degli Italiani, Forme del tragico nel teatro italiano. Modelli dellatradizione e riscritture originali,Romantici, vittoriani, decadenti – filosofodecadente – decadentismo -- e museo dannunziano, in Bellezza e bizzarria – ilbello e il bizzarro., Croce, La letteratura della nuova Italia, MarcelloCarlino.C., Due conviti di Mattia Preti, Bollettino d'Arte. Io vengo dalmare di Napoli e sono tornato qui a rivedere la primavera. Non c'è nessunaaltra città in cui, come in questa, il rifiorire degli alberi e delle siepi siaccordi con la giovinezza delle opere del genio umano, nessuna ove, come qui,la Primavera sembri rimanere per un istante velata, per poi riapparire pilifulgida e piìi lieta, al ritorno dei venti che spirano dalle colline e recano inuovi fiori. Sono anche giunto fra voi, per parlarvi della pittura di Leonardo.Ma il mio compito, dopo la lettura deirillustre scrittore francese che m' hapreceduto, sarebbe oggi, non dico diffìcile, ma quasi vano, se le mie ideefossero affini alle sue ed egli fosse vicino al mio pensiero come io sonovicino al suo aff'etto per questa nobile terra toscana, ove l'arte hacontinuato la grazia gentile e la pura bellezza della natura. Diversità dipensare e anche d'immaginare mi rendono oggi possibile esprimere qualche cosa avoi forse non detta, e combattere qualche affermazione troppo lontana dalla miasicura fede. Leonardo è il discepolo del Vermocchio. Ora, che cosa poteva egliapprendere dal suo grande maestro? Non certamente l'arte, la quale non siapprende e non si insegna. Quale uomo, che sappia che cosa è l'arte, potrà maipensare alla possibilità di creare con l'insegnamento un pittore, un musicista,un poeta? La natura sola genera gli artisti, e l'uomo al pili può aiutarli atrovare i mezzi d'esprimere la parola ch'essi son destinati a pronunziare nelmondo. Il maestro, al discepolo suo, nato artista, può dire: " Il tuocuore è impaziente d'indugi, tu sei nato per il canto o per la espressioneplastica o per la espressione mediante il colore della tua gioia o della tuaamarezza; guarda, ecco il dizionario che contiene le parole di ogni umanodiscorso, ecco la tavolozza sulla quale io appresi a mescolare i colori cheimitano la bellezza del cielo, della terra e del mare; ecco in qual modo simodella la creta, affinchè dall'informe materia apparisca viva dinanzi a noi l'immagine dell'uomo. Questi sono i mezzi, che io ti posso indicare; ma ildiscorso, il canto, il soffio debbono essere tuoi, né io te li posso insegnare„. Ogni opera d'arte è, rispetto alle opere precedenti, una cosa diversa enuova, nella quale, se pure sono entrati, alcuni elementi precedenti e preesistenti,hanno mutato natura, si sono trasformati in parti di quel tutto inatteso eprodigioso che si chiama la creazione artistica. Chi non sa che in Leonardoappare un' immagine del sorriso che si mostra appena accennato sulle labbra delgiovinetto Davide del Verrocchio? Si, appare, ma è un riHesso che illumina unaltro mondo; poiché questo riso, ricomparendo dalle labbra dell'eroeadolescente sul viso e negli occhi della Gioconda, diviene il mistero dellaseduzione femminile, una grazia insidiosa e un periglio, un'armonia che nascedall'espressione d'iin volto, si diffonde verso il paese lontano e attira ilcontemplatore. Il sorriso verrocchiesco è in Leonardo come nn brano di Plutarcoin Shakespeare. Or chi oserebbe dire che l'immortale tragico inglese derivi daPlutarco? Leonardo e il Yerrocchio sono due artisti assolutamente distinti, cheparlano un linguaggio interamente diverso e che, se somigliano esteriormente inqualche cosa, hanno due anime quasi opposte, chiusa l'una nella sua idea dibellezza e di stile, l'altra aperta a tutte le manifestazioni della natura edella vita, in una continua ansietà di fissarne l'immagine mutevole con lasemplicità del segno rivelatore. Noi viviamo pur troppo in un triste momentodella vita, poiché la maggior parte degli uomini ai quali parliamo non sannoche cosa sia l'arte, e lo Stato crede a chi meno vede. Non è forse ancorapossibile vincere una così detta scuola di critica scientifica, fondata sull'errore già accennato e chiusa nella rete del pregiudizio cronologico. A coloroche ancora credono alle influenze sugli spiriti geniali e alla necessità inarte di una classificazione come in botanica, noi possiamo trionfalmenterispondere con Leonardo che l'artista genera le sue opere qual fanno le cose.Egli deve creare come fa la natura, e le sue opere superare e cancelUxre isegni del tempo che passa. Un quadro, una statua, un edifizio debbono nascerecome le selve e apparire come le albe. Or chi penserà all'epoca d'una primaverao d'un ciclo stellato? Non c'è opera d'arte geniale che venga per noi dalpassato lontano, come non e' è indizio di vetustà nelle montagne e nella aereaarchitettura delle nubi. Dinanzi all'umanità che passa, il genio si ferma erende eterna la sua traccia come è nel cielo il cammino delle stelle. Aveteudito il canto dcirusignolo? Lo riudirete in tutte le primavere. Il genio vifarà sempre udire la sua voce fresca e giovanile come nella stagion nuova dellaterra il canto dell'usignolo. Aprite Virgilio: ecco, è l'alba e cantano leallodole, è una notte serena, e l'uomo si perde nella luce lunare. ApriteDante, e siete nell'eternità della vita. Ivi nulla dilegua, nessuna cosainvecchia o perisce, e noi stessi, -accanto a quelle grandi anime, siamo per unistante fuori del tempo. Questo momento di liberazione provai per la primavolta alcuni anni or sono a Milano, trovandomi dinanzi alla Cena, nel conventodi Santa Maria delle Grazie. Vidi il capolavoro nella medesima ora indicatadalla luce clie lo illumina dal fondo, tanto che mi fu d'un tratto facilesuperare i mille e piìi anni passati e trovarmi presente alla scena Gesù eraseduto nel centro del convito e da poco avea prò nunziato le parole: qualcunodi voi mi tradira. I convitati a destra e a manca s'erano ritratti e aggruppatiin tumulto lasciando nel mezzo Gesù solo, con la sua tristezza infinita La salaera piena di gesti concitati e di ansiose interrogazioni. Il Maestro solo eracalmo e la sua figura, sul paese che gli s'apriva lontano alle spalle, eraimmobile. Ma qual dramma in quella immobilità ! Mentre la sua mano destra,lievemente contratta, esprimeva un istante di ribellione e come un istintivomoto d'ira, la sinistra nel momento successivo s'abbandonava col dorso poggiatosulla tavola e le dita allungate, esprimendo la rassegnaziona e il perdono. Gliocchi abbassati non guardavano e non vedevano nulla di ciò che era presente, macontemplavano internamente il grande spettacolo del dolore e della miseriaumana, mentre la sua anima sembrava essersi già rifugiata in quel fondo di paeseluminoso e lontano, dove abitavano una grande speranza e una eterna pace.Nessun uomo avevo veduto mai così solo come Gesù in mezzo a quel tumulto. Eraun'isola in mezzo a un mare procelloso. Le onde fragorose del tempo, chetravolgono^ uomini e cose, mi avevano forse spinto ad approdare ad una riva ovesplendono i fiori eterni della vita? Mai infatti, come quel giorno, ebbi, pervirtìi dell'arte, la visione della vita, in un oblio piti completo. Quando ilcustode del Cenacolo venne ad annunziarmi Fora della chiusura, io riudiinuovamente, dalla strada vicina, il rumore delle carrozze e il rombodell'esistenza; e ritornai fra gli uomini. Pochi anni or sono Annunzio scrisseuna bella pagina di poesia per rimpiangere la rovina del Cenacolo. Voi infattisapete, che, come della antica e celebrata pittura dei greci, fra pochi annidella Cena vinciana non resterà se non il ricordo ^ Il doloroso avvenimento non^ Questo studio su Leonardo lìiitore era già stato scritto, quando fu compiutain Milano dal pittore prof. Luigi Cavenaghi l'opera di ristauro del Cenacolo,salutata da tutti i cultori ed amatori d'arte con gioia e gratitudine. IlCenacolo, compiuto da Leonardo nel 1497, cominciò ben presto a guastarsi; ìprimi provvedimenti per salvare il capolavoro risalgono al cardinale Borromeo,poi nei secoli si susseguirono alternative di lunghi abbandoni, di fallacirimedi empirici, di studii incompleti e riparazioni deturpatrici, fin che ilprof. Cavenaghi fuincaricato delle ricerche scientifiche e tecniclie che, precisandole cause e l'entità dei guasti, portassero ai rimedii più efficaci. Egli trovò— sono sue parole riprodotte naìVIllustrazione Italiana, n. 41, dell'I 1ottobre 1908 — che il dipinto, coperto da polvere di secoli, si screpolava e lacrosta di colore si sollepoteva non commuovere e non far riapparire la visionetragica del fato clic incombe sui capolavori. Ma è forse una illusione. Inrealtà la natura non distrugge ne i fiori o le selve della terra ne le operedel genio: la Minerva criselefantina di Fidia è passata dall'avorio e dall'oronelle pagine immortali dei poeti e nella eterna memoria degli uomini. Quando uncapolavoro scompare, noi non dobbiamo pensare che il tempo lo abbia distrutto,ma semplicemente che si sia oscurato lo specchio che ci proiettava la suaimagine nel tempo e nello spazio. Nella profonda unità dell'anima umana, clierende i poeti e i filosofi simili ai figli d'una madre sola, l'ispirazione dacui esso nacque riman pura e vivente come una forza della terra non ancorvestita della sua forma. Se avessi la virtù del canto, vorrei lodare e farcomTava dall'intonaco, a squame di varia misura, di modo clie parecchie diquelle i grandi, accartocciandosi, formavano altrettante sacche che siriempivano con al- tre piccole squamette che vi cadevano dall'alto. Vuotare aduna ad una le sac- che senza scuoterle, senza quasi toccarle, mediante unapagliuzza resa attaccaticcia da una sostanza adatta, poi fare aderire le sacchee le croste all'intorno, togliendone, con un certo liquido dal Cavenaghiideato, la polvere alla superficie, questo sostanzialmente fu il lavoropaziente, mirabile, nel quale, per più di due mesi durò il Cavenaghi, rendendopiù tonica la fibra in isfacelo, facendole riac- quistare un po' di colorito,così che il dipinto non debba peggiorare e possa vi- vere ancora a lungo, coninfiniti riguardi ed amorose cure. Ma — disse il Cavenaghi — sarà sempre unorganismo precario, e per le condizioni sue, pieno come è di cicatrici, e perl'ambiente. Ad ogni modo questo del Cavenaghi è •stato pel Cenacolo Vinciano ilristauro essenziale, decisivo, nei secoli; e grandi manifestazioni digratitudine ed ammirazione sono state tributate all'assoluto disinterewse, pariall'amore grande per l'arte, spiegati dal benemerito ristauratore, al qualeCaravaggio, sua terra natia, ha consacrato una targa artistica a memoria delfatto; ed i cultori ed amatori d'arte, auspice Luca Beltrami, gli hannoconferita, davanti al capolavoro vinciano, una bellissima medaglia d'oro. Ilprof. Cavenaghi inoltre è stato chiamato dal Papa, in sostituzione 4el defuntoprof. Seitz, all'onorifico ufficio di direttore delle pinacoteche vaticane.prendere la vita maravigliosa che il Cenacolo leonardesco chiude nella suarovina. Come la rovina d'ogni cosa grande, essa equivale ad una purificazione ead una apoteosi. Finche resterà un sol frammento della parete prodigiosa,finche un sol disegno, una sola stampa, una sola fotografia, custodiranno unriflesso lontano della sua bellezza, quella creazione del genio sarà per noi piìipotente che se il tempo e gli uomini l'avessero rispettata in tutte le sueparti caduche. E un errore credere che il tempo non rispetti i capolavori; enoi molto spesso parliamo, spinti dall'abitudine, contro l'eterna verità dellecose. Il tempo, artista maraviglioso, è il solo degno collaboratore del genioumano. Dove sembrava che l'opera geniale sì fermasse, egli la continua,mutilandola: dove appariva ciò che è chiuso e preciso, egli apre una viainfinita all' imaginazione; dov' era un aspetto freddo e muto della realtà,egli fa nascere i segni del mistero. Ciò che sembra una distruzione e inveceuna rivelazione e una consacrazione. E la natura che riprende l'umana operainterrotta, che fa apparire la sua forza dove la mano dell'uomo cadde stanca, eche, dove l'ispirazione di questo si oscurò e si confuse, fa cantare le sueeterne aspirazioni. Ma non bisogna lodare il tempo soltanto per le sue rovine;è necessario esaltarlo anche per tutte le opere d'arte che, in compagnia delfato e della umana malvagità, ha impedito di compiere al genio umano. Alludoprincipalmente alle cosi dette sculture non finite di Michelangelo e ad unquadro, che è ancora considerato un abbozzo, di Leonardo. Come i capolavori inrovina appariscono vicini a rientrare Leonardo da Vinci.Conti, Leonardo pittorenella iiuiversalitìi della vita, i capolavori incompiuti seml)rano usciti dapoco dal seno stesso della natura. L'artista ne segnò l'imaginc non fra itormenti del lavoro consapevole, ma come in sogno, obbedendo ad una volonthoscura che per qualche istante abolì la sua volontà individuale. Poche traccedi pentimenti in quei primi segni, ma l'espressione d'una beata obbedienza,come di chi si affidi al mare, e una ricchezza e una esuberanza di vita ugualea quella di cento uomini felici. * Mi limito a parlarvi del quadro di Leonardo,oggi nella Galleria degli Uffizi, e che rappresenta l'Adorazione dei Magi. Laprima cosa che ci colpisce è il movimento. Noi sentiamo subito che il pittoreha voluto rappresentare un avvenimento straordinario, un grande fatto dellanatura e della vita. Quasi tutte le figure vanno, strisciano, accorrono versola parte centrale della rappresentazione, ove si fermano prostrate e comeatterrate dallo stupore e dalla maraviglia. Fra i gruppi in movimento, alcunefigure stanno diritte e immobili a guardare la scena. Nel centro una calmaassoluta. La Madonna vi appare seduta in una attitudine piena di graziamaterna, e sulle sue ginocchia il bambino si china e protende una mano pertoccare il 'dono che un vecchio genuflesso gli porge. Intorno si raccoglie e siconcentra tutto ciò che nel quadro raggiunge la maggiore intensitàd'espressione e la maggior forza di vita. Questi vecchi che vengono da lontano,guidati dal mistero, sono una Conti, LeonarJo j)ittore 91 fra le più potenticreazioni del genio umano. Tutta la scena, piena della loro commozione e delloro sbigottimento, sembra irradiare come un vento di tempesta che, dall'animadei vecchi, giunga sino ai punti piti lontani del quadro. Ed ecco che noi vediamogli effetti dell'onda invisibile. Dietro il gruppo centrale è un accorreredisordinato di gente: uno ha le mani levate e grida come per un ignotopericolo, un cavaliere non riesce a contenere lo spavento del suo cavallo,altri gruppi di cavalli nel fondo appariscono spinti dalla furia d'unabattaglia; qua e là, sotto archi crollati, uomini che corrono e s'interroganoansiosi, altri che salgono discendono a frotte e smarriti per una gradinata. Sisente che un grande avvenimento si compie, e per tutta l'ampia scena notturna èdiffusa l'atmosfera del miracolo, come in un giorno sereno la luce del solesulle campagne. E questa è appunto l'idea che Leonardo ha espressa nel suoquadro con una potenza e una eloquenza suprema. Mai infatti, sino a questianni, la pittura aveva rappresentato il miracolo, mai lo stupore e il terroredi ciò che sembra turbare le leggi della natura e far presentire agli uomini unrinnovellamento del mondo, erano stati resi visibili nell'opera d'arte.Leonardo, con questa composizione sintetica, con questo semplice suo disegno achiaroscuro, nel quale non un sol particolare h compiuto, è riuscito arappresentare il miracolo come non sarebbe stato possibile con l'opera piìimeditata e più coscienziosamente finita. E la ragione mi sembra questa. Vi sonoidee e sentimenti che le arti plastiche non possono rappresentare se non conmezzi somraarii, se non giovandosi di ciò che comiincmcnte si chiama Vincomplitto. L' incompiuto è spesso un mezzo meraviglioso dì espressione per ilgenio umano; è, a rovescio, il mezzo stesso che la natura adopera perpurificare e per consacrare nei secoli i capolavori degli uomini. In questi lanatura procede per eliminazione, nell'opera rimasta incompiuta il genio lavorain uno stato di concentrazione suprema. Li^ Adorazione dei Magi non solorappresenta un miracolo; ma è essa stessa un'opera miracolosa. La notte che visi addensa è piena di luce per l'anima umana. Fra tutti i quadri della Galleriadegli Uffizi è il più vivo, il piìi drammatico e il più profondo persignificazione. Continuando per voi la enumerazione delle opere pittorichevinciane e per mostrarvi che, come allora mi fu possibile liberarmi dal tempo,posso anche oggi, e mi piace, spezzare le catene della cronologia, passerò aparlare della Gioconda. La vidi alcuni anni or sono, e feci, quasi per leisola, il mio pellegrinaggio da Firenze a Parigi. Quando entrai nella pinacotecadel Louvre, la giornata era grigia e le sale quasi in una penombra. Nella saladei capolavori gli occhi delle figure dipinte da Tiziano, da Raffaello, daYelasquez mi guardavano fiso. Cercai la Gioconda, corsi verso di lei. Entro lafioca luce indovinai il sorriso e sentii il fascino dello sguardo; vidi ancheil candore del seno. Ogni altra cosa era indistinta. In una pinacoteca non èpossibile abbandonarsi all'oblio, Angelo Coxti, Leonardo piUore 93 come in unachiesa o in nn cenacolo. Coloro che entrano a visitare le collezioni deidipinti vanno per lo più a fare confronti, ad osservare particolari, a cercarenote caratteristiche, e portano con sé libri e fotografie. Io, qnando midispongo ad andare o a tornare al cospetto d'nn capolavoro, m'affatico atogliermi di dosso ogni peso, affinchè mi sia dato procedere con passo leggeroe mi trovi dinanzi all'opera geniale, con l'anima semplice e serena. Sonoabituato a contemplare un quadro, come se fosse una costellazione. Nella notteir cielo è pieno di silenzio e le stelle splendono armonizzando ciascuna il suoritmo alla musica del cielo. Guardando gli occhi di Monna Lisa del Giocondo, lividi palpitare in ritmo, in armonia con la musica del suo sorriso. Il quadrom'era ancora ignoto, e pensavo a Leonardo. Mi pareva vederlo, mentre nel suostudio fiorentino aspettava l'arrivo della sfinge ridente. Poco dopo ellaentrava e si sedeva accanto alla finestra. In fondo apparivano le colline diFiesole, Monte Morello, l'Appennino lontano, e l'Arno serpeggiava scintillandonel mattino, mentre le torri della città uscivano dalla nebbia al primo sole.Anch'egli si sedeva, e, presa la lira d'argento che s'era fabbricata con le suemani, cominciava a cantare. La bella donna, udendo la laude melodiosa,sorrideva, mentre l'Arno da lungi diveniva più ricco di scintille. Poicominciava a dipingere, e, dopo i primi tocchi una orchestra invisibile diliuti riprendeva la canzone interrotta. La donna sorrideva in una calma regale:i suoi istinti di conquista, di ferocia, tutta l'eredità delia specie, lavolontà della seduzione e dell'agguato, la grazia dell'inganno, la bontà checela un prò- 9i An'gelo Conti, Leomrdo pittore posito crudele, tutto ciòappariva alternativamente e scompariva dietro il velo ridente e si fondeva nelpoema del suo sorriso. Per un momento usci un raggio di sole; ed io die m'eroallontanato dal prodigio, corsi e lo vidi intero. La donna era viva dinanzi ame, in tutta la sua vita reale e ideale. Buona e malvagia, crudele ecompassionevole, graziosa e felina, ella rideva, e il suo riso si prolungavanel paese lontano e nell'anima mia; sino a darle l'oblio die viene dalla presenzadelle cose immortali. Pochi istanti dopo, il sole scomparve e la penombra regnònuovamente nella sala. Lì presso un sol quadro ardeva come una lampada e inesso cantava, non affievolita, la musica del colore. Era la Festa campestre:fra due donne nude, un suonatore di liuto svegliava alcuni accordi e pareva chela Gioconda ne sorridesse come quando VINCI (si veda) canta, per rendere piìiintensa la sua vita e per tradurre col disegno la sua misteriosabellezza.Questo ritratto non esprime soltanto ciò che l'occhio vede, ma è il riflessod'una creatura amata da uno spirito che per oltre quattro anni si affaticò apenetrarne a rivelarne la vita. Come dinanzi alla Gioconda, Leonardo si ponedinanzi ad ogni cosa vivente col medesimo ardore di conoscenza, con la stessaansiosa curiosità e lo stesso desiderio invincibile di fissarla con segnisemplici e definitivi. Tutto questo poema della sua anima, questo dramma intimoche si chiude in una alternativa di tentativi d' espressione e di istanti ditregua contemplativa, di rapimenti e di lotte con la sorda materia, d' ansietàe scoramenti e di calma trionfale, è raccontato nei suoi disegni, che sono 1'immagine più completa della sua potenza non solo intuitiva ma creativa. Per loscultore il disegno è appena un segno, uno scliema, un presentimento dell'operafutura. Lo chiamiamo disegno, perchè ijon abbiamo altre parole per significarele notazioni figurative degli scultori; ma esso non è se non un appunta ideale,un mezzo per ricordare un sentimento. Ricordate i disegni di BUONARROTI (siveda) per le sue statue, ricordate gli odierni disegni di Rodin per i suoigruppi e per i suoi monumenti. Qm^tì disegni, benché esprimano una visione dimovimento, non sono pittura e non sono scultura perchè non illuminano una ideache potrà essere espressa, come chiaroscuro e come colore sopra una superficiee che sia per apparire come forma nello spazio. La scultura comincia soltantocol bozzetto in cera, in creta o in gesso, cioè a dire quando V idea, destinataa manifestarsi come forma nasce a somiglianza d'una cosa viva fra le altre coseviventi e sorge nello spazio, nell' aria e nella luce, sottoposta alle leggidel peso e chiusa nelle sue dimensioni. Per parlare con esattezza, la sculturanon ha disegno. Nella pittura il disegno è tutto, è il primo segno che nota lavisione ancora vaga sopra una superficie, ed è il chiaroscuro e il colore chepili tardi la renderanno eloquente, che le daranno una voce che parla e checanta, come in una musica e come in un poema. Per Leonardo, genio universale,il disegno non è soltanto linguaggio pittorico, ma è il mezzo adeguatod'espressione di tutto ciò che appare e che passa nel suo pensiero, nella suamemoria, nella sua imaginazione e nella sua fantasia. Tutti gli aspetti e tuttii momenti della multiforme ed inesaiiribilc attività del suo spirito trovano laloro espressione negli innumerevoli disegni che egli traccia in margine e frale linee dei suoi manoscritti, la precedono e spesso la superano con la loropotenza di linea intuitiva e divinatoria. Mai come in Leonardo il disegno haavuto la virtìi d'esprimere tante cose, dalle più athni alla pittura alle pililontane, dalle pili concrete alle più astratte; mai come in Leonardo e giuntoad una cosi vasta e così intensa forza di analisi e di concentrazione. Idisegni di Leonardo non sono solamente una testimonianza del suo amore per lanatura, non sono soltanto un dialogo fra la sua anima e V anima delle cose, maprincipalmente sono un mezzo di cui egli si è servito per conoscere l'universo.Invece di consultare i trattati scientifici ed i sistemi di filosofìa, Leonardodisegna. I disegni sono i suoi pensieri, le sue meditazioni, le sueosservazioni, le sue intuizioni, le sue scoperte. Ogni suo disegno contiene unsegreto svelato, è una verità conquistata, è il segno d' un nuovo trionfo dellaindagine umana, è un lembo del mistero dell'universo sollevato dal genio umano.Dinanzi a ciò che noi chiamiamo il vero e può essere ugualmente chiamato ilmistero, Leonardo ha lo sguardo limpido, sereno, nuovo, lo sguardo meravigliatodel fanciullo, ha quella innocenza del genio, senza la quale, come affermaBacone, non si può entrare ne nel regno della verità ne nel regno dei cieli. Ladifferenza fra l'uomo di genio e l'uomo comune sta p principalmente in questo:dinanzi ai fatti e agli aspetti della natura e della vita V uomo comune siabitua e finisce con l'abolire in se il senso della maraviglia; le sueimpressioni, invece d'avere sempre un carattere loro proprio, invece d'es-Leonardo da Yisci Pai'ig;], Museo del Lonvie. J-'ot. X. LA GIOCONDA.seresempre eccitatrici di sentimenti nuovi, gradatamente si attenuano, siaffievoliscono; finche si adattano e si sottopongono al modo di sentireindividuale, finche si scolorano e muoiono davanti alla monotonia dei bisogniquotidiani. L'uomo guidato dalle abitudini è un addormentatore di se stesso, èuno schiavo di ciò che nel suo spirito è meno degno di comandare. Il genioinvece è sempre libero, è sempre desto, e il sonno dell'abitudine non può fardiscendere un velo sui suoi grandi occhi puri. Leonardo è appunto dellafamiglia di coloro che non conoscono lo stato di sonno e d'indifferenza, ma chevivendo sempre in una ansiosa curiosità vedono il continuo apparire delle cosee l'infinito rinnovellarsi dei fenomeni, e che sembrano veramente nascere ognimattina. In questo stato di attesa dell'ignoto e del nuovo, ogni osservazione èper Leonardo una visione, ogni analisi è una scoperta. Guarda un ramo con lesue foglie, ne cerca la vita col suo disegno, e gli appare la legge difilotassi; canta accompagnandosi con la sua lira d' argento, e scopre la leggedi risonanza delle corde negli accordi. In ogni fenomeno egli sente e vede unaconfessione fatta dalla natura al suo genio divinatore. I suoi disegni sono latraduzione grafica di queste confessioni fatte alla sua anima dall' anima dellecose. Ciascuno d'essi pili che studio dal vero è opera d' immaginazione, èfigurazione intuitiva, destniata ad illuminare la realtà e a fare apparire,dietro ciò che passa, l'aspetto immutabile delle idee eterne e delle eterneverità. Ogni loro contorno e una ricerca, ogni linea una interrogazione, ogniluce un riflesso del vivente chiarore del mondo, ogni ombra Leoxakdo da Vixci.lii 98 un'eco d'un vivente mistero; e tutta quella sua opera della penna, delcarbone, della matita non è se non un mezzo potente da lui adoperato perstringere d' assedio la natura e per costringerla a rivelare il suo segreto.Sempre mediante le imagini, i paragoni e le analogie egli trova il cammino chedeve condurlo verso la verità. Ricordate in un suo manoscritto e in un suodisegno il movimento dell'acqua veduto simile al movimento d' una capigliatura,ricordate in qual maniera i movimenti del nuoto lo aiutino a comprendere quellidel volo, in quel maraviglioso trattato che ha la virtìi di metterci in segretacomunicazione con 1' anima e con la forza delle creature volanti. In questomodo, sempre per mezzo di imagini e di indagini grafiche, di analogie, di formae di movimento, osservando e studiando l'aria e l'acqua, il suono e la luce, eparagonando le loro proprietà essenziali, egli giunge ad intuire l'unità delleforze fisiche precorrendo Cartesio. E la sua conoscenza, alla quale apparisconocome intuizioni le principali conquiste della scienza moderna, è figlia dellasua imaginazione. Più ancora che nei suoi manoscritti è espresso nei suoidisegni il cammino fatto dalla sua conoscenza, guidata dall'amore e resa piùprofonda dalla sua infantile maraviglia. Chi non ricorda, fra gli altriinnumerevoli, i suoi disegni di foglie e di fiori? Sono questi fra tutti glialtri, esclusi quelli solo che ritraggono la figura umana, i più precisi. Purein questa precisione è l'infinito della vita. A prima giunta potete pensare ocredere che quei segni corrispondano a qualche cosa di limitato e di esteriore;poi sentiamo che ciascuno di essi ha la potenza di continuarsi in noi. La suaprecisione non è il segno rigido e freddo fatto da una mano abile, ma è lalinea sicura del genio che ha trovato la vita. Però egli non trascura mai unsolo particolare, non lascia mai nulla incompiuto e sembra dir tutto sinoall'ultima parola. Infatti egli dice tutto; ma il suo linguaggio è come il maree come l'infinito, e, nelF udirlo, la nostra piccola anima sembra farsi vastacome 1' anima del mondo. In qua! modo ha potuto egli raggiungere questa potenzad'espressione? In un modo semplice e grande: imitando la natura. L'imitazionedella natura è il principio che Leonardo proclama in tutti i suoi scritti emette in pratica in tutte le sue opere. Ma che cosa significa imitar la natura?Ciò non vuol dire copiare le sue apparenze esteriori, come fanno oggi lamaggior parte dei nostri artisti, ma imitarla nelle sue leggi di vita. Imitarla natura, per Leonardo come per tutti i geni dell'umanità, significa divenirecome la natura, acquistando la potenza di creare 1' opera d' arte nel modostesso nel quale la natura crea le sue vite innumerevoli: qual fanno le cose.Voi sapete benissimo che i disegni vinciani fanno parte dei manoscritti di Milano,di Parigi, di Londra, che sono aiizi un complemento, uno sviluppo eun'irradiazione del testo. Poiché dunque l' uno e 1' altro sono connessiintimamente, non m' è possibile, dopo parlato dei disegni, non dirvi due paroledei manoscritti e significarvi in tal modo tutto il mio pensiero. Voi sapeteche nei manoscritti sono pagine di ogni scienza. Perchè? Volle forse Leonardocoltivare r una dopo 1' altra le varie discipline scientifiche e contribuire alloro sviluppo? A questa domanda risponde Leonardo medesimo. L'uomo nondev'essere " solo un sacco dove si riceva il cibo e donde esso esca „, nondeve essere soltanto un " transito di cibo „ e avere della specie umana lasola voce e la figura, e tutto il resto " essere assai manco che bestia „.Il vero scopo della vita umana è per Leonardo il pensiero. Il pensiero, perconoscere il passato e la nostra dimora terrena; ecco il mezzo per viverenobilmente liberandoci dalla illusione del piacere. Il tempo che fece piangereElena allorché ^ guardandosi nello specchio, vide i primi segni dellavecchiezza, il tempo non può colpire il pensiero. Il conoscere la sapienzadegli antichi e la vivente realtà delle cose presenti, ecco il decoro e l'alimento degli spiriti umani. Ma perchè un tal desiderio di conoscere? Questo eper me il punto capitale, il vero nodo della questione. Il sapere perchèLeonardo ha voluto studiare tante forme ed ha cercato il segreto di tanti fattidella vita universale, ci farà conoscere la qualità essenziale del suo genio.Nella sua indagine instancabile d'ogni fenomeno del cielo e della terra, nelsuo ininterrotto colloquio con la natura, Leonardo non è animato da curiositàpuramente scientifica, non da vanità di dottrina, né dalla naturale tendenzad'un intelletto analitico cui l'esercizio delia osservazione doni la gioia piùintensa. Spirito sostanzialmente intuitivo e sintetico, egli si sottopone intutta la sua vita al rigore e spesso al martirio dell' analisi, per acquistareuna conoscenza pili ricca, più vasta e piti profonda. Le sue innumerevoliosservazioni, i suoi continui esperimenti sono i gradini che debbono condurlocolà dove, entro una luce inestinguibile, appare l'eternità della vita.Soffrire la disciplina del ragionamento e dell'esperimento per aver in fine,come premio, la visione della vita, non h forse una divina aspirazione? Più lasua conoscenza, nel quotidiano osservare e meditare, gli svelava nuove leggi enuovi segreti, più cresceva in lui l'amore per tutta la natura; ne vi fu mai almondo, dopo l' umile frate d'Assisi, chi l'abbia amata d'amore più puro e piùardente. Chi più conosce 'pia ama^ sono le sue parole. In questo amore generatodalla conoscenza è tutto il segreto dell'opera di Leonardo, dai manoscritti e disegnialle pitture. Il suo realismo è un mezzo per giungere all'idea, è il modoch'egli adopera per ricomporre ciò che prima ha scomposto, in maniera che lanatura stessa sembri formarsi dinanzi a noi e farci assistere alla sua stessacreazione. Chi conosca i manoscritti di AYindsor, nei quali i disegni hannoun'importanza assai maggiore del testo, può convincersi agevolmente di questaverità e può anche comprendere (cosa che in questo momento deve particolarmenteinteressarci) che quando Leonardo parla di anatomia o di fisiologia, come neicosì detti trattati che si vanno ora pubblicando, egli non è mai un anatomicovero e proprio, ne un vero fisiologo, ma è sempre prima d' ogni altra cosa esopra ogni altra cosa pittore. Tutta la sua opera di scienza, tutti i suoidisegni d'anatomia, d'embriologia, di botanica, non ser- vono se non a renderepiù vasta, più profonda e più ricca la sua visione pittorica dell'uomo e dellanatura. La scienza non è se non un mezzo d'espressione della sua visione delmondo, ed egli se ne giova per dare un carattere di precisa realtà agliardimenti del suo sogno. Scopo del suo immenso lavoro e di giungere a creareima- 102 Angelo Conti, Leonardo pittore g'ini clic sembrino nate con le stesseleggi con le quali la natura produce le sue forme: qual fanno le cose. Edoloroso che nella sua vasta opera essenzialmente pittorica, nella quale "non fu impedito „, come egli dice, " da avarizia o da negligenza, ma solodal tempo „, manchi irreparabilmente una fra le pagine piti vive e più grandi:La Battaglia d'Anghiarl. Scrivo queste parole vicino a Santa Maria Novella, apochi passi dal luogo nel quale egli disegnò r opera maravigliosa. Le campaneche suonano nel campanile roseo al primo sole del mattino, sembrano diffonderesul mio ricordo una voce dì pianto. Li pochi mesi il lavoro fu compiuto, eimmediatamente cominciata la pittura a fresco per la sala del Consiglio inPalazzo Vecchio. Leonardo vi dipinse dal 1504 al 1506. Poi l'opera fu da luiabbandonata. Nel 1559 il cartone di Leonardo era ancora nella sala del Papa,mentre il cartone della Guerra di Pisa disegnato da Michelangelo era nelPalazzo dei Medici, l'uno e l'altro esposti all'ammirazione del mondo. Da queiranno manca ogni notizia. Della pittura incominciata in Palazzo Vecchio si sasoltanto che nel 1513 esisteva ancora, ma cadente a causa della cattivapreparazione dell'intonaco e dei colori. Cito, contro il mio solito, dati difatto e date, perchè l' opera pur troppo manca. Se l'opera esistesse, il suolinguaggio renderebbe insostenibile la voce della cronologia; ma poiché èperduta, ci è necessario contentarci delle parole di chiunque ce ne parli. Idue tre ricordi pittorici rapidi e sommari dell' episodio centrale dellabattaglia, non bastano a dare un'idea di ciò che fece Leonardo. Chi sa in qualmodo maraviglioso e straordinario egli avrà rappresentato la mischia, la furiaguerresca intorno allo stendardo, che sappiamo fosse nel centro, qnal prodigiodi scorci, quale evidenza di movimenti, nobiltà ed impeto di gesti e qualeperfezione di cavalli, dei quali egli conosceva la vita come nessuno dei suoitempi ! Di tutto ciò nulla e rimasto. Io imagino che nell'anno in cui ognitraccia dell'opera scomparve, la natura, per compensare il mondo, dovè creareuna primavera favolosa, non veduta mai. Poiché nel mondo nulla si perde, equando una bellezza è distrutta, sia essa una selva che arda, un' isola che sisommerga, un capolavoro che cada in rovina, la natura provvida fa nascere nuovigermogli, suscita nuove bellezze e nuove energie, e la sua forza di creazionerimane intatta in virtii della sua maggiore attività: il mutamento.DoctorMysticus. Iride, mandata da Giunone, scende sulla terra per consigliare TURNO aidare l’assalto al campo troiano, finchè è assente ENEA. Turno, avendoprovocato invano i Troiani rinchiusi, pensa di dar fuoco alle navi, le quali sisalvano per l’intervento di Cibele che le trasforma in ninfe del mare. TURNO,interpretato. favorevolmente quel portento, idispone l’accampamento. Durantela notte, NISO confida ad EURIALO il’proponimento di andare in cerca d’ENEA. MaEurialo lo vuole seguire. Ascanio e i capi li lodano, e prometton loro grandidoni. Entrati nel campodei Rùtuli, ne fanno strage. Ma quando, uskitine,si avviano per i boschi, sono scoperti da Volscente che veniva con trecentocavalieri di Laurento. Fuggono. NISO SI SALVA, MA EURÌALO È RAGGIUNTO ED UCCISO,NONOSTANTE L’INTERVENTO DI NISO, TORNATO INDIETRO A SALVARE IL COMPAGNO. Leteste recise dei due giovani, infilzate in una picca, son portate sotto ilcampo troiano,fra i disperati lamenti della madre di Eurialo. Turnoassale i Troiani con grande strage. E poichè Numano insolentiva i nemicivantando le virtù della stirpe italica, Ascanio compie il suo primoeroismo idi guerra, e lo trafigge con una freccia.Pandaro e Bizia, fratelli,tentano la riscossa lanciandosisui Rùtuli; ma Bizia è ucciso da Turno,che riesce a entrare nel campo nemico, dove fa strage; finchè, eopraffattodalla folla dei Troiani, si salva lanciandosi armato a nuoto nel Tevere. Atqueea diversa penitus dum parte geruntur, Irim de caelo misit SaturniaIuno audacem ad Turnum. Luco tum forte parentis Pilumni Turnussacrata valle sedebat. Ad quem sic roseo Thaumantias ore locutaest: « Turne, quod optanti Divum promittere nemo auderet,volvenda dies en attulit ultro. Aeneas urbe etsociis et classe relicta sceptra Palatini sedemque petit Evandri.Nec satis: extremas Corythi penetravit ad urbes 10 Lydorumque manumcollectos armat agrestes. Quid dubitas? nunc tempus equos, nunc poscerecurrus. Rumpe moras omnes et turbata arripe castra. Dixit, et in caelumparibus se sustulit alis ingentemque fuga secuit sub nubibus arcum.A&novit iuvenis duplicesque ad sidera palmas sustulit ac talifugientem est voce secutus: « Iri, decus caeli, quis te mihi nubibusactam detulit in terras? unde haec tam clara repente tempestas?medium video discedere caelum palantesque polo stellas: sequor ominatanta, quisquis in arma vocas. » Et sic effatus ad undam processitsummoque hausit de gurgite lymphas, multa Deos orans, oneravitque aetheravotis. lamque omnis campis exercitus ibat apertis 25 divesequum, dives pictai vestis et auri. Messapus primasacies, postrema céoercent Tyrrhidae iuvenes, medio dux agmineTurnus E mentre tutto questo in ben diversa parte succede, Iridegiù da cielo mandò la Saturnia Giunone a Turno audace. Allora a casosedeva Turno nel bosco dell’avo Pilumno * entro alla sacra valle; e a luicon la rosea bocca la figlia di Taumante * parlò: « Turno, quel che nessuno dei numi oserebbe promettere al tuo desiderio, ecco che il giorno chevolge te l’offre spontaneamente. Énea lasciò la città e i compagni e la flotta,ed è salito alla reggia del Palatino ed alla sede di Evandro. Nè basta: èpenetrato nell’ultime ville di Còrito *, e raccoglie ed arma agrestischiere di Etruschi. Che indugi? Il tempo è questo, è questo, di chiedere icocchi e i cavalli. Rompi ogni indugio, turba ed assali il suo campo ».Disse, e nell’alto del cielo si alzò con le ali levate, e nel fuggiresegnò sotto le nubi un grande arco. La riconobbe il giovane, e alzò ambele palme alle stelle, e, mentr’ella volava, la seguiva con queste parole.Ìri, ornamento del cielo, chi dalle nubi a me ti fece discendere soprala terra? E come mai, improvvisa, tanta chiarezza di cielo? A mezzo vedodischiudersi i cieli e in alto vagare le stelle. Chiunque tu sia, che michiami alle armi, obbedisco ad un tanto presagio ». E, così detto, alfiume si accostò, ed attinse a fiore del gorgo le acque, molto pregandogli Dei, colmando il cielo di voti.E già l’esercito intiero andava per leaperte pianure, ricco di cavalli, ricco di vesti intessute nell’oro(all’avanguardia è Messapo, ultimi vengono, i figli di Tirro ‘, ed a capodel grosso sta Turno: s’avanza brandendo ie LI [vertitur arma tenens et toto vertice supraest]; ceu septem surgens sedatis amnibus altus per tacitum Ganges,aut pingui flumine Nilus cum refluit campis et iam se condiditalveo. Hic subitam nigro glomerari pulvere nubemprospiciunt Teucri ac tenebras insurgere campis. Primus ab adversa conclamat mole Caicus: Quis globus, o cives, caliginevolvitur atra? Ferte citi ferrum, date tela, ascenditemuros, hostis adest, heia. » Ingenti clamore per omnescondunt se Teucri portas et moenia complent. Namque itadiscedens praeceperat optimus armis 40 Aeneas, si qua interea fortunafuisset, neu struere auderent aciem, neu credere campo;castra modo et tutos servarent aggere muros. Ergo etsi conferre manum pudor iraque monstrat, 6biciunt portas tamenet praecepta facessunt armatique cavis exspectant turribus hostem.Turnus, ut ante volans tardum praecesserat agmen viginti lectisequitum comitatus, et urbi improvisus adest: maculis quem Thraciusalbis portat equus cristaque tegit galea aurea rubra. Ecquis erit,mecum, iuvenes, qui primus in hostem? En » ait et iaculum intorquensemittit in auras, principium pugnae, et campo sese arduus infert. Clamoremexcipiunt socii, fremituque sequuntur horrisono; Teucrum mirantur inertiacorda: 55 non aequo dare se campo, non obvia ferre armaviros, sed castra fovere. Huc turbidus atque huc lustrat equo murosaditumque per avia quaerit. Ac veluti pleno lupus insidiatusovili cum fremit ad caulas, ventos perpessus et imbres, 60nocte super media: tuti sub matribus agni armi, e supera gli altridel capo); come tacito scorre il Gange profondo, ingrossato da settefiumi tranquil. li, o il Nilo dalla pingue corrente, quando rifluiscedai campi e già se ne torna al suo letto. Qui addensarsi una nubedi negra polvere i Teucri scorgono all’improvviso, e i campi oscurarsi;Caico, primo dalla torre di fronte, si mette a gridare: « Che turbine, ocittadini, si aggira di negra caligine? Presto, alle armi, recate learmi, salite alle mura! Ecco il nemico, olà! ». E i Teucri con grandeschiamazzo si afiollan per tutte le porte, e col. man le mura. Giacchècosì, nel partire, Enea, esperto di guerra, aveva ordinato: se intanto sioffriva una qualche sorpresa, non osassero uscire in ischiera nè accettarebattaglia; solo, tenessero il campo e 1 muri al riparo del vallo *. Or, benchèira e vergogna li spingano a dare battaglia, pure rinserran le porte, edobbediscono agli ordini, ed aspettano armati dentro le torri il nemico. Turno,siccome volando davanti avea preceduto il tardo suo stuolo, con venticavalieri più scelti, ecco appare improvviso davanti alle mura: lo portaun cavallo di Tracia pezzato di bianco, e il capo gli copre un elmo d’orocon rosso il cimiero. « E chi sarà con me, o giovani, chi primo incontroil nemico? Ecco! » esclama, e un dardo vibrando, lo lancia per l’aure,segnale della battaglia, ed alto si avanza nel campo. L'acclamano agran voce i compagni, e con un grido lo seguono che orribile suona: estupiscono dei cuori inerti dei Teucri, e come non escano in campo apertoe non cozzin le armi con loro, ma stiano accovacciati là dentro. Turno,ora qua ora là, esplora a cavallo le mura, e cerca — ma impenetrabile èil luogo — un accesso. E come quando un lupo che insidia l’ovile ricolmo, fremelà presso al recinto, esposto al vento e alla pioggia, nel cuordella 2balatum exercent, ille asper et improbus ira saevitin absentes, collecta ‘fatigat edendi ex longo rabies et siccae sanguinefauces; haud aliter Rutulo muros et castra tuenti ignescunt irae,duris dolor ossibus ardet, qua tentet ratione aditus et qua viclausos excutiat Teucros vallo atque effundat in aequor.. Classem,quae lateri castrorum adiuncta latebat, aggeribus septam circum etfluvialibus undis, invadit sociosque incendia poscit ovantes atquemanum pinu flagranti fervidus implet. Tum vero incumbunt (urgetpraesentia Turni), atque omnis facibus pubes accingitur atris.Diripuere focos; piceum fert fumida lumen taeda et commixtam Vulcanus adastra favillam. Quis Deus, o Musae, tam saeva incendia Teucrisavertit? tantos ratibus quis depulit ignes? Dicite. Prisca fides facto,sed fama perennis. Tempore quo primum Phrygia formabat in IdaAeneas classem et pelagi petere alta parabat, ipsa Deum fertur genetrixBerecyntia magnum vocibus his adfata Iovem: « Da, gnate, petenti,quod tua cara parens domito te poscit Olympo. Pinea silva mihi, multosdilecta per annos; lucus in arce fuit summa, quo sacra ferebant,nigranti picea trabibusque obscurus acernis. Has ego Dardanio iuveni, cumclassis egeret, laeta dedi: nunc sollicitam timor anxius angit.Solvemetus, atque hoc precibus sine posse parentem: 90 ne cursuquassatae ullo neu turbine venti vincantur: prosit nostris in montibusortas. » Filius huic contra, torquet qui sidera mundi: « Ogenetrix, quo fata vocas? aut quid petis istis? notte: sotto lemadri, al sicuro, vanno belando gli agnelli, ed esso, inasprito e feroce per l’ira,infuria contro i lontani; e lo tormenta la lunga rabbia adunata delcibo con le fauci che han sete di sangue; — non altrimenti nelRùtulo, a guardare i muri ed il campo, ardono lire, il dolore nell’ossadure lo brucia: come tentare l’accesso, e come scacciar con la forza iTeucri dal vallo e spargerli nella pianura. Allora investe la flotta, che stavaal riparo di fianco al campo, recinta all’intorno dagli argini edall'onde del fiume, e invita all'incendio i compagni esultanti, e furibondoimpugna una fiaccola ardente; ed essi si accaniscono all’opera: li sprona lapresenza di Turno, e tutta di negre faci la gioventù si fornisce. Saccheggianoi focolari; le torce fumose una luce spandon color della pece, e Vulcanolancia fumo e faville alle stelle. Qual Dio, o Muse, un così fiero incendio allontanòdai Troiani? chi discacciò dalle navi sì grandi fiamme? Voi ditelo.Antica è la fede nel fatto, ma la sua fama è perenne. Nel tempo che dapprimafabbricava nell’Ida di Frigia Enea la sua flotta e si accingeva aprendere il mare infinito, dicono che essa stessa, la Berecinzia * madredei numi, al gran Giove volgesse queste parole: « Ascolta, o figlio, ilmio prego, il primo che io, la tua cara madre, ti chiedo, da quandodomasti l'Olimpo. Ho una selva di pini, da lunghissimi anni a me cara; edera il sacro mio bosco sulla cima del monte, ia dove si esercitava il mioculto, di nereggianti abeti ombroso e di alti tronchi di aceri. Ed io benlieta li ho dati al dàrdano eroe, allorchè aveva bisogno di navi; ma ora iltimore mi rende ansiosa e sollecita: toglimi da questo af-. fanno, e fache questo ottenga la preghiera di una madre: fa che non siano mai schiantateda viaggio nes 2Mortaline manu factae immortale carinae fashabeant? certusque incerta pericula lustret Aeneas? cui tanta Deopermissa potestas? Immo ubi defunctae finem portusque tenebuntAusonios olim, quaecumque evaserit undis Dardaniumque ducem Laurentiavexerit arva, mortalem eripiam formam magnique iubebo aequoris esseDeas, qualis Nereia Doto et Galatea secant spumantem pectore pontum.» Dixerat, idque ratum Stygii per flumina fratris, per picetorrentes atraque voragine ripas adnuit, et totum nutu tremefecitOlympum. Ergo aderat promissa dies et tempora Parcae debitacomplerant, cum Turni iniuria Matrem admonuit ratibus sacris depelleretaedas. Hic primum nova lux oculis effulsit, et ingens visus abAurora caelum transcurrere nimbus Idaeique chori: tum vox horrenda perauras excidit et Troum Rutulorumque agmina complet. « Ne trepidatemeas, Teucri, defendere naves, neve armate manus: maria ante exurereTurno, quam sacras dabitur pinus. Vos ite solutae, ite Deae pelagi;genetrix iubet. » Et sua quaeque continuo puppes abrumpunt vincularipis delphinumque modo demersis aequora rostris ima petunt: hincvirgineae (mirabile monstrum) [quot prius aeratae steterant ad litoraprorae] reddunt se totidem facies pontoque feruntur. Obstupuereanimis Rutuli, conterritus ipse turbatis Messapus equis, cunctatur etamnis rauca sonans revocatque pedem Tiberinus ab alto. At nonaudaci Turno fiducia cessit; ultro animos tollit dictis atque increpatultro:suno o da turbinose tempeste; e a lor giovi sui nostri montiesser nate ». E a lei di rincontro il figliuolo, che volge le stelle delcielo: « Madre, perchè vuoi tu cambiare il destino? e che cosa domandi perloro? Forse che navi foggiate da mano mortale potranno avere unasorte immortale? Ed Enea al sicuro affronterà i malsicuri perigli? E quale deinumi ha così grande potere? Bensì, quando compiuto il lor corso si fermerannoun giorno nei porti d’Ausonia, qualunque ne sia scampata dall’ondeed abbia portato il duce dardànio nei campi laurenti, io le toglierò lasua forma mortale, e vorrò ch’elle sieno dee dell’ampie marine, come Dotoe Galatea nereidi, che fendono il mare spumante col petto ». Disse; egiuratolo per il fiume dello stigio fratello * e per le sponde bollentidi pece dall’atra voragine, cennò, ed al cenno, tutto fece tremarel’Olimpo. Era dunque arrivato il giorno promesso, e avevan leParche compiuto il debito tempo, quando l'offesa di Turno indusse laMadre a cacciar dalle sacre navi le fiaccole. Allora da prima una lucenovella agli occhi rifulse, e immenso fu visto trascorrere dall'Oriente unnimbo pel cielo, e con esso i cori dell’Ida: così tremenda una voce caddeper l’aria, e le schiere riempì dei Troiani e dei Ruùtuli: « Non viaffannate a difendere i miei navigli, o Troiani, e non afferrate le armi: primapotrà ardere il mare, Turno, che bruciare i pini a me sacri. È voiandatene sciolte, andatene, Dee del mare; la vostra madre lo vuole ». Etosto ad una ad una ie poppe troncan le corde dal lido, e a guisa di delfini,tuffati i rostri, scendon nel fondo del înare: e di qui (meravigliosoprodigio), quante prore di bronzo eran state prima alla riva”,ricompaiono volti alirettanti di fanciulle, e si avvian sul mare. 2« Troianos haec monstra petunt, his Iuppiter ipse auxilium solitumeripuit; non tela nec ignes exspectant Rutulos. Ergo maria invia Teucris,130 nec spes ulla fugae; rerum pars altera adempta est; terra autemin nostris manibus: tot milia gentes arma ferunt Italae. Nil mefatalia terrent, si qua Phryges prae se iactant, responsaDeorum. Sat fatis Venerique datum, tetigere quod arva 135fertilis Ausoniae Troes. Sunt et mea contra fata mihi, ferrosceleratam exscindere gentem, coniuge praerepta; nec solos tangitAtridas iste dolor solisque licet capere arma Mycenis.Sed periisse semel satis est; peccare fuisset 140 ante satispenitus modo non, genus omne perosos femineum? quibus haec medii fiduciavalli fossarumque morae, leti discrimina parva, dant animos.An non viderunt moenia Troiae Neptuni fabricata manu considere inignes? 145 Sed vos, o lecti, ferro quis scindere vallumadparat et mecum invadit trepidantia castra? Non armis mihiVulcani, non mille carinis est opus in Teucros. Addant se protinusomnes Etrusci socios. Tenebras et inertia furta ; 150 [Palladiicaesis summae custodibus arcis] ne timeant; nec equi caeca condemurin alvo: luce palam certum est igni circumdare muros. Haud sibi cum Danais faxo et pube Pelasga esse putent, decimumquos distulit Hector in annum. 159 Nunc adeo, melior quoniam parsacta diei, quod superest, laeti bene gestis corpora rebusprocurate, viri, et pugnam sperate parari. » Interea vigilumexcubiis obsidere portas cura datur Messapo et moenia cingereflammis. Stupiron nel cuore i Rùtuli,atterrito è lo stesso Messapo e i suoi cavalli s'impennano; il Tiberino fiumeancor esso s’indugia, rauco ‘sonando, e ritrae il piede dal ‘ mare. Manon a Turno audace vien meno l’ardire, chè anzi rianima 1 cuori coi dettie li garrisce così: « Contro i Toiani, comparvero questi portenti; a loro, ilsolito scampo lo stesso Giove ha strappato: non v'è più bisogno dellearmi e dei fuochi dei Rùtuli. Così i Teucri non hanno più vie sul mare nèalcuna speranza di fuga: son tolte loro le acque, e la terra è in nostropotere: tante migliaia di armati mandano l'itale genti! Non mi atterriscono,no, i fatali responsi dei numi, di cui i Frigi si vantano. Basti a Veneree ai fati, che della fertile Ausonia toccarono i campi i Troiani. Ho imiei destini io pure: esterminar con la spada la scellerata gente,poichè mi ha rapita la sposa; e un tale dolore non tocca soltanto gliAtridi‘°, nè soltanto a Micene e lecito l’armi brandire. Ma esser peritiuna volta, poteva bastare; e non sarebbe bastato aver peccato una volta,per odiar tutto il sesso femmineo? Certo, a loro dan forza il vallo interpostoe dei fossati l’ostacolo, breve ritardo alla morte. Ma non vider le muradi Troia — e le aveva costrutte Nettuno! — ruinare in mezzo allefiamme? Ora di voi, o eletti, chi si prepara a rompere il vallo e ad assaltarecon me gli accampamenti tremanti? Non ho bisogno dell’armi, io, diVulcano, e di mille carene, per combattere contro i Troiani. E aloro si aggiungano pure alleati tutti quanti gli Etruschi. Le tenebre e gliassalti infingardi [del Palladio, e dei custodi della rocca la strage]!non tornano essi, chè noi non ci chiuderemo nel ventre oscuro delcavallo: alla luce, all’aperto, circonderemo ie mura di fiamme. Iofarò sì che non si credano in guerra coi Dànai e con Bisseptem Rutuli, muros qui milite servent, delecti: ast illos centeniquemque sequuntur purpurei cristis iuvenes auroque corusci. Discurrunt variantque vices fusique per herbam indulgent vino etvertunt crateras aénos. Collucent ignes: noctem custodia ducit insomnemludo. Haec super e vallo prospectant Troes et armis alta tenent, necnon trepidi formidine portas explorant, pontesque et propugnaculaiungunt, tela gerunt. Instant Mnestheus acerque Serestus, quos paterAeneas, si quando adversa vocarent, rectores iuvenum et rerum dedit essemagistros. Omnis per muros legio, sortita periclum, excubat, exercetquevices, quod cuique tuendum est. 175 Nisus erat portae custos, acerrimusarmis, Hyrtacides, comitem Aeneae quam miserat Ida venatrix iaculocelerem levibusque sagittis; et iuxta comes Eurialus, quo pulchrioralter non fuit Aeneadum Troiana neque induit arma, 180 ‘ ora puerprima signans intonsa iuventa. © His amor unus erat, pariterque in bellaruebant; tum quoque communi portam statione tenebant. Nisus ait: «Dine hunc ardorem mentibus addunt, Euryale, an sua cuique Deus fit diracupido? Aut pugnam aut aliquid iamdudum invadere magnum mens agitat mihinec placida contenta quiete est. Cernis, quae Rutulos habeat fiduciarerum. Lumina rara micant: somno vinoque soluti procubuere; silentlate loca. Percipe porro, _ 190 quid dubitem et quae nunc animo sententiasurgat. Aeneam acciri omnes, populusque patresque, exposcunt,mittique viros, qui certa reportent. la gente Pelasga,che Ettore per ben dieci anni tardò. Ora dunque, poichè è scorsa la partemigliore del giorno, quel tanto che avanza, lieti dei primi successi,concedetelo, o prodi, a ristorarvi le membra, e aspettate che venga lapugna ». Frattanto si affida a Messapo di guardar con le scolte le porte !* edi cinger le mura di fuochi. Due volte sette Rùtuli son scelti a custodia deimuri coi loro guerrieri; ed ognuno da cento armati è seguito, con cimieripurpurei ed armi che brillano d’oro. Corron di qua e di là, si danno ilcambio, e sdraiati su l'erba tracannano il vino e lo versan dai crateridi bronzo. Splendono i fuochi; e le guardie passano la notte insonnegiocando. Di sopra al vallo i Troiani stanno a osservare, e conl’armi guardan le mura, e così, in fretta, per il timore, vanno studiandole porte, congiungon coi ponti le torri, ammucchiano l’armi. Stanno suloro Mnèsteo ed il fiero Seresto, che il padre Enea, se mai lo chiedesseil pericolo, avea destinati a guidare l’esercito e a governare lo stato.Tutti, lungo le mura, al rischio che la sorte ha voluto, i guerrieri vegliano,n scambiano i turni, secondo che tocca ad ognuno. Niso era a custodia di unaporta, d’Irtaco il figlio, che, a compagno d’Enea, Ida aveva sini lacacciatrice, ed era destro a gettare veloci saette; e accanto gli eracompagno Eurìalo, il più bello fra tutti gli Enèadi e quanti vestivanol’armi troiane; fanciullo ancora, gli fioriva sulle gote intonse laprima lanugine. Stretto un amore li univa, e insieme si precipitavano inguerra; ed anche allora, compagni di scolta, guardavan la porta. Niso disse: «M'ispirano forse gli Dèi questo mio ardor nella mente, o Eurialo? oil suo fiero desìo diviene a ciascuno il suo Dio? Già da gran tempoil mio cuore mi spinge alla pugna o a ten Si tibi quae posco promittunt(nam mihi facti fama sat est) tumulo videor reperire sub illo 195posse viam ad muros et moenia Pallantea. » Obstupuit magno laudumpercussus amore Euryalus: simul his ardentem adfatur amicum: « Meneigitur socium summis adiungere rebus, Nise, fugis? solum te in tantapericula mittam? 200 non ita me genitor, bellis adsuetus Opheltes,Argolicum terrorem inter Troiaeque labores sublatum erudiit, nec tecumtalia gessi > magnanimum Aenean et fata extrema secutus. Est hic, est animus lucis contemptor et istum 205 qui vita benecredat emi, quo tendis; honorem. » Nisus ad haec: « Equidem de te niltale verebar, nec fas, non: ita me referat tibi magnus ovantemluppiter, aut quicumque oculis haec adspicit aequis. Sed si quis (quaemulta vides discrimine tali), si quis adversum rapiat casusve Deusve, tesuperesse velim: tua vita dignior aetas. Sit, qui me raptum pugnapretiove redemptum mandet humo; solita aut si qua id fortunavetabit, absenti ferat inferias, decoretque sepulchro; 215 neumatri miserae tanti sim causa doloris, quae te sola, puer, multis ematribus ausa persequitur, magni nec moenia curat Acestae. » Ille autem:« Causas nequidquam nectis inanes, nec mea iam mutata loco sententiacedit. 220 Adceleremus » ait. Vigiles simul excitat.Illi succedunt servantque vices: statione relicta, ipse comes Nisograditur, regemque requirunt. Cetera per terrasomnes animalia somno laxabant curas et corda oblita laborum; 225ductores Teucrum primi, delecta iuventus, a è o sopn tare qualche gran fatto, e non sa placarsi a un tranquilloriposo. Tu vedi quale fiducia s'è impadronita dei Rùtuli. Rari lampeggiano ilumi; immersi nel sonno e nel vino giacquero; tutto all’intorno èsilenzio. Odimi dunque quello ch’io penso, ed il disegno che ora mi sorgenel cuore. Tutti, il popolo e i padri, chiedon che Enea si richiami e glisi mandino messi che gli raccontino il vero. Se mi promettono quelloch’io chiedo per te (per mia parte, mi basta la gloria del fatto), credo,la, sotto a quel colle, di ritrovare la via che mena del Pallantèoalle mura ». Stupì, colpito da grande amore di gloria, Eurìalo; e conqueste parole si volge all’ardito compagno: « Niso, dunque rifuggi dalprendermi teco all’impresa sì grande? Ti lascerò andar solo in mezzo a cotantiperigli? Ah, non così mio padre, Ofelte assuefatto alle guerre, fra lospavento argolico ed i travagli di Troia mi allevò, m’istruì; e non cosìmi mostrai accanto a te, nel seguire il magnanimo Enea finoall’estreme fortune. C’è qui, c'è qui un animo che sa disprezzarela vita, e crede che ben con la vita si acquisti questa gloria che agognitu pure ». E Niso di rincontro: « Non io certo dubitavo di te, nè lopotrei, oh no: così a te mi riconduca in trionfo il grande Giove ochiunque dall’alto ci guarda con occhio propizio. Ma se, comespesso accade in rischi sì grandi, se un qualche caso, o un Dio, mitragga a morire, vorrei che tu rimanessi; ti dà più diritto alla vita latua giovinezza: e vi sia chi mi sottragga alla mischia o mi ricompri alnemico per sotterrarmi, e se, come accade, lo vieterà la fortuna,mi renda i funebri offici, anche lontano, e di un sepolcro mionori. Ah, ch’io non sia cagione di un sì grande dolore alla tua poveramadre, che sola, o fanciullo, fra tante madri osava seguirti, e nonristette del grande 3 - Vircuro - Eneide consilium summis regni derebus habebant, quid facerent quisve Aeneae iam nuntiusesset. Stant longis adnixi hastis etscuta tenentes castrorum et campi medio. Tum Nisus et una‘230 Euryalus confestim alacres admittier orant: rem magnam,pretiumque morae fore. Primus Iulus accepit trepidos ac Nisum dicereiussit. Tunc sic Hyrtacides: « Audite o mentibus aequis,Aeneadae, neve haec nostris spectentur ab annis, 235 quae ferimus. Rutulisomno vinoque soluti conticuere: locum insidiis conspeximusipsi, qui patet in bivio portae, quae proxima ponto;interrupti ignes, aterque ad sidera fumus erigitur; si fortunapermittitis uti 240 quaesitum Aenean et moenia Pallantea, moxhic cum spoliis ingenti caede peracta adfore cernetis. Nec nos viafallet euntes: vidimus obscuris primam sub vallibus urbem venatu adsiduo et totum cognovimus amnem. » 245 Hic annisgravis atque animi maturus Aletes: « Di patrii, quorum semper subnumine Troia est, non tamen omnino Teucros delere paratis,cum tales animos iuvenum et tam certa tulistis pectora. » Sicmemorans umeros dextrasque tenebat 250 amborum et vultum lacrimis atqueora rigabat: « Quae vobis, quae digna, viri, pro laudibusistis, praemia posse rear solvi? pulcherrima primum Dimoresque dabunt vestri; tum cetera reddet actutum pius Aeneas atqueinteger aevi 259 Ascanius, meriti tanti non immemor umquam. Immo ego vos,cui sola salus genitore reducto, excipit Ascanius, per magnos,Nise, Penates Assaracique Larem et canae penetralia Vestae Acestealle mura ». Maquegli: « Tu indarno intessi i tuoi vani pretesti, e il mio voler non simuta e non cede. Presto!» soggiunge. E risveglia le scolte; questesubentrano al cambio; lasciata la guardia, ei s’accompagna con Niso, e vanno incerca del re. Gli altri animali per tutte le terre placavan nelsonno i loro affanni nei cuori dimentichi d’ogni travaglio; ma i duciprimi dei Teucri, fior dei guerrieri, tenevan consiglio sul grave momentodel regno: che fare? e chi mandar messaggero ad Enea? Stanno poggiatialle lunghe aste, e reggon gli scudi, nel mezzo alla piazza del campo.Quand’ecco Niso, e con lui Eurìalo, pronti, chiedono d’essere uditi, subito:grande è la cosa, e d’interrompere vale la pena. Iulo per primo li accolseansiosi, e a Niso ordinò di parlare. Così allora l’Irtàcide: «Udite con menti benigne, o Enèadi; e quel che portiamo non logiudicate dagli anni. I Rùtuli, immersi nel sonno e nel vino, taccionotutti; noi, un luogo abbiam scorto, propizio alle insidie, che si scoprelà al bivio della porta ch’è prossima al mare. Son mezzo spenti i fuochi,e cupo il fumo si erge alle stelle; se ci lasciate tentare la sorte aricercare Enea e le mura del Pallanteo, presto qui con le spoglie nemicheed onusti di strage ci rivedrete tornare. E non smarriremo la via: sotto leoscure valli, nelle continue cacce, vedemmo lassù la città e tutto ilfiume esplorammo ». Allora, grave d’anni, e maturo di senno risposeAlete: «O Dei della patria, sotto il cui nume è ancor Troia, certo voinon pensate di distruggere i Teucri del tutto, poi che c'inviastetali anime e petti sì fermi di giovani! ». Questo dicendo,stringeva d’entrambi le spalle e le mani, rigando le guance di pianto: «Oh, quale premio, o prodi, che degno premio per questa impresa vi potremo noidare? obtestor: quaecumque mihi fortuna fidesque est, in vestrispono gremiis; revocate parentem, reddite conspectum; nihil illo tristerecepto. Bina dabo argento perfecta atque aspera signis pocula,devicta genitor quae cepit Arisba, et tripodas geminos, auri duomagna talenta, cratera antiquum, quem dat Sidonia Dido. Sivero capere Italiam sceptrisque potiri contigerit victori et praedaeducere sortem, vidisti quo Turnus equo, quibus ibat in armisaureus: ipsum illum, clipeum cristasque rubentes excipiam sorti, iam nunctua praemia, Nise. Praeterea bis sex genitor lectissima matrumcorpora captivosque dabit, suaque omnibus arma: insuper his, campi quod rexhabet ipse Latinus, Te vero, mea quem spatiis propioribus aetasinsequitur, venerande puer, iam pectore toto accipio, et comitem casuscomplector in omnes. Nulla meis sine te quaeretur gloria rebus:seu pacem seu bella geram, tibi maxima rerum verborumque fides. »Contra quem talia fatur Euryalus: « Me nulla dies tam fortibusausis dissimilem arguerit; tantum fortuna secunda haud adversacadat. Sed te super omnia dona unum oro: genetrix Priami de gentevetusta est mihi, quam miseram tenuit non Ilia tellus mecumexcedentem, non moenia regis Acestae:hanc ego nunc ignaram huius,quodcumque pericli est, inque salutatam linquo; nox et tuatestis dextera, quod nequeam lacrimas perferre parentis; at tu,oro, solare inopem et succurre relictae. Hanc sine me spem ferre tui:audentior ibo in casus omnes. » Percussa mente dedere 290 Il primo ve lo daranno, e il più bello, gli Dèi e le vostrevirtù; gli altri ben presto li avrete dal pio Enea e da Ascanio, ilgiovinetto in fiore, che di un così grande servigio non sarà immemore mai ». «Anzi io, soggiunse Ascanio, che altra salvezza non ho se non il ritorno delpadre, questo vi giuro, o Niso, per i grandi Penati, per il lare diAssàraco e per l’altare della antichissima Vesta: ogni mia sorte ed ogni miasperanza, in vostre mani io pongo; riconducetemi il padre, fate cheio lo riveda: se lo ricupero, nulla sarà più triste per me. Due coppe vidarò, cesellate in argento e scolpite a bassorilievi, che il padre ebbe allapresa di Arisba; e due tripodi, e due grandi talenti di oro, ed uncratere antico, dono della sidònia Didone. Se poi vincitore potrò prenderl’Italia e tenere lo scettro e sorteggiare le prede, certo tu hai veduto queldestriero su cui Turno veniva, e le ammi che lo vestivano d’oro:ebbene, quel suo cavallo, e lo scudo e il cimiero vermiglio, lisottrarrò dal sorteggio; fin d’ora è un tuo premio, o Niso. Inoltre, miopadre darà due volte sei corpi di donne, fra le più belle, ed altrettantiprigioni, con le sue armi ciascuno: e oltre a ciò, proprio i campiche or sono del rege Latino. Te poi, che sei vicino a me per età, ovenerando fanciullo, con tutto il cuore ti accolgo, fin d’ora, e tiabbraccio, compagno per ogni fortuna. Non cercherò per me gloria nessunasenza di te; ed in pace ed in guerra, nei fatti e nelle parole, in tefiderò sopra ognuno ». A lui di rincontro Eurìalo rispose così: «Non verrà mai un giorno che mi palesi diverso da questo mio forte sentire: mibasta che la fortuna di seconda non muti in avversa. Ma sopra ogni altro dono,solo una cosa t’imploro: ho una madre, della stirpe di Priamovetusta, che, misera, quando partii, non si fer Dardanidae lacrimas, anteomnes pulcher Iulus, atque animum patriae strinxit pictetie imago.Tum sic effatur: Sponde digna tuis ingentibus omnia coeptis; |namque erit ista mihi genetrix nomenque Creusae solum defuerit, necpartum gratia talem parva manet. Casus factum quicumquesequentur, per caput hoc iuro, per quod pater ante solebat: 300quae tibi polliceor reduci rebusque secundis, haec eadem matriquetuae generique manebunt. » Sic ait illacrimans: umero simul exuitensem auratum, mira quem fecerat arte Lycaon | Gnosius atquehabilem vagina aptarat eburna. 305 Dat NisoMnestheus pellem horrentisque leonis exuvias: galeam fidus permutatAletes. Protinus armati incedunt; quos omnis euntes primorummanus ad portas iuvenumque senumque prosequitur votis. Necnon et pulcherIulus 310 ante annos animumque gerens curamque virilem, multa patrimandata dabat portanda. Sed aurae omnia discerpunt et nubibusirrita domant. Egressi superant fossas, noctisque per umbramcastra inimica petunt, multis tamen ante futuri 315 exitio. Passim somnovinoque per herbam corpora fusa vident, arrectos litore currus,inter lora rotasque viros, simul arma iacere, vina simul. PriorHyrtacides sic ore locutus: « Euryale, audendum dextra: nunc ipsavocat res. 320 Hac iter est. Tu, ne qua manus se attollere nobisa tergo possit, custodi et consule longe. Haec ego vasta daboet lato te limite ducam. » Sic memorat vocemque premit; simulense superbum Rhamnetem adgreditur, qui forte tapetibus altis mò nellaterra di Ilio nè fra le mura di Aceste. Or io qui l’abbandono ignara diquesto mio rischio, qual che si sia, e insalutata: la notte e la tuadestra mi sian testimoni che io non potrei sostenere le lacrime della miamadre. Ma tu, te ne prego, consola la misera, soccorrila, se resta sola.Lascia ch'io porti meco questa speranza di te; poi, anderò più audace incontroad ogni ventura ». Commossi nel cuore i Dardànidi lagrimarono, ilbel Iulo anzi tutti, chè il cuore gli strinse il ricordo dell’amorepaterno. È così disse: « Attenditi pur tutto quanto si deve alla tua grandeimpresa; chè essa sarà la mia madre, e soltanto il nome le mancherà diCreusa: piccolo dono, a colei che generò un tal figlio. Qualunque si sial’evento, per questo mio capo ti giuro sul quale soleva giurare miopadre: quello che io ti promisi se tornerai vittorioso, alla tua madresarà serbato ed alla tua stirpe ». Così diceva piangendo, e dalla spallasi tolse la spada d’oro che aveva foggiata con arte stupenda Licàone diCnosso, scorrevole entro la guaina di avorio. Mnèsteo a Niso donava di unirsuto leone la pelle e la apoglia, e il fido Alete scambia il suoelmo con lui. Tosto s’avviano armati; e tutta ia schiera deigrandi, giovani e vecchi, alle porte li accompagnan coi voti. E intantoil bello Iulo, che ha cuore e senno virile, oltre l’età, affidava moltimessaggi al suo padre. Ma l’aura tutti li sperde inutili in mezzo allenuvole. Usciti, varcano i fossi, e per le ombre notturne vengbno al campofatale; ma prima, a molti daranno la morte. (Qua e là sparsi tra il sonnoed il vino scorgono i corpi sull’erba, e i cocchi alzati sul lido, e, trale briglie e le ruote, giacere i guerrieri, e con loro le armi, ed i vinicon loro. Primo il figlio di Irtaco così disse: « Eurìalo, qui bisognaosar con la destra: l’oecasione loexstructus toto proflabat pectoresomnum, rex idem et regi Turno gratissimus augur; sednon augurio potuit depellere pestem. Tres iuxta famulos temereinter tela iacentes armigerumque Remi premit aurigamque sub ipsis nactusequis, ferroque secat pendentia colla. Tum caput ipsi aufertdomino, truncumque relinquit sanguine singultantem; atro tepefactacruore terra torique madent. Necnon Lamyrumque Lamumque, etiuvenem Sarranum, illa qui pluritha nocte luserat, insignis facie, multoqueiacebat membra Deo victus: felix, si protinus illumaequasset nocti ludum in lucemque tulisset. Impastus ceuplena leo per ovilia turbans,suadet enim vesana fames, manditquetrahitque 340 molle pecus mutumque metu, fremit ore cruento.Nec minor Euryali caedes; incensus et ipse perfurit, acmultam in medio sine nomine plebem, Fadumque Herbesumque subit RhoetumqueAbarimque ignaros, Rhoetum vigilantem et cuncta videntem, sed magnummetuens se post cratera tegebat; pectore in adverso totum cuicomminus ensem condidit adsurgenti et multa morte recepit.Purpuream vomit ille animam et cum sanguine mixta vina refertmoriens: hic furto fervidus instat. 350 lamque ad Messapi sociostendebat: ibi ignem deficere extremum et religatos ritevidebat carpere gramen equos: breviter cum talia Nisus(sensit enim nimia caede atque cupidine ferri. Absistamus, ait, nam lux inimica propinquat. Poenarum exhaustum satis est,via facta per hostes. » Multa virum solidoargento perfecta relinquunt armaque craterasque simul pulchrosquetapetas.vuole. Di qua è la via. Ora tu, perchè un qualche drappellonon ci si levi alle spalle, fa guardia e sta attento all’intorno. Io quifarò largo, e ti guiderò per un ampio cammino >». Così dice, poismorza la voce; ed il superbo Ramnete con la sua spada colpisce; ed egli,sui tappeti ammucchiati giacendo, dormiva lì a pieno petto, russando. Reegli pure, ed al re Turno il più grato degli àuguri; ma non potè con lascienza profetica allontanare la morte. Lì presso, uccide tre servi che a casogiacevan fra l’armi, e lo scudiero di Remo, ed il suo auriga sorpreso sott’essii cavalli, e col ferro taglia le gole rovescie. Poscia anche al signoretronca il capo, ed il busto lascia singhiozzante nel sangue; intiepiditila terra ed i letti di negro sangue s’imbevono. E poi Làmiro, e Lamo, eil giovin Sarrano, che fino a tardi la notte aveva giocato, bello divolto, e giaceva vinte le membra dal vino: felice, se avesse giocatotutta la notte ed infino all’aurora! Così un leone digiuno imperversandotra gli ovili ricolmi — la fame rabbiosa lo istiga — sbrana e trascina lagreggia molle e per il terrore ammutita, e rugge con bocca sanguigna. Nèminore è la strage d’EURÌALO; ardendo anch'egli infuria, e alla rinfusasorprende molta ignobile plebe, e Fado, ed Erbeso, e Reto, ed Abari,inconsapevoli; Reto, era desto e tutto vedeva, ma per paura si stavanascosto dietro un grande cratere: ma mentre si alzava, gli immerse finoall’elsa nel petto la spada, e la ritrasse grondante di sangue.Edegli in un fiotto di porpora esala la vita, ed il vino, morendo, rigettacol sangue. L’altro, più ardente, continua la strage furtiva. E già si volgevaai compagni di Messapo; ivi vedeva languire gli ultimi fuochi, e icavalli al guinzaglio, com’è uso, pascere l’erba, allorchèNISO, chetrascinato lo vide da brama soverchia di stra EURYALVS phaleras Rhamnetis etaurea bullis cingula (Tiburti Remulo ditissimus olim quae mittitdona hospitio, cum iungeret absens, Caedicus; ille suo moriens dathabere nepoti, post mortem bello Rutuli pugnaque potiti), haecrapit, atque umeris nequidquam fortibus aptat. Tum galeam Messapi habilem cristisque decorum induit. Excedunt castris, ettuta capessunt. Interea praemissi equites ex urbe Latina,cetera dumlegio campis instructa moratur, ibant et Turno regi responsa ferebant,tercentum,scutati omnes, Volscente magistro. 370 lamque propinquabant castrismurosque subibant, cum procul hos laevo flectentes limitecernunt, et galea Euryalum sublustri noctis in umbra prodiditimmemorem, radiisque adversa refulsit. Haud temere est visum.Conclamat ab agmine Vol.[scens:« State, viri: quae causa viae? quive estis in armis?quove tenetis iter? » Nihil illi tendere contra; sedcelerare fugam in silvas et fidere nocti. Obiciunt equites sese addivortia nota hinc atque hinc,omnemque aditum custode coronant.Silva fuit, late dumis atque ilice nigra horrida, quam densicomplerant undique sentes, rara per occultos lucebat semitacalles. Euryalum tenebrae ramorum onerosaque praedaimpediunt, fallitque timor regione viarum. NISVS abit: iamque imprudensevaserat hostes atque locos, qui post Albae de nomine dictiAlbani (tum rex stabula alta Latinus habebat). Ut stetit etfrustra absentem respexit amicum: « Euryale infelix, qua te regionereliqui? ge, così brevemente. parlò: « Fermiamoci, chè oramai la lucenemica si appressa. Li abbiamo puniti abbastanza, e aperta in mezzo ainemici è la via ». Lasciano lì molte armi di guerrieri lavorate diargento massiccio, ed i crateri insieme ed i belli tappeti. Eurìalo sitoglie i fregi di Ramnete ed il balteo dall’auree borchie, e,invano!, sugli omeri forti lo adatta. A Rèmolo, il tiburtino, liaveva mandati una volta il ricchissimo Cèdico, in segno di ospitalitàch’egli stringeva da lungi; e quegli morendo li diede al nipote, e, questomorto, i Rùtuli se ne impadronirono in guerra. Poi l’elmo di Messapo sicinge, agevole, e adorno di creste. Escon dal campo e s’avviano insalvo.Frattanto i cavalieri mandati innanzi dalla città di Latino,mentre i pedoni attendono armati nella campagna, venivano per riportare al reTurno un responso: trecento, tutti scudati, ed era lor duce Volscente. Egià erano. presso al campo e varcavan le mura, quando da lungi liscorgono che piegavano verso sinistra; e l’elmo, nella penombra notturnatradì EURÌALO immemore, a un raggio di luna splendendo. È non fu vana lavista. Grida dalla sua schiera Volscente: « Fermi, voi! perchèsiete in via? chi siete così armati? e dove andate? ». Ma quellinon rispondono, anzi si affrettano in fuga pei boschi e fidanonell’oscurità. 1 cavalieri si gettano di qua, di là ai bivi ben noti, etutte circondan di gnardie le uscite. Era una selva spaziosa e orrida dinere querce e di pruni, densa da ogni parte di sterpi; e tra le peste occulte,raro si apriva un sentiero. L'ombre dei rami e il carico del bottinoritardavano Euriìalo, e il timore gli fa smarrire la via. Niso è fuggito; e digià, senza pensare all’amico, altrepassati aveva i nemici ed i luoghi chepoi dal nome di Alba furon chiamati Albani (allora, v’era Quaquesequar, rursus perplexum iter omne revolvens fallacis silvae? » Simul et vestigia retro observata legit dumisque silentibuserrat.Audit equos, audit strepitus et signa sequentum. Neclongum i in medio tempus, cum clamor ad aures pervenit ac videt EURYALVM, quemiam manus omnis fraude loci et noctis, subito turbantetumultu,Oppressum rapit et conantem plurima frustra.Quid faciat?qua vi iuvenem, quibus audeat armis eripere? an sese medios moriturus inhostes inferat, et pulchram properet per vulnera mortem? Ocius adductotorquens hastile lacerto, suspiciens altam Lunam, et sic voceprecatur:Tu, Dea, tu praesens nostro succurre labori, astrorumdecus et nemorum Latonia custos: si qua tuis umquam pro me pater Hyrtacusaris dona tulit, si qua ipse meis venatibus auxi,supendive tholo aut sacra ad fastigia fixi: hunc sine meturbare globum et rege tela per auras. Dixerat, et toto conixus corpore ferrumconicit. Hasta volans noctis diverberat umbras, et venit adversi intergum Sulmonis, ibique frangitur, ac fisso transit praecordialigno. Volvitur ille vomens calidum de pectore flumenfrigidus et longis singultibus ilia pulsat. 415 Diversi circumspiciunt.Hoc acrior idem ecce aliud summa telum librabat ab aure.Dumtrepidant, it hasta Tago per tempus utrumque stridens, traiectoque haesittepefacta cerebro. Saevit atrox Volscens nec teli conspicit usquam420 auctorem nec quo se ardens immittere possit.Tu tamen intereacalido mihi sanguine poenas persolves amborum » inquit: simul enserecluso i no ipascoli incolti del re Latino). Come ristette, ed invano si volse acercare l’amico: « O infelice EURIALO, e dove mai t'ho lasciato? dove ticercherò, ancor rifacendo il cammino tortuoso per la selva fallace? ». Etosto nota e ricalca all’indietro le tracce, ed erra silenzioso trai pruni. Ode i cavalli, ode lo strepito e i segnali degl’inseguitori. Eben presto agli orecchi un grido gli giunge; ed Eurìalo vede, cui giàtutta quanta la schiera, ingannato dal luogo e dal buio, turbatodall’improvviso tumulto, circonda ed incalza; ed invano ei tenta in millemodi la fuga. Che fare? con quali forze, con quali armi tentar di salvareil fanciullo? O non è meglio lanciarsi in mezzo ai nemici a morire, ebella cercare con le ferite la morte? E subito, vibrando col braccioall’indietro un lanciotto, guarda la Luna nell’alto e così le rivolge unaprece: « Tu, dea, tu, propizia, nel nostro periglio soccorrici, o Latònia,onore degli astri e delle selve custode, se mai ai tuoi altari doni perme ti recò Irtaco, il padre, se mai con le mie cacce anch’io ne aggiunsi,e li sospesi alla volta o li infissi ai sacri pinnacoli '*, lasciache io disordini questa schiera, e guidami i dardi per l’aria ». Disse, econ tutto il suo corpo puntando, lanciò il ferro. E l’asta volando sferza leombre notturne, e trapassa nel petto fino alle spalle Sulmone, ed ivisi spezza, e attraversa, infittavi dentro, i precordi. Cade disella colui, vomitando un caldo fiume dal petto, gia freddo, ed i fianchigli scuotono lunghi singhiozzi. Guardano gli altri qua e la; e Niso ne prendecoraggio, e dall’altezza del capo, ecco, un altro dardo librava. E,nella trepida attesa, l’asta attraversa stridendo a Tago le tempia, es’infigge tiepida in mezzo al cervello. Atrocemente infuria Volscente, chè nonvede l'autore del eolpo per potersi lanciare ardente contro di lui. «Eb de ibat in EURYALVM. Tum vero exterritus, amensconclamat Nisus, nec se celare tenebris . amplius, aut tantum potuit perferredolorem: « Me me, adsum qui feci, in me convertite ferrum, o Rutuli! meafraus omnis: nihil iste nec ausus, nec potuit: caelum hoc et consciasidera testor. Tantum infelicem nimium dilexit amicum. Talia dicta dabat:sed viribus ensis adactus transabiit costas et candida pectorarumpit. Volvitur Euryalus leto, pulchrosque per artus it cruor,inque umeros cervix collapsa recumbit: purpureus veluti cum flos succisusaratro 435 languescit moriens, lassove papavera collo demiserecaput, pluvia cum forte gravantur. At NISVS ruit in medios solumque peromnes Volscentem petit, in solo Volscente moratur. Quem circumglomerati hostes hinc comminus spe {hbinc 440 proturbant.Instat non secius ac rotat ensem fulmineum, donec Rutuli clamantis inore condidit adverso et moriens animam abstulit hosti. Tum superexanimum sese proiecit amicum confossus placidaque ibi demum mortequievit. 445 Fortunati ambo! si quid mea carmina possunt, nulladies umquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae Capitolii immobilesaxum accolet imperiumque pater Romanus habebit. Victorespraeda Rutuli spoliisque potiti | 450 Volscentem exanimum flentes incastra ferebant.Nec minor in castris luctus, Rhamnete repertoexsangui, et primis una tot caede peremptis Sarranoque Numaque. Ingensconcursus ad ipsa corpora seminecesque viros tepidaque recentem bene, tupagherai intanto col caldo tuo sangue per ambedue » gridò; e, sguainata laspada, senz’altro si avventa ad Eurìalo. Ma allora, atterrito, fuor di sè,con un grido, non potè più celarsi nelle tenebre Niso, e sopportareun sì grande dolore: « Me, me! Son qui, sono io il colpevole; in me rivolgetele armi, o Rùtuli! È mia ogni frode; costui non osò, non poteva; pelcielo, lo giuro, e per le consapevoli stelle. Sola sua colpa, chetroppo amò l’infelice suo amico ». Così diceva; ma il ferro, vibrato conforza, attraversò le coste e ruppe il candido petto. S'abbattè Eurìalo morendo,e per le membra leggiadre il sangue si spande, ed il collo si piega abbandonatosopra le spalle: come quando un fiore purpureo che l’aratro ha reciso,languisce morendo: o come quando i papaveri sul collo stanco la testapiegano, se per caso li grava la pioggia. Ma Niso si slancianel mezzo, e solo, fra tutti, Volscente cerca, e sol di Volscente si cura. Glisi affollano intorno i nemici, e d’ogni parte, da presso, lo ricacciano;e nondimeno egli incalza ruotando la spada fulminea, finchè la piantò nellabocca del Rùtulo, che schiamazzava, e, già morente, rapì al nemico la vita.Poi. si gettò, crivellato di colpi sopra l’esanime amico, ed ivi,infine, trovò in placida morte riposo. Fortunati ambedue! Se qualche valore hail mio canto, giorno nessuno mai vi torrà alla memoria dei tempi, finchèla stirpe di Enea terrà del Campidoglio l’incrollabile rupe, e il padredella patria romana avrà qui l'impero !.Vincitori i Rùtuli, con la predae con le spoglie, piangendo portavano esanime nell’accampamento Volscente. Enon minore fu il lutto nel campo, allorchè si scoperse esangue Ramnete, edinsieme con lui tanti duci uccisi alla strage, e Sarrano, e Numa; lafolla si accalcacaede locum et plenos spumanti sanguine rivos.Agnoscunt spolia inter se galeamque nitentem Messapi, et multo phalerassudore receptas. Et iam prima novo spargebat lumine terrasTithoni croceum linquens ‘Aurora cubile; iam sole infuso, iam rebus luceretectis, Turnus in arma viros, armis circumdatus ipse,suscitat, aeratasque acies in proelia cogit quisque suas, variisqueacuunt rumoribus iras. Quin ipsa arrectis (visu miserabile) inhastis praefigunt capita et multo clamore sequuntur Euryali etNisi. Aeneadae duri murorum in parte sinistra apposuereaciem, nam dextera cingitur amni, ingentesque tenent fossas et turribusaltis stant maesti; simul ora virum praefixa movebant, nota nimismiseris atroque fluentia tabo. Interea pavidam volitans pinnata perurbem nuntia Fama ruit, matrisque adlabitur auresEURYALI. Atsubitus miserae calor ossa reliquit: excussi manibus radii revolutaquepensa. Evolat infelix, et femineo ululatu, scissa comam,muros amens atque agmina cursu prima petit, non illa virum, non illapericlitelorumque memor; caelum dehinc questibus implet: 480 « Huncego te, EURYALE, adspicio? tunc illa senectae sera meae requies,potuisti linquere solam, crudelis? nec te, sub tanta periculamissum, adfari extremum miserae data copia matri? Heu, terra ignotacanibus data praeda Latinis alitibusque iaces, nec te, tua funeramater produxi pressive oculos aut vulnere lavi, veste tegens, tibiquam noctes festina diesqueai loro corpi, e ai guerrieri moribondi, ed alluogo ancor caldo di strage recente, ed al sangue schiumante chescorre in ruscelli. Riconoscon fra loro le epoglie, e di Messapo illucido elmo, e i fregi con grande sudore riavuti. ! E già dinuova luce spargeva la terra la prima Aurora lasciando il giacigliocroceo di Titone; già sorto il sole, già scoperte le cose alla luce,Turno, già chiuso nell’armi, chiama alle armi i guerrieri; ed ordina ognunoin battaglia le sue schiere coperte dî bronzo, e raccontando il fatto neacuisce gli sdegni. Anzi, o miserabile vieta!, piantan sull’aste i capi, e liseguono forte gridando, di EURIALO e di NISO. Gli Enèadi saldi sullaparte einistra dei muri ordinan la resistenza — chè la destra èrecinta dal fiume —, e difendono gli ampi fossati e stan mesti in cimaalle torri; e li sgomentano i volti confitti dei due guerrieri, ahi troppo notia loro infelici, e gocciolanti di marcia e di sangue. Intantomessaggera la Fama volando alata per la città spaventata va scorrendo, eagli orecchi giunge della madre di Eurìalo. Subitamente il calore lasciòdell’infelice le ossa: le cade di mano la spola e rotolan giù i gomitoli.Esce correndo la misera, e, come donna, urlando, stracciate le chiome, folle,raggiunge di corsa le mura e le prime avanguardie; e non si cura, essa,dei guerrieri e del rischio dell’armi, e il cielo riempie con i suoilamenti: « Così ti rivedo, o Eurialo? Ultimo ri- . poso alla miavecchiezza, o crudele, lasciarmi sola hai potuto? E non fu dato a tuamadre infelice parlarti l’ultima volta, quando movesti ad un rischio sìgrande? Ahi, in terra ignorata, preda ai cani latini ed agli uccelli tugiaci; ed io, tua madre, non ho seguito i tuoi resti mortali, e non ti hochiusi gli occhi e lavate le tue 4 - VircILI9 - Eneide - Vol.III urgebam et tela curas solabar aniles. Quo sequar?aut quae nunc artus avulsaque membra et funus lacerum tellus habet? hoc mihi dete, nate, refers? hoc sum terraque marique secuta?Figite me, si qua est pietas, in me omnia tela conicite, o Rutuli:me primam absumite ferro: aut tu, magne pater Divum, miserere,tuoque 495 invisum hoc detrude caput sub Tartara telo, quandoaliter nequeo crudelem abrumpere vita. » Hoc fletu concussi ariimi,maestusque per omnes it gemitus; torpent infractae ad proeliavires. Illam incendentem luctus Idaeus et Actor 500 Jlioneimonitu et multum lacrimantis Iuli corripiunt interque manus subtecta reponunt. At tuba terribilem sonitum procul aere canoroincrepuit; sequitur clamor, caelumque remugit. Accelerant acta paritertestudine Volsci et fossas implere parant ac vellere vallum. Quaeruntpars aditum et scalis ascendere muros, qua rara est aciesinterlucetque corona non tam spissa viris. Telorum effunderecontra omne genus Teucri ac duris detrudere contis, 510adsueti longo muros defendere bello. Saxa quoque infesto volvebantpondere, si qua possent tectam aciem perrumpere: cum tamenomnes ferre iuvat subter densa testudine casus.Nec iam sufficiunt;nam, qua globus imminet ingens, 515 immanem Teucri molem volvuntqueruuntque, quae stravit Rutulos late armorumque resolvittegmina. Nec curant caeco contendere Marte amplius audaces Rutuli,sed pellere vallo missilibus certant. 520 Parte aliahorrendus visu quassabat Etruscamferite, avvolgendoti poi nella vesteche, giorno e notte, per te, sollecita io tesseva, consolando al telaio imiei affanni senili. Dove cercarti? Qual terra ha ora le tue membratroncate e la tua lacera salma? Questo, o mio figlio, mi riporti di te?Questo, questo, per terra e per mare, ho seguito? Me trafiggete, se invoi è alcuna pietà; su me tutte l’armi scagliate, o Rùtuli; meprima uccidete col ferro! E se no, abbimi misericordia tu, o granpadre dei numi, e col tuo dardo scagliami questo mio capo odioso giù nelprofondo del Tàrtaro, se in altro modo non posso troncar questa vita crudele ».Si consumarono i cuori a quel pianto, e mesto fra tutti unsinghiozzare si spande; si fiaccano infrante le forze dei guerrieri; maAttore e Idèo, per ordine di Ilionèo e di lulo molto piangente, lapresero, chè suscitava troppo dolore, ed a braccia la riportarono incasa. Ma da lontano la tromba per il suo bronzo canorosquillò con terribile suono; e la segue il grido di guerra e nerimbombano L cieli. Vengono i Volsci all'assalto, sotto la testuggin ‘!*serrati, e s'accingono a colmare le fosse e a svellere il vallo '”. Altricercano un varco per la scalata alle mura, là dove rada è la schiera, evi traluce meno spessa di eroi la corona. Dall’altra' parte i Teucrirovesciano ogni sorta di dardi, e li ricacciano giù con le lor durepicche; chè erano avvezzi a difendere in lunga guerra le mura. E rotolavano inbasso ad offesa pesanti macigni, per tentar di spezzare la schieracoperta: ma questa, sotto la densa testuggine, sopporta ogni colpo. Ma ormainon possono più; chè laddove più folta e perigliosa è la schiera, un massoimmenso i Troiani rotolano e piombano giù, che per un ampio trattoschiacciò i Rùtuli e ruppe il riparo di scudi. Allora non pensano più, iRùtuli audaci, a farpinum et fumiferos infert Mezentius ignes. AtMessapus equum domitor Neptunia proles, rescindit vallum et scalas inmoenia poscit. Vos, o Calliope, precor, adspirate canenti,525 quas ibi tunc ferro strages, quae funera Turnus ediderit, quemquisque virum demiserit Orco, et mecum ingentes oras evolvitebelli; let meministis enim, Divae, et memorare potestis).Turris erat vasto suspectu et pontibus altis, opportuna loco, summis quamviribus omnes expugnare Itali summaque evertere opum vi certabant,Troes contra defendere saxis perque cavas densi tela intorquerefenestras. Princeps ardentem coniecit lampada Turnus 535 etflammam adfixit lateri, quae plurima vento | corripuit tabulas etpostibus haesit adesis. Turbati trepidare intus frustraquemalorum velle fugam. Dum se glomerant, retroque residuntin partem, quae peste caret, tum pondere turris procubuit subito, etcaelum tonat omne fragore.Semineces ad terram, immani mole eecuta,confixique suis telis et pectora duro transfossi lignoveniunt. Vix unus Helenor et Lycus elapsi, quorum primaevusHelenor, Maeonio regi quem serva Licymnia furtim sustuleratvetitisque ad Troiam miserat armis, ense levis nudo parmaqueinglorius alba. Isque, ubi se Turni media inter milia vidit,hinc acies atque hinc acies adstare Latinas; ut fera, quae, densavenantum saepta corona, contra tela furit seseque haud nesciamorti inicit et saltu supra venabula fertur: haudaliter iuvenis medios moriturus in hoetes guerra così al coperto, malanciano dardi al nemico per discacciarlo dal vallo. In altra parte,orrendo a vedersi, squassava la fiaccola etrusca '* Mesenzio, e fuochifumanti lanciava. E intanto Messapo, il domator di cavalli, prolenettunia, rompeva il vallo e chiedeva le scale a salir sulle mura. Voi'’, o Calliope, ti prego, ispirate il mio canto: quali stragi ivi colferro, e che lutti Turno spargesse, e chi ogni guerriero laggiù nell’Orcorespinse; e meco il gran quadro della guerra svolgete. Chè tutto voiricordate, o Dee, e agli altri ricordarlo potete. °° V’erauna torre, altissima a guardarla dal basso, con erti ponti,opportunamente disposta; e tutti con ogni forza lottavano gli Itali perespugnarla, e con estrema | violenza tentavan di abbatterla: ma dirincontro i Troiani fitti la difendevan coi sassi e scagliavano dardi peivani delle finestre. Primo Turno lanciò una fiaccola ardente, e nel fianco viconfisse una fiamma, che, nutrita dal vento, invase le tavole, e alleimposte corrose si apprese. Spaventati, quelli di dentro, siscompigliano, e invano cercan fuggendo lo scampo. E mentre si affollano,e s’arretrano in una parte ancora illesa dal fuoco, allora a quel peso la torreimprovvisamente si schianta, e tutto a quel fragore il cielo rintuona. A terrasemivivi, sotto l'enorme mole, cadono, dalle lor armi trafitti otrapassato il petto dal duro legno. Due soli appena, Elènore e Lico,scamparono; dei quali il giù giovine, Elènore, Licinnia, una schiava,avea generato ad un re Meonio con amore furtivo: e, con armi vietate ?!,a Troia l’aveva mandato, alla leggera, con sola la spada, oscuro, econ un semplice scudo. Ma egli, come si vide in mezzo ai mille di Turno,e d’ogni parte incalzarlo schiere e schiere latine: come una belva checinta da un densoirruit et, qua tela videt densissima tendit. 559 At pedibus longe melior Lycus inter et hostes interet arma fuga muros tenet altaque certat prendere tecta manusociumque attingere dextras. Quem Turnus, pariter cursu teloqyesecutus, increpat his victor: « Nostrasne evadere, demens, sperastite posse manus? » simul arripit ipsum pendentem, et magna muri cum parterevellit: qualis ubi aut leporem ‘aut candenti corpore cycnumsustulit alta petens pedibus Iovis armiger uncis, quaesitum aut matrimultis balatibus agnum 965 Martius a stabulis rapuit lupus. Undiqueclamor tollitur; invadunt et fossas aggere complent; ardentestaedas alii ad fastigia iactant. Ilioneus saxo atque ingentifragmine montis Lucetium portae subeuntem ignesque ferentem, : EmathionaLiger, Corynaeum sternit Asylas, hic iaculo bonus, hic longefallente sagitta; Ortygium Caeneus, victorem Caenea Turnus,Turnus Ityn Cloniumque, Dioxippum Promolumque et Sagarim etsummis stantem pro turribus Idam: Privernum Capys. Hunc primo levis hastaThemillae strinxerat; ille manum proiecto tegmine demens advulnus tulit; ergo alis adlapsa sagitta et laevo infixa est laterimanus abditaque intus spiramenta animae letali vulnere rupit. Stabat inegregiis Arcentis filius armis, pictus acu chlamydem et ferrugineclarus Ibera, insignis facie, genitor quem miserat Arcens eductumMatris luco Symaethia circum flumina, pinguis ubi et placabilis araPalici. Stridentemfundam, positis Mezentius hastis ipse ter adducta circum caput agithabena,cerchio di cacciatori, infuria contro le armi, e conscia sislancia a morire, e con un balzo sopra gli spiedi si lancia, nonaltrimenti il giovane morituro si getta nel mezzo ai nemici, e, dove vedepiù folte le armi, là tende. Ma, più veloce alla corsa, Lico, fra i nemici efra l’armi fuggendo è già presso alle mura, e cerca di afferrarsi là alsommo, e di aggrapparsi alle mani dei compagni;. ma Turno, a corsa, e conl’armi, lo segue e lo giunge, e, vincitore, l’oltraggia: « Folle,sperasti tu dunque dalle mie mani scampare? » e sì dicendo lo afferra penzolonie lo svelle con una gran parte del muro: come quando una lepre o un cignodal candido corpo si porta nell’alto l’armigero di Giove °° con piediartigliati, o come quando il marzio lupo rapisce dalla stalla un agnello, e locerca con lunghi belati la madre. Si alzan da ogni parte le grida; vannoall’assalto, e col. man di terra i fossati; altri fiaccole ardentilanciano verso le cime. Ilioneo con un sasso, un enorme pezzo dimonte, abbatte Lucezio, che già era sotto alla porta per appicarvi ilfuoco; Lìgero atterra Emazione: Asila, Corineo; l’uno valente nell’asta,l’altro nel dardo che coglie da lungi. Cèneo uccide Ortigio; e Turno, ilvincitore Cèneo; Turno, Iti e Clònio e Diossippo e Pròmolo e Sàgari eIda, che guardava le altissime torri. Capi uccise Priverno. L’avevasfiorato da prima lievemente la lancia di Temilla; ed egli, gettato loscudo, folle portò la mano alla ferita: e allora, volando, una frecciagli piantò nel fianco sinistro la mano, ed entrando gli ruppe con mortaleferita i polmoni. Stava nell’armi egregie il figlio di Arcente, con ricamata laclàmide, spleudente di porpora ibèra #, bello di aspetto, che il padreArcente aveva mandato; ed allevato lo aveva di Cibele nel bosco, pressoalle correnti del Simeto, là dove èet media adversi liquefacto temporaplumbo diffidit ac multa porrectum extendit harena. Tum primumbello celerem intendisse sagittam dicitur, ante feras solitus terrerefugaces, Ascanius, fortemque manu’ fudisse Numanum cui Remulocognomen erat, Turnique minorem germanam nuper thalamo sociatushabebat. Is primam ante aciem digna atque indigna relatuvociferans, tumidusque novo praecordia regno ibat et ingentem seseclamore ferebat: « Non pudet obsidione iterum valloque teneri, biscapti Phryges, et morti praetendere muros? En qui nostra sibi belloconubia poscunt! Quis Dens Italiam, quae vos dementia adegit? Nonhic Atridae nec fandi fictor Ulixes: durum ab stirpe genus natos adflumina primum deferimus saevoque gelu duramus et undis: venatuinvigilant pueri silvasque fatigant, flectere ludus equos et spiculatendere cornu. At patiens operum parvoqueadsueta iuventus aut rastris terram domat aut quatit oppida bello.Omne aevum ferro teritur, versaque iuvencum terga fatigamus hasta; nectarda senectus debilitat vires animi mutatque vigorem; canitiemgalea premimus, semperque recentes comportare iuvat praedas et vivererapto. Vobis picta croco et fulgenti murice vestes, desidiae cordi;iuvat indulgere choreis, . et tunicae manicas et habent redimiculamitrae. O vere Phrygiae, neque enim Phryges, ite per alta Dindyma,ubi adsuetis biforem dat tibia cantum. Tympana vos buxusque vocantBerecyntia matris Idaeae: sinite arma viris et cedite ferro. » pingue didoni e mite l’altar di Palìco **. Posate le aste, tre volte rotando lafune al suo capo, Mesenzio stesso lanciava la fionda stridente; e con ilpiombo disciolto *. gli ruppe nel mezzo le tempie, e lo rovesciò lungodisteso sul suolo. Dicon che allora, la prima volta scagliasse inguerra il suo agile dardo Ascanio, già assuefatto a spaventare infuga le fiere, e di sua mano abbattesse il forte Numano, Rèmolo detto, cheaveva da poco sposata la sorella minore di Turno. Quegli, davanti a tutti,vociferando a diritto e a rovescio, gonfio nel cuore della fresca realparentela, andava avanzando borioso gridando: « E non vi vergognate, o Frigiacchiappati due vol. te, di stare un’altra volta dentro ad un valloassediati, e di opporre alla morte le mura? Eccoli, quelli che chiedonole nostre spose con l’armi! Qual Dio vi ha spinti in Italia o qualevostra follia? Non sono qui gli Atridi, nè Ulisse spacciatore difrottole. Dura razza fin dalla radice, i nostri figli tuffiamo appena nati neifiumi, e li induriamo al crudo gelo dell’onde. Fanciulli, si dannoalle cacce e stamcan le selve, ed è lor gioco domare cavalli e tender dall'arcole frecce. Poi, pazienti al lavoro e paghi di poco, i giovani doman laterra coi rastri, o scrollano in guerra le mura. Ogni età si consuma trail ferro, e con l’asta a rovescio pungiamo le terga dei buoi; nè lavecchiaia, ancor tarda, indebolisce le forze dell’animo o ne muta il vigore;premiamo con l’elmo i capelli canuti, e sempre ci giova portar via predenovelle e vivere della rapina. Ma voi amate le vesti dipinte dicroco e di porpora splendida; vi piace badare alle danze, con tuniche adorne dimaniche e mitre guarnite di nastri. O veramente Frige, e non Frigi,andate per l’alto del Dìndimo ?‘, dove solete ascoltare il canto delflautoTalia iactantem dictis ac dira canentem non tulit Ascanius,nervoque obversus equino intendit telum, diversaque bracchia ducensconstitit, ante lovem supplex per vota precatus: « Iuppiter omnipotens,audacibus adnue coeptis, ipse tibi ad tua templa feram sollemniadona et statuam ante aras aurata fronte iuvencum, candentem,pariterque caput cum matre ferentem, iam cornu petat et pedibus quispargat harenam. » Audiit et caeli genitor de parte serena intonuitlaevum, sonat una fatifer arcus. Effugit horrendum stridens adductasagitta perque caput Remuli venit et cava tempora ferro traicit. «I, verbis virtutem illude superbis! bis capti Phryges haec Rutulisresponsa remittunt. Hoc tantum Ascanius. Teucri clamore sequuntur,laetitiaque fremunt animosque ad sidera tollunt. Aetheria tum forte plagacrinitus Apollo desuper Ausonias acies urbemque videbat, nubesedens, atque his victorem affatur Iulum: Macte nova virtute, puer: sic itur adastra, Dis genite et geniture Deos. Iure omnia bella gente subAssaraci fato ventura resident: nec te Troia capit. » Simul haec effatusab alto aethere se mittit, spirantes dimovet auras, 645 Ascaniumquepetit. Forma tum vertitur oris antiquum in Buten. Hic DardanioAnchisae armiger ante fuit fidusque ad limina custos. Tum comitemAscanio pater addidit. Ibat Apollo omnia longaevo similis, vocemquecoloremque 650 et crines albos et saeva sonoribus arma; atque hisardentem dictis adfatur Iulum: « Sit satis, Aenide, telis impuneNumanuma due canne. Vi chiamano i timpani del Berecinto e il flautodi bosso della gran Madre idèa; lasciate agli uomini l’armi e rinunciate allaguerra ». Le vanterie e gli insulti non tollerò Ascanio, ementr’egli sbraitava, di fronte a lui incoccò sul nerbo equino °° una freccia,e con le braccia aperte stiè fermo, prima levando a Giove, supplichevole, ilvoto: « O Giove onnipotente, consenti all'audace mia impresa. Ed iosolenni doni ti recherò ai tuoi templi, ed agli altari un giovencot'immolerò, dalle corna dorate, candido, che porti il capo alto al pardella madre, e già cozzi e coi piedi sparga all’intorno l’arena ». L’udìil Padre, e dalla plaga serena del cielo tuonò da sinistra: ed insiemerisuonò il suo arco fatale. OCrribilmente stridendo fuggì la scagliatasaetta, e dentro il capo di Rèmolo s’infisse e trapassò col ferro leconcave tempia. « Va, schernisci il valore con le parole superbe! IFrigi, due volte acchiappati, questa risposta ai Rùtuli inviano ». Nè altrodisse Ascanio; ma i Teucri lo applaudon gridando, e fremon diletizia, ed alzano il cuore alle stelle. Proprio allora, dall’alto delcielo Apollo crinito stava mirando le schiere ausonie ed il campo, seduto soprauna nube; e a Iulo vittorioso volgeva queste parole: « Bene, ovaloroso fanciullo! Così si ascende alle stelle, o progenie di numi chedovrai generare altri numi. Ben tutte le guerre future, per volere deifati, sotto la stirpe di Assàraco dovranno aver fine: troppo poco è Troiaper te. Ciò detto, dall’alto dell’etere si getta, e fende le aurevitali, e viene ad Ascanio, mutando l’aspetto del volto in quellodi Bute, l’anziano. Questi già era stato di Anchise dardanio scudiero e fidocustode alle soglie. Poscia il padre lo diede compagno ad Ascanio; edApollo veniva simile in tutto a quel vecchio, la voce, il colore, icapelli canoppetisse tuis: primam hanc tibi magnus Apollo conceditlaudem et paribus non invidit armis:cetera parce, puer, bello. » Sic orsusApollo mortales medio adspectus sermone reliquit, etprocul in tenuem ex oculis evanuit auram. Agnovere Deum proceresdivinaque tela Dardanidae, pharetramque fuga sensere sonantem.Ergoavidum pugnae dictis ac numine PhoebiAscanium prohibent: ipsi incertamina rursus succedunt animasque in aperta periculamittunt. It clamor totis per propugnacula muris:intendunt acres arcus amentaque torquent. 665 Sternitur omnesolum telis; tum scuta cavaeque dant sonitum flictu galeae; pugnaaspera surgit;quantus ab occasu veniens pluvialibus Haedis .verberat imber humum: quam multa grandine nimbi in vadapraecipitant, cum Iuppiter horridus Austris torquet aquosam hiemem et caelocava nubila rumpit. Pandarus et Bitias, Idaeo Alcanore creti,quos Iovis eduxit luco silvestris Iaeraabietibus iuvenes patriis etmontibus aequos, portam, quae ducis imperio commissa, recludunt,freti armis, ultroque invitant moenibus hostem. Ipsi intus dextraac laeva pro turribus adstant, armati ferro et cristis capita altacorusci: quales aériae liquentia flumina circum, sivePadi ripis Athesim seu propter amoenum, consurgunt geminae quercus intonsaquecaelo attollunt capita et sublimi vertice nutant. Irrumpunt, aditusRutuli ut videre patentes.Continuo Quercens et pulcher Aquicolusarmis et praeceps animi Tmarus et Mavortius Haemon agminibus totisaut versi terga dedere, didi e l’armi ferocemente sonanti: ed all’ardenteIulo si volge con queste parole: « Ti basti, o figliuolo d’Enea, che siacaduto Numano per il tuo colpo e senza tuo male; questa prima lode a teil grande Apollo concede, e non t’invidia se tu lo eguagli nell’ arco; mad’ora in poi, o fanciullo, astieniti dal guerreggiare ». Così dicendoApollo, a mezzo il discorso lasciò l'aspetto mortale e lontano svanì dagliocchi nell’aria leggera. Riconobbero il Dio gli anziani dei Dàrdani, e l’armidivine, e sentiron sonare, mentr'egli fuggìa, la faretra. Onde aidetti e al volere di Febo allontanavano. Ascanio, avido ancora di pugna;ritornano essi a combattere, ed espongono nell’aperto periglio la vita.S'alza da tutte le mura per tutte le torri un clamore: tendono gli archigagliardi e lanciano i giavellotti. Il suolo tutto si copre di strali; aicolpi risuonan gli scudi e i concavi elmi; insorge dura la pugna. Così alvenir da ponente, sotto i Capretti piovosi °°, sferza la pioggia laterra; così con la grandine precipitano i nembi sul mare, quandoorrido Giove con gli Austri turbina l’acque a diluvio, e nel cielo leconcave nubi dirompe. Pàndaro e Bizia, da Alcànore Idèo generati,che nel bosco di Giove allevòo la silvestre Ièra *, giovani pariagli abeti dei monti paterni, apron la porta, che il duce aveva a loroaffidata, fiduciosi nell’armi, e il nemico provocano a entrar nelle mura. Edessi là dentro, a destra e a sinistra, si rizzano a guisa di torri, diferro armati, e corruschi gli erti capi di creste; come aereelunghesso 1 fiumi correnti, sulle sponde del Po o presso l'Adigeameno, sorgon due querce gemelle, e innalzano le chiome intonse nel cielo, conle cime sublimi ondeggiando. Irrompono i Ruùtuli, poi che videro apertele porte; ma tosto Quercente e Aquìcolo bello nell’armi e Tmaroautipso portae posuere in limine vitam. Tum magis increscunt animis discordibus irae: et iam collecti Troésglomerantur eodem et conferre manum et procurrere longius audent. 690Ductori Turno diversa in parte furenti turbantique viros perferturnuntius, hostem fervere caede nova et portas praebere patentes.Deserit inceptum atque immani concitus ira Dardaniam ruit ad portamfratresque superbos. Ét primum Antiphaten (is enim se primus agebat), Thebana de matre nothum Sarpedonis alti, coniecto sternit iaculo: volatItala cornus aéra per tenerum, stomachoque infixa sub altum pectusabit: reddit specus atri vulneris undam spumantem, et fixo ferrum in pulmonetepescit. Tum Meropem atque Erymanta manu, tum sternit[Aphidnum: ‘tum Bitiam ardentem oculis animisquefrementem, non iaculo (neque enim iaculo vitam ille dedisset). Sedmagnum stridens contorta phalarica venit,, 705 fulminis acta modo, quamnec duo taurea terga nec duplici squama lorica fidelis et aurosustinuit. Collapsa ruunt immania membra. Dat tellus gemitum, et clipeumsuper intonat ingens. Talis in Euboico Baiarum litore quondam 710saxea pila cadit, magnis quam molibus ante constructam ponto iaciunt; sicilla ruinam prona trahit penitusque vadis illisa recumbit; miscentse maria et nigrae attolluntur harenae; tum sonitu Prochyta alta tremit,durumque cubile 715 Inarime Iovis imperiis imposta Typhoeo.Hic Marsarmipotens animum viresque Latinis addidit et stimulos acres sub pectorevertitl’impetuoso ed il marziale Emone, con tutte le schiere, ovolser fuggendo le spalle, o sulla soglia stessa della porta lasciaron lavita. Allora crescon vie più nei cuori discordi le ire; e già ammassati iTroiani si stringon colà, ed osan venire alle mani e avanzarsi fuoripiù lungi. Al duce Turno, che in altra parte infuriava esgominava i guerrieri, giunge la nuova: il nemico arde di strage novella,e aperte si offron le porte. Lascia l’impresa e spinto dall’ira tremenda,contro la porta dardania si scaglia e i fratelli superbi. E per il primoAntifate (poichè avanzava pel primo) di madre tebana bastardo di Sarpèdonealto, colpisce ed abbatte col dardo: vola il corniolo italico *' per l’arialeggera, e piantatosi in gola scende nel fondo del petto; sgorga dallacaverna della negra ferita un'onda spumante, e nel polmone trafittointiepidisce il ferro. Poi Mèrope ed FErimante abbatte, poi Afidno, poiBizia che Iampeggiava con gli occhi e con il cuore fremeva; ma non con undardo, chè quegli con un dardo non dava la vita! Ma fortemente stridendouna falàrica venne, lanciata a guisa diun fulmine, cui le due pelli taurine non ressero, nè la fedele corazza didoppia squama dorata. Le membra immani stramazzano; la terra ne geme, e disopra lo ecudo immenso rintuona. Tale nel lido euboico di Baia . cadetalora un blocco di macigni che costruiscon prima con grandi massi e poigettan nel mare; così esso rovina all’ingiù, e scagliato nel più profondosi arresta: ma ribollon le onde e negre si sollevan le arene, e aquel fragore l’alta Pròcida trema, ed Ischia, che per comando di Giove,fu posta, duro letto, sopra Tifèo.Qui Marte signore dell’armi coraggio eforza ai Latini crebbe ed acuti gli sproni rivolse loro nel cuore, e immisitqueFugam Teucris atrumque Timorem. Undique conveniunt, quoniam data copiapugnae, bellatorque animo Deus incidit. Pandarus ut fusogermanum corpore cernit, et quo sit fortuna loco, qui casus agatres, portam vi magna converso cardine torquet, obnixus latisumeris; multosque suorum moenibus exclusos duro in certaminelinquit; ast alios secum includit, recipitque ruentes, demens, quiRutulum in medio non agmine regem viderit irrumpentem, ultroqueincluserit urbi, immanem veluti pecora inter inertia tigrim.Continuo nova lux oculis effulsit, et arma horrendum sonuere: tremunt invertice cristae sanguineae, clipeoque micantia fulmina mittit.Agnoscunt faciem invisam atque immania membra turbati subito Aeneadae.Tum Pandarus ingens emicat, et mortis fraternae fervidus iraeffatur: « Non haec dotalis regia Amatae, nec muris cohibetpatriis media Ardea Turnum: castra inimica vides; nulla hinc exirepotestas. » Olli subridens sedato pectore Turnus: « Incipe,si qua animo virtus, et consere dextram: hic etiam inventum Priamonarrabis Achillem. Dixerat. Ille rudem nodis etcortice crudo intorquet summis adnixus viribus hastam. Excepereaurae: vulnus Saturnia luno detorsit veniens, portaeque infigiturhasta.At non hoc telum, mea quod vi dextera versat, effugies: nequeenim is teli nec vulneris auctor. » Sic ait, et sublatum alte consurgitin ensem, et mediam ferro gemina inter tempora frontemdividit impubesque immani vulnere malas. contro i Teucrilanciò la Fuga ed il cupo Terrore. Accorrono da ogni parte quelli, poichè sicombatte da presso, ed il guerriero Iddio entrato è a loro nelcuore. Pandaro, come vede a terra disteso il fratello, e che lafortuna è per gli altri ed è contrario l'evento, a gran forza, puntandol’ampie spalle, la porta spinge sui cardini e serra; e molti dei suoi lasciafuor delle mura in aspra battaglia; ma altri riesce a chiuder con sè eli accoglie che precipitavano dentro. Folle, che il rùtulo ‘re nonvide, che in mezzo alla schiera dentro irrompeva, ed anzi lo serrava nelcampo, come, tra un gregge imbelle, feroce una tigre; di sùbito, gli sfavillodagli occhi una luce novella, e le armi orribilmente suonarono: sisquassan sull’'elmo le creste sanguigne, ed agitando lo scudo vibrabagliori di lampi. Riconoscon la faccia odiosa e le membra giganti, di subito_sgomenti gli Enèadi. Allora gli sbalza davanti Pàndaro immenso, efremendo d’ira pel morto fratello, grida: « Non è questa la reggiadotale di Amata, nè qui è Ardea, che Turno rinchiuda fra le mura paterne.Campo nemico è questo che vedi; ed uscir non potrai ». A lui sorridendoTurno con cuore pacato: « Orsù, se hai coraggio, combatti con me:racconterai a Priamo che anche qui s’è trovato un Achille ». Sì disse; equegli, con ogni sua forza poggiando, aspro di nodi e di ruvida scorza ungiavellotto lanciò. Ma colpì l’aria, chè la saturnia Giunone deviò ilcolpo mortale, e l’asta contro la porta s’infisse. « Ma non tuquesta spada, che ruota la mia destra a gran forza, sfuggirai: chè di un altroè l’arma ed è la ferita ». Così disse, e si alzò con tutta la spada levata; econ il ferro la fronte gli spaccò in mezzo alle tempie, e, conorrenda ferita, ancora imberbi le guance. Fu un fragore, e la terrafu scossa al cader del gran peso; stende egli aVirciLio - Eneide - Vol.Fit sonus, ingenti concussa est pondere tellus: collapsos artusatque arma cruenta cerebro sternit humi moriens, atque illipartibus aequis. huc caput atque illuc umero ex utroque pependit.Diffugiunt versi trepida formidine Troés; et si continuo victoremea cura subisset, rumpere claustra manu sociosque immittereportis, ultimus ille dies bello gentique fuisset. Sedfuror ardentem caedisque insana cupido egit in adversos. PrincipioPhalerim et succiso poplite Gygen excipit: hinc raptas fugientibusingerit hastas in tergum. Iuno vires animumque ministrat;addit Halym comitem et confixa Phegea parma, 765 ignarosdeinde in muris Martemque cientes Alcandrumque Haliumque NoémonaquePrytanimque. Lyncea tendentem contra sociosque vocantem©vibranti gladio conixus ab aggere dexter occupat: huic unodeiectum comminus ictu cum galea longe iacuit caput. Inde ferarum vastatoremAmycum, quo non felicior alter ungere tela manu ferrumque armareveneno, et Clytium Aeoliden, et amicum Crethea Musis,Crethea Musarum comitem, cui carmina semper et citharae cordi numerosqueintendere nervis: semper equos atque arma virum pugnasque canebat.Tandem ductores, audita caede suorum, conveniunt Teucri, Mnestheusacerque Serestus, palantesque vident socios hostemque receptum. EtMnestheus: « Quo deinde fugam, quo tenditis? inquit. Quos aliosmuros, quae iam ultra moenia habetis? Unus homo et vestris, ocives, undique saeptus aggeribus, tantas strages impune perurbemterra morendo le membra prostrate e le armi sozze di sangue edi cèrebro; e da ambedue le spalle gli penzola un capo e di qua e di là. Fuggonrespinti da pauroso terrore i Troiani; e se il vincitore pensava, in quelmomento, a spezzare i cancelli e a far entrar per la porta i compagni,l’ultimo giorno era quello della guerra e del popol troiano. Ma il suo furore eun folle desiderio di strage lo scagliò impetuoso in mezzo ai nemici.Prima egli affronta Fàlari, e a Gige recide il garretto; poi toglie lorole aste e le lancia alle spalle ai fuggenti. Forze e coraggio glisomministra Giunone. Hali dà lor per compagno, e, trafittogli lo scudo,Fegeo; poi, mentre ignari sulle mura incitavano a guerra, Alcandro, edAlio, e Noèmone, e Prìtani. Lìnceo, che gli veniva incontro echiamava i compagni, egli previene, rotando la epada, dallo steccato adestra: e d’un sol colpo da presso, il capo troncato si giacque insiemecon l’elmo lontano. Poi, Amico, il distruttore di fiere, di cui altri nonera più esperto ad unger gli strali e avvelenare le armi; poi,Clizio l’eòlide, e amico alle Muse Creteo, Creteo alle Muse compagno, chesempre i carmi e le cetre ebbe a cuore, e l’armonia delle corde: sempre icorsieri e le armi e le pugne eroiche cantava. Alfine i Teucriduci, udita la strage dei loro, accorrono, Mnèsteo ed il padre Seresto, evedono rotti i compagni, e, fra le mura, il nemico. E Mnèsteo: «E poi,dove fuggite? dove andare volete? — diceva. — E che altre mura, che altracittà vi rimane? Un uomo solo, e d’ogni parte rinchiuso dai vostristeccati, potrà, o cittadini, di stragi riempir la città, impunemente?Tanti fra i primi guerrieri manderà giù nell’Orco? Non della miserapatria e degli antichi Iddii, e del magnanimo Enea, codardi, vi toccamisericordia o vergogna? » Ac ediderit? iuvenum primos tot miserit Orco? Non infelicis patriae veterumque Deorumet magni Aeneae, segnes,miseretque pudetque? » Talibus accensi firmantur et agmine densoconsistunt. Turnus paulatim excedere pugna “et fluvium petereac partem, quae cingitur unda: 790 acrius hoc Teucri clamore incumberemagno et glomerare manum, ceu saevum turba leonemcum telispremit infensis, at territus ille asper, acerba tuens, retro redit,et neque terga ora dare aut virtus patitur, nec tendere contra,ille quidem, hoc cupiens, potis est per tela virosque: haud aliter retrodubius vestigia Turnus improperata refert, et mens exaestuatira. Quin etiam bis tum medios invaserat hostes, bisconfusa fuga per muros agmina vertit; 800 sed manus e castris properecoit omnis in unum: nec contra vires audet Saturnia lunosufficere, aériam caelo nam luppiter Irim demisit, germanaehaud mollia iussa ferentem, ni Turnus cedat Teucrorum moenibus altis. Ergo nec clipeo iuvenis subsistere tantum, nec dextra valet;iniectis sic undique telis obruitur. Strepit adsiduo cava temporacircum tinnitu galea, et saxis solida aera fatiscunt,discussaeque iubae capiti, nec sufficit umbo ictibus; ingeminant hastis etTroès et ipse fulmineus Mnestheus. Tum toto corpore sudorliquitur et piceum (nec respirare potestas) flumen agit:fessos quatit acer ànhelitus artus. Tum demum praecepssaltu sese omnibus armis in fluvium dedit. Ille suo cum gurgiteflavo accepit venientem ac mollibus extulit undiset laetumsociis abluta caede remisit.cesi da tali parole, riprendono cuore, e inischiera serrata lo affrontano: e Turno a passo a passo si ritrae dallabattaglia, volgendo verso il fiume e la parte che n’era ricinta; e peròpiù accaniti i Troiani lo incalzan con grande clamore, addensando leschiere. E come quando un feroce leone stringon da presso con l’armiostili i cacciatori, e quello, fiero, e torvo lo sguardo, retrocede, manè l’ira o il valore non gli lascian voltare le spalle; ma neppurepotrebbe, benchè desioso, lanciarsi in mezzo alle armi e alla turba: nonaltrimenti Turno, dubbioso, lentamente si arretra, e il cuore per l’iragli bolle. Anzi, due volte si era gettato in mezzo ai nemici, duevolte volse in fuga per le mura le schiere sconvolte; ma tuttorapidamente si accoglie dal campo l’esercito contro lui solo, nè altreforze formirgli osa la Saturnia Giunone, giacchè aerea dal cielo GioveIride inviava, con suoi bruschi comandi alla sorella **, se Turno nonlasciasse le mura alte dei Teucri. Dunque non può il giovane con loscudo o con la mano resistere ancora: son troppi i dardi che d’ogni partegli piovono giù. Senza riposo tinnisce intorno alle concave tempiel’elmo, ed il solido bronzo s’incrina alle pietre, e le creste sirovescian dal capo, e ai colpi non basta lo scudo; raddoppian l’assalto iTroiani con l’aste, e primo, fulmineo, Mnèsteo. Da tutto il corpo ilsudore allora gli gronda, e gli cola — omai il respiro gli manca — in unfiume color della pece. E finalmente allora, a precipizio, di un salto,con tutte le armi, nel fiume si lanciò; e quello, con la sua biondacorrente l’accolse, e lo tenne sopra le onde tranquille, e, della strageasterso, lieto ai compagni lo rese. Angelo Conti. Keywords: VIRGILIANA, decadente,decadenza, divina decadenza, filosofia decadente, filosofo decadente,decadentismo, divinely decadent – d’annunzio, museo d’annunziano, il bello e ilbizzarro, il bello bizzarro, estetica, sensatio, senso, sensum, sentior,sentitum, perceived, perceptum – sense and sensibilia, estetico/noetico (nihilest in intellectu qui prior non fuerit in sensu), propieta estetica, proprietadi secondo grado, secondary quality, Grice, Sibley, Scruton, Platone, Kant,Schopenhauer, Ruskin, Pater, Antichita, antico e moderno, il fascino dell’antico,from the antique, from life, Uffizi, Accademia Venezia, RegieAccademiadiVenezia,Capodemonti, Napoli, Antichita Roma, il fiume d’Eraclito, Ulisse e il cantodelle sirene, Morelli, Francesco, Virgilio, dolcissimo padre, ascetismo,ascecis, zorzi, riva beata, Pater, Essay on Style by Pater, Da Vinci, Morelli,la nudita eroica d’Enea – Luigi Ratini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti”– The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Conti: la ragioneconversazionale e l’implicatura converseazionale del dialogo filosofico – scuoladi Padova – filosofia padovana – filosofia veneta -- filosofia italiana – LuigiSperanza (Padova). Filosofo padovano. Filosofoveneto. Filosofo italiano. Padova, Veneto. Grice: “Conti is a good one; for onehe is a ‘patrizio veneziano,’ for another he like Alexander Pope and detestsNewton! (Italian temper there!) – My favourite are his “Dialoghi filosofici,’full of implicata as they are!” Patrizioveneto, classicista, famoso per essere stato arbitro nella controversia traLeibniz e Newton, circa l'invenzione del calcolo infinitesimale (keyword:infinito). Si lege in amicizia con Fay,noto per gli esperimenti fisici che conduce all'Accademia delle Scienze. Di luiesiste una statua in Prato della Valle, fatta da Chiereghin. Scrive saggi riguardantila struttura della tragedia, e nel “Trattato del fantasma poetico” discute lafunzione del coro: monologo, dialogo, coro (terza persona?). Tra le suetragedie, la più significativa fu il “Giulio Cesare”. Ne scrive altre tre,tutte di soggetto romano: “Marco Bruto”, “Giunio Bruto”, e “Druso”. Altreopere: “Opere” (Venezia, presso Giambatista Pasquali); “Versioni poetiche”(Bari, Laterza). Dizionario biografico degli italiani. Della nascita del C. sonor’ſuoi veri pu dj. Principio de’ suoi studi scritto da lui stero. Disputa colNigrisoli e altre particolarità de’ suoi studi sono al primo viaggio diFrancia. Primo viaggio in Francia. Primo viaggio in Inghilterra e primeconversazioni col Newtono. Mediazione tra il Newtono e il Leibnizio Studi ealtre occupazioni di Conti a Londra. Suoi sudj di belle lettere. Viaggiod'Ollanda e d'Allemagna. Nuova dimora in Inghilterra. Ritorno in Francia e ſuoipudi. Amicizie. e converſazioni in queſti anni in Francia. Querela col Newtono.Suo ritorno in Italia. Edizione del Cesare. Studi e commerzi. Edizione delleſue Prose e Poesie. Sue Tragedie. Illustrazione del Parmenide di Velia diPlatone; fima e onori di C.. Traduzioni. Altri suoi fudi. Progetti di nuoveopere. Ultimi ſtudi. Edizione del Druso; ſua morte. Rifleli Jul carattere di C.,e notizie particolari della sua vita private. Relazione de’ Manoscrittilasciati da C. Dell' Imitazione. Del Fantasma Poetico. La Poesia Greca.Allegoria dell'Eneide di Virgilio. Illuſtrazione dello Scudo di Enea.Illustrazione del Poema di Catullo intitolato le Nozze di Teride e di Peleo.Dissertazione sopra la Tebaide di Stazio. Discorso ſopra la Italiana Poesia.Illustrazione del Dialogo di Fracastoro intitolato il Na. wagero, o fia dellaPoesia. Disertazione sopra la Ragion Poetica del Gravina. Della Potenzaconoscitiva dell'Anima. Della Fantasia. Poesie Tradotte dall' Inglese. Al Sig.Marcheſe Manfredo Repeta sopra il Poema del Riccio Rapito. Il Riccio Rapito.Prose Franceſe Italiane a Monſieur Perel. Dialogue ſur la Nature de l' Amour.Lettre à Madame la Preſidente Ferrant. Lettera al Sig. Cavalier Vallisnieri. Alsig. Marcheſe Maffei. Al N. U. Sig. Benedetto Marcello. Al P. D. BernardoPiſenti C. R. Somaſco.A Monſignor Cerarti. L’allegoria dell’Eneide di Virgiliopropone una cosa per farne intender un'altra, che ſeco è in proporzione, se l’“Eneide” per consenso di tutti i più abili commentatori é un panegirico *allegorico*d'Augusto, convien necessariamente che la cosa proposta sieno l’azione d’Enea (l’explicatura),e la cosa che deve intendersi ed è loro proporzionata, l’azione d'Augusto(implicatura) più memorabile e più degna di lode. Per çiò con una ſuccincanarrazione pone prima sotto gli occhi l’azione d'Enea, che e il primo termine(l’explicatura) su cui l’allegoria o metafora o implicatura (& fonda, ocome l'originale del ritratto; indi fa il confronto dell’azione di Augusto.Nell'istoria d'Enea, basta quloſſervare l’oggetto dell’epica, e il caratterestoico dell'eroe. L'oggetto tutto tende alla nuova colonia di Roma o alPrincipato ch'Enea (via Ascanio e Romolo e Remo) ha da fondare nel Lazio eItalia. Questo gli predisse Creusa, Febo, i Penati; questo le Arpie, Eleno e laSibilla; e perchè fi compisca l’oracolo della predeterminazione e del fatalismostoico, Enea li salva dagl in incendi e dalla strage di Troja. Ettore lodichiara Pontefice. I compagni lo eleggono Re. Avvisato o protetto schiva itradimenti, gli scogli, i ciclopi; non è sommerso nelle tempeste, nontrattenuto dall’africana Didone più pericolosa delle stesse tempeste.Finalmente arrivato in nel Lazio trova il re latino dispoſto a riceverlo pergenero, Evandro e i toscani pronti a dargli soccorso; sebben abbia a fronte Torno,un nimico feroce e collegato coi vicini, lo vince e l'uccide. Gli oracoli fatalistipredeterminati stoichi dunque, i viaggi, e le guerre d’Enea non riguardano senon lo stabilimento d'un regno o principato. Il carattere poi d’Enea odell'eroe si vede in tutta l'Eneide composto della *virtù* stoica convenevoli alcapo e fondatore d'un regno. La virtu e pietà verso l’uomo e verso Diuspater,senno nel provvedere a’pericoli e prevederli, valore da soldato e da capitano.La pietà (o compasione) verso l’uomo e la carità – l’imperativo della caritaconversazionale, verso Diuspater religione. Della carita o benevelonza ocompasione, o compieta verso l’uomo Enea dà esempi illustri per tutto. Salva ilpadre Anchise dalle fiamme portandolo sulle spalle dirige sempre il viaggio secondoi di lui consigli, celebra il suo anniversario co'giochi conſiderati da’ paganicome una parte della eeligione, e per ubbidirlo discende fino all’inferno!Quanto è tenero per il figliuolo Ascanio, e sollecito e della salute e de gliavanzamenti di lui! E quando Creusa sua moglie si smarrisce, non va egli a ricercarlatra gl'incendi e le stragi? Che dirò della sua pietà, carita, compassione,compieta, benevolenza, verso il suo compagno (o d’EURIALO verso NISO), versol’amico, e verso Torno, il nemico stesso? Nella tempesta più s’affligge dellaloro perdita che della propria, gli consola e gl’incoraggisce negli affanni, liprovvede di cibo, li divertisce e premia co’giochi, fa l’esequie a Polidoro suoparente, a Miseno suo trombettiere, a Gaeta sua nutrice; piange la morte di Palinuroe più quella di Pallante (Patroclo), e ne manda il cadavere ad Evandro conmagnificenza e con lutto degno di un re. Avendo ferito a morte Lauro che l’assalì,gli itende la destra, lo solleva, e lascia che a Mesenzio se ne porsi il corpo.Vuol perdonare a Turno, e non l’uccide *che* per vendicar suo amante Pallante;ciò ch'era un atto di carita. Verso Diuspater sempre fervida e pronta è la suapietà. Come stoico perfetto e negatore del libre arbitrio, nulla intraprendesenza consultare l’oracolo, e non comincia alcun’azione senza offrir un voto,una preghiera e sacri fizj, ch’egli offre egualmente al Diuspater propizio, chealle Diuspater nonpropizio o Giunone e Pallade. Per ubbidir Diuspater supera lapassione che la strega Didone invoca, cede rispettoso alla sua colleranell'incendio di Troia; conosce Apollo per principal protettore; ascoltaattento i cantici d'Ercole, e invoca Berecintia che l'allista nella nuovaguerra. Alla sua pietà corrisponde il suo senno. Tosto ch'entra in un paesevuol conoscere i liti, i luoghi, e la gente che l'azbita; così fa in Affrica, enel regno d'Evandro, e scoperto l'assaſlinio di Polinestore fugge il pericolodi cadervi: fa metter in aguato i soldati per lorprender l'Arpie; egli steſſodirige la nave che manca di piloto; manda ambasciatori al re del Lazio; cercasoccorso nella guerra; ricevuto lo distribuisce in due corpi per piùimbarazzare il nemico ciò ch'è una parte della virtu o prudenza militare, nonmeno che assediar la città mentre il nemico è sospeso. Questo o quello segno (manifestazionesecondo Vitters) del valore poi non dà nell'attaccare i nimici, nel farnestragi di sua mano? uccide i più forti e tra gli altri Lauso, Mesenzio, lostesso Turno. Più comparisce il valore d'Enea, se col P. Boſsù fi confronti conquello di Turno, antagonista, avversario, dell’epica, ardente, milantatore,prepotente e buono sol per la guerra che vuole giusta od ingiusta, ed in questaè incauto e senza direzione. Enea all'opposto grave – la gravita romana --, misuratoe non peccatore o essecivo, parla poco, laconico, opera molto, sempre consigliatoe forte colla gloria del consiglio e dell'esecuzione. Di questo o quello segnodella virtu -- pietà, senno, e valore, c’e un intreccio mirabile, sicchecomparisce Enea saggio e paziente capitano come Agamennone, valoroo vincitordel nimico come Achille, destro a maneggiar lo spirito ed a condur unanegoziazione o consenso cooperative conversazionale come Nestore e Ulise:giugne a questa virtù una pietà sincera, una probità esatta che mai non ſiſmente, una compassion tenera per il suo amico e il suo suddito. Enea è buonfiglio, buon padre, buon amico, buon amante, e tutto ciò per motivi superioridi dovere e di ragione morale kantiana alla luce del stoicismo fatalism delpredeterminismo. Sopra tutto pero domina la specie della virtù più convenevoled’ogni altra specie al fondatore della dinastia di Romolo, perchè per essa simerita la protezione di Deuspater, si rende l’amico o il popolo che deveubbidire, l’alleato, ed il vicino con cui si deve patteggiare e con-federarsiin cooperazione conversazionale verso un fine comune. Vi sarebbero il caratteredegli altri personaggi e dei dell'epica, ma essendo scritti di mano dell’autoresono come non scritti. Anche la seconda parte che riguarda le azione del primoimperatore romano, Ottavio detto l’augusto è molto imperfetta; eccone qualcheconfronto. Nella rovina di Troja li ravvisano la rovina della Roma repubblicanadi Cesare ed Catone. Da questa rovina, Ottavio, come Enea era stato preservatodalla provvità, 1 videnza del fato, come dice Orazio nel Carmie Secolare. Eneaporta in ispalla suo padre Anchiee; Ottavio prende la vendetta del suo padre addotivoCesare. Enea e in Troja maricato a Creusa da cui ha Julo; Ottavio e maricato aScribonia da cui ha Giulia. Ma Creusa per ordine de’ Fati è colia ad Enea, comeScribonia ad Ottavio; e nel dir che ad Enea si apparecchia moglie, da cuidoveano discendere tanci Re, adula cacitamente Livia. Didone che s’oppone aldisegno (de-segno – plannificazione) d’Enea magnifica e vana dell'impero ha delcarattere superbo, impecuo lo, ed astuto di questa altra Africana, Cleopatra,che impiegò cutre l'arti femmini li per impegnar Ottavio. Ma v'è un trattofinissimo di lode nella comparazione che poteano i romani fare d’Enea eďOttavio, perchè laddove Enea cesse alle lusinghe di Didone, e dopo averlaposseduta l’abbandona scorteſemente in preda alla disperazione, biasmo da cuipoco lo scusanu gli ordini degli Dei; quanto più dovea stimarli Ottavio che mainon si lasciò vincere dalle tante arti di Cleopatra? In Evandro, che accoglieEnea, si puo ravvisar Cicerone, che col suo credito e colla sua eloquenza reſetanti servigj a Ottavio. L’epica, però per non rimproverargli la disgrazia diCicerone, fa che non Evandro ma il figliuolo di lui resti ucciso da Turno, nelquale *senza dubbio* vien “simboleggiato” Marc’Antonio, valoroso bensì, ma imprudente,e che le in molte cose mostra fortezza d’animo chiaro ed eccellente, in moltealtre, come Turno, li governa malissimo, e da quello o questo segno non meno dimagnanimità che di pulsanimità. Nulla dimostra più la finezza cortigianesca diOrazio e di Virgilio come il loro non nominar mai Cicerone. S'astennero dalrisvegliar in Ottavio un'idea che gli dava de’ rimorsi. All'incontro nominaronoGiunio Bruto e Catone, per mostrare che Ottavio non ha usurpata la libertà, mache anzi ne era il protettore, l’imperatore, come negli ultimi tempi lo voleaCromuvelo (Lord Protector) in Inghilterra. Antonio stesso molto si risparmia,esi può osservare in Orazio che mai non si parla d’Antonio senza congiungerlo al’africana Cleopatra per far cadere in lei l’odio e la colpa; e cosi faVirgilio fagacemente nella battaglia d’Azio, quando parla d’Antonio palesemente,e quando ne parla per allegoria, supprime quell vizio che avrebbero dispiaciutoai suoi partigiani ch’erano molti, ed a’figliuoli elevati da Ottavio a sommionori. Queſta è pur la ragione prammatica, per la qual Virgilio non dipinta leguerre che fece Ottavio con Bruto, Callio e cogli altri, che per modo diperegrinazioni, onde non offender quei ch’erano ancora del partito di questiultimi difensori della pubblica libertà. Il re del Lazio, Latino, che ammonitodall’oracolo vuol dar la figliuola più ad Enea, che a Turno, è il vero ritrattodel senato romano, che vecchio (senior, senatore) ed impotente non potendo piùregolar la repubblica, benchè per ispirazione divina egl’inchini più alasciarsi governare d’Ottavio che da Marc’Antonio, atterrito nondimeno dagliapparecchi di guerra, lascia disputar la vittoria a’ due rivali, come appunto ilre Latino fuggendo lascia terminar la guerra a Turno ed Enea. In Mesenzio ed inLauso si veggono Cassio e Giunio Bruto, e l'empietà data a Mezenzio e la virtùdata a Lauso lo persuadono. Muore Laulo ed Enea lo compiagne, come Ottaviocompianse Bruto, al dir di Plutarco. Quando Lauro combatceva, era Mesenzio conla persona appresso di un tronco per posarvi appoggiato, e gli stava intorno uncerchio de’ più eletti e de’ più fidi; e quando vide Lauso ucciso, comincia a disperarsi,e a lagnarsi, e andar incontro alla morte. Queſta deſcrizione concorda moltocon quella che fa Plutarco di Cassio, allora che ritirato sul colle stavarimirando l’esercito di Bruto, e credendo ch’egli fosse rotto, disperato siconfiſſe nel le reni la spade. Non occorre cercare rassomiglianza perfetta traquesto o quello accidente vero e questo o quello accidente finto. Baſta che unosi ravvif nell'altro. I ritratti della Poesia, e particolarmente epica, sono“simili” a quelli che i gran pittori introducono ne’ quadri istoriati; negliDei, negli eroi, ne’ capitani ritengono le fattezze del volto de viventi chevogliono onorare ma variano le attitudini, o le velti per variare le imagini, eprodur nello spettatore maggior maraviglia ed affetti più vivi. Con questaregola si pollono ritrovare molti altri confronti nelle cose dell'Eneide collavita d’Ottavio. Nè par probabile che tanta corriſpondenza sia effetto del caso,attesa spezialmente la sagacità del poeta, e l'idea generale dell'opera. Partedi questa corriſpondenza fa vedere nello scudo d' Enea la seguenteilluſtrazione, che si dà intera. Come nell'Iliade d'Omero Teti porge ad Achilleuno scudo fabbricato da Vulcano così nell'Eneide di Virgilio Venere porge adEnea uno scudo fabbricato dallo stesso Dio. Quì non s'intraprende d'illuſtrareſe non ciò che appartie. ne allo Scudo d'Enea, oſſervando prima generalmente,qual ne foſſe la materia, la faldezza, la figura, l'intreccio e i colori, edindi particolarmente l' ordine e' i fiti delle coſe ſcolpite, le loro ſtorie,cd allegorie. I'Ciclopi impiegarono nell'armatura d'Enea il rame, l'ac ciajo,l'oro, e l'argento, ma fecero che ivi abbondante più dell'uno o dell'altrometallo ove era biſogno di maggior die feſa, o di più raro ornamento. L'Elmoche dovea abbagliando minacciare i nimici, riſplen dea per la terſezzadell'acciajo, non altrimenti che ſe fiam. me ſpargeſſe. La Lorica era ſcabraper i rilievi del rame e del bronzo, che quanto più maſſicci'ſi fingono, edincurva ii, tanto più le faette e le ſpade ſpuntavano. Ben è vero che per lamiſtura degli altri metalli, i colori della Lorica ſi mi ſchiavano con quei delbronzo e dell'oro, ond'ella riſplende va come un Iride in faccia al Sole.Nell'aſta e nelle ſchinie re abbondava particolarmente l'elettro che è uncompofto d ' oro e ' una quinta parte d'argento, ma purgato più volteda'Ciclopi; l'oro nel foco avea ſvaporato l'argento, onde la compoſizioneriuſciva più prezioſa, più denſa, ed impene. trabile. Nello Scudov'erano tuttie quattro i metalli tra loro op portunamente fuſi e temperati. I Ciclopi neaveano appiana ta la maſſa in ſette piaſtre rotonde, che a guiſa dei ſette cuoiattorti dello Scudo d' Ajace implicarono l'une nell'altre, perchè lo Scudorefifteffe a tutte l'armi de' Latini. Miſterioſo era il numero di ſetreappreſſo gli Antichi per la relazione ch'egli avea al numero de Pianeti. Forſecredea no, che gli aſpetti di cucci e ſette influendo nella fabbrica d' unoScudo gli deffero una tempra immortale. La figura dello Scudo d'Enea era ovale,nè a cid forſe an cora mancava il ſuo miſtero. Gli Scudi ancili chc fi fingea.no 177 no caduti dal Cielo a tempi di Numa, aveano la ſteſſa figura, Or loScudo d' Enea non era men celeſte di loro; ed Enea, che doveva portarlo, non ſifuppone men pio di Numa. I Ciclopi nel fabbricar lo Scudo avendo poſta in operaper comando di Vulcano tutta la loro arte maeſtra, collocarono, intrecciarono,limetrizzarono, e colorirono le figure ſcolpite in maniera, che lo Scudoemulava la reflicura di un arazzo. Nè queſta a mio credere è un'Iperbolepoetica, ma un'imi tazione di quell'idee che Virgilio, avea vedute ne'baſirilievi di Roma, ove ſoggiornava, ed in quelli delle Città della Gre cia, oveper profittarlı dello ſtudio delle bell'arti avea viag giato. A Roma nelleBiblioteche e ne' Tempj ſtavano appeli certi Scudi tutti ſtoriati, e tra glialtri Plinio racconta, che nel Tempio di Bellona Appio Claudio confacrò unoScudo, ove in picciole figure era rappreſentata tutta la Genealogia dell'anticafamiglia de' Claud). Nel conveſſo dello Scudo di Minerva avea Fidia ſcolpita labattaglia delle Amazoni, e nel concavo la guerra degli Dei e de'Giganti.Offerva Plinio, che Fidia, volendo moſtrar l'arte nelle minimeparti, aveaelpela ſo ne' Sandali della Dea la battaglia de' Lapiti e de'Centauri, e nellabaſe della ſtatua la naſcita di Pandora con quella di trenia Dei. Ne'baſſirilievi delle lamine che cingevano la ſe dia della fatura di Giove Olimpico, loſteſſo Fidia in oro ſcol pito avea, da una parte il sole che conduceva ilcocchio, e dall'altra Giove e Giunone; a lato di Giove v'era una delle Grazie,indi Mercurio e Veſta., Venere pareva, uſcir dal ma re, l'Amore l'accoglieva, ela Dea Pito la coronava. Nello ſteſſo baſſo rilievo li vedeva Apollo e Diana,Minerva ed Er; cole, e nel piedeſtallo da un canto Anfitrite e Nettuno, edall'altro la Luna, che galoppaya ſopra un cavallo. Qual mol ticudine, qualvarietà ed intreccio di figure in poco ſpazio? Or è molto verifimile, che comelo Scudo d'Achille diede a Virgilio la prima idea dello Scudo d'Enea, così įbaſli rilie vi da lui yeduti a Roma in Atene e in Olimpia gl'inſegnal ſero aperfezionarlo. Nella deſcrizione delle figure ben fi ſcor ge che l'artifiziodell'imitazione, non deriva dagli alerui fan tasmi, ma daun'acurataoſſervazione del ſenſo, che regold la fantaſia del Poeta fino ·lo ſpingo oltre la conghiettura, e pretendo che alle figu. se veduce daVirgilio ſcolpite o nell’avorio, o nell'oro, od in altro metallo negli viapplicalle la forza e la leggiadrią Tomo II. 2 de' 3 178 ra 1 1 de colori dalui veduti nelle pitcure encauſtiche: Plioio ne annovera di tre fpezie, e nonſaprei fuggerirne una miglior idea che raſſomigliandole alle picture chevediamo, non dirò fulle porcellane di troppo fragil materia a confronto del metallo, ma su fmali di più dura tempra, e su vaſi e ſulle cop pe antiche, ove lavarietà del colore riſultò dal vario grado del foco, che lor fu dato nelfondere e nel tingere il metal lo. Difficile è proporzionare il grado del focoad ogni colo re, ma difficiliſſimo ove i colori lieno per conſiſtenza e vivacità differenti, e ſi debba nello ſteſſo tempo abbrugiandoli laſciarli ſecondoil biſogno o floridi, od auſteri, ed a tutti imprimere quello fplendore cheſecondo Plinio non è lo ſtef To che il lume, ma di'mezzo tra il lume e l'ombra,ed è propriamente l'intenſione d'ogni colore nella ſua ſpezie. Il Sig. AbateFraguier, la cui memoria mi ſarà ſempre ca. offerva, che nello Scudo d'Achillela terra fenduta in folco dall'aratro cangia in nero il color d'oro, che igrappo li d'uva ſono neri e la vigna d'oro, che le giovenche ſono rappreſentateal vivo col bianco e col giallo, cioè collo lta gno e con l'oro, e cheveriſſimo è il langue trangugiato da due Leoni che lacerarono il bue. Da ciòinferiſce che l'arte encauſtica fioriva a'tempi d'Omero; ma quando anche i Cronologi che non convengono dell'età d'Omero glielo conce deffero, molto piùdebbono elli concedere, che nel tempo d' Omero quell'arte era molto imperfettaa paragone dell'eccel lenza a cui la portarono i Greci nel secolo d'Aleſſandro,e ne’ſuſſeguenti. Le picture de' più celebri artefici encauſtici e rano ſtateportate dalla Grecia a Roma da' Capitani Romani, é poſcia conſecrate ne! Tempi.Virgilio che avea ſotto gli oc chj de'modelli così perfecti, gli haverifimilmente adombra ti ne ' colori del ſuo Scudo yine queſta ſpezied'imitazione pud negarſi ad ua Poeta sì doito, e d'on guſto così eſquiſito inogni genere d'arte • Per reftarne convinti bafta riflettere alla varietà edarmonia de? colori delle figure deſcritte j ai sfuma menti, 0, come parlaPlinio, alle commiſſure de culoriftel fi, ai fecreti più mirabili dellaperſpectiva introdotti negli ac» tidenti delle imagini, e finalmenteall'efpreffione degli affec ti de coſtumidegli Uomini rappreſentation Lavarietà e larmonia de'colori appariſce nell'Oca d'ar gento che vola ne' porticid'oro, ne' flutti biancheggianti per lai fpuma ini un mare cerulco Larrei ſonoi colli de'Galli, mentre le loro chiome fon d'oro, e vergate d'oro le veſti; illangue di Mezio è vermiglio e gocciola dalle ſpine che lo no verdi. Per glisfumiamenti de colori, ed inſieme per l'eſpreſſione degli affetti e de' coſtumi,diverſi nell' arni e nelle veſti fo no i colori de' Barbari condotti in trionfo;il limitar del Tem. pio d'Apollo è bianco come la neve, ma più bianco è loſteſſo Dio; Cleopatra è pallida per la morte futura; il Nilo al ſembiante ed algeſto moſtra la doglia che lo crucia e l' impazienza di ſalvare i fuggitiviſuoi figli. Che dirò della forza della perſpectiva? Parrafio dipinle, al dir diPlinio, il Demone degli Atenieſi vario, iracondo, in giuſto, incoſtante..Virgilio rappreſenta Porſenna che nello Iteſſo tempo comanda, li ſdegna, eminaccia. Nel Portico a. vanti la Curia di Pompeo era dipinto, ſecondo loſteſſo Plinio, un Soldato che non ſi fapea ſe con lo Scudo aſcendeſſe o diIcenderſe. Virgilio fa che i bambini attaccati alle poppe del. la Lupa fieno daqueſta alternaniente accarezzati; ciò che il Tallo imirò nelle figure delleporte d'Armida ove Marcanto nio nel ſeguir Cleopatra che fugge, Miravaalternamente or la crudele Pugna ch'è in dubbio, or le fuggenti vele. Mapaſſando a coſe più particolari, io per far meglio in tender l'ordine,l'intreccio, ed i fici delle figure, divido in quattro parii lo Scudo. La primacontiene la diſcendenza d ' Enca fino alla Lupa incluſivamente. La copula o,cioè an cora dimoſtra che tutto era nello ſtello baſſo rilievo. La ſecondaparte contiene molte coſe memorabili fotto i Re e ſotto la Repubblica. La terzala battaglia d' Azio. La quarta i tre Trionfi d'Auguſto. Queſte parti, ſi fannoſenſibili dividendo l'ovale in quattro altre ovali concentriche che io ſegneròco'numeri 1. 2. 3. 4. Nello spazio segnato i. ch' è come l'orlo dello Scudo iopongo le figure che rappreſentano i diſcendenti d'Enea anno verati da Virgilionel primo libro e nel ſeſto: queſti ſono A Scanio, Silvio padre di molci Re,Proca, Capi, Silvio, Enea, i due giovani coronati di quercia, Numitore, e laLupa che allatra i due bambini. De quindici Re d'Alba, di cui parla 2 2 Dio 186Dionigi d’Alicarnaſſo e Tito Livio, Virgilio non nomina che queſti, perchè,come egli accenna, furono fondatori di colo. nie, avendo edificato Nomento,Gabia, Fidene, Collazia full? állo d'una montagna, ed il caſtello d'Inuo o diPane. Fon darono ancora Bola e Cora, e queſte ed altre nominate Cit rà eſſendonel Paeſe de' Sabini e de' Volſci, avranno dato oc caſione alle guerre ebattaglie nello Scudo eſpreſſe. Nel baf ſo rilievo d'Alcanio dev'eglirappreſentarſi a guiſa d’un Ca. pirano o d'un Re che comanda di fabbricare unaCittà qual era Alba lunga. Altri prendono gli ordini, ed altri gli eſeguiſcono, ed i Soldati ſtanno riguardando l'opra. La pittura d ' Aſcanio è ſullacima dello Scudo; nella parte oppofta, o nel ballo v'è la Lupa che allatta ibambini, e biſogna rappre ſentaría qual è in molte medaglie. Ne' lati dell'orlodello Scudo toſto ſi vede un bambino in mano d'un paſtore ch' eſce da una ſelva;lo ſiegue in Re circondato da molti bam bini coronati, indi un Ře che guida uneſercito, un altro che eſpugna una Città, un altro che è in mezzo a Sacerdo tie a Veltali, molti giovani Re cinti il capo di quercia che combattono e fondanocolonie, o su monti, o nelle pianu. se. Nè Tito Livio, nè Dionigi d'Alicarnaſſoparlano in par ticolare di queſte battaglie, onde ſi poſſono ſcolpire a fantaſia, ma devono eſſer ſcolpice in medaglie appeſe a rami od alle foglie d'unalbero genealogico che ſerpeggi nell'orlo. Nello ſpazio ſegnato 2. io pongo dauna parte due baſſi ri lievi di forma ellittica, ma incaſtrati di varj fogliamiche riempiono i vuoti. Elli rappreſentano il ratto delle Sabine, e la pace craRomolo e Tazio. Pongo dall'altra parte altri rilievi della ſteſſa forma cherappreſentano Mezio ſquarciato da ' cavalli, e Porſenna che afledia Roma. Nelſommo dell'ovale ſi vede nelle figure più rilevate il Campidoglio affalitoda’Galli, e difeſo daManlio; e nelle più lontane i Salj e le Matrone cheeſulcano; nella parte oppo. fta che è la più baſſa dello Scudo v'è il Tartarocon Catili na affiffo allo ſcoglio, e ſopra il ſotterraneo (chiamato da Virgilio la bocca profonda di Dite ) verdeggiano gli Elisj, ove Catone dà la leggeall'anime pie. Le figure di queſto ſpazio ſono maggiori di quelle dell' orloperchè le parti più vici ne al centro dello Scudo ove fi fogliono diriger icolpi, devo no eſſer più maſſiccie per più reliftere. Lo ſpazio è percidmaggiore Nel i 81 5 Nello ſpazio ſegnato 3. v'è la battaglia d' Azio. Apolloſaettante è ſul Promontorio, ove Auguſto gl’inalzò un Tem pio. Le navid'Auguſto ſono alla deſtra ſchierate in arco; nel deftro corno v'è Auguftocolla ftella in fronte e co' Pe. nati in mano, nel finiftro Agrippa cinto letempia della co rona roftrata. Dirimpetto vi fono le Navi torreggianti d'Antonio. Secondo Plutarco, Antonio con Publicola reggeva il corno deſtro, eClelio il ſiniſtro. Cleopatra è nel mezzo in atto di percuotere il fiftro,ſtromento dedicato ad Ilide che Cleopatra voleva emulare in curto. Tra i dueſemicerchi del. le navi ve ne ſono alcune diſtaccate che tra loro combatto no.Soggiunge Plutarco, che Ceſare non ſolamente non or dina ferir le prode dure eferrate d'Antonio, ma nè anco inveſtirle per fianco, perciò che gli ſpronifacilmente ſi ve nivano a romper urtando nelle cravi quadre incaſtrate infie mecol ferro: Era dunque queſta battaglia (ſegue egli) mol to ſimile a unagiornata per terra, anzi piuttoſto all'aſfalco d'una Cicà. Perciocchè tre oquattro navi di Ceſare com battevano intorno a una nave d'Antonio conpartigiane, piche, e con fuoco. D'altra parte gli Antoniani ftando ſulle gabbiedi legno traevano dardi e pietre contro i nimici. Così ap punto Virgiliorappreſenta le navi che combattono. Sulle navi di Cleopatra vi ſono i Deimoſtruoſi d'Egitto, in atto di ſaettar Neituno, Venere, Minerva, che ſtannoſulle navi d'Auguſto, e contro alle quali egli diſſe al Senato che Antonio aveamoſſo la guerra, non meno che contro al. la Patria. Marre è inmezzodella batcaglia, la Diſcordia, e Bellona, ed in aria ſtanno le Furie. Tutto ciòè ſotto la fi. gura del Campidoglio o nella parte ſuperior dell'ovale, men trea'lari ſono le navi ſchierate. Nella parte inferiore vi fo no le navi diCleopatra che fuggono ſpinte dal vento Japiga, che ſoffia dal capo di Salentino;non lungi è la figura del Nilo, che allargà la veſte, e chiama i vinci aricovrarli ne? ſuoi naſcondigli: egli è d' una figura giganteſca appoggiatoſull'urna che verſa i ſette fiumi nel mediterraneo, nel reſto dello ſpazio ſidiffonde il mare coi delfini che ſcherzano. Le figure di quello ſpazio ſonomaggiori per la ragione ſopraccen nata, ed è maggiore lo ſpazio ſteſſo. Nelloſpazio ſegnato 4. vi ſono eſpreſli i tre trionfi d'Au guſto. Egli trionfo, diceSvetonio, in tre giorni l'uno dietro all'alcro; la prima volta per la vistoriaDalmacica, la ſecon da 4 182 1 da per l'Aziaca, e la terza per l'Aleſſandrina.Dione Caffio particolareggia i trionfi. Trionfo Ceſare, dic'egli, il primogiorno de' popoli Pannoni, Dalmatini, Japidi, ed altri loro circonvicini, ed'alcuni popoli della Gallia e della Germania ancora, perciocchè Cajo Carinaavea già vinti e ſoggiogati i Morini e gli alıri popoli appreſſo, che nellaribellione da lo. Fo fatta gli erano ſtati compagni, ed oltre ciò avea dato unarolta a'Svevi, ed a quelli che aveano già paſſato il Reno; laonde ed egli eCeſare feco rappreſentò il Trionfo percioc chè la vittoria folevaſi attribuireſempre all'Imperatore, e l' Imperatore era Ceſare, è teneva in mano il governodi tut, 10. Il ſecondo giorno Ceſare rappreſentò il Trionfo della bat tagliafatta al promontorio d' Azio nel mare. Il terzo poi dell'Egitto ſoggiogato. Leſpoglie in queſte guerre acquiftare furono baſtanti ad ornar tutto l'apparatodi que' Trionfi; quel. Je però d'Egitto avvanzavano di gran lunga curti glialiri ap parati d'ornamenti di ricchezza e di rarità; tra l'altre coſe vi fivedea Cleopatra fteſa ſopra una colore in alto di morire, onde in un cerio modoqueſta Reina era condotta in trionfo cogli altri prigioni, tra'quali v'eraAleſſandro ſuo figliuolo, e Cleopatra fua figliuola chiamati da lei col nomedel Sole e della Luna. Gl’interpreti fi vanno inutilmente affaricando a cercarle ragioni della qualità de'prigioni, e particolarmente perchè ne' cocchi ſivedeſſe l'imagine dell' Eufrate e dell’A. raſſe fiumi dell'Armenia e dellaMeſopotamia non conquiſtati da Auguſto. Il P. Arduino nelle ſue rifleſionifopra Virgilio non ritrovando queſte vittorie d'Auguſto ne trae degli argomenti diſavantaggioſi all'Eneide. Io non perderò inutilmente il tempo ariſpondergli in particolare. Ciò che poſſo dire a coloro che ammettonol'autorità di Dion Callio, è far loro oſſervare, che Antonio dopo aver chiamaraCleopatra Reina dei Re, Ceſarione Re dei Re, ed aggiunto alla loro giuriſdi.zione l’Egico, donò la Siria a Tolomeo, e lutte le Provin cie di quàdall'Eufrate fino all'Elleſponto; donò l'Africa fino alla Cirenaica a Cleopatra,ed al fratello di coſtoro chiama to Aleflandro dond l'Armenia con tutto ilrimanente del pae fe al di là dell'Eufrate Gno all'Indie. Or non è verifimileche Auguſto da cutti queſti Paeſi fcieglieſſe de' prigioni, che egli dovevaaver fatti o nella battaglia d'Azio, o nella ſcon fiila data ad Antonio inAleſſandria? Quanto al Reno, Agrip pa l'avea paſſato nel 717. nė fi curò delTrionfo, ma egli è pro. 183 probabile che Auguſto voleſſe che Agrippa trionfareſeco co me Cajo Carina. Non v'era. ſegno d'amicizia e d'onore che non gli deſſe,perciocchè oltre la corona roſtrata, con cui lo fregið dopo aver vinto SeſtoPompeo in Sicilia, volea ch'egli avelle una cenda e l'altre inſegne militariſimili a quelle dell' Imperatore, e, come dall'Imperatore, da lui ſi prendeſſeil ſegno della milizia, ed egli era in forſe di dargli per moglie Giulia: cantogrande, gli diſſe Mecenate, tu faceſti Agrippa, che o biſogna ucciderlo, och'egli ſia tuo Genero. Dopo il Trionfo Auguſto inalzò molti Tempj; uno ad A.pollo ſecondo Svetonio ſul monte Palarino, al quale aggiun ſe una Loggia conuna Biblioteca Greci e Latina; un altro ne edificò a Marte vendicatore per ilvoto fatto nella guerra contro Bruto e Caſſio per vendicare il Padre, ed unaltro a Giove Tonante nel Campidoglio. Secondo Dione egli ancora conſecrò ilTempio di Minerva, ornò il Tempio di Giulio ſuo Padre ſoſpendendovi molti emolti doni della preda por tata d'Egitco, e molti ne conſecrò ed offerſe aGiove Capi. tolino, a Giunone, a Minerva. Non è da traſcurare che po fel'imagine della vittoria ſecondo Dione nel Tempio di Mi nerva, e ſecondo Plinionel Tempio del Padre Celare, il qua le era nel Foro; aggiunge Plinio, che vipoſe ancora i Ca ſtori che forſe ſimboleggiavano Auguſto ed Agrippa, nel pri molibro aſſomigliati da Virgilio a Romolo ed a Remo, come interpreta Servio. Poſeancora Augufto nel foro due quadri, uno della guerra, e l'altro del Trionfo; es’io non m'ingan doveano queſti rappreſentare coſe alluſive alla battaglia d'Azio, ed ai trionfi dello ſteſſo Ceſare. Comunque la coſa ſia, ove è il centrodello Scudo che è la parte più alta, io pongo la Cupola del Tempio d'Apollo,alle cui porte Augufto affig ge le corone d'oro che erano i doni offertigli da’Popoli dalle Provincie confederate. Tutto all'intorno vi ſono le are egl’incenſi colle vittime, e quindi la pompa e la lecizia del trionfo. In quelgiorno che Auguſto entrò in Roma, dice Dio ne, gli fu conceduto un Arco nellaPiazza di Roma, e in o nor di lui li celebrarono i giuochi quinquennali, e glianda rono incontro le Vergini Veítali, il Senaco ed il Popolo, colle mogli, eil figliuoli: mi par ſoverchio (ſoggiunge Dio. ne ) di raccontar i voti e leimagini ed altre coſe fatte per lui · La pompa del Trionfo conſiſte ne'prigioni Nomadi, o Numidi, Affricani, Lelegi, Cari popoli dell'Alia minore Geno, e 184 Geloni ſpezie di Sciti, Morini popoli della Gallia Belgicà fi tuativerſo l' Oceano Britannico. Tra queſti vi ſono molti cocchi colle imaginidell'Eufrate, del Reno, e dell'Araffe col ponte che Auguſto vi fabbricò. Taliſono i baſli rilievi e le figure di tutto lo Scudo; elle s'ingrandiſcono aproporzione ch'egli ſi va rilevando, e le miniature devono render ſenſi bili icolori di cui ſono in Virgilio dipinte. I colori domi nanti ſono il giallo e ilbianco che rappreſentano l' acciajo ed il rame. Marte però deve eſſer dipintocon un colore fer rigno, o fia di ferro, non raffinato in acciajo; diverſi ſonoi gradi de colori o floridi od auſteri che biſogna lumeggiare ed onibreggiare;ma ſopra tutto convien dar alle figure lo ſplen dore, o ſia quel grado vigoroſodi colore di cui s'è parlato. Spiegato in queſta maniera ciò che concerne laparte ma teriale e ſtorica dello Scudo, egli è tempo di ragionare dellerelazioni che le figure hanno ad Auguſto, al quale tutto il Poema è diretto,come a lungo eſpoſi nell'altra diſſertazione. Biſogna quì ricordarſi chel'adulazione, ingegnoſiſlima nelle fue compiacenze, or impiega le lodi direttee manifeſte, or l'indirette ed occulte, ſecondo che l'une e l'altre per le circoſtanze fono più grate a colui che fi loda. Lodar Augufto per la ſua ſtirpe,lodarlo per la vittoria che gli diede l'Imperio, e per i tre trionfi, ne' qualifece tanto riſplender la ſua pietà, erano lodi che Auguſto fonima mentedefiderava che ſi pubblicaſſero, onde eſſo poteſſe ritrar: ne più venerazioneed ubbidienza. Conviene a parte a parte moſtrarlo. Giulio Ceſare nel farl'Orazione funebre in lode di Giulia ſua Zia: La firpe materna, diſſe, diGiulia mia Zia ha origi ne dai Re, é la paterna è congiunta cogli Dei immortali,im perciocchè da Anco Marzio derivano i Re Marxj del cui nom fu mia Madre, daVenere i Giulj della cui gente è la noſtra Fa miglia. Trovaſ dunque nel ceppoantico della caſa noſtra la fantità dei Re la quale appreſſo gli Uomini è digrandiflima autorità e la Religione degli Dii nella podeſtà de' quali ſono elRe. Sin quì Svetonio. Non potea dunque che molto pia. cere ad Augufto cheVirgilio noftraſſe e nel primo enel ſe fto e nell'ottavo che nella ſuagenealogia verano i Re, gli Dei, e gli Eroi. Virgilio dice nel primo libro: ilgiovine A ſcanio che porta oggidiil cognome di Giulio e che ſi chiamava Ilo,mentre Ilio era in piedi, governerà Lavinio per trent'anni 1 in. 185 intierietraſporterà la sede del Regno in Alba lunga di cui faa rà una forte Città. Nelfeſto egli dice: uſcirà dal ſangue Tro jano miſto all' Italico Silvio ſuofiglio poſtumo che perpetuerd in Alba il ſuo nome, e ſarà egli fello Re e padredi molti Re,. per lui la noſtra ftirpe dominerà in Alba. Virgilio ſcaltro nulla parla delle guerre che ſecondo Dionigi d'Alicarnaſſo vi fu rono tra Giuliofigliuolo d'Aſcanio e Silvio, e molto meno che per i ſuffragj del popolo ſideſſe a Silvio il Regno che apparteneva a ſua madre, ea Giulio per contentarlola fo vranità ſulle coſe della Religione, per cui, ſoggiunge Dionigi, laFamiglia Giulia ha goduto fin al mio tempo del ſovrano Pontificato, e s'èchiamata Giulia a cagion d' Julo da cui u ſciva. Io non so accordar queſtopaſſo di Dionigi d'Alicarnaſ ſo con quell'altro di Plutarco e di Svetonio, oveſi vede che Giulio Ceſare non per dricco di ſangue, ma per i ſuffragidel popoloin competenza di Catulo ottenne il ſommo Pontifica to. Laſciando cid, baſta quìoſſervare, che Virgilio confonde Aſcanio con Silvio figliuolo di Lavinia e glialtri diſcendenci da lui, poichè dice, che v'era ſcolpita tutta la ftirped'Enea cominciando da Aſcanio. Io così interpreto quel Ab Aſcanio. Di tuttiqueſti Re e di queſti Eroi Virgilio nefa come del le imagini trionfali, chepone nell'orlo del ſuo Scudo, come negli atrj delle caſe de' Romani ſi poncanole imagini degli Avi loro, ſulle quali Giuvenale e Plinio fanno sì gravi rifletfioni intorno al biasmo ed alla lode de' diſcendenti. Ciò ba fi intorno la lodemanifeſta della ftirpe d'Auguſto. Palliamo alle lodi indirette. Nelle medaglie,ove fi legge Reft. o reſtitui, ſi vede l'ima. gine o d'un Bruto, o d'un Coclite,o della libertà, o d'al tre coſe alluſive alle azioni celebri de' Romaniantichi, che gl' Imperatori Romani aveano imitate o reftituite. Il P. Ar duinovuole che queſte allegorie nelle medaglie cominciaſſero ſotto Tito, di cui ſicontano fino 22. medaglie di queſta ſpe. zie e terminaſſero ſotto Trajano, dicui ſe ne contano 24. ma non, perchè queſte medaglie non ci reſtino, ſi puòdedur che ſotto gli altri Imperatori e particolarmente ſottoAuguſto, chevantavafi d'effere il difenſore della libertà del Senato e dei popolo,l'adulazione non aveſſe inventate l'allegoric; certo è almeno, che conqueſt'ipoteſi ſi rileva il ſenſo del ratto del. le Sabine, e della pace iraTazio e Romolo. Prima che Planco determinaffe il Senato a dar ad Occavio TomoII. il 186 9 il nome d'Auguſto, molti volcano che ſi chiamafle Romolo. In fattiAuguſto l'imicava non ſolo nella fondazione d'un nuovo Impero, ma ancora inmolte circoſtanze della ftella fon dazione. Come Romolo col ratto delle Sabineavea provvedu to al mantenimento della Città, così Auguito con la legge dimaricar gli ordini che Orazio chiama legge Marita; due ne fece Auguſto., laprima nell' anno 736. e ſi chiamava legge Giulia, e l'altra dell'anno 762. e lichiamava legge Popea perchè fatta ſotto i Conſoli Sulpizio e Popeo. Con queſteleg. gi fi rinovarono l'antiche rammemorate da Cicerone e da Aulo Gellio, eDion Caſſio merte in bocca d'Auguſto una lunga arringa su queſta materia alSenato, nella quale dopo d'aver cogli eſempj delle nozze degli Dei eſaltato ilvantaggio e la giocondità de'figli, l'utile della Repubblica, e il biasmo diviver ſenza moglie, gli fa dire: Romolo autor noftro, e da cui diſcendiamo, nonli ſdegnerà con tagione conſiderando il fuo naſcimento e i coftumi introdotti?Orazio nel Carme ſecolare lodando per queſta legge il Se nato obliquamente lodaAuguſto; ma Virgilio nella lode obli. qua involge l'argomento del minore almaggiore come s'egli diceffe: fe tanta obbligazione hanno i Romani a Romolo checon una violenza provvide al mantenimento della Città, mol to maggiorobbligazione i Romani hanno ad Auguſto che ſen. za danno de' vicini vi provvidecon una legge si ſaggia. Romolo dopo le guerre con Tazio ai rapacificòſolennemen. te con lui, e diviſe feco il Regno; ed Auguſto dopo molte guerrecon Marcantonio conciliatoſi ſeco per l'opera de' co muni amici diviſe l'Impero,del quale il termine ſecondo Plu tarco era il Mar Jonio. Tutta la parte,dic'egli, verfo Levan te fu conceſſa ad Antonio, e l'alira verſo Occidente aCeſare. Pegno della pace fu Ottavia maritata ad Antonio, e certamente ella èrappreſeatata nella vittima che ſi ſcanna nella ceremo nia del giuramento traRomolo e Tazio: ne deve far difficol tà il noine della vittima, poichè tuttociò che li confacrava agli Dei era fanto, e la Scrofa è ſtata ad Enea d'indiziodel paeſe che ricercava. La pittura di Mezio non è meno allegorica; egli tradiTul lo Oſtilio come Antonio tradì la Repubblica, e tradi Ottavio con la guerrache all'uno ed all'altra intimo per far piacere a Cleopatra. Mezio ne fuſquarciato a viſta di Tullo; ed An. tonio fu coſtretto a darſi la morte quafiagli occhi d'Augufto. An 187 Antonio mentre s'incamminava al ſepolcro ove s'erarinchiuſa Cleopatra, andava verſando il ſangue per le Atrade come ap punto ilcorpo di Mezio per la ſelva. Non ſi potevano eſpri mer da Virgilio coſe sìdelicate che in un quadro allegorico, Due volie, dice Svetonio, entrò Auguſtoin Roma vitto rioſo e ſenza trionfare, una, poichè egli ebbe vinto Bruto eCaffio ne'campi Filippici, l'altra avendo vioto Seſto Pompeo in Sicilia; il chemoftra, qual foſſe la modeſtia politica d ' Auguſto; queſta ſteſſa egli usò conMarcantonio del quale e gli non crionfo, ma di Cleopatra, come ſi puòraccoglier dal Trionfo deſcrito da Dion Callio. Egli ſollevò i figliuoli d'Antonio alle prime dignità, nè col moſtrar odio e vendetta con Antonio dopoch'egli era morto voleva offender Octavia a cui era ſempre grata la memoria delmarito. Orazio e Vir gilio ben ſapendolo non mai parlarono di Marcantonio ſcnon mettendolo in compagnia di Cleopatra su cui fecero ca der l'odio e la colpa;ma nel tempo ſteſſo, conoſcendo forſe che Auguſto ſi compiaceva, che neglianimi de' Romani non ſi ſmarriſſero l'idee di quanto avea fatto contraMarcantonio per la finta difeſa della libertà, eſli procurarono di maſcherar nel'azioni con l'allegoria, della quale Auguſto poteva abba ſtanza intenderne ilſenſo, e non offenderſi i partigiani d'An tonio per le varie interpretazioniche poteano darle. Nelle mie note su l’Odi d'Orazio io ſpiego con ciò moltecoſe in intelligibili ſenza queſta ſuppoſizione, nè ſarà diſcaro che ne moſtril'uſo nelle ſtorie di Porſenna e di Manlio ſcolpite da Virgilio nella ſecondaovale dello Scudo. Porſenna voleva riſtabilire in Roma la tirannia traſportandovi i Tarquinj, e nonmeno Antonio voleva riſtabilirla tra ſportandoviCleopatra. Se Antonio, dice Dione, foſſe ſtato ſuperiore e ſignore del tutto,era per dare a Cleopatra la Cit tà di Roma; è poco dopo ſoggiunge, cheCleopatra era venu ta in ſperanza d'acquiſtar l'Impero Romano, e che quando alcuno le dimandava giuſtizia, ella riſpondeva che gliela fareb be in Campidoglio:alche pur allude Orazio nell'Ode 37. l. 1. dicendo ch'ella era ebbra di folliſperanze non meno che di vino mareorico. Io non so ſe troppo raffini nelritrovar in Clelia che ſi falva a nuoto, Ottavia che al dir di Plutarco eſceprecipitoſamente dalla caſa d'Antonio; ma certamente Coclite che rompe il ponteè un ſimbolo d'Agrippa che con la vittoria navale interrompe l'avvanzamentod'Antonio. AQ 2 Tito 188 Tito Manlio è difenſore della libertà del Campidogliocon tra i Galli, come Antonio fu difenſore della preteſa libertà contra Caſſioe Bruto e gli altri nimici di Giulio Ceſare. Non mancarono, dice Plinio, ifregi delle coſe militari in Manlio Capitolino, ſe non gli aveſſe perdutinell'eſito della vita; e Tito Livio ſoggiunge, che lo ſteſſo luogo nell'Uomoſteſſo fu un monumento e d'inſigne gloria e di ultima pena. Anto nio difeſe ilpopolo Romano ne' Campi Filippici, e il popo lo Romano in Azio ed inAleſſandria l' inſeguì e fu cagione della ſua morte. I Salj ed i Lupercieſultano, e le matrone ne loro cocchi agiati conducono le coſe ſacre per laCittà per dimoſtrare che non ſono ammeſſe in Roma le ſuperſtizio ni Egiziache,abborrite eſtremamente da' Romani ne'cempi d ' Auguſto e di Tiberio. Catilinatormentato nell' Inferno non moſtra egli le pene dovute a Marcantonio? e per laragion de contrarj quante lo di meritava Auguſto per la ſalvata libertà? Ingrazia di que fta ſoffriva Augufto che fi lodaſſe Catone Uticenſe. Orazionell’Ode 12. c. 1. lo mette tra gli Eroi di Roma. Loderò di Caton la nobilmorte? Il P. Catrou pretende, che il Catone che negli Elisj dello Scudo dàlegge agli ſpiriti, non fia altrimenti Catune Uricen ſe, ch'era troppo odioſoa'Ceſari, ma Catone il Cenſore, di cui dice Seneca, che tanto giovo co'ſuoicoſtumi al popolo Romano, quanto Scipione colle ſue guerre. Il P. della Rue éper il Carone Uticenſe, ma non ne aſſegna la ragione, la quale è manifefta, ſeſi riflette al paſſo di Taciro da me nell' alıra diſſertazione addotto e chequi ancora ſoggiongo, perchè cgli moſtra quanto Ottavio fi vantafle, comeCromuello fece a' noſtri tempi, di paſſar per difenſore della pubblica libertà.Tito Livio (così fa dir Tacito a Cremuzio Cordo in Senato ) chiariffimo tratutti gli Scrittori e per eloquenza e per fedel tà, celebrò con tante lodiGncoPompeo che Auguſto lo chia mava Pompejano, nè perciò gli fu meno amico. NelleOpere di Aſinio Pollione (cui Virgilio dedicò l'Egloga terza ) li faonoratiflima memoria di Callio e Bruto: Meffala Corvino pre dicava Caffio perſuo Imperatore, e l'uno e l'altro viſſero lun. gamente pieni di ricchezze ed'onori, ed Auguſto, non ſi sa le con maggior lode di manſuetudine o diprudenza, laſciò 1 cor 189 correr le lettere d'Antonio, e l'orazioni di Bruto,che molto lo diſonoravano; nel che forſe volle imitar Ceſare Dittatore chetollerò i verſi di Bibaculo e di Catullo, ed al libro di Marco Cicerone nelquale s' inalza Catone al Cielo, riſpoſe perorando come ſe foſse avanti iGiudici. Con queſto paſſo di Tacito ſi può dar la ragione per la quale Virgilioed Ora zio non temerono, dedicando l'Opere loro ad Auguſto, di no. minar GiunioBruto, Marco Bruto, e Callio, Catone, e Pom peo. Maquale ſcaltrezzacortigianeſca v'è in Virgilio nell' introdur Catone a dar legge agli ſpiriti?Par, ch'egli accen ni, che Carone meritava ſolamente grado in quella Repubblica ideale di Platone, la quale ſecondo Cicerone egli cercava nella feccia diRomolo. Ed ecco ciò che dovea dirſi intorno alle lodi indirette ed allegoriche.Le figure del quarto e del quinto ſpazio contengono lodi di rette, perchè cuiteripiene delle coſe di cui si compiaceva Auguſto che i Romani continuamenteacclamaffero. Egli ſteſ ſo, come ſi diffe, avea nel Foro di Ceſare conſecratal'ima gine della battaglia, e del Trionfo, nè io dubito punto che Virgilio neaveſſe eſpreſli i tratti della pittura nello Scudo in quella guila, che nelprimo libro nel rappreſentar il Furore alliſo ſopra i trofei e con le maniannodate al tergo imita la pittura ch'era nel Tempio di Giano. Tutto poi nelladeſcrizione e della battaglia, e del Trion fo, è diretto alla lode d'Auguſto.Nella battaglia, Auguſto è coi Padri, col Popolo, coi Penati, e co'magni Dei,ed ha in fronte la ſtella paterna; ciò ſignifica, che la guerra era in trapreſaper la libertà del Popolo, del Senato e coll'alliſtenza di Giulio Ceſare giàDeificato. All'incontro Antonio non ha ſeco che de' Barbari, ed un'effeminataReina; Auguſto è di feſo da Venere genitrice, da Minerva, e da Apollo, Dei della prudenza e del conſiglio, e da Nettuno, che gli era ſtato favorevole nelleguerre in Sicilia contro Seſto. All'incontro Antonio non ha ſeco che Deimoſtruoſi ed odiati da' Romani. Quanto cgli deſcrive più feroce la pugna, tantomaggior mente eſalta il valore d'Auguſto e d' Agrippa, ch'egli ſempreaccompagna per le ragioni di ſopra accennate. Le Furie e la Diſcordia conBellona liriferiſcono a Cleo patra; ma qual mai v'è ſagacità poeticanell'accennare la fu ga e la morte di queſta Reina? Mentre ella ſuona il filtronon vede i due ſerpi che la minacciano alle ſpalle; ella con fida iyo fida invano nelle forze dell'Egitto, e in vano tenta di rifu. giarſi nelle più occulteſpiagge delNilo. Tutto allude al.con higlio ed alle azioni di Cleopatra. Perchèpoi Virgilio non nc introducefle nel Trionfo l'effigie, e tra i prigioni nonponeſ ſe i figliuoli di lei, la cagione n'è forſe ſtata il timore d'ec citarnell'animo altrui con queſte imagini qualche grado di ammirazione e dicompaffione, e perciò ſcemar in parte la lode d'Auguſto, e tra l'altre quelladella pietà. Ne'gran Poe. ti biſogna egualmente riflettere e a quel che diconoe a quel che tacciono, onde molto male s'argomenta dalla Poeſia alla Storia, edalla Storia alla Poeſia, quando non s'attende al fi ne a cui tutto vuolaccomodare il Poeta. Il fine delle figure ſcolpite nei vari ſpazi dello Scudoha relazione al fine gene rale dell'Eneide. Le figuredel ſecondo ſpazioriguardano il ſenno d'Auguſto, le figure del terzo il valore, le figure delquarto riguardano la ſua pierà. Queſte ſono le tre virtù do. minantidell'Eneide. Dionigi d'Alicarnaſlo, che ſcriveva nel tempo d'Augufto, leſtabiliſce come neceſſarie ai fondatori d ' un Impero, e Virgilio vi fabbricaſovra l'Eneide. Molte altre coſe io potrei addurre intorno l'artifizio poeti.€0, la chiarezza, e la brevità, colla quale Virgilio in sì po chi verſi eſprimetante coſe, nè mai per oftentazione o d’in. gegno o di dottrina o d'erudizione,maſempre relativamente al diſſegno del tutto e delle parti, ciò che deveſervire a' Poe. ti moderni di precetto e d'eſempio. atentat nesatentratata L A ſecca dellaFiloſofia Italica fondata da Pitcagora ebbe nome e ſede nella Magna Grecia, trale cui Provincie fu per l'eccellenza de'Filoſofi, che vi fiorirono, celebre laLucania, ed in queſta la Città di Velia, o d'Elea così denomi nata dal fiumeche l'irrigava. Quivi Senofane di Colofone, Cit tà della Jonia nell'Alia minore,ſtabilì e perfezionò la fecta, che dalla Città d'Elea fi diffe Eleacica, emeritò d'avere tra gli al tri diſcepoli Parmenide nato di Pireto, e quelFiloſofo grave e venerabile, che con Zenone paſsò in Atene, ove tenne la conferenza con Socrate eſpreſſa in queſto Dialogo. Ora avendomi propoſto iod'illuſtrarlo nella ſua parte ſtori ca e Filoſofica, credo diſoddisfar quantobaſta al mio impegno ſe prima tento d'accordar l'erà controverſa dei treFiloſofi nomi nati, indi ſe della dottrina Eleatica ſpiego l'origine e l'effetto,o la Filoſofia Pittagorica, e la Platonica; finalmente ſe mi fer punto chePlatone in queſto Dialogo n'eſpoſe, e dichiaro l'artifizio filoſofico, epoetico dello ſteſſo Dialogo. lo difli, che Senofane ftabili, e perfezionò laſecca Eleacica perchè Platone dice nel Sofiſta, la gente d ' Elea incominciaappref ſo di noi da Senofane, anzi da più antichi, i quali non poteano ellerche Talete, o Pittagora, oi difcepoli loro; non regnando, allora alıraFiloſofia nella Grecia, ſe non l'introdotta dai due fondatori, o profeſſata dai loro allievi. Alcuni però fecero Se nofane poſteriore a Talete, ma più anticodi Pittagora, nè fo dove prendeſſero le loro congetture cronologiche, allequali oltre l'autorità di Platone, s'oppongono le ſcoperte dei due Fi loſofi, ei viaggi loro. Taletecalcolo il primo l' eccliſli lunari, ma come poteva eglicalcolarle ſenza conoſcere la propolizione, che Euclide poi fe ce la 47 delprimo libro degli Elementi, e di cui s'aſcrive or dinariamente l'invenzione aPitcagora? I calcoli aſtronomici ſo mo ſul. no (4 ) no dedotti datrigonometrici, principio de' quali è il triangolo rettangolo miſura diſeſteſſo, e de gli altri triangoli. Pittagora dunque, che l'invento, o fucontemporaneo di Talete, o fiori prima di lui., Io credei, che queſta foſſe unadimoſtrazione in cronologia, finchè in Plutarco (a ) ritrovai che gli Egizjſimboleggiavano co? tre lati del triangolo rettangolo miſurati da 3, 4, e s leloro principali divinità Ilide, Oliride, ed Oro; aſſegnando ad Oſiri de laperpendicolare, la baſe ad Ilide, e ad Oro l'ipotenuſa; L'antichità del ſimbolomanifeſta quella della cognizione, tan to più che gli Egizi coltivarono l'aſtronomia da poi che eb bero inventato la geometria per miſurare i terreni, enon par veriſimile, che ſenza conoſcere il triangolo rettangolo, il pri mo e ilpiù facile ad immaginarſi de gli altri, poteſſero riu ſcire nella pratica diqueſte due ſcienze. V'aggiungo, che fe condo Platone (6.) noci erano, agliEgizi gl' incomenlurabili, la prima idea de' quali naſce dall' impoſſibilità dieſtrar la radice dal quadrato dell'ipotenuſa del triangolo; I lati delretcangolo Pitta gorico ſono i numeri accennati, e queſta è la prova che dagliE giz lo toglieſſe Pittagora, e nello ſteſſo tempo o poco prima l' aveſſe coltoTalete, benchè poi Talete ſi contentaffe di moſtrare all'Aſia minore l'uloaſtronomico della propoſizione, e Pictagora ne deſſe alla Magna Grecia ladimoſtrazione Geometrica, ed è forſe quella regiſtrata da Euclide nel primolibro diverſa dalla 8 del libro 6 dedotta dalle proporzioni delle linee, e chenel progreſſo del tempo Eudoffo, che fiori nel tempo di Placone, portò dall'Egitto col s elemento. Or fe i gradi delle cognizioni dello fpirito umano ſonofema pre gli ftefli, dall'analogie dell' Epoche moderne ſi poſſono de durre leantiche, e particolarmente quelle che hanno relazione agl'inventori de'principjmatematici. Nel paſſato ſecolo ſi trova prima dal Toricelli la Cicloide,e l' Ugenio l'applicò a regola re il moto dell'orologio a pendulo; il Newtonofi limitò all'altrace ta Teoria della luna, e l' Hallejo l'applico a correggerele Tavo le aſtronomiche. La ſeconda congettura della contemporaneità diPitragora, e di Talete, ſi prende da coſe più facili. Vuol Jamblico, che Talete ſcriveſſe una lettera a Ferecide maeſtro di Pittagora, e gli legaſſe certifcritti morendo, e par che Plinio convenga che i due Filoſofi foſſero ſtati inEgitto al tempo che regnava il Re Amaſi. La queſtione non cade più dunque ne ſututto il ſecolo, ne (a) Trattato d'Ilide, ed Oſiride. Nella Rep. e nelle leggi.1 4 ne ful mezzo ſecolo, ma su l'età dell'uno e dell'altro di pochi annidiſtante; Talete par più vecchio ſe ſcriſſeuna lettera al maeſtro di Pittagora,machi sa poi ſe Pitragora non era allora in Egitto? queſta lieve differenza nontoglie però, che ſe Talete' fu più d'un ſecoloprima di Senofane, non lo foſſeancora Pittagora: Io ritrovo bensì, che Senofane era contemporanco d'Epicar mo,e diEmpedocle. Secondo Timeo lo Storico, Senofane paſsò in Sicilia al tempo diGerone, ſotto il cui Regno Epicarmo era illuſtre per le ſue commedie, ePlutarco (a) ci conſervò la memo ' ia d'una riſpoſta, che diede Senofane adEmpedocle. Non è facile il determinare, nè qui lo cerco, quanto Epicar mo, edEmpedocle foſſero diſtanti da Pittagora, e quindidà Ar chita Tarentino ilvecchio, da Peritione, da Timeo di Locri, da Ocello Lucano, e da altri, che ſidimandavano Piccagorei (6 ) perchè udirono Pittagora, a differenza deglialtri,che ſi chiamava no Pittagoriſti. Quando cominciò Senofane a ſtudiar laFiloſofia, quella di Ta lete era già diffuſa nella Jonia, e quella di Pittagoranella Magna Grecia,e nella Sicilia; su queſto fondamento altri fecero Seno fanediſcepolo di Anaſimandro, ed altri di Archelao diſcepolo di Anafagora, il qualeavea il primo traſportata la Filoſofia dalla Jonia in Atene, ove paffatoSenofane ftudiò ſotto (c ) un certo Bottone Ateniere. Dalla povertà cacciatoSenofane dalla Grecia, paſsò nella Sici lia e quà s'abbandono alle doctrinePittagoriche, più delle Joniche conformi all'ingegno di lui acre, e profondo.Dalla Filoſofia Jo nica, e dall' Italica traſſe un nuovo liftema, è meritò ď'effer ca po della ſecta Eleatica primo fonte dell'Accademica, e della Platonica, delle quali poi furono rami lo ſcetticismo, e lo ſtoicismo, Nullaancora s'è fatto, ſe non ſi dimoſtra accordarſi l'ecà di Senofane con quella diParmenide, e queſta con quella di Socra te. Tralaſciare dunque molte epoche inverifimili,io m'arreſto a quella che aſſegna Timeo a Senofane, ed è che egli fiorillenell'olimpiade 76. Parmenide, ſecondo Laerzio ſeguito dallo Stan lejo, e daaltri, fiorì nell' olimpiade 69 diſtante dalla 76 di 7 olimpiadi, che importano28 anni, calcolando ogni olimpiade per 4 anni compiuti. La voce fiorire è moltovaga o ſteľa nel la Cronologia, perchè non ſempre moſtra, che un Filoſofo fofſe nel punto più alto della ſua fama, ma che ſolo aveſſe un nomeilluſtreacquiſtato. Il Newtono, che cosi rapidamente ſi per fezionò nellematematiche, fioria del pari in Inghilterra quando ſcriſſe al Leibnizio lalettera in cui gli dichiarava lo ſvi luppo, (a ) Plut. de vit.pud. (6) Patr.diſcuſs. prop. 1. 6. (c) Laerzio vit.di Sen. (6 ) 3 8 luppo, e l'uſo delBinomio eſaltato ad una potenza indetermi nata, e nell'anno 1716 in cui moltecoſe aggiunſe al ſuo libro de' colori, e n'illuſtrò molte altre nei principjnaturali della Fi loſofia matematica, Senofane, che lo Scaligero fa vivere 104an ni, ed altri almeno fino a 100, potea fiorire in olimpiadi mol to diftanti,perchè per la forza della ſua mente facilmente riu fcendo nelle fueapplicazioni, in breve acquiſtava fama di lomme Filoſofo, e la ſua fama tantopiù ſpargeali per le bocche degli Uomini, quanto egli abbelliva le ſuemeditazioni filoſofiche con la Poelia per farle ricercare, e leggere con piùd'avidità. Parmenide fece i ſuoi ftudi in Elea (a ) ſotto Amenia, e Dio chetaPictagorici, i quali lo riduſſero a laſciar le ricchezze, ecol tivar la vitaprivata, e darſi tutto alla Filoſofia. Biſogna dun que che in eſſa moltoriuſciſſe, o la Filoſofia foſſe la paſſione, che più lo dominava, ſe nato de'più ricchi, e de’più nobili di Elea ebbe tale coraggio; ma ciò molto applauſodovea avergli acquiſtato appreſſo de'ſuoi Cittadini, ſe fin d'alloracominciarono a celebrarlo in guiſa, che al dir di Ermipo Empedocle l'emuld.Nulla vieta il ſupporre, che Empedocle avelTe molto ſoggiornato in Elea, e poifoſſe ritornato in Agrigento ſua Patria. In Elea era ſtato emulator diParmenide doctiſſimo nelPittagoriſmo, e lo fu in Sicilia di Senofane, che loprofeſſava con qualche cangiamento', dopo gli anni 28 che è l'intervallofrappoſto tra l'olimpiade 69 e 76. Paſso Senofane in Elea, ed ivi Parmenideconſecrato agli ſtudi corſe ad udir Senofane, come i giovani nobili, e beneducati ſo leano far nella Grecia, quando nelle loro Circà udiano entrar unFiloſofo illuſtre, e che potea inſtruirli in qualche nuovo liſte ma, del chechiari gli eſempi ne vediamo nel Protagora, nelGor gia, ed in altri Dialoghi diPlatone. Quando Parmenide udi Se nofane, queſti poteva eſfer molto vecchio; maqualunque età dia ſi a Senofane, mi baſta, che nel pricipio dell' olimpiade76Parme nide imparaſſe da lui il fiſtema dell'uno immobile, e non aveſſe allorache 36, e ancor 40 anni, la ſteſſa età che avea Zenone quando diſputò conSocrate in Acene. Socrate nacque al fine dell'olimpiade 77, ed avea 4 anni compiuti o 5 anni cominciati, quando nella noſtra ipoteſi Parmeni de ne avea 40.Se zo anni dopo ſi fuppone, che Parmenide con Ze none paſlaffe da Elea in Atene,come vuol Platone, non avea che 60 anni, e Socrate che 25, onde era egli moltogiovane relativa mente a Parmenide. Semplici, e al fommo veriſimili ſono queſteipoteſi degli ſtudi, 1 e dei (a ) Laerzio vita di Parmenide. 1 (7 ) e deiviaggi dei due Filoſofi, e ſe s'accordano facilmente con le olimpiadi, perchèoftinarſi a rigettarle, e rinunziare all'au corità di Platone, che potea moltomeglio al fuo tempo cono fcere l'epoche dell'era filoſofica, che non ſiconobbero 6oo an ni dopo, e ben più? Le circoſtanze, con cui Platone accompagnal'abboccamento di Socrate con Parmenide, accoppiano in guiſa alla verità delfatto la veriſimiglianza ſtorica del Dialogo, che pare non do ver laſciarſialcun ſoſpetto. Io le eſtrarro dal Dialogo. Parmenide, e Zenone fuo diſcepolofavorito o fuo figlio a dottivo abitavano fuor delle mura di Atene in caſa diun cer to Pitidoro. Nelle ſolennità de grandi Panatenei, itofene So crate aritrovar Parmenide, ritrovò folo in caſa Zenone, e comia cid a diſputar feco ful'idee. Entrato poco dopo Parmenide in caſa con Pitidoro, ſi proſeguì ladiſputa incominciata alla pre fenza di molti, tra' quali Ariſtotele non loStagirita, ma uno dei 30 Governatori, o Tiranni di Atene. Tali ſono le circoftanze del luogo, del tempo, e dei teſtimoni della diſputa. Socrate non aveaallora che 25 anni; or eſſendo egli mor to nell'età di 72 anni,dall'abboccamento alla morte non vi fo no che 47 anni di diſtanza, e tantiappunto o pochi più dall' abboccamento al Dialogo, ſe Platone lo ſcriffe dopola morte di Socrate: ma poniamo che l' aveſſe compoſto anche 20 anni dopo; lamemoria di un Uomo così illuſtre qual era Parmeni de non potea più ignorarli inAtene, di quel s'ignori ora a Parigi la dimora che vi fece il Leibnizio, el'Ugenio, e le di fpute che ebbero nell' Accademia reale. Alle verilimiglianzeſtoriche s'aggiungono le poetiche necef ſarie all' ornamento del Dialogo, che èuna ſpecie di Poeſia Dramatica: così lo teſse Platone.: Cefalo per bocca diAntifone ſuo fratello uterino, e figliuo lo di Pirilampo, racconta ad A dimanto,e Glaucone, tutto ciò che avea udito da Pitidoro fu la diſputa che ebberoZenone pri ma, e poi Parmenide con Socrate. ' Antifone avea converſacofamiliarmente con Pitidoro compagno di Zenone, ma poi laſcia ta la Filoſofiacoltivava l'arte equeſtre, e quando Cefalo ad in ſtigazione de' compagni andd aritrovarlo, egli dava certo fre no ad accomodare ad un fabro; circoſtanza cheio credo finta per dar rilievo al racconto, é fiffar la fantaſia del lettorecon qualche coſa di ſtrano. Par toſto che Antifone occupato in un volgareeſercizio, non debba favellare ſe non di coſe volgari, nè mai s' aſpetta, cheegli ſia per ſalire nell' ultime aſtrazio ni della metafiſica; quindi illettore reſta ſorpreſo dalla mera viglia (8 ) 1 > e di viglia, allora cheegli racconta il principio della diſputa tra So crate e Zenone, e che pois'interrompe alla venuta di Parme nide, che fattoſi pregar un poco la continuafino al fine. Quan te menzogne, ſe Socrate non parld mai con Parmenide ! Allincontro qual arte fina di veriſimiglianza poetica, per dar or namento allaverità del fatto di cuiCefalo, Adimanto, e Glau cone vivendo poteano renderneteſtimonianza? Come immagi narſi, che un Filoſofo il qual volea render accettala lettura de ſuoi Dialoghi, cominciaſſe a diſguſtar il lettore con bugie lepiù sfacciate? Ariſtotele, che calunnia il ſuo Maeſtro in tante partidell'opere ſue fue, e che parld ſovente di Parmenide Socrate non attaccò maiPlatone ſul loro abboccamento, e pur ne poteva trar degli argomenti, perrenderne la dottrina ſoſpetta. Non ne parlano altri autori Greci più vicini aPlatone, non gli autori Latini, che più ſtudiarono i Greci, e tra gli altriCicerone e Plinio, che tante coſe ci conſervarono fu l' iſtoria ed EraFiloſofica. Non v'è che il ſolo Ateneo il qual viſſe a' tempi di Marco Aurelio,che vuol dir quaſi più di 600 anni dopo Platone. (a ) Egli dice: Appenapermette l' età che Socrate aveſe veduto, ed udito Parmenide, non dover perònoi meravigliar ſene, perchè Platone ſuppoſe che Fedro vivere al tempo diSocrate; che Paralo, e Zantippo figliuoli di Pericle, e morti nella peſtilenza,ragionaſſero nel Protagora, e che Gorgia diceſſe nel Dialogo del ſuo nome quelche mai s'era fognato di dire. Molte altre accuſe contro Platone vibra Ateneo,e s'affatica a dipingerlo tanto mordace, e maledico quanto bugiardo. Non soperchè i Cronologi attenti a peſare ogni minuzia de'te fti non oſfervino, cheAteneo nel dire vix ætas permittit dichiara, che poco intervallo di tempo v'eraſtato tra la morte di Parme nide, e l'età di Socrate, maqueſto vix qual ha poiforza cronologica poſto in bocca di Guriſconſulti, di Oratori, diPoeti, diFilologi, non di Cronologi, che avrebbono diminuito l'allegrezza del convitocoi loro calcoli, e colle lor aſciutte illazioni? Il Calaubono il qual nel ſuocomentario d'Ateneo in un'altro libro in foglio sfoga tanta eru dizione ſul’erbe, ſu ipeſci, ſui coſtumidel convito, elu mille altre coſe inutiliffime aſaperli nulla degna di dire ſu le accuſe colle qua li uno dei Dinnoſofiſtimorde Platone. Io per me credo, che A teneo vedendoſi incapace d' emularel'immenſità della dottrina Platonica, e l'arrificioſa maniera con cui l'eſponePlatone ne'ſuoi Dialoghi, teſſe lunga ſerie d'accuſe, e lo condanna di menzognero, e maledico per accreditar ſe non altro la veracità, e la mo deſtia collaquale caratterizza i ſuoi Dinnoſofiſti. Il buon Grama cico (a ) Ateneo lib. 14.Sympt, 9 ) tico ne goda egli pure, e ſen ' applauda; non per queſto io crede rò,che Parmenide non poteſſe ragionare con Socrate, e ſtard immobile nelle mieipoteſi cronologiche, che a ben peſarle non vagliono meno di tante altre, chein queſto ſecolo fi ſpacciano, e fi difendono come i Teoremi diGeometria:Candidamente perd confeſſo, che io farò per ſacrificarle a colui, cheall'autorità di Ateneo ne aggiungere qualchealtra più dimoſtrativa, e meno ſofpecta; finalmente malgrado le congetture eſpoſte io ſon perſua ſo, che ſePlatone tutto finſe, il Dialogo è più ammirabile per la menzogna poetica tuttaopera della ſua fantaſia, che non è per la verità del fatto, di cui poteanofarſi onore i men dotti. Platone fcriffe in Filoſofia più ditutti gli antichiche lo precede rono, e come da Eraclito le coſe fiſiche, da Socrate le morali,così tolle da' Pittagorici lemetafiſiche, le quali non ſi correffero che nelfecondo ſecolo della Religione, per le varie diſpuce che, nacquero traiPlatonici, e tra i Criſtiani. Eſaminerò dunque prima d'ogni altra coſa lanatura della difpu ta, dopo di cui proporrò generalmente l'antica Filoſofia, edin di la particolareggierò in Pittagora, e ne'Pittagorici, tra'quali Se nofanee Parmenide, e la terminerò con Platone. A queſte due coſe io riduco l'origine,e l'effetto dell'Eleatiça Filoſofia.. Gli antichi Filoſofi, ſenza eccettuarnenè pur uno, convennero nel principio, che di nulla fi fa nulla, e ciò gl'impedì di poter conoſcere che Dio era un ente ſingolariſlimo, uno, onnipoten re,buono, e libero; in ſomma di tutte quelle perfezioni dotato le quali o pernegazione, o per caſualità, o per eminenza gli at tribuirono i SS. Padri, ecuti'i Teologi. Era Dio ſtato ſempre con la materia? Dunque altro non gli competea,che eſſer un modo di efla od un ente, che ſolo per preciſion di ragione dallamateria ſi diſtingueva; era egli per metà uno, per metà onnipotente, fedipendea da un principio, ſenza il quale operar non potea, non più che ilPitcore dalla tela e dai colori, e lo Scultore dal marmo. La diminuzione dellapotenza toglieva a Dio la bontà, perchè non poteva egli vincer in guiſa lacontumacia della materia, che non regnaſſe a ſuo malgrado il male miſto colbene. Come dunque Mosè per opporſi al politeiſmo del ſuo tempo dalla creazionecominciò la ſtoria del mondo; così per opporſi a tutti gli errori chederivarono dall'eternità della mate ria fi cominciò nel ſimbolo Apoftolico daDio creatore, inſiſten do al dogma di S. Paolo, il quale nella Epiſtola agliEbrei: In tendiamo; (a ) dice egli, per la fede eſſere ſtati connelli i ſecoliTom. II. b dalla (a ) Epiſt. agli Ebrei cap. 11. Fide intelligimus aptata eſſeſecula ver bo Dei. (10 ) dalla parola di Dio. I Padri nelle loro diſputeco'Gentili lo dichia rarono. Noi, dice Atenagora,Jepariam Diodalla materia,lamateria crediamo un ente diverſo ---- (m ) Dio è uno, ed ingenito, ed eterno;la materia è corruttibile; e poi celebriamo tutti un Dio ſolo crea tore ditutte le coſe. - -.- la fua forza immenſa non poterono abbrac ciar coloro conl'animo, che la notizia di Dio non cercarono nello ſtef fo Dio, ma dentro fefteſi. Taciano (6 ) pur dice: Dio non s'inſi nua nella materia e negli spiritimateriali e nelle forme, ma egli è artefice inviſibile ed intangibile di tuttele coſe. Teofilo d'Antiochia (c) parlando ad Autolico, dice, ſe Dio è ingenitoe la materia è pur tale, non è più Dio fabricatore e creatore di tutte le coſe.Queſti Pa dri viſfero tutti e tre nel ſecondo ſecolo non molto diftanti l' unodall'altro. Gli errori de' Marcioniti, de' Valentiniani, de' Baſiliani,chefuronopur cutti e tre che in queſto ſecolo diedero occa fione a' Padrid'illuſtrare il lor zelo, dichiarando con la crea zione della materia ilprincipio fondamentale della Religione Criſtiana. Anzi Taciano dimoſtro, che iGreci ne avevano ri cevute l'idee da'Barbari, ed i Barbari dagli Ebrei, benchèpoi le aveſſero oſcurate e corrotse. Affaccendati gli altri Padri a purgarle,oſſervarono che Dio, autore del pari della Fede, che della ragione, non le aveaſeparate in un modo caliginoſo ed impenetrabile, ma le avea in manieraaccordate, che dall'aurora dell'una fi potea paſſare al pieno giorno dell'altra,cogliendo però dalla ragione quanto e Platonici e Pittagorici e Stoici, edEpicurei v aveano im preſſo col lor proprio carattere. Si compiacquero dunquedella ſetta Eclerica, ed il primo che l'abbracciale fu Atenagora il primo de'Catechiſti d'Aleſſandria, poi S. Clemente ed Origene dal Veſcovo Uezio chiamatoPocamonico (d ) anzichè Platoni ço, San Clemente ſpinſe tant'oltre lacondiſcendenza, che pro poſe come poflibile un ſiſtema filoſofico, il qualeraccoglieſſe tut te le verità ſcoperte dalla ragione umana fin dal principiodel mondo, ed agevolaſſe il metodo di far ricever i dogmi della fede, e quellodella creazione. Amonio Sacca conciliator di Ariſtotele e di Platone,ritrovando che in Ariſtotele l' eternità del mondo ſi conciliava con l'eternità di Dio, ſe ben egli nulla ſcriveſſe, laſcid tuttavia a' ſuoi diſcepoli,onde ſtabilire tal dogma. Diſtinſe egli l' eternica in due gradi o in due ſegni,nell' uno dei quali poneva Dio, nell'altro le coſe bensì create, ma da luidipendenti, come il raggio dalSole, o l'ombra dal corpo. S'accorſero i Padri,che iFi (a ) Apologia pro Chriftianis. (6) Tat. allir, cont. Græc. (c ) Teof.Aut, lib. 2. (d ) Iftor. del Moeffenio nel finedelCuduortio. (11 ) e tras iFiloſofi mettendo con la creazione eterna una dipendenza tra la materia é traDio, coglievano a Dio la libertà, perché cacitamente fupponevano, che da Dioneceffariamente foſſe emanato il mondo come il raggio dal Sole e l'ombra dalcorpo. Far di Dio un Agente neceſſario, è lo ſteſſo che farlo per metà Signore,per che ſe fi confeſſa da una parte, che da Dio dipenda la coſa che egli fa, finega dall' altra che da lui dipende il farla ed il non farla. La libertà è lamaggiore delle perfezioni. Perchè dun que corla a un ente infinitamenteperfetto?Lafcio S. Ireneo, S.Cirillo, ed altri, cheſoddisfarono ampia mente a tutte l'obbiezioni; ma quello, che più degli altri le ſcDIonvolſe ed atterrò, è ſtatoLattanzio Firmiano, che con au reo ftile nel quarto ſecolo ſcriſe. In queſtoſecolo ancora ſcriffe ro Eufebio nella Preparazione evangelica, e poi S.Agoſtino nel la Città di Dio, l'uno ſegut l' ormeaccennace da Taziano, 1 alţrocon erudizione più vigorofa, e più filoſofica ſcriffe contro l'eternità,l'animazione, la divinica del mondo, e l'immutabi lità del Fato. Apparve Proclo(as nel príncípio del V1. fecolo fondendo nella ſua Teologia molto di quellade' nomiDivini at tribuita a S. Dionigi Areopagita, rinovd il fiſtema di AmonioSacca riſtoro il Platoniſmo caduto. Nel fecolo dopo, Zac caria di Mitilene, edEnea di Gaza, ſcriſſero' pure contro l'eter nità del Mondo. E da' loro fcritiiſi raccoglie, che l'idea di Dio, combinata col policeiſmo era un'idea nugatoria,non men di quel la del bilineo rettilineo, che rappreſenta alla mente unafigura, é non è che una contraddizione. Il P. Balto, nel ſuo dotuiffimo librocontro il Platoniſmo ſvelato, lo dimoftra; e dopo il Balto fe de fece dalMoeſfenio quella circoſtanziata iſtoria ſul Platonis la quale è nel fine dell'opere del Cuduortio, da lui tradotre dall' Ingleſe in Latino. lo nell’eſpor ladoctrina de Filoſofi antichi non mi feryi rò dell'autorita de' Platonicirecenti, non più, che fe non aveſ ſero mai ſcritto, ſalvo allora, ches'accordano cogli antichi, e ci confervano qualche circoſtanza ſtoricaindifferente. Cercherò prima ne' teſti de' Filoſofi ftefli il ſenſo, chenaturalmente preſen iano, e dove ſia queſto oſcuro, ed equivoco, ricorreràall'in terpretazione o di Cicerone, o di Plutarco, o di Sefto Empirico, o diLaerzio Viſle Cicerone molti anni prima del Crifianeſimo, e Plutar co viffe aRoma ſotto Adriano, o Trajano, dopo d'aver ſtudiato in Egitto forro Amonio,diſcepolo di Potamone, e del quale egli b 2 par (a ) Pachimero in Suida, VediFabrizio Bibliot. art, Proclo. e mo,. (12 ) parla nella vita di Temiſtocle edaltrove. Laerzio e Seſto Empi rico, fiorirono in circa ſotto Severo, che vuoldire molto prima di Amonio Sacca, di Plotino, di Porfirio, e di molti alorinimici del nomeCriſtiano; non rifiuterd dall'altro lato i ſoccorſi, che i Padrim'offrono allora particolarmente, che non hanno certa indulgenza alle opinionifiloſofiche, ſcrivendo agl’Imperatori, o non argomentano ad hominem controcoloro, che gl'inſultava no. La mecafiſica di Platone non è diverſa da quellade' Pittago rici, e ſe una volta io dimoſtro, che queſti e particolarmentePitta gora, Senofane, e Parmenide conobbero bensì un principio intel ligente,ma non ſeparato dalla materia, anzi con effa non facen do che un tutto, avròdimoſtrato, io mi perſuado, che queſto pur era il ſiſtema Platonico. Comincieroda Cicerone che in poche ma ſoſtanzioſe parole compendio tutto il ſiſtema de'primi Accademici o di Platone, e lo craſſe da' Pittagorici, come da Placonepurtraſsero il loro gli Stoici, e i ſecondi e verzi Acca demici, poichè quantoa' Peripatetici (a ) eli convenendo nelle cafe non differivano, che ne' nomi.Gl’antichi, dice egli, divideano (b )lanatura in due coſe, l'una delle qualiera efficiente, e l'altraad eſsa quafi preſtandoſi quella di cui ſi fa ceano lecoſe.. Incid che facea riponevano la forza, in ciò di cui ſi fa cea, una certamateria, ma l'una e l'altra era nell' una e nell' altra perchè nè la materiapuò aver coerenza, ſe non ſia da qualche forza ritenuta, ne v'è la forza ſenzaqualche materia, poichè nullo v'è che non fic in qualche luogo.. Se la forza ela materia erano indiviſibilmente unite, la fola mente le ſeparava, e perciòconſiderar l'una ſenza l'altra era un?: aſtrazione, una preciſion della menee.Cid che riſulta (c ) dall'uno e dall'altro, o ſia dall'accoppiamento, lochiamavano corpo, e quafi certa qualità...--. Di queſte qualità al tre fonoprincipali, ed altre derivate da queſte. Delle principali ſono ognuna [CICERONE,QUÆST. ACAD. -- Peripateticos', et Academicos nominibus differentes, et recongruentes lib. 2. (b ) De natura autem ita dicebant, ut eam dividerent in resduas, ut altera eſſet efficiens, altera autem quaſi huic fe præbens ea qua efficeretur aliquid: in eo, quod efficeret vim eff: cenſebant; in eo au tem quodefficeretur materiam quamdam: in utroque tamen utrum, que: neque enim materiamipfam cohærere potuiſſe, ſi nulla vi contineretur; neque vim line aliquamateria: nihil eft enim quod non alicubi eſſe cogatur. (c ) Sed quod ex utroqueid jam corpus, et quaſi q uandam qualitatem nominabanc Earum igitur qualitatumſunt aliæ Principes, aliæ ex his ortæ. Principes ſunt uniuſmodi, et ſimplices, ex iis autem ortæ variæ funt, et quafi multiformes: itaque aer quoque (uti niur ognuna della ſteſſa ſpecie, e ſemplici. Da queſte qualità, altre ne for no nate, equaſi moltiformi. L'aere, il fuoco, l'acqua, ela terra for no primi, e daqueſti nacquero le forme degli animali, e le altre coſe, che ſi generano dallaterra. Dunque que' principi, per tradurlo dal Greco, ſi dicono elementi, de'quali l' aria, il fuoco, banno la for za di muovere, e di fare, le altre partidi ricevere, e quaſi di pati re, l'acqua, dico, e la terra. La parola ſemplicequì non ſignifica indiviſibile, e Seſto (a ) Em pirico pur la prende in queſtoſenſo. Vè un quinto genere, b )di cui ſono gli aſtri, e le menti ſingolari, edAriftotele lo pone diſimile dagli altri quattro. Se le menti ſono tratte dalloſteſſo elemento, che gli altri, non ſon eſſe ſemplici nel ſenſo d'indiviſibile,ciò che CICERONE dice altrove. Teniamo noi che l'animo abbia tre parti, comepiacque a Platone, o ſia ſemplice ed uno; ſe ſemplice ſia egli come il foco, ilfangue, l'anima, cioè il ſoffio. Queſte coſe conſtando di parti non ſonoſemplici. Continua CICERONE. (c ) Ma penſano, che di tutte ſia ſoggetto unacerta materia priva di ogni specie, e d ogni qualità, e da eui Butte le coſeſono eſpreſſe e fatte, e che può ricever in sè tutte le coſe. Se la materia eraprima d'ogni fpecie, d'ogni qualità, non cra corpo, e perciò conſiderata dallamente, indipendentemen te dalla forza, ella era incorporea; Selto Empiricochiama per. incorporei i punti, le linee, e le ſuperficie... Platone nel Timeo,la chiama difficile ed oſcura fpecie, e il recercacolo d'ogni generazione, equali nutrice; aggiunge, che ella non fi diparte mai dalla propria potenza,perciocchè tut te le coſe riceve, nè prende maiper alcun modo, alcuna forma aqueſte fimile, e prova eller convenevole, che di tutte le ſpecie ſia privoquel. che ha in sè da ricever tisti'i generi, comequelli che hanno da fa reunguenti odorofi, l'umida materia, che vogliono di certo odore, cori dire dital guiſa preparano ', che ella non abbia alcun proprio odore e colore eziandio,vogliono in materie molli imprimere alcune pgure, los niuna mur' n. pro latino) ignis, et aqua, et terra prima ſunt. Ex iis au tem' orræ animantium formæearumque rerum quæ gignantur è ter ras, ergo illa initia, ut è Greco vertam,elementa dicuntur; è qui bus aer, et ignis movendi vim habent et efficiendi;reliquæ par tes accipiendi et quafi patiendi, aquam dico et terram. a ) ContraMathematicos. (b ) Quintuin genus e quo eſſent aſtra mentesque ſingulares earumquatuor quæ ſupra dixi diſſimiles, Ariſtoteles quoddameſſe rebatur. (6 ) SedSalicetam putant oinnibus fine ulla fpecie, atque carentem omni illa qualitateo... materiam quandam ex qua omnia eſptela, atque effecta lipt qux'- tota omniaaccipere pofito (14 ) 1 njuna figura affatto laſciano primieramente apparire inquelle, ma cer cano pria di renderle quantopoſſibil fra polite. Molte altrecoſe aggiunge Placone, che Ariſtotele in una de finizione riduce, dicendo chela materia non è alcuna di quelle co fe, di cui l'ente fi determina, e tral'altre coſe annovera la qua lica, e la quantità, che par Cicerone ridurre allaſola qualità; ma che l'idea del corpo, e della materia foffero diverſe ſecon dogli antichi, lo dimoſtrano le diverſe parole, con cui l'eſpri mevano, chiamandola materia ùns, ed il corpo owllde. Chi po ne un nome, dice Platone nel Sofiſta,dalla cofa diverſo, introdu ce veramente due coſe. La materia dunque, noneſſendo il corpo, ella era incorporea, ed incorporea la chiama in molti luoghiSesto Empirico, e Plotino, la cui autorità qui è tanto più for te, quanto cheegli ſteſo col nome d'incorporeo, non ſignifi cava la ſteſſa coſa che noichiamšamo fpirituale. Stobeo (a ) lo conferma col dire: Si nega effer corpolamateria non tanto, perchè manchi degl'intervalli del corpo, o delle tredimenſioni, quanto perchè ſia priva d'altre coſe appartenenti al corpo, figura,co lore, gravità, leggerezza, ed ogni altra qualità, e quantità. La materia pud(b ) in tutti i modi mutarfi, ed in ogni parte non mai ridurſi al niente, maſolo in parti che poſsono all' infinito partir li, e dividerſi, nulla eſſendodi minimo in natura, che divider non fi pola. Le coſe poi che ſi movono tutte',moverſi con intervalli, che all'infinito ſi poſſono dividere, e cosi' movendoſiquella forza, cheab bian detta qualità (cioè il corpo ) e di qud, e di làverſando per fano, che tutta affatto la materia fi muti, efi faccian le coſe,che chix miam quali, dalle cui nature coerenti, e continue in tutte le ſueparti è fatto il mondo, fuori di cui non v'è alcuna parte di materia, nè abascun corpo. Quante coſe raduna CICERONE in poche parole ! Con la divi fibilitàall'infinito della materia, eſclude gli atomi forſe ammeſ da Empedocle ne'minutiſſimi corpicelli, che componevano gli elementi, e da Eraclito nellemondature piccioliflime, ed indivi fibi (a ) Stobeo. I. 1. Egl. fil. cap. 14.16 ) Omnibusque modismutare atque ex omni parte eoque etiam interi se non innihilum ', ſed in ſuas partes quæ infinite lecari, atque di vidi pollint, cumſit nihil omnino in rerum naturam minimum quod dividi nequeat: quæ autemmoveantur omnia intervallis moveri; quzintervalla item infinite dividi poſfint,et cum ita moveatur il la vis, quam qualitatem effe diximus, et cum fic ultrocitroque verfetur: et materiam ipfam totam penitus commutari putant, et itaeffici quæ appellant qualia, e quibus in omninatura cohærente, et confirmatacum omnibus fuis partibus effectum elle mundunt, extra quem nulla pars materiæfit nullumque corpus. (15 ) Ibili. Con la coerenza delle parti della materia, CICERONEeſclu de il vuoto negato da tutti, da Talece fino a Platone, onde dif ſeEmpedocle: Nulla di vuoto vė, nulla che abbondi. Accenna pur CICERONE le leggicoſtanti che conſervano icore pi movendoſi, e nel dir che fi movono con certiintervalli, i quali all' infinito ſi poffon dividere, non applica egli le leggidel moto a' corpi minimi come a'fenfibili? Le parti (a) del mondo effer tuttele coſe che fono in eso, e tutte occupate da una natura che ſente, e nellaquale v'è una ragione per fetta, e la ſteſsa fempiterna, nulla effendovi di piùforteche poſsa diſtruggerla, e la steſſadirfi mente, ſapienza perfetta, echiamarfi Dio, ed eſer.quafi certaprudenza di tutte le coſe, cheprovede allecoſe celefti, ed a quelle che in terra appartengono agli uomini. Se queſto Diodegli antichi Filoſofi rifultava dalle nature coerenti e continue di tutte leparti del mondo, ſe egli era il ſenſo, la ragione perfetta, la ſapienza, laprovidenza che reg gea queſte parti, era egli altro che una modificazione dellaforza e della materia, giacchè non v'era forza ſenza materia, nè materia fenzaforza, e non era egli ſeparatamente dalle co ſe conſiderato che un ente diragione? Qual relazione ha que fto Dio al noſtro, che è un ente ſingolariſtimoin sè, e fepa rato non per preciſion di ragione, ma realmente dalla forza edalla materia, della quale egli è il Creatore? Alle volte lochiamiamo (b )neceſſità, perchè null' altro pud farſi, ſe non ciò che da lei è coſtituitonella quafi fatale, e immutabile con tinuazione d'un ordine fempiterno; allevolte poi lo chiamiamo fortu na, la qual fa molte coſe improvvife, nè da noipenſate per l'oſcuri. tà, ed ignoranza delle cagioni; ed ecco Dio rappreſentatocome agente neceſſario, o ſenza libertà; ecco diſegnato l' ordine fa tale eſempiterno delle coſe; ecco come per la noſtra igno ranza non poſſiamoconoſcere la conneſſione, e le conſeguenze delle (a ) Partes autem mundi effeomnia quæ infint in eo quæ natura ſentiente teneantur, in qua ratio perfectainſit quæ fit eadem ſem piterna: nihil enim valentius eſſe a quo intereat, quamvim ani mam effe dicunt mundi eandemque effe mentem fapientiamque per fectamquem Deum appellant, omniumque rerum quæ ſunt ei fub jedtæ quafi prudentiamquandam procurantem cæleftia maxime dein de in terris, eaque pertinent adhomines. 16 ) Quam interdum neceſitatem appellant quia nihil aliter poſfit, atque ab ea conftitutum fit inter qual fatalem, &immutabilem conti nuationemordinis fempiterni; nonnunquam quidem eandem fortu nam, quod efficiat multaimproviſa hæc nec optata nobis propter obſcuritatem ignorationemque cauſarum, (16) delle cagioni, e degli effetti loro. In ſomma l'antica Filoſofia avevaadotata l' eternità, l' animazione, la divinità del mondo, e l'immutabilità delFato, le quattro coſe che Santo Agoſtino ha egregiamente combattute nella Cittàdi Dio. Comparando il trattato d' Ilide, e d' Ogride di Plutarco col paſſo di CICERONE,non è difficile di raccogliere, che la Filoſo fia Egizia ne' principieſſenziali non era diverſa dalla Greca, ſe non nella maniera di ſpiegarſi o ne'ſimboli. La materia, di cui parla CICERONE, era Ilide, la quale in ogni coſapotea tramu. tarſi, e di tutte le coſe eſer capace, della luce, delle tenebre,del giorno, della notte, della vita, della morte, del principio, e del fi ne.La forza è Oſiride, la cui veſte ſi facea ſenza ombra, e ſenza varietà, d'uncolor ſemplice, e rilucente; perchè ella è il principio dalla noſtramente ſolo,intefo, puro, e ſincero, tutt' iſimbolicontrarj a quelli delle proprietàdipendenti dalle qualità de' corpi diſegnati per Oro. Riſultava queſtidall'accoppiamento d'Ilde, e d'Oſiride, e chiamavaſi parto o creatura,rappreſentandoſi per l'ipotenuſa del triangolo miſurata dal 5; per cui ſichiamava con la voce Pente, da cui deriva Panta, o l'Univerſo, che gli Egizipenſavano eſſer la ſteſſa coſa con Dio, nel che, come egli dice, s'accordava Manetone Sebenita con Ecateo Abderita. Diodoro di Sicilia nel principio della ſuaStoria, ſcrive coſa pen {aſſero gli Egizj su la generazione del mondo, ſulprincipio del le coſe, ſul naſcimento dell'Uomo. Par che Euſebio afcriva a Tot,che è il Mercurio degli Egizj, quanto ſcriſſe Sanconiatone ſul caos, e ſullaformazione della Luna, delle Stelle, degli Elementi. La Teologia miſtica deiFenici, che dagli Ebrei, ſecondo Euſebio ed altri Padri, ſi preſe, reftd inguila alterata e confuſa, che nel caos poſero prima i principj delle coſe, edintroduſſero poi l'arte fice o l'amore, per opra del quale ordinarono il caos,é fabbrica rono il mondo. Orfeo il primo la portò nella Grecia e L'Inno criſtocanto del caos vetufto, E come agli elementi, e come al Cielo Origin deffe, edalla vaſta terra, E alla profondità del mar Amore Antichiſſimo, e ſaggio. Ilcaos era la materia, l'amore, o la forma, ed i prodotti, i compoſti, ed icorpi, ed in queſte tre coſe conſiſtea la fiſica generale degli antichi. Laſcienza che n'eftraſſero o la metafi fica rappreſentandola in una maniera moltoindeterminata, la ſciava infeparata la materia da Dio, e dai compoſti, ed eramolto perciò differente dalla noſtra metafiſica, la quale nell' en te includeeſſenzialmente le creature, nè s'eſtende che per un ' 9 1 5 analogia moltolontana al Creatore. Io lo dimoſtrerò partita mente ne' liſtemi di Pittagora,di Senofane, e di Parmenide, e ſarà facile ad applicarne l'uſo a Platone.Pittagora e Platone (a ) giudicano, che il mondo ſia ſtato fatto da Dio: dunquele Platone fece da Dio generar il mon do ordinando la materia fluctuante, egliimparò ciò da Pitta gora, che l'avea imparato dagli Egizi, da Orfeo, anzi dalpro prio maeſtro (6 ) Ferecide Sciro. Avea egli ſoſtenuto, che in tut tal'eternità Giove, il tempo, e la terra erano ſtati. Facciali pur di Giove, lacagione di tutte le coſe, e gli ſi dia ſomma pruden za, e fomma ſapienza, eglinon ſarà mai che la forza, e l'amore che eguaglieraffi al tempo, e alla terra;vi ſi aggiunga, che poi chè Giove diede il premio alla terra ſi chiamò queſtaTellure, (c ) non altro mai ſi concluderà, ſe non che prima la forza, e l'amore temperaffe, digeriſſe, ed ornaſſe quella mole indigeſta, che chiamavaliterra. Pittagora generò il mondo dal foco, e a guiſa di foco ſotti liſſimo (d )Iparſo, e rinchiuſo nel mondo, volea Placone, che foffe Dio. L'ornamento, (e )l'unione, l'ordine di tutte le coſe furono chiamate da Pittagora Coſmos, o ilmondo, e diffe egli, che il mondo viſibile era Dio. Stimò il primo, diceCicerone (f) l'animo per tutta la natura delle coſe eſer diffuſo, e per lamente da cui gli animi noftri ſono tratti, ne vide per la detrazione di que ftidiſtaccarſi, e ſquarciarſi Dio, e farſi miſera una parte di lui, mentre queſtiſoffrivano. Dio dunque era il mondo, e l'anime era no parti di Dio, effettodella Metempficoſi, ſe pur non era queſta una coſa affatto poetica, come Timeodi Locri lo dice. VIRGILIO espresse il sentimento di CICERONE nelle Georgiche.Della mente di Dio parci efſer l' api, E forfi eterei differo, che Dio Va pertutte le terre, e tutti i mari, E pel profondo Ciel; quindi gli armenti, E lepecore, e gli Uomini, e ogni ftirpe Di fere, e ogni altra, che da se rimove Latenue vita allorchè naſce. Tomo II. E nell (a ) Plut. de Ifid.& Ofir.car. 374.Franc. Edit. Vechel. (6 ) Laert.S. Clem. Aleſs. San Giuſtino apolog. Ermia nel fine dell'opere di S. Giuſtino. (e) Plut,plac.lib.2. (1)De Natura Deor. I. 1. Elle apibus partem divinæ mentis, et hauſtus Æthereosdixere: Deum namque iré per omnes Terrasque tractusque maris Columque profundum.Hinc pecudes, armenta, viros,genus omne ferarum Quemque fibi tenues naſcentem arceſſere vitas. 1.4. Georg..C (18 ) E nell' Eneide, Nel principio le terre, il Cielo, e i campi Liquidi, edella Luna lo fplendente Globo, e gli aſtri Titanj, interno fpirco Alimenta, edinfuſa in ogni membro Tutta la mole n'agica la mente E fi framiſchia nel grancorpo; quindi E di pecore, e d'Uomini la ftirpe, De volanti la vita, e'l marche i moftri Sorco la liſcia ſuperficie porta. no, Pittagora fu l'autordell'idee; (a ) oſervd il primo tra'Greci che la mente non potendorappreſentarſi ſingolari, perchè ſono in numerabili nel compararli, ne traſfeigeneri, e le ſpecie, ne'qua li ſi ravviſano le coſe ſparſe. Così ravviſavatutti gli individui umani nell'animal ragionevole. Nel far queſti aſtratticonſide rò, che la materia era mutabile, alterabile, Auflibile in ogni gui fa,ma che non vi ſono ſpecie, che s'accreſcano, o che perifca e perciò gli Uominioſſervandole coſtantemente in tutti i tempi, e in tutti i Paeſi le credonoeterne ed immutabili. La que ſtione era di rappreſentar queſt'idee. I numericonvengono all'Uomo, al cavallo, alla giuſtizia, al la caſa, e a che so io;dunque i numeri ſono univerſali, perchè atti alla rappreſentazione de' molti.L'oſſervazione è d'Ariſtotele, (c ) e molto più la ſtende Poſſidonio, riferitoda Seſto Empirico, (d ) il qual dimoſtra per i numeri aſſimigliarſi cutte lecoſe, e ſen za queſti non poterſi intendere nè gli elementi, nè l'armonia, nèalcuna delle tre dimenſioni del corpo, nè ciò che riſulta da corpi uniti,coerenti, diftánti, nè tutti i calcoli delle quantità fùccef five, nè ciò cheappartiene alla vita, ed all' arti fondate su propor zioni ſolo intelligibiliper i numeri. Pitragora dunque ſi ſervì del numero, per dar un ſimbolo dei dueprincipj delle coſe, la forza, e la materia, di cui chiamò l'una l'uno, el'altra il due. L'unità, diceva egli, è Dio, (e ) ed anche il bene che è dinatura * Principio Coelum, ac terras camposque liquentes Lucentemque globumLunæ Titaniaque altra Spiritus intus alit: totamque infuſa per artus Mensagitat molem, et magno ſe corpore miſcet. Inde hominum pecudumque genusvitæque volantum, Et quæ marmoreo fert monſtra ſub æquore pontus. (a ) Plut.plac. Phil. l. 1. (6 ) Plut. ib. l. 1. c.9. (c ) Metaf. lib. 10. (d ) Contra Logicos. (e ) Plut. plac. Phil.lib. 2. (19 ) un ſolo, e lo ſteſso intelletto, il due infinito, e genio triſto,d'inser torno il qual due ſi fa la quantità della materia. Chiamava uno laforza perchè noi la concepiamo a guiſa d'un non ſo che d'indi viſibile;chiamava due la materia, perchè ella è fempre divil bile in due, Di queſti dueprincipj, uno è quello del bene, e l'altro del male, già l'ha inſinuatoPlutarco. Archelao Veſcovo (a ) di Cara dice; Širiano introduce la dualitàcontraria a ſe ſteffa, la quale egli preſe da Pittagora, ſiccome tutti glialtri ſettatori di tak dogma,; quali difendono la dualità declinando dalla viaretta della ſcrittura. Tutte in ſommal'ereſie, che vi ſono nel compendio della filosofiadi CICERONE, che vuol dir l'eternità, l'animazione, la divis nità del mondo,Piccagora le raccolfe in un ſiſtema, ed in vano fi dice, che egli nulla fcriveſſe.Liſide diſcepolo (b ) di Pittagora in una lettera fcnca ad Ip parco, dopo lamorte del maeſtro ſignifica non voler comuni care ad alcuno i precetti, edimoſtra che delle coſe, le quali di ceano i ſeguaci di Pitcagora, non ve n'eranè pur ombra. Por firio nella vita di Pittagora dice, che agli Uomini oppreſlida tale calamitat, (cioè dalla morte di Piccagora ): manca lo ſciens di lui, laquale arcana e recondita cuſtodida in petto, nè vi reftas fono che certe coſedifficili da intenderſi imparate a memoria dagli udi tori dell'eſternaFiloſofia, poichènon v'era alçun ſcritto di Pittagora; ed aggiunge,che dopo lamorte di lui „ Lilide, Archippo,ed altri furono folleciti, cheipenſieridiPiccagora non ſi pubblicaffero, onde eutti gli arcani della ſuaFiloſofia con lui perirono'. To dubito aſſai del la vericà della lettera diLiſide, la quale con quel che dice Porfirio pud eſſere ſtata finta,perchè iCriſtiani nontraeſfero argomenti da quanto ci reſta diPitagora, in CICERONE inPlutarco, in Laer zio: ma ſe non v'era coſa alcuna della Filoſofia di Pittagora,.come poi Jamblico poeea gloriarſi di riftabilirla; e non è manifeſto che egli lariſtabili a fuo modo per combattere i Criſtiani de'quali fu accerbo' nimico; loſteſſo Porfirio, che dice nulla aver fcric to Pittagora, come poi ebbe fronted'afferire, che egli avea ſcrit to fu l'ente, il che Euſebio (c ) riferiſce?Diſcepoli di Pitcagora furono Archita Tarentino il vecchio, Pe ritione, Timeodi Locri, ed Epicarmo. Archita il vecchio (d ), che Simplicio confonde colgiovine, fcriſſe delle dieci voci corriſpondenti ai dieci concetti dell'animo,i quali s'eſtendono a cutte le cole, potendoſi d' ognuna cercar la (a )Zaccagna collect. monumentorum veterum Eccleſiæ Græcæ, atque Latinæ. ArchelaiEpiſcopi acta. (6 ) Galeo. (c ) Propof. Evang, lalg. (d ) Patrizia diſcuſ,Peripa,1 (20 ) la ſoſtanza, la quantità, la qualità, l'azione, e gli altriacciden ti regiſtrati a lungo da Ariſtotele nella ſua Logica, in cui copiò iltrattato di Archita. Lo Stanlejo, che pretende di numerare tutte le donnePitcago riche, omette Peritione, e pur eſser ella dovea la più celebre,le dalei trafse Ariftotele (a ) tutta l'idea della ſua metafiſica. Lo prova conmolta erudizione il Patrizio, allegando la definizio ne della fapienza diPeritione, e comparandola con quella di Ariſtotele. La ſapienza, diceva ella,verſa in tutt'i generi degli en ti, perchè verſa intorno tutti gli enti, comela viſione intorno tutti i viſibili. Ariſtotele definì la metafiſica, per laſcienza che contem pla l'ente, in quanto ente, e le coſe che per sè gliconvengono. Peritione egregiamente ſpiegò gli accidenti dicendo: delle coſe cheaccadono agli enti, alcune univerſalmente accadono a tutti, alcu ne altre amolti di loro, e certe ad un ſolo, ma riguardar univerſal mente, e contemplartutti gli accidenti appartiene alla ſcienza. Que. fte ed altre cole cheilPatrizio aggiunge, danno idea della preci fione, e nettezza di Peritione, enel tempo ſtefso quanto tra' Pittagorici erano familiari l'idee Pittagoriche,ſe le donne ſtef ſe ne ſcriveano con tanta eleganza filoſofica · Non dobbiamotuttavia meravigliarſene, di poi cheabbiam veduto ne’noftri gior ni Madama laMarcheſa di Chatelet, ſcrivere ſulla natura del. le monadi Leibniziane,queſtione molto più oſcura di quella dell'ente. Timeo di Locri nel ſuoragionamento ſull'anima del mondo, in queſta univerlità di natura, dice egli,v'è un certo che, il qual rimane, ed è l intelligibile eſemplare delle coſe,che ſono in un fuſo perpetuo di mutazioni, e queſto nelle vicende delle coſeſingolari, co ftante, e perpetuo eſemplare ſi chiama idea, ed è dalla mentecompre fo. Nell'univerſità dunque delle coſe, che vuol dir dentro le coſe o incutti i compoſti v'è quel non ſo che, che mai non cangia, e può dalla menteeſtrarli qual idolo. Le coſe ſenſibili eſser in un perpetuo fluſso lodiſsegnarono, al dir di Platone, nell'Omero, ed Eſiodo ſotto l'imaginedell'Oceano, e di Te ti, e di queſte non aſsegnarono fcienza i Pictagorici, maſolo di quelle, che nè col ſenſo, né coll' immaginazione ſi ravviſa no, equeſta fu la prima differenza tra la Filoſofia Jonica, e l'Italica. Epicarmoſommo Poeta, come Omero al dir di Platone, so all' una grandezza d'un cubito (dicevaegli ) altra tu voglia aggiun gervi o ſottrarsi, non avrai mai certo la Neramiſura; gli Uomini pa rimen (a ) Patriz. l. 2. cap. 1. diſcuſ. Perip. (6)Ragion, ſu l'anima del Mondo. (21 ) rimente conſidera or accrefcere, ed ordecreſcere, tutti ſoggiaciono ai cambiamenti del tempo. Jeri tu fofti un altro, io pur vi fui, E unaltro ſiamo in queſto tempo, e fieno Di nuovo gli altri, che non mai gli ſteſſiNoi ſiamo, come la ragion lo predica. Per l'Intelligibile così parlo: A. L'artetibicinal è qualche coſa? B. Perchè no. A. Forſe è l' Uom queſta tal arte? B. Non mai A. Vediam, che coſa queſto ſiaTibicine B. Egli è un Uom; non dico il vero? A. Il ver ma ftimi che non debbadiri Ciò pur del bene? Io voglio dir che il bene Una coſa pur ſia, ma s'altriimpari Ad effer buon ei già dirafli buono; Il Tibicine è quegli che la tibia Aſuonar imparò. Quel che a ſaltare Salvatore, e ceſtor quegli che a teſſereImpararo, e così d'ogni altro l'arte Certamente non è, ma ben l'artefice. Neldir Epicarmo, che il bene è una coſa come l'arte, e che nè il buono, nè l'arteſono gli uomini che la partecipano, egli c ' inſegna a far le aſtrazioni dellamente, la qual avendo comparato tra loro molti Uomini che fien buoni, moltitibicini, molti falcatori e teſtori, ne ha compoſto quell'idea, che poi conviene a tutti. Queſt'idea reſtando ſempre la ſteſſa in tutti i tem pi, ed in tuttii caſi, per quanto variano i temperamenti, e le figure degli Uomini, liconfidera ſempre nello Iteſſo modo, ed è principio del diſcorſo, o di ciò chenel Teeteto ſi chiamano analogie ſcoperte, le quali nel raccogliere le coſe colmezzo de' ſenli, le fanno comprendere la ragione. Epicarmo era contemporaneo diSenofane, come ſi diffe, ed eccoci a ' Filolofi più vicini a Socrate, ed indi aPlatone, i qua li a poco preffo ſi trasfuſero le ſtelle idee non diverſificate,che dalla maniera d'eſporle, e di colorirle. Senofane, dice Euſebio, e quelli (6) che lo ſeguirono, moſfero così con (a ) Laerzio Vita di Platone. (6 ) Lib.11. cap. 1. Prep. Evang. 1. 1contenzioſe ragioni, che piuttoſto arrecareno a' Filoſofanti confuſio ne, cheajuto. Pittagora volea che il mondo foffe eterno, benst come gli altri Filoſofi,quanto alla materia, ma non quanto alla forma, poichè credea che foſſe ſtatogenerato dal foco; Se nofane pofe il mondo non generato, ma eterno, 'aderendoad Ocello Lucano, che fcriffe fu l'eternità del mondo prima d'A. riſtotele;ecco la prima differenza tra Senofane, e Pittagora Un'altra più forte ve n' era;Pittagora avea pofti per principj l'uno, e il due, Senofane riduſſe tuttoall'uno, Senofane", dice CICERONE, è più antico di Anafagora; vuel che unofieno tutte le coſe, nè queſto uno è mutabile, ed è Dio non mai nato, eſempiter no, e di conglobata figura. Seſto Empirico (b ) parlando per bocca diTimone foggiunge, che fecondo Senofane l' Univerſo era una fola coſa, che Dioeſiſteva in tutte le coſe, e che era di figura sfe rica, e di ragione dotato.Ad Empirico ſi conforma Laerzio (c ) dicendo, che ſecondo Senofane, Dio nellamateria tutto udiva tutto vedeva, ſebben non reſpirale, e che tutte le coſeinſieme erano la prudenza, la mente, l'eternità. Io dimando, ſe nel far Diofparfo per tutte le coſe, e fen ſitivo, e prudente, e intelligente, differivaegli dall' opinione che CICERONE eſpoſe nel compendio della Filoſofia? Non v'èche la figura sferica che gli aſſegna Senofane, e per cui non infinito, mafinito lo rende; ma chi fa, fe nel concepir gli antichi la figu ra sferica,comela più ſemplice, intendeſſero ſimbolicamente d'ac tribuir a Dio tutte leperfezioni? converrebbe faper fe Senofane fcriſſe ciò in profa, od in verſo, eben eſaminare tutto il conte fto della fua dottrina. Non reſtandoci checonghietture, io m'at tengo a quella del ſimbolo per accordar CICERONE con se stesso,il quale nella natura degli Dei combatte Senofane, che aggiunſe la menteall'infinito. Queſt'infinità era una conſeguenza del fuo ſiſtema, perchè ſuppoſta l'eternità della materia cost argomentava: (d ) Eterno è cid che è, se èeterno è infinito, fe infinito uno, ſe uno fimile a sèl. Di nuovo ſe l' uno èeterno e ſimile, egli è ancora immobile, fe immobile non ſi trasfigura perpoſizioni, non ſi altera per forme, non ſi miſchia con altri. Ariſtoceleelamina i ſoffiſmi contenuti in queſto ragio namento; il principale è; da ciòche il mondo è ecerno, infini to, uno, non ne fiegue che egli liaeffettivamente immobile, per che le coſe eſiſtono nella maniera che poſfonoeſiſtere, e la materia ſe ſteſſa il principio del moto non v'è contradizione acont (a ) Queſt. Acad. lib. 1. (6 ) Lib. 1. dell'ipotipoſi. (c ) Laert. lib. 9.idí Arift. contra Xenof, Zenon. et Gorgiam. eſſendo per i 2 (23 ) a concepire,che il moto ſia eterno come la materia. Coloro che ammettevano il caos eterno,davano eterno il moto, ſebben ſen za regola o forma. Non ſi cerca qui però, ſeconcludeſſe l'argomento di Seno fane, ma ſolo qual foſſe la ſua ſentenza, ecoſa egli ne dedu ceſse. Come poi accordarla colla ſua fifica? Ammetteva egliper principj (a ) delle coſe naturali la terra, il foco, l'aria, e l' acqua, edalle alterazioni di queſti elementi, rendea tutti i miſti a generazione, ecorruzione ſoggetti. Grand uſo fece di quefte due coſe, perchè, ſecondo lui,conſiſteva il So le negl'ignicoli raccolti dall umida (6 ) eſalazione in unanuvola ignita, e la Luna in una nuvola coſtipata. Manon era poſſi biledecerminare il grado di verilimiglianza filoſofica ch'egli da va all'Ipoteli,poichè nelle ſentenze filiche di Senofane y' è mani. feſta contradizione.Poneva egli de' Soli innumerabili, e la Lu na abitata. I ſoli innumerabilierano quelli de' Pitcagorici, e di Orfeo (C ); ma come abitar una nuvola? Laterra (d ) la quale per immenſa profondicà fi ftendea di ſotto, era coſa ripugnante alla sfera armillare che Anaſimandro forſe di lui, maeſtro aveainventata o propagata per cutta la Grecia. Cor revano allora tali dottrine, eSenofane, in Colofone, in Atene, in Sicilia, e in Elea le avea ſtudiate; aveaTalęce calcolate l'eccliffi del Sole, e della Luna, avea Pittagora applicare alliſtema celeſte le conſonanze Muſicali, e nella lira a lette corde determinatoil pu mero, e le diſtanze de' Pianeti; non è poſſibile, che Senofane in untempo così illuminato voleſſe diſcredicare il ſuo ingegno con ipoteſi aſſurde ead ogni ragione contrarie; non erano dunque, che idoli fantaſtici, iperbolipoetiche, o ſimiglianze groſſolane, in cui ſi deve più badare al color, chealla coſa. La grande difficoltà di Senofane era nel combinare il fiſico colmetafiſico, o lo ſtato ideale con l'obiettivo. Avea già ſtabilito Pictagora,l'intelletto altro non eſſer che (e ) mente, ſcienza, opi nione, ſenſo, da cuitutte l' arti, e le ſcienze nacquero. Egli diſse gnava la mente per l'uno, ciòche adeſſo noi chiamiamo lemplice intelligenza; diſegnava la ſcienza pel due,poichè s'acquiſta la ſcienza deducendo una coſa da un'altra; diſsegnaval'opinione per il tre, poichè nel trar la conſeguenza da un principio probabile ſe ne riguarda nello ſteſſo tempo due, in uno de'quali v'èla ragionſufficiente d'affermare, nell'altro di negar la coſa. I Pit 3 ta (a ) Laert. vit. diXen. Plut. plac. (6) Plutar. lib....Origenes Philoſ. (c ) Veggali Moefenio ſu l'eſiſtenza d'Orfee. Plutar. plac. de Fil.lib.i. (d) Gregorii Aſtronomici Pref. (c ) Plutar. lib. 1. de plac. (24 ) tagorici furono tutti dogmatici, o perdar credito alle ſentenze del ſuo maeſtro, o perchè pareſſe loro, che lafapienza non do veſſe mai eſſer miſtad'ignoranza, come accade nell' opinionemilta dell' una, e dell' altra. Senofane fu il primo ad introdur il dubbionella Filoſofia, e quindi l'opinione. Chiaro l'Uomo non ſa, nè ſaprà mai DegliDei coſa alcuna ed altre coſe Che da me dette fur, ſiaſi perfetto Pur quanto eidice, tuttavia non fallo, E v'è opinion in tutte queſte coſe. Da queſti verſiSeſto Empirico inferiſce, che Senofane non to glica la comprenſione, maſolamente quella che dalla ſcienza de riva; nel dire in tutte queſte coſe d'èopinione accenna il proba bile, e l'opinabile, onde conclude che Senofane deveporſi tra coloro, che negano darſi criterio della verità, e non tra gli accattalecici, che negavano alcuna coſa poterſi da noi compren dere. L'autoritàdi Selto Empirico è d'un gran peſo, ove ſi tratta di determinare i gradi dellacognizione, ma non è da ſprezzar fi ciò che dice CICERONE: Senofane e Parmenidequan tunque con non buoni verſi però con certi verſi accufano quaſi iratid'ignoranza coloro, che ofano dir di ſaper qualche coſa allo ra che nulla fanno.Chi dice nulla eſclude ogni ſcienza, ed ogni opinione. Senofane ſi diſtinſe perla Logica, (c ) e ſecondo la Cro nologia di Euſebio, egli fu udito da Protagora,e da Nef ſa; Metrodoro udi Nefra; Diogene Metrodoro; Anaſarco Diogene, e coſtuiPirro d' Elea, dal qual ebbero nome i Filo ſofi Scercici fino a Gorgia, il qualdiceva: Non v'è nulla;,fe anche vi foſe qualche coſa, non ſi potrebbecomprendere, e ſe compren dere, non mai ſpiegare con le parole. Come inoltrarſidopo tale raf finamento di dubbj? Tra i diſcepoli però di Senofane il piùilluſtre fu Parmeni de deſcritto da Platone nel Teeteto qual vecchio grave, evene rabile e di una profondità al tutto generoſa, il che vuol dire, ſe mal nonm'appoogo, che egli nella diſputa non era oſtinato, ſu perbo, rozzo ed agreſte,come Ariſtotele (e ) dipinge Senofane è Meliſſo. Socrate in quel Dialogo, ed inaltri s'aſtiene quanto pud (a) Xenoph. ap. Seſt. Emp, adv. Matem. (6 ) QUEST. ACAD.; Eufeb.1.6.C. 19. (d ) Id. l. 12, c. 7. (c )Metaf. lib.... (25 ) può di ragionare contro le ſentenze di Parmenide per larive renza che ad eſſo portava. Euſebio caratterizza la dottrina di Parmenide,qual via contraria a quella di Senofane. Ermia però, dice Parmenide in beiverſi, c'inſegna che queſto Univerſo è eterno, immobile, e ſempre ſimile a ſeſtero. Lo ſteſſo Euſebio credeva, che ſecondo Parmeni de l'univerſo foſſeſempiterno, ed immobile. Stobeo riferiſce, che Senofane, Parmenide, e Meliſſocolſero affatto la generazio ne, e la corruzione. In che dunque diſconveniaParmenide da Se nofane, (6 ) Ariſtotele chiaramente lo ſpiega nell' accennar ladif ferenza che v'era tra Parmenide e Meliſſo, dicendo: volea Par menide, chetutto foſe uno ſecondo la ragione, e Meliſo ſecondo la materia, e da queſti duedifferiva Senofane, che chiaramente non dif ſe nè l'uno, nè l'altro. Eſer unoſecondo la materia, è il medeſimo che ritrovar nell eſſenza della materia laragion ſufficiente dell'unità della ſteſſa. Ed in fatti una è la materia, fe intutte le parti e nel tutco e nella medeſima fpecie è omogenea, qual CICERONE ladeſcrit ſe nel compendio della filoſofia, e l'ammiſero Platone, ed Ariſto tele.CICERONE rammemora ancora la forza, utrumque in utroque, ma conſiderando forſeMeliſſo, che gli effetti della forza, o ſieno le forme, ed i modi aggiuntiſucceſſivamente alla materia, non mai erano continuamente cangiando, glieſcluſe dall'eſſenza, e in con ſeguenza dall'unità della materia; ma ſe una eraeſſenzialmente la materia, uno era il mondo o l'univerſo, che da eſſa riſultavae ſe uno in ſe ſteſſo indiviſibile, eterno, ed immutabile. Malgrado dunque lecontinue aggregazioni delle parti ne' loro tutti, e le continue diſſoluzionide'tutti nelle lor parti, malgrado le altera zioni, le generazioni, e lecorruzioni, contemplando Meliſo l' univerſo nella parte effenziale lo credevauno, e immutabile in quella guiſa che è ilmare, non oſtante le continueagitazioni che foffre da innumerabili flutti. Se tal era la ſentenza di Meliſo,ella non è men empia ri ſpetto a noi, che ridicola preſo i Pagani, perchè lamateria, fe condo lo ſteſſo CICERONE, non può aver coerenza, e in conſeguenTomo II. d za (a ) Cap. 5. l. t. Præp. Evang. (6 ) Parmenides unum fecundumrationem attigiffe videtur, Meliſſus vero fecundum materiam, quare id et illequidem finitum, hic ve ro infinitum ait effe, Xenophanes autem quando prioriſtis unum poſuerat (nam Parmenides hujus auditor fuiffe dicitur ) nihil tamenclarum dixit, et neutrius eorum naturam attigiſſe videtur, ſed ad folum coelumrefpiciens ille unum ait effe Deum. Metaf, Arift. l. 1. cap. 5. ediz,Parigi 1 1 1 4 > za unità, ſe non èritenuta da qualche forza, e la continua ſuccef fione delle forme conſiderataaffolutamente in ſe ſteſſa, non è me no eſſenziale al mondo, che alla materia.Ragionava dunque più ſottilmente Parmenide; dalla materia, e dalla forza, dallaſoſtanza, e dall'accidente, avea coll'aſtra zione della mente dedotta l'ideadell'ente e dell'uno, e preten dea che l'uno nel ſuo concetto aſtrattiflimopreſcindeffe da tutte le forme, e le differenze dell'ente ſteſſo. Il P. Maſtrioquali tre mille anni dopo ebbe una fimile idea, poichè egli vuole che l'en tein quanto tale preſcinda dal finito, e dall'infinito, da Dio, e dalle creaturee la ſentenza è ſeguita da tutti gli Scotiſti. Qualunque ella fiali, certo èche come quella di Parmenide curta opera della ragione più raffinata, e che bendiſſe Arifto tele, che l'uno di Parmenide di VELIA era tutto ſecondo laragione, non che la ſentenza di Meliſſo ancor non lo foffe, ma egli nelfondarla tutta ſulla materia croppo s'accomodava ai pregiudizi del ſenſo. DaParmenide, e da Meliſſo ſi diſtaccava Senofane, il quale ef ſendo il primo aragionare dell'immobilità dell'ente e dell'uno, s'at tenne alla concluſioneſenza ſpiegar il metodo con cui la deduſſe. Ariſtotele (a ) che avea diviſe leloro fentenze nella metafiſi ca, par che nella fiſica le confonda dove diffe',che altri di lo ro tolfero la generazione', e la generazione, e la corruzione,i quali come ben dicano in altre coſe non ſi deve perd penſare che parlino daFifici, poichè l'efervi alcuni enti immobili è più inſpezione di una ſcienzaſuperiore, che della Fiſica. Non condanna dunque PARMENIDE DI VELIA, e MELISSODI VELIA, perchè aveſſero tratcato dell'unità, ed immo bilità dell'ente, maperchè ne aveano fatto un punto di Fiſica, dalla quale egli eſclule il trattatodelle coſe eterne, e immuta bili, onde credendo che il mondo, e il Cielo lofoffero, parte ne trattò nella ſteſſa metafiſica, e parte ne' libri del Cielo;na chi può credere che Parmenide non diſtingueffe queſte due ſcien ze, avendoaſſegnati due principi delle generazioni, il foco, e la terra? e determinatoche un foco ſottiliſſimo, o lia l'etere cingeſſe gli altri, e che movendoſi invortice raffrenaffe colla ſua rotazione ſe ſteſſo, e le coſe contenute, ciò cheè il principio de' più moderni FILOSOFI (6 ) Egli componeva il mondo di molteghirlande tra loro teſſüste, una rara, e l'altra' denfa; fra le ghirlan de neponeva dell'altre meſcolate di tenebre, e di luce, e volea che la coſa la quala guiſa di muro le circondava forje foda, e maliccia. Queſte ghirlande, ecorone erano i vortici di Empedocle, dei qua li egli dice parlando de caſtighi de'genj.Quelli (a ) Ariſt. Fiſic. lib. 1, (b ) Plut, lib. 2. cap. 7. (17 ) (* ) Quellinel mar ſollicitante forza Dell' etere rifpinge, e fola ſpucali Ne’ſotterraneiabimi, e nella lampada Dell'almo Sole dalla terra cacciali, E il Soleinfaticabile tramandali Ne' wortici dell'etere. Accoppiando il paffo diParmenide con quel di Empedocle, par che tutti due deſſero vortici alle Stelle,raffigurando Parinenide nella luce le fiffe, e nelle tenebre i Pianeti; chi sa,che queſta coſa maf ſiccia non foſſe il moto del vortice tutto luminoſo, perchètutto etereo, il quale impediffe con la ſua forza di rotazione lo sfaſcia mentodel mondo viſibile? il moto della Luna, dice Plutarco, (a ) ol'impero con cuigira, l'impediſce di cadere in quella guiſa, che la fionda torta in girodalbraccio impediſce la caduta del faffo. Vuol Favorino, che Parmenide primoſcopriſſe, che la ſteſſa Stella pre cede il Sole la mattina, e lo fiegue lafera, o che il Veſpero è lo ſteſſo che il Fosforo. PLINIO ne attribuiſce laſcoperta a Piccago ra, il quale veriſimilmente la portò d'Egitto, col ſiſtemacele fte; ma forſe Parmenide, nella Teoria di queſta ftella, più che gli altriPittagorici ſi diſtinſe, come Filolao nel moto della ter ra. Filolao la faceagirar in cerchio intorno alSole, ed Ecfan to volea, che movendoſinonpartiſſe dal proprio luogo, ma fer mata a guiſa di ruota, ſopra l'aſſe propriointorno quello giraffe da Occidente in Oriente; non (6 ) aderiva Parmenide, nèa Filo lao, nè ad Ecfanto, ma conſiderando la terra d'ogni intorno egualmentelontana dalCielo, la ponea in equilibrio, e voleva che ſenza eſſer fpinta daalcuna forza a queſto, o quell'altro verſo, ella fi ſquaſfaſe bensì, ma non ſimoveſſe. Parmenide feparò il primo le parti abitate della terra fuor de' cerchjfol ftiziali, indizio manifeſto, che egli avea proficcato delle teorie diAnaſimandro, di cui ſi ſuol far ignorante Senofane. Tal era: il ſiſtemaaſtronomico di Parmenide: nel fiſico egli divinizzò la guerra, la difcordia,l'amore, e diffe: Di tutti gli altri Dei cauſa è l'amore. * Αιθέριον μεν γαρσφεμένος πόντον δε διώκει, Πόντος δέσχθονος έδας απέπτυσε, γαία δ' εσαύθιςΗ'ελία ακαμαντος, ο δ αιθέρος εμβαλε δίνεις. Α'λος δ' εξ άλα δέχεται καισυγένεσι δε πάντες. Plut. de Ifide, et Ofiride. (a ) De facie Lunæ. 16 )Plut,deplac. Phil. lib. 3. d 2 Cosi (28 ) 1 Così gli attribuiſce Simplizio, edAriſtofane colle da Par menide l'amore che ordina, e fabbrica le coſe nellacommedia degli uccelli, gli altri Dei non erano, che gli elementi già divinizzati da Parmenide. (a ) Empedocle l' emulò, benchè egli quattro elementiponeſse, e due Parmenide, il foco, e la ter ra, principali architetti dellecorruzioni, e delle generazioni, e che rarefatti, o condenſati, ſi cangiano inaria, ed in acqua. I principj, ſecondo Ariſtotele, devono eſser tra lorocontrari, e nulla v'è di più contrario, che il caldo, e il freddo, a qualicorriſpondono il raro, ee ilil denſo denſo,, ilil moto moto,, e la quiete.Tutto queſto ſiſtema fiſico di Parmenide eſpreſse Platone nel Sofiſta. Le mu jeJadi, ele Siciliane, dice, a queſte poſterioriſtimaronocoſa più ſicurad'annodare le coſe inſieme, in modo che l'ente ſia molte coſe ed uno, e ſitenga colla diſcordia, e colla concordia, perchè diſcordando (6 ) fem pres'accoſta egli come dicono le più forti muſe, ma le più molli non hanno voluto,che ciò ſe ne ſia ſempre così, ma privatamente alcuna volta dicono chel'Univerſo ſia uno, ed amica per Venere, altra volta molte, e con sè per ſecodiſcordanſi con certa conteſa. S'io non m'in ganno, qui s'allude all'amicizia,e alla diſcordia, o all’amore, e alla lite, che Parmenide poſe come principjefficienti delle genera zioni, e corruzioni; molti Poeti ſtaccando ciò dallePoeſie di Par menide, e di Empedocle, non ifpiegarono con la lite, e con l'amicizia, ſe non alcunifenomeni particolari, come chi dalſiſtemadel Newtono, ilquale poſe per principio univerſale l’ attrazione; al tri ſolo la prendeſse periſpiegare i fenomeni del magnetiſmo, e poi per iſpiegare l'eletricità, lagravità ec. fi valeſse d'altro prin cipio. Non può dirſi dunque, che Parmenidenon foſse eccellente Fi fico, ſe egli allora penſava a ciò che il Newtono pensòtanti ſeco li dopo; ſcriſſe in verſi il trattato della Natura, come Lucre zio,ma il Poema s'è perduto, e non ce ne reſta che il principio conſervatoci daSeſto Empirico. (c ) Mi portano i deſtrier, e quant'io voglio Traſcorrono; chegià m'aveano tratto Nella celebre via del Genio; via Di cui m'aveanoammaeſtrato appieno Gľ (a ) CICERONE. 6 ) Nel Gítema Newtoniano in tanto unaparte di erta fugge da un' altra parte, in quanto ella è attratta con più forzada un altro corpo; quindi dall'attrazione ſi deduce l'a repulfione. () I verliſono in Seſto Empirico contra Logicos. (29 ) 1 Gl'infigni coridori, e dallafama. Correndo il cocchio ſquaſsano, cui Duce Le fanciulle precedono, ma l'aſſeSplende ſtridendo nell'eſtrema parce De' raggi tra due fiſso orbi torniti.Allorchè s'affrettaro le fanciulle Eliadi, e della notte abbandonando Le cafétenebroſe oltrepaſsarle, Nella via della luce al fine entraro; Da i ſpiraglirimoſsero le vele Con man robuſta dove ſon le porte Delle vie della notte, edella luce; L'une e l'altre circonda un arco immenſo, E il pavimento tutto n'èdi marmo; Agiliffime corronvi, e s'appreſsano Colà dove tenea Dice le chiavi,L'ultrice Dea, che premj, e pene imparte. Con parole molcendola ottennero Lefanciulle, che all'uſcio ella fmoveſse L'interna leva. L'adattata chiaveSpalancando le porte per immenſo Foro i chioſtri ſcoperfe, mentre l'affe Sirivolgeva, e l'orbita del cocchio, Facilmente reggean l'alme fanciulle, A cuiben pronti il cocchio, ed i cavalli Ubbidiro. La Dea liera m’accolfe, E per ladeſtra preſomi usd meco Tali parole. Dio ti ſalvi, o figlio Dilecto figlio, chealla noſtra Řeggia Guidarono que' nobili deſtrieri Che hanno in forte direggere il divino Cocchio, nè rea fortuna ti conduſse In tal via. Non è trita apaſſi umani Ma audacemente di pregare è d'uopo I Numi, onde ti laſcino le leggiInveſtigar della natura, in grembo Di veritade, che a ubbidire è proſta, E de'mortali tu fuggir potrai Le opinion, di cui non vera fede, Ma tu rimovi il tuopenſier da queſta Via di ricerca, nè ti sforzi lunga Eſperienza delle coſe gliocchi Figgere accenti o pur aperte orecchie Ai Ai dogmi che ragion non prova.Quello Che ti preſcrive eſperienza lunga La ſola mente dall'error corregge.Seſto Empirico, comentando queſti verſi oſſerva, che Parmeni de chiama gliappetiti dell'animo i cavalli, la ragione il genio, o demone, e gli occhi lefanciulle Eliadi; tutto il reſto è fancaf ma poetico, e, comeSenofane, eglipenſava intorno alla ricer ca del vero; concludendo il giudizio appartener allaragione, e non ai ſenſi, ſenza eccettuare i due delladifciplina, o l'udi to, ela viſta; dogma che fu poi quello dell'accademia, come a lungo Cicerone loprova. I verſi fe hanno per oggetto cofe fublimi, e leggiadramente accoppino l'allegoria all' imitazione, e all' armonia, foddisfanno in un tempo ſtesſo, alfenſo, alla fantaſia, e all'incellecco, ono de queſte potenze coſpirandoinſieme a ben rappreſentarci le co fe cantase, a preſtano ſcambievolmente leloro cognizioni, affin chè troppo sfumando nelle aſtrazioni, non ſvaniſcal'idea, e le ſenſazioni, e i fantasmi non l'offuſchino, ma ſervino alla mentedi ſpecchio per ben contemplarla. La grande arte è, che lo ſpec chio non abbiatroppo d'aſprezze, le quali non diſpergano ſover chiamente, ed affortiglino ilraggio, che turbaco non ci laſci diſcernere, dove è l'oggetto. Alla proſadunque, ma proſa poe tica ricorre Platone volendo appagare tutte le potenzedella anima. Ed eccoci finalmente a Platone, dopo d' aver eſaminato comePittagora dall'eternità, divinità, animazione del mondo racco glieſe l'idee; ledivideſfero in certe claſſi generali i Pittagorici le diſtaccaſſero dal tutto,e ne faceſſero degli enti a parte; come Senofane, il primo ricavaſſe laconcluſione dell'ente uno ed im-. mobile, come Parmenide contemplaſse ſecondola ragione queſt' idea, e nelle coſe fiſiche s'uniformaffe a Senofane,diſtinguendo ľ opinabile dal vero. Tutta queſta fabbrica era fondata ſu lamaniera di penſar di Pictagora, maniera falla, e pienamente diſtrutta da Padri,che molto al di là del IV. fecolo non combatterono collo fteffo Pit tagora, macon Platone, di cui ſi debbe adeſſo rintracciare qua li influenze aveſſero nelDialogo la dottrina dell'idee, dell'uno immobile, e dello ſcetticismo, perchèegli vi parla, e dell'idee, e dell'uno, e tutto proponendo per iporeli nullaconclude. Prima però di ſviluppar queſte cofe l'ordine della doctrina ricerca,che favelliamo dello ſtile Platonico in generale. Profonda e delicatacognizione della lingua Greca ſi ricerca per (31 ) e per ben intendere labellezza, la forza, e l'armonia dello ſti le poetico di Płacone; lFraguier, chein tutto il cor ſo della ſua vita, l'avea con un ſpirito molto colto nella POESIALATINA, ed in ogni altro genere di belle lettere ſtu diato, ben eſaminando ilſuo ſtile, ritrovava che Platone avea trasfuſo ne' Dialoghi l' Epico, il Lirico,ed il Dramatico. Com parava egli la profopopea, colla quale Dio nel Timeo ragiona agli Dei inferiori 'all' ode più ſublime di Pindaro travedeva nellenarrazioni dello ſteíſo Timeo, e in alcune del la Repubblica, la magnificenzaEpica dell'Iliade. Nel paſſo cita so di ' Ateneo ', Gorgia mal ſoddisfatto diquel Dialogo intito lato col ſuo nome, ci dice, che un giovane, e LepidoArchilo co regnava in Atene; allude egli a Platone, che irritato con tro iSofifti, non riſparmid le accucezze, ed i ſali contro di lo ro, ma i ſali diPlatone non erano aſpri, ed ulcerofi, come quelli di Archiloco, e di Ariſtofane,ma eſtratti dallo ſteſſo mare, in cui nacque Venere. Così Plutarco dice diMenandro, e con non men di ragione io poſſo dirlo di Platone, che tut tocomicamente condiſce con le grazie, e con le luſinghe della Poeſia di Omero, edingentiliſce in guiſa le accuſe de Sofiſti, che non mai gli affronta con quell'ingiurie, colle quali il Re de'Re alla preſenza dell'eſercito rinfaccia Achille.L' ironia di Socrate a ' è la chiave, ed ella è così ben maneggiata, che daalcuni ſi crede nel Menedemo (a) lodarſi le orazioni funebri, e pure vi ſicondannano. L'allegoria è perpetua in tutti i Dialoghi; allegorici ſono i numeri armonici, di cui teſſuta è l'anima del mondo; allegoriche le Sirene degliorbi celeſti; allegorico il carro dell'anima, l'ali e il coc chiere; allegoricigli Androgini, la naſcita dell' amore, la gradazionedegli animali di Prometeo,e di Epimeteo, la guerra de gli Atenieſi contro i popoli del mar Atlantico, equanto diſſe dell'Iſola Atlantica, e ſulle leggi, esu i coſtumidegli abitanti;tutto vi è finto per preparar l'idea della Repubblica, il cui modello cercaPlatone nella fabbrica ſteſſa del mondo, ed ordiſce così la men zogna poetica,che molti s'affaticarono di ſpiegare ſtoricamente l'Iſola Atlantide, come ilCiro di Senofonte. Più s'occulta Pla tone in certe allegorie incluſe nellefrafi poetiche, per le qua li ſimboleggia molte coſe, e politiche, e morali, emetafiſiche, diſegnando l'ulcime con coſe colte, o dalla muſica, o dall'altronomia, o dalla geometria; tre ſcienze (6 ) nelle quali era fo mamente dorto alſuo tempo. Certo è, che ſe giuſtamente non retro s'ap (a ) CERONE, Acad. (6 ) Ab, Fleurì nella lode di Platone.s'apprezzano le fraſi poetiche riducendole al ſenſo filoſofico, li correriſchio di non intender mai, nè le parti, nè il tucco di un certo Dialogo, e nevedremo nel Parmenide ſteſso gli eſempj. Ebbe dunque Platone comune la poeſiacon Parmenide, ma molto egli l'accrebbe col Dialogo, modo più naturale periftrui re, più comodo per illuminare, adoprato da Socrate, da Seno fonte, daStilfone, daEuclide, da Glaucone, e al dire d'Ariſto tele da un certoAleffamene inventato. S'imitano col Dialogo i ragionamenti degli Uomini, comene? drami s'imitano le azioni. Platone che voleva emular in tutto la poeſia diOmero, ſi sforzo d'imitar le diſpute de Filoſofi, in quella guiſa che Omeroavea imitate le azionidegli Eroi. Ciò che al Drama è la favola e l'epiſodio, èla queſtione al Dialogo, e la digreffione, e' nell'una, e nell'altra riuſcìegregiamente Plato ne. Non v'è Tragedia antica, che meglio eſprima il principio,la percurbazione, il ſcioglimento dell'azione, di quel che Platone proponga,diſcuta, termini la queſtione, in cui ſebben nulla concluda, però gli baftad'aver conſumate le ragioni dall' una, e dall'altra parte. Nelle digreffionicomincia per lenti gradi ad allontanarſi dalla queſtione, poi ſpazia o nellaGeometria nella muſica, od in altra ſcienza a fuo talento, e ſenza che illettore fe ne accorga, il riconduce alla prima propoſizione non per ſalti, maper gradi. Anche in cid imitd Omero, che al dir del Gravina (a ) traſcorretallora alſoverchio, tallora moſtra ď abbandonare, ma poi per altra ſtradaſoccorre. Platone non imita meno Omero nel carattere degl'interlocu tori, edelle ſentenze; io ravviſo in Alcibiade un non so che del carattere di Paride,l'uno e l'altro è milapcatore, fuperbo, e laſcivo; il carattere di Neftore ètrasfuſo in quella parte del carattere di Socrate, ove queſto conſiglia, maNeſtore auto rizza i ſuoi diſcorſi con l'eſperienze acquiſtare nell'uſo dellavita, e Socrate con l'impreſſioni del genio che il dominava. I caratteri de'Sofiſti ſono preli da quei dei Trojani, che ſenza ordine, e ſen za diſcipliitas'avanzano come le Gru ſchiamazzando, e poi reſta no ſconfitti da' Greci, ilcui coraggio e valore era ſoſtenuto dalla ſapienza, e dal consiglio, e fino daMinerva. Molti. pretendono che Platone ſpieghi la ſua ſentenza nel farragionare Socrate, Timeo, Parmenide, l'Oſpite Arepieſe, e l' Eleatico, dueperſone anonime, e che gli faccia dire a Gorgia, a Traſimaco a Claride., a.Protagora, et Eucidemo, ciò che non approva e vuol rifiutare, ma coſtoro nonavvertono, che nel Ragion Poetica. nel far Platone ſiſtematico lo fanno peſlimoDialogiſta, e talor peffi moFiloſofo, perchè egli concraddice a ſe ſteſſo indiverſiDialoghi, o almeno le coſe vi ſono così ſconneſſe, che non ſi puòraccoglierle, non più che le membra di Penteo (a ) diſunite e sbranate. Trattodi cutte le parti della Filoſofia, or Logica, or Fiſica, or Metafiſica,accennomolte ſcoperte de' ſuoi tempiintorno alla mufica, all'aſtro nomia,all'ottica, ma imitando poi la ſetta Eleatica ne'dubbj, e nell'opinioni, tuttopropoſe ſenza nulla concludere. CICERONE lo conſidera come il primo degliAccademici, o quel che diede ad Arceſilao, ed indi a Carneade il metodo didubitare. Seſto Empirico ſenza altro lo pone tra' Pirronici nelle materie ancora più gravi, come in quelle dell'anima,del mondo, di Dio; nè a ciò CICERONE ècontrario. Conveniamo dunque che Platone, co me nello ſtile poetico convennecolla ſcola Eleacica, così vi conven ne nel metodo di opinare,che egli colDialogo reſe più problematico. Confideriamolo adeſſo nelle fentenze, eprincipalmente in quelle che riguardano l'idee ſulla Divinità, e ſulla materia.S'è già dimoſtrato, che i Pitcagorici riducevano tutto all'idee, ed ai numeri.Platone ſcielſe, e perfezionò ilmetodo dell'idee, econ duffe lo ſpirito allacognizione del bene per l'idea del bene, della bellezza per l'idea dellabellezza, e cosìfece del valore, della tem peranza, della ſcienza, e dell'altrevirtù morali ed intellettuali, com ponendo tra loro l'idee n'eſtraffe l'ideadella Repubblica, o l'idea del giuſto conſiderato nell'amminiſtrazione d'unaRepubblicazimmagine di quella amminiſtrazione, che delle potenze dell'anima fala ragione. Credevå egli, che ſpiegar le coſe particolari per le univerſali,fof ſe il metodo chela natura leguiva, allorchè procede dalle cagioniaglieffecti. Parve ad Ariftotele, che foſſe più facile, e più ſendibile nelleinſegnar le ſcienze, ſeguir l'ordine dello ſpirito, chealla cagionevi perl'effetto. Non ſono più oppofti queſtimetoditra loro, che la ſin teſi, el'analių, di cui l'una comincia dalle coſe generali, per difcen dere alleparticolari, e l'altra dalle particolari, peraſcendere alle ge nerali; l'uno el'altro Filoſofo nell'inveſtigar l'idee delle coſe, adoprò il metodo ſteſſo dicomparare i ſingolari,e di farnele aſtrazioni oppor. rune, e lo dimoſtrerd alungo pel ragionamento dell'idee Placoniche. CICERONE riduce l'idea alla terzaparte della Filoſofia, che ver ſa nel difputare. Così l'idea trattavasi dagliantichi, che ſebbene ac cordavano ella naſcer de ſenſi, però volevano che ilgiudizio nonfoſe ne fenſi, ma che la mente fore giudice delle coſe, ſtimandolaſola atta a di ſcopriril vero, perchèfola diſcopriva cid cheera ſemplice, dellaſteſanas tura, o tal qual era, e queſto lo chiamavano idea già così nominata daPlatone, e noi poſiamo (conclude egli ) rettamente chiamarla la lpecie. Nonerano perciò l'idee Platoniche, a ben comprenderle, che le fpe cie, eigeneriche noi facciamo, comparando ed altraendo, eche, Tom. II. (a )Eufeb.Prop.Evang. (6 ) De Natura Deorum. (c ) Lib.1.Accad. 2 e come (34 ) 1come ſi diffe, cappreſentavano i Pittagorici per l'unità, poichè la mente tuttova unificando per ſua natura. Una ſpiegazione sì facile, e breve dell'ideePlatoniche, perfectamente s'accorda co' principi d'Ariſtotele. Egli trattanella Merafilica l'idee Platoniche da metafc re poetiche, e queſto nome gliavrebbe pur dato Platone, se avelle dogmaticamente ſcritto come Ariſtotele', manel Dialogo ſpecie di Poelia Dramatica egli eguagliò la compoſizioneallo ſtile.Morco Platone, ed offeſo Ariſtocele di vederſi poſpoſto a Pfeufipo „ a luitanto inferiore in ingegno, e in dotcrina vi oppoſe un'altra ſcuola di cui ſifece capo, e per accreditarla cominciò a combattere le fentenze del ſuoantagoniſta, attaccandoſi alla parte più difficile, e più equivoca o allaquiſtionedell'idee, alle quali Preuſipo imitando.forſe il metodo di Platonedovea dar troppo di realità. Ariſtotele ſcriſe dunque contro l'idee ſeparate,ma Platone avendo già nel Par menide conſumato quanto potea dirli contro diloro, Ariftotele ne copiò gli argomenti dipeſo, ed al ſuo ſolito con brevica edoſcurità di ſtile, fingendo di combatter Placone critico Preuſipo, ed i ſuoi dii fcepoli. Dital congettura è mallevadore il Patrizio nelle ſue diſcuſ fioniperipatetiche. S'elle ſon vere, non che verifimili, verifimile è pure che find'allora ſi ſpargeſſero i ſemi che prima Ammonio Sacca, ed indiPlotino,Porfirio coltivarono, e Jamblico, e Procloridul fero in regolato fiftema.S.Giuſtino, che avea più ſtudiatii Platoni ici, che Platone era perfuafo, chel'idee foſſero ſoſtanzeſeparate, collocate con Dio nella sfera più alta. S.Cirillo rifiuţa Giuliano A poſtaca, che credeva il Sole, la Luna, eglialtrieller l'idee viſibili e comporre gli Dei. 11 P. Balto riferiſce a lungoipaſſi di S. Ireneo, di S. Bafilio e d'altri, i quali impugnarono l'ideeſeparate, che introdu cendo il politeismo rovinavano ne'ſuoiprincipj laReligione Criſtia pa. Soſpetta il P. Balto, che Eufebio difendere l'ideePlatoniche persè ſuffiftenţia pro dell'Arianismo da lui profeſfaco. Negliultimi tempi il Clerico ne rinovd la ſentenza, e molto più l'anonimo Soci nianonel tuo Platonismo ſvelato, ove ſi confondono con l'idee di Platone, gli Eonirami de'Seffirotii cabaliſtici adottati da' Valencia niani e da' Baſiliani, ede'quali nella concinuazione dell'iſtoria degli Ebrei parla a lungo il Basnage,I comentatori di Platone abbagliatidatante autorità, nè avendo forza di criticafufficiente per reliltervi, s'abbandonarono ai fantasmi di Proclo, e diJamblico, anziche abbadarea'ceſti di Platone, ne s ' avviſarono di ben pelarele dottrine del Parmenide contro l'idee ſeparate aggiunte da Ariſtotele allametafiſica. S. A goſtino è il primo de' Padri Latini, che non fepara l'idee Platoniche da Dio; dando a Dio la creazione del mondo non poteva egli nonconcepire nell' intelletto divino la ragione dell'ordine del le coſe create, equeſte appunto ſono l' idee su le quali poi San Tommaſo ſeguito da' Teologi, nefece molti articoli, of. feryando che l'idee divine ſono univerſali, ononrappreſentano a Dio (35 ) 2 € Dio ſolo le ſpecie, ma ancora gl'individui, colrappreſentargli le coſe non quali noi per la limitazione della noſtra mente leveggiamo, ma quali ſono in fé ſteſſe. Il Padre Balco riprende a dritto suqueſto punto il Dacier, che per difender malamen te Platone, cade non volendoin un errore. Ma fe Platone preſe da’ Pitragorici l' idee nel ſenſo, che lepropoſero Pitcagora, ed Archira, pare che egli ancora come queſti ſentiſſeintorno la Divinità. S'è già dimoſtraco che dopo Pitcagora, Senofane eParmenide conſideravano Dio non altrimenti, che l'anima del mondo. Lunga cofa,dice Ci cerone, (a ) ſarebbe a dire dell'incoſtanza di Platone intorno a Dio;nel Timeo nega, che porta nominarſi il Padre del mondo; nel libro delle leggi,ſtima non doverfa ricercar affatto coſa ſia Dio. Lo stesſo nel Timeo, e nelleleggi, dice eſſer Dio, il mondo, e gli altri e la terra, e gli animi, e glialtri Dei, che abbiamo ricevuti dagl' iftitu ti de' Maggiori. Il Padre Arduinoraccolſe tutti i paffi, ove Pla tone parla degli Dei nel ſenſo ſtero. Dio nelTimeo ſi chiama bensì il Padre, e l'artefice del mondo, ma non mai il Signore,il Sovrano; ſi chiamava il mondo un Dio generato, il quale ba una perfettaſomiglianza con Dio; figliuolo, e figliuolo unico di Dio; un Dio completo, unDio generato da un altro Dio, un Dio felice, im magine del Diointelligibile,perfetta copia d un originale perfetto Dio ottimo malimo, qual appunto i Romanidoceano diGiove, per cui folo intendevano il deſtino inviſibile delle coſe.Molci alcri paſſi ſpiega l' Arduino, e da cutii ſi raccoglie, che Placone nonco noſceva Dio, che come principio intelligente, qual lo conobbe Pittagora,Senofane, PARMENIDE DI VELIA, e cant alori, a' quali può ben applicarſi ilpallo di S. Paolo, in un ſenſo filoſofico, che cono ſcendo Dio, non come Diol'onorarono (non ſeparandolo affacco dal la materia, o, ponendolo ad eſsacoeterno. ) Pitcagora avea generato il mondo, e lo generarono i Fenici, Orfeo,ed Eliodo. A queſt'idea poetica, Platone aggiunſe le Fi loſofiche accennate daTimeo di Locri nel fuo ragionamento della natura, e dell'anima del mondo, e necompofe il Timeo, nel qual volea nell'ordine oſſervato dalla ſapienza nellafabbrica del mon do, dar un modello di quella Repubblica, che poſcia propoſenel Dialogo del Giuſto. Ariſtocele pur comparava la coſtituzione del mondo aduna Repubblica, in queſta v'è il Principe, che comanda ai Magiſtrati militari,e civili, e nel mondo v'è Dio, che col miniſtero degli Dei inferiori, compie,conſerva, ed ordina cuc te le coſe. S'è © e di lo Lei li i e lo i e (a ) D:Natura Deorum lib. s'è gia dimoſtrato,che i Platonici recenti nel divider in due punti, o ſegni, l'eternità,neaſſegnavano il primo ſegno a Dio, in quanto a Dio, ed il ſecondo a Diocreatore della materia la difficoltà è di ritrovare in Platone qualche coſa ches'av vicini a queſta dottrina. Teofilo (a ) non ve la ritrovd altri mentidicendo, che Platone coi ſuoi ſeguaci poneva Dio, e la materia ingenita; conche non venia a porre Dio, nè uno; nè ſolo. lo qui ſtenderò un lungo paſſo diPlutarco, perché fe 'ne giudichi. Il mondo, dice egli,è bensì ſtato fabbricatoda Dio, perchè fra tutte le coſe è bellißimo il mondo e Dio fra le cagionil'ottimo, ma la ſoſtanza, e la materia, della quale è ſtato formato, non eſſermai nata, ma ſempre averſi trovata ſottopoſta ab Maeſtro, ed ubbidiente aricever quell'ordine, e quella diſpoſizione, che fore in quanto ella potellecomportare a lui fimigliante, percbè il mondo non fu creato dinulla, ma di ciòche era privo, di bellezza, di leggiadria, e di perfezione, ſiccome la caſa, laveſte, la ſtatua, perciocchè tutte le cose, primache naſceſe il mondo, fofferoconfuſe, e diſordinate, nondimeno le coſe confuſe non erano ſenza corpo, ſenzafora ma, ſenza regola, moſle da movimento a caſo, e ſenza ragione. Que stoaltro non era; che la ſproporzione dell' anima, di ragione Spoglia ta,perciocchè Dio di coſa ſenza corpo non fece corpo, nè anima di coſa d'animapriva, nella maniera che noi vediamo, cbe il Maeſtro di muſica, e dell armonia,non fa egli la voce, bensì la voce acconcia, e il moto proporzionato; cosìparimenti Dio non fece il corpo trattabile, e ſodo, nè l'anima atta a moverſi,ed in gannarſi, ma preſo l' uno, e l'altro principio, quello oſcuro e pienoditenebre, queſto confuſo e pazzo, amendue più rozzi, e più difformidelconvenevole ordinandoli; e diſponendoli, e congiungendoli formd un animalbeltiſſimo, e perfettiſſimo. Dunque la natura del corpo non è punto diverſa daquella natura, come dice Platone, che abbraccio il tutto, ed è fondamento enutrice di tutte le coſe che naſcono; non dimeno la natura delp anima fu daPlatone nel Filebo nominata infini to, il quale non riceve numero, nèproporzione, nè vi ſi trova miſu ra, o termine alcuno di mancamento, diſoverchio, di ſimiglianza, o di differenza. Così parla Plutarco ed è facile ildedurne, che ſecondo Pla tone eterna era bensì la materia del mondo, ma nuovala for ma, (a ) Teophil. ad Autolicum 1.2. Plato cum ſuis aſſeclis Deum quidemconfitetur ingenitum, patrem præterea et conditorem hominum, at que deindefubjicit, live ſupponit Deo materiam quoque ingenitam, quæ fimul cum Deoprodiderit five extiterit; verum fi Deus cen ſetur ingenitus, et materiaperhibetur ingenita, jam nec amplius Deus conditor et creator eſt hominum etiamfecundum Platonicos, nec quod unus et folus ſit ab his vere demonftratur. nè ilmoto, ma 1 1 (37 ) má, ed in queſto Platone differiva da Ariftotele, il quale,come s'accennd, fece ad un tempo eterne, e la materia, e la forma; Ariſtotelerimprovera perciò Platone, d' aver fuppofto, che la materia con cuiDio compoſele coſe, foſſe in moto, e loda Anaf fagora, che la poſe in quiete. Vuole egliignorare, che affatto poetico foſſe il Timeo; pure non è credibile,che egli nonl'aveſſe udito dir più volte da Placone ſteſſo, che nel Dialogo finſe Socra tea favellar con Timeo di Locri contemporaneo forſe a Pittagora; parla dell'abboccamento che Solone ebbe coi Sacerdoti d'Egitto, iutta ſpaccia la favoladell'Iſola Atlantide., ſtempera in una taz za i numeri armonici dell'anima delmondo compoſta di cre ſo ftanze, ne ſparge le reliquie su le ſuperficie deglòbi', conſidera come coſa reale la mecemplicoſi, che Timem (a ) nel ſuoragiona. mento introduce come coſa politica. In ſomma ben eſaminan do tutte lefrafi Platoniche e tutto il conteſto della dottrina Filoſofica poeticamentemaſcherata, io ſon perſuaſo, che in Platone, comene Pictagorici, Dio vis'introduca qual animadel mondo, o la ſteſſa mente, e ſapienza perfecta ſparſaper tutto; allora perciò che dice CICERONE nella natura degli Dei, e quan doPlatone fa Dio incorporeo (b ) egli confonde Dio con la mate+ ria, la quale eraincorporea, come ſi diffe, prima che da Dio ſe ne eſtraffero i corpi.Dall'alcra parte nell'ipateli, che Dio gli abbia eſtratti, fece Dioconcepirſi" al di fuori della materia, co me l'architetto al Palagio, e loſcultore alla ſtatua. In vano dun que dall' opere di Platone, e degli altriFiloſofi antichi, i qua li ammifero la materia eterna, li cerca l'idea del Dioche ado. riamo; egli è uno ſpirito infinito, nella di cui natura inviſibileſono riunite cutte le perfezioni immaginabili, e poflibili; onde gli ſcolaſticilo chiamarono il cumulo delle perfezioni; e i Cartuliani l'ente infinitamenteperfecto. Sino a què l' ammet cevano gli ſtefli Pagani, ma la definizione nonbalta, ſe ad el fa non s? aggiunge, che Dio ha tratto dal niente l' Univerſo, eche è diltinto realmente, e ſoſtanzialmente da tutto ciò che ha creato. Taledefinizione come ortodoſſa propoſe l' Abbate d'Oliveta ’ Filoſofi (c ) dopo diaver eſpoſte tutte le loro fen tenze, tra le quali entra e Pittagora, éSenofane, e Parmeni de, e Platone Itello, Non (a. ) Nel fine. (6 ) Cicer.Natur. Deor. (c ) Nel fine del Tomo 3. della traduzione della Natura degliDei;. Par cemot. Dieu, je veux dire un eſprit infini, dont la nature eſt indiviſible et incomunicable;dans lequel font réunies toutes les perfections imaginables et poſsibles, ſansaucun mélange d' imperfe etion; qui'a tiré du ndant l'univers, et qui eſtdiſtinct réellement et ſubſtantiellement de tout ce qu'il a créé. 0 1 (38 ) o dell' Non è tuttavia, che debbanoſpregiarſi le dottrine di Placone, e rigettarle come inutili; conobbe egli Dioſotto un'idea con fuſa, come lo conobbe Ariſtotele, e in quella guiſa che S.Tom maſo da Ariſtotele tralle molti principi, e combinandoli coi rivelatipropoſe molte concluſioni Teologiche, così può farſi di Platone; S. Tommaſodall' uno, e dall'altro traſfe l'eſiſtenza di Dio, impiegando i mori, lecagioni, l'ordine del mondo, i gra di più o meno perfetti delle coſe, ma nonpotè trarla dall' en te contingente e neceſſario, che Platone non conoſceva,ponen do ecerna la materia, e chiamandola neceſſità. Dimoſtrar il primo entequal principio intelligente, per l'adequaca idea di Dio, non baſta le da eſſonon ti rimovono tutte le compoſizio ni, dimoſtrando, come fa S. Tommaſo, che inlui non ve n'ha nè di forma, nè di materia, e che non può ridurſi ad alcungenere, Nel Parmenide però non v'è biſogno d'alcuno di queſti ar tificj; tuttovi fi' riduce all'idea metafiſica dellence uno. Convien dedurla da' ſuoiprincipj, od eſtrarla come fece Pittagora, e Peritione da tutti i compofti, edeſaminarne le proprietà. Così AQUINO (si veda), ove tratta dell'unicà, e dellabontà di Dio, prima ricerca, quanto la ragione, gli può per mettere, coſa ſial' uno, e coſa ſia il buono, indi col princi pio rivelato cid combinando,dimoſtra la purità, e la bon tà di Dio. Io parimenti ricercherò con la ragione,fe si poſſa ben intendere l' uno del Parmenide, laſciando agli altri la fa ricadi ſpiegarlo in un modo fublime, applicandovi le coſe Teologiche, delle qualinon intendo d' attaccarne, o diftrug. gerne la minima. Io cratterò delladottrina del fine, indi del metodo del Dialogo. Gli antichi con ragioneintitolarono queſto Dialogo, il Par menide o dell' idee, perchè Parmenide parlapiù degli altri, e tutti i ſuoi ragionamenti raggirano su l' idee, o percercarle con le aſtrazioni della mente, o per diſtruggere le ſeparate, eſemplificandone il caſo nell'idea dell' uno, la più ſemplice di tutte l'al tre, e acutte l'altre comune. Supponevano i Pictagorici, che tutte le coſe imicaſſero,o par ticipaſſero l'idee, o le fpecie; provacontro loro Parmenide, che le cofenon poſſono eſſer partecipi delle fpecie, nè ſecondo il tutto, nè ſecondounaparte, indi col principio di contraddizione, col progreſſo all'infinito, ecoll' ideaſteſſa delle perfezioni divine; gli fteffi argomenti di cui ſono nelParmenide i femi, fteſe Ariſto tele, ed è mirabile che i comentatori nonabbiano penſato di con frontarlo nel ragionamento dell'idee con Placone, ciòche attri buiſco all'ipoceli da loro fiſsata, che in queſto Dialogo Parmenide,o Platone confermi e non diſtrugga. l' idee ſeparate. Annullate tali idee inmodo cheSocrate ne reſta convinto, Pare menide per non laſciarlo nell'imbarazzo gli moſtra la neceſſità che ha il Filoſofo d'ammettere certi principjfiſſi ed immutabili e tanto più difficili a comprendere, quanto che non fipoffono de terminare, nè co' ſenſi, nè colla fantaſia. Parmenide' nell'etemplificare il caſo del metodo propone l'idea dell'uno, e la con ūderarelativamente a ſe ſteſſa, indi all'ente, al fine, al non en te. Così unmatematico trattando per eſempio del triangolo, lo conſidererebbe prima in ſeſteſſo, poi per rapporto all'altre figure rettilinee o piane, ed al fine allenon rettilinee, od alcerchio. Definiſce Zenone l'uno per oppoſizione a molti, echiama uno ciò che non è molti. Ariſtotele, nella metafiſica molto ap provaqueſta definizione, perché i molti ſono più noti al ſenſo che l' uno; prendeParmenide la definizione, e negando dellº uno tutto ciò che s'include in moltio li predica de' molti; negà ch' egli fia cutro, parte, principio, mezzo, fine,figura moto, quiete, lo ſteſſo, diverſo, ſimile, diſſimile, eguale, mag giore,minore; in oltre gli nega le differenze del tempo, pre lente, paſſato, futuro,l'eſſenza, la ſoſtanza, il nome, il ſen fo, la ſcienza, l'opinione. Parmenideprende ſempre l'uno nel ſuo concetto aſtrattiflimo, nè men volendo che l'uno âconſideri per rapporto a ſe ſteſſo, perchè nel riferir l'uno a sè li concepirebbe come due o come molti. La ſeconda quiſtione è, ſe l'uno ſia che accada all'uno, ed all'altre coſe; qui l'uno fi ſuppone inſeparabile dall'ente, come rentedall' uno, onde tutto ciò che s' include o li predica dell', pud predicarſidell' uno; quindi ſe nell' ente's include o dell'ente fi predica, la parte, iltutto, il finito, l'infinito, il principio, mezzo, il fine, la figura, il luogo,il moto, la quiete, il fimile, il diffimile, lo iteſto, il diverſo, l'eguale,il maggiore, il minore, il tempo paffato, preſente, e futuro, 1 eſſenza, o laſoſtanza, la ſcienza, l'opinione, il ſenſo, tutte queſte coſe ſi predicherannoancora dell'uno. Non ſi predicano però queſte coſe oppoſte dell' uno, edell'ente. nel medelimo tempo, e ſecondo lo ſteſſo riſpetto, ma in varj te m pio ſecondo diverſi riſpetti, e ciò fa che le contraddizioni non ſieno, cheapparenti, o del genere di quei meraviglioſi, che de generano ſpiegandoſi inpuerilità. Cosi penſa lo ſtelfo Platone nel Teeteto, maParmenide nel cercar quiſe ſia l'uno, quali altre co fe ne fieguano, non cela all'uſo de Sofiſti, maſpiega come vero Filoſofo in termini ſemplici i miſteri, e queſta iola credouna nuova prova del liftema Parmenideo da me ſtabilito. In queſte due primenozioni dell' uno non vi ſi framiſchiano le immaginarie', o poetiche; mabensìve ne fono nella terza, ove fi rapportal'uno al non ente, o al nulla, di cuinon s'ha nozionereale', ma ſolamente immaginaria come dell'impoffibile. V'è unaffioma Logico, il qual diceche, dall' impoflibile ogni coſa ſe ne deduce, perache in lui fi complicano i contraddicorj, anzi il criterio per co nofcerlo èper mezzo dei contradditorj, e poichè l'uno è inſe párabile dall'ente; fia loſteſſo dir il non uno, che il non en te, ma del non ente o dell'impoffibile fidice che ha effenza, o che non l'ha, che è lo ſteſſo e diverſo, che è ſimile, enon fi mile, eguale, non eguale, cheſe genera e fi diſtrugge ec. Dun que leſteſſe coſe che ſi predicheranno del non ente conveniran no ancora al non uno.Nell'attribuire il non uno all'altre coſe, fi trasformeranno queſte infantasmi, o sogni d'eſtenſione, di mal fa, di moto e di quiete, ciò che rendeil mondo più poetico del cabbaliftico. Platone o Parmenide maneggiano queſtoargo mento con ſomma ſagacità, e delicatezza, e ben ſi vede quanto foſſe laloro Filoſofia profonda, e quanto utiliffima eller poſla, non cangiando ilgrado dell' aſtrazione, nè inneſtandovi opinioni affatto encufiaftiche, comefece FICINO. I celebri Pittori, attenti ad oſſervare in ogni luogo tutto ciòche loro ſomminiſtra idee nuove d'atteggiamenti, di ſcorcii, di lineamenti,difigure, ſe mai su i muri più affumicati ritro. yano quelle ſtriſcie fortuiteimpreſſevi dalla caligine, le vanno combinando con la loro immaginazione, ecreano delle figure leggiadramente fimecrizzate, e canto ſi rifcaldano nelvagheggiar opera loro, che le additano agli altri, come fe ivi foffero,e ſicruciano e fremono, e ingiuriano, quando queſti ſemplicemen te riſpondono dinon ravvifare, che orme irregolari di fumo. I Filofofi, e particolarmente icomentatori hanno lo ſteſſo coſtu me, fiffi in un fiftema l'addatano a tuttociò che incontrano nell' autore da loro accarezzato, e dove egli ancora parlanel modo più ſemplice, e naturale, e conveniente a'ſuoi principj, par loro difargli torto, ſe non l'abiſfano nelle loro profonde ſpeculazioni, e lodimoſtrano tanto più ammirabile, quanto nyono l'intendono, c quanto dagli altriè meno intefo. In tutti i Dialoghi s'è prefiſſo FICINO, di far di Placone (a )un Teologo Criſtiano, ma non so come ritorni in queſto Dialogo al (a ) Prima exquinque ſuperioribus de uno fupremoque Deo dixerint quomodo procreatdiſponitque deorum ſequentium ordines. Secunda de fingulis Deorum ordinibus, quo pacto abipſo Deo proficiſcuntur ec. argum. Marſ.Ficini Parm. vel de uño rerum principio, et de 9 ideis. (41 ) al Paganeſimo, evi traſporti tutte le idee fimboliche del Timeo, e del Fedro ſenza biſogno, eprofitto; e che coſa ſon queſti Dei che ſeguono Dio nell'ordine loro, ed inqual parte del Parmeni de li ritrovo? Annullò il Serano gli Dei, e vi ſoſtituìdue ſorti d'idee; Dio è la prima e principal idea, le ſeconde ſono le va. rieidee delle coſe create; ma ſe Parmenide non diſtingueva Dia dal mondo; coſeaffatto poeriche non ſono le idee divine? Non bado il Serano, che Parmenidetoglie all'ente ſino il tem po' preſente, e le toglie ancora l'eſſenza. Si, maintende il Se rano l'eſſenza delle coſe ſingolari, e quando Parmenide dice, chel'uno è molte coſe, vuol dire, che egli dà la forza d'elfte re alle coſeſingolari. Or come ſi può includere nell'idea dell' uno, in quanto tale laforza? E come poteva Parmenide inclu derla nell' uno, ſenza concepirvi l'eſſenza, e nell' accoppiare l' eliftenza alla forza, e non concepir l' uno comemolti contro l? ipoteſi? La prima idea, dice il Serano, fi diffonde in manieraſulle coſe create', alle quali Dio dà la forza, e facoltà d ' eſiſtere, che adogni modo circoſcrive ne' determinati cancelli dell' uno, la feffa moltiplici,tà, e quaſi infinità delle coſe ſingolari. Queſta è la luce tenebroſa del Flud,chi può ſpiegarla? Va il Serano peſcando le affezioni dell' idee ſeconde, e neri trova ſei, dopo le quali la ſua vena metafiſica, e teologica, ſi conſuma, operde, ed in tutto il reſto del Dialogo immobil mente fiſto, ed eſtatico ſulceſto Platonico, par uno di que' Chineſi, che per molti anni guardandoſi lapunta del naſo s'im maginano di veder l'eſſenza divina; non batte egli palpebratutto concentrato in sè, nè degna abbaſſarſi a ſoſtener con note margina lil'imbarazzato lettore. Io ſon ben lontano dal condannare le al tre note diqueſto autore, colle quali negli altri Dialoghi eſpone la conneſſione, ecallora le ragioni ſemplici del teſto, ma nel Par menide ſpiegando alto il voloper emular il Ficino, li dimentica del ſuo coſtume, e laſcia in aſciutco illeccore; ma come è poſſi. bile, che avendo egli canto ſtudiaco Platone, econfrontati i teſti, nonabbia atteſo ad unpaſſo del Filebo, in cui li ſpiega ilfine, che Platone ſi prefiſſe in queſto Dialogo? Nel Filebo, che non ſenza ragionegli antichi faceano ſeguir al Parmenide, cosi ſi parla da Socrate a Protarco.Tu, o Protar dice Socrate, intorno l' uno ed i molti ai dette le coſe pubblichedei meraviglioſi, le quali, per dir cosi, ſono concedute da tutti, che nonfieno punto da toccarli, ejendone alcune puerili, e facili da conoſcerſi, e pernuocere maſſimamente a ragionamenti, fe alcun le ammetteſſe; nè è Tom. II. f de(42 ) - 1 1 tal uno, da ſtimarſi coſa meraviglioſa, ſe alcun dividendo rollaragione le mem-, bra d'alcuna coſa, e tutte quelle parti, confeſſando quellaeſerne una; di poi la confutalle, e ne prendeſe beffe quaſi sforzato a con.feſare coſe moſtruoſe, cioè che una ſola coſa ſia molte ed infinite, ele moltequaſi una ſola, E' quì da notarli quel dividere con la ragione le membra dialcuna coſa, formula che egli repplica ſovente nel Parmenide, in cui dice,ſeparar le coſe con l'intelligenza, e fino sbranarle; indizio manifeſto che quinon ſi tratta, che d'aftrazione di ra gione, per cui nelle coſe più ſemplici fidiſtinguono, non le par ii, ma gli attributi, e le relazioni che le fan molteper rapporto alla mente; or tutto ciò che dice nel Parmenide dell'ente, e dell'uno, non divien egli un di que' meraviglioſi puerili, de' quali par la Socrate,fe non s'averte, che le contraddizioniſono apparen. ti, o che nel medeſimotempo, e ſecondo lo ſteſſo non s'aſcrive all'uno, il fimile e diffimile? SiegueSocrate: quando alcuno giovane pone l'uno, non eſſer alcu na di quelle coſe, lequali naſcono, e muojono, perciocchè quì un co come poco fa dicemmo, ſi èconceduto, che non ſi debba con futare. Parla quà Socrate della prudenza, dellaſcienza, e della men te, di loro natura une, immortali, ed eterne nel ſiſtemaPiccagori co, e delle quali, come d'eſſere reali, parla nel Sofiſta. ConcludeSocrate: Ma quando ad affermare è altretto un fol Uo mo, un ſol bue, una coſabella, ed una coſa buona, allora veramen. te in queſte, ed in cotali unità ſirende ſollecito lo ſtudio, ed anche ſi fa ambiguala divifione. Primieramente ſeſieno da ammetterſi certe uni tà sì farte, che fieno veramente; di poi, inqualguiſa ſia de penſarſi, che ciaſcuna di quelle coſe ſia una, e la medeſimaſempre, nè fi pren da generazione, nè morte, ma ſe ne ſtia fermiſima nell'unità di lei; finalmente ſe ſia da porſi alcuna coſa nelle coſe generate, odinfinite, o partita, ed oggimaifatta moite coſe, o tutta eſa in diſparte da ſemedeſima, il che più di tutte l'altre coſe parrebbe impoſibile che uno, e lodello ſi facele parimente in uno, ed in molti. Quefto è l'uno, ed i molti cheſi trovano intorno a cotali coſe, ma non quelli, o Protarco che non concedutibene ſono cagione d'ogni dubitanza, ed ogni facilità ben conceduti.Manifeftiffimo è, che quì Socrate ripete le difficoltà ſull' idee ſeparatefattegli da Parmenide, e ſu le quali confeffa, che impoſſi bile è discioglierle, indi fa attenzione al metodo inſegnato da Par menide, di cercarl'idee per via dell' aſtrazioni, con le quali ſi to glie ogni difficoltàintorno a'molti, e all'uno. Da queſti palli io deduco, che il fine di Platonein queſto Dialogo altro non fu, che d'allontanarſi da quel meravigliolo epuerile, in cui facilmente fi cade, quando non ben li diftingua no i concercidella mente, o s'amia irasformare i concetti in ido li, ed a realizzarlipoeticamente, come faceano i Pittagorici. Per compir queſto diſegno fcellePlatone il Filoſofo più ſpeculativo dell'antichità, e deſcritto da Socrate qualUomograve, evenerabile, e d'una profondità al tutto generoſa, il che vuol dire,ſe non erro, che egli nella ſua maniera d'argomentare franca, libera, ed inſieme profonda, nulla tenea del lopraciglio, e della vanità dei Sofi fi; Platonequimoſtra fin dove arrivar pud l'ultima analiſi, che i Pitcagorici faceanodell'idee, oltre le quali il procedere'era un eſporſi a pericolo di non piùintender quello che ſi dicea, comepur trop ро è arrivato ad alcuni Scolaſtici,che fpingendo troppo, oltre le queſtioni oncologiche, ofarono ſin negare ilprincipio di con traddizione, ed affermarono chel'infinito ſi raggruppaffe inun pun to. Nel GORGIA DI LEONZIO, nel Protagora, ed in altri Dialoghi controiSo fifti, coll'arte dell'ironia Socratica, li dipinge a diritto Platone qualicacciatori mercenari d'uomini, mercatanti venditori, appal tatori di ſcienze, ediſcipline falſe; ma chi può dire che Platone ebbe difegno di proporſi inqueſto Dialogo Parmenide, qual mer catante venditore, ed appaltatore di bujopeſto, che così devono chiamarſi le quiſtioni tenebroſe, ed all'ambicate; bujopeſto è quel lo di cui troppo liberalmente lo caricano il Ficino, ed il Serano, non quel che combina la doctrina d' Ariſtotele, con quella di Platone;dotcrina che curt " i Peripatetici, e gli Scolaſtici ab bracciarono e cheultimamente con tanta chiarezza e preci* fione, eſpoſe il Wolfio nella fuaOntologia. Queſto Dialogo è primieramente ontologico, e preſo in queſto ſenſonon ha in sè più di pericolo che la metafilica d' Ariſtocele, ma ridotta allaDialeccica, L'antica Dialetica verſava fu i generi di tutte le coſe, attenca acompararli, a combinarli, per preparare' ed illuſtrare la quiſtio ne propoſta.S'ingegna lo Stanlejo di ridur a tre generi la Dialec tica de Piccagorici.1. Ainon ripugnanti, o ſia all'eſſenza delle coſe nelle quali ſi combinano, coſe traloro non contradditcorie.. Così l'eſſenza del triangolo o del quadrato, èl'eſfer figure di cre o quattro linee, perchè non v'è ripugnanza, che il numeroter nario o quaternario, s'adatti o fi combini alle linee rette. 2. Aidifferenti o alle coſe che tra loro ſi diverſificano nell'eſſenza, nc gliattributi, e ne' modi; così il triangolo è differente dal qua drato, ed ilquadrato dal cerchio. 3. Ai relativi a'quali ſi riduco if 2 no (44 ) no tuttele matematiche conſiderate dagli antichi, come il vero modello della diſciplina,ed a cui i moderni riduſſero l'arte dell' analogie filoſofiche, ed il calcolode' probabili. Platone ſtabiliſce in molti luoghi non tre ma cinque generi delle coſe; l'eſſenza o ciò che è, lo ſteſſo, il diverſo, il moto, e la quiere; aqueſte due ultime nozioni ſi riduceva tutta la fiſica antica, onde diſfeAriſtotele, che ignorato il moto s'ignora la natura. Lo ſteſſo e il diverfovaga per tutte le altre fcien ze; onde Platone dello fteſſo, e del diverſo,compoſe l'anima del mondo, e la bellezza. Lo ſteſſo e il diverſo ſono relazionidell' ente in genere, fi ſpargono ſulle relazioni dell'ente in ſpecie, ilfimile, il diffi mile, Peguale, il maggiore, il minore, il nuovo, l'antico. Quefta era la ſcala de'generi ſuperiori, o quelle nozioni ontologi che aſtratteper l'acume della mente da' concreti, coſa ben di verſa dalla ſcala de'predicamenti d' Ariſtotele. Il Wolfio fa propoſe per ultimo oggetto degli ſtudjfuoi, di perfezionar" la Icala de'generi, e con eſſa ſciogliere ilproblema dell' analiſ dell'idee, propoſta ma non trattata dal Leibnizio. IPittagorici ne diedero i primi ſemi, e Placone più li ſviluppò, applican dolialla determinazione dell' idee, quindi è che nel Parmeni de tutti iſuoiargomenti ſi riducono alle relazioni dell'ente, in genere dell'ente, in ſpecie.Rinferrata ne' fuoi limiti la materia del Parmenide, il meto do che v’applica èquello del principio di contraddizione, che ci conduce all' aſſurdo; metodo nontanto accetto a noi, per. chè ci dimoſtra la noftra impotenza, ma che ci sforzainvin cibilmente all'faffenſo. In queſto metodo Platone ne aggruppa molti altri,il metodo d' eſcluſione è quello dell'analiſi geo metrica. Nel metodod'eſclufione fi numerano tutti i caſi di una co ſa, e s'eſcludono o tutti perdinotare l'aſsurdità, o tutti men in cui fi cerca la ſoluzione del problema.Così Archi mede avendo dimoſtrato, che un dato poligono non è, nèmag giore, nèminore del cerchio, nel quale è inſcritto o circon Icritto, conclude che gli èeguale. Placone in molti caſi ado pra il metodo ſteſſo. Nel metodo dell'analiligeometrica, fi aſſume il quefito comeconceffo, e per legitime conſeguenze s'inoltra fino ad un ve 1 uno, ro (a )Affumptio quæſiti tanquam conceſsi per ea quæ conſequentur ad verum conceffum. Wallis Il. dell’Algebra. To concesso, da cuiriteſsendo il ragionamento ', li dimoſtra il quelito; molti vogliono, chePlatone ſia l'inventore di queſto metodo, e che abbia fatto il Parmenide perdarne l'eſempio; maqueſti attribuirono al tutto ciò che conviene adalcuneparti, Utiliflime ſarebbono le metafiſiche de'moderni, fe i loro autori fifoſsero limitati all'ipoteſi, e ſi foſſero guardati di proporle in for ma didogma, cagione d'eterni litigi non ſalvati, ne da ſtile elo quente, nè dacalcoli algebraici. Il Carteſio ſegui nelle ſue medi tazioni ilmetodo analitico,ma diede occaſione a molti ſiſtemi più ſtrani de'ſogni, come quello degliEgoiſti, conſeguenza dello fpi nofismo fpirituale. Che dirò dell'arte delDialogo, in cui s'è già dimoſtrato imi, tarſi i ragionamenti umani, come iPoeti Dramatici aveano imi tate le azioni umane. All'imitazione. di queſteconvien il palco, ed il verſo, non all'imitazione de' ragionamenti, la qualeper ſua natura appartiene alla DIALECTICA: poco o nulla di leggiadria avrebbonoi sillogismi, egli entimemi in verſo, e poco o nulla lor gioverebbe l'apparatodella ſcena. Si è pur detto che la quiſtione, e la digreffione al Dialogo, ècome la favola, e l' epiſodio al Drama. Nel Parmenide la quiſtione è intornol'idee, ma non v'è digreſſione, ſe pur non fi voglia ridur a queſta, lapreparazione alla diſputa con Par menide, incominciata tra Zenone, e Socrate.La differenza de' drami ſi prende dal diverſo modo dell'azio ne, la quale o èſemplice, o compoſta, e la differenza de’ Dia loghi dal modo del ragionamento,nel quale, o s'inſegna, os inveſtiga da un ſolo, o s' inſegna, o s'inveſtiga damolti la quiftione propoſta. A quattro generi riduce il Taffo i Dialoghi, aldottrinale, al Dialettico, al tentativo, al contenzioſo. De’due primi generi èmiſto il Parmenide, perchè dopo di aver egli diſputato con Socra te, quaſi ſolofavella, non contandoſi le riſpoſte d'Ariſtotele, approvazioni per lo più dellaconcluſione, o preghiere d' eſpor più chiaramente la ragione accennata. Nelinlegnare qual fia la natura o l'idea dell'uno, qui non v'è tentativo, nèlitigio, nè in queſto Dialogo v'è molto a ricercare, ſe ſia meglio adat catoall'inſegnamento che il maeſtro interroghi, od i diſcepo lo., perchè appenatermino la breve diſputa có Zenone, che Parmenide cominciò a interrogar Socrate,ed avendolo confu? lo, ed imbarazzato con una difficoltà cui non potevariſpondere, Para (a ). Torquato Taſſo diſc. ful Dialogo. uno. Parmenide paſſaſenza interrompimento alle tre poſizioni dell ' Vuol Torquato Tallo, che comeuna ſia l'azione nel Dra ma, così una fia la quiſtion nel Dialogo, la quale o èinfini ta, per eſempio ſe deve apprezzarſi la virtù, o è finita, per eſempioche deggia far Socrate condannato a morte. La qui ftione del Parmenide èinfinita, perchè fi tratta dell' idee di cui ſi cerca la natura e l'origine, lanatura dimoſtrando che non ſono dalla noſtra mente feparate, l'originedimoſtrando come per via delle ſuppoſizioni s'acquiſtano. Queſte due coſe nefan no propriamente una, perché non ſi può intender la natura dell' idee ſenzaprima determinarne l'origine. L'una e l' altra determina Parmenide, e rimove l'idee feparate per convertire il ragionamento al modo con cui la mente leacquiſta. Parme nide lo propone, non lo dimoſtra per non allontanarſi dal coſtume della ſua fetta, che era di propor dubitando le coſe: Non è cutravia inciò ſolamente che appariſce il coſtume di Par menide. Dimanda Socrate, che gliſia dichiarata la quiſtione delle idee, ed intorno alle coſe che ſi veggono,edancora intorno a quelle che ſi comprendono con la ragione. Parmenide, e Zenoneattentamente lo aſcoltano, eſpero guardandoſi l'un l'altro fog ghignano quaſidi Socrate meravigliandofi. E queſta è quell'evi denza tanto neceſſaria alDialogo, e di cui Platone diede si chiari eſempj neli' Ippia, e nel Fedone.Ella è qui ordinata a manife ſtare il coſtume d'un Filoſofo accento, e checolla triſtezza, e coi fogghigni accenna, ciò che nel diſcepolo non s'accordacon la ra gione. Un tratto poi del coſtume d'un Filoſofo attento, è do ve diceParmenide o Socrate troppo per tempo, innanzi che tu ti eſerciti a parlare, tisforzi di definire ciò che ſia il bello, il giu ſto, il buono, e qualunquedell' altre ſpecie. Perchè poco fa il con fiderai vedendoti diſputare conAriſtotele. Per certo mi credi, que fto tuo fervore è bello è divino, il qualealla ragion ſi conduce, ma recati in ſe ſtello, ed eſercitati mentre ſeigiovane in queſta fa coltà la quale a molti inutile, e ſi chiama dal volgogarruli tà, altrimenti ſi fuggiria da la veritade. Parmenide qui accenna laDialectica in quanto vaga per cutti i generi, ſulla qual coſa poco dopoſoggiunge conſervando il co ſtume divecchio venerabile. Sarebbe cofaſconvenevole, cheſi trat tale maſſimamente da un vecchio certe coſe si fattealla preſenza di molti, non ſapendo il volgo, che ſenza queſto vagare, ediſcerne re per tutte le coſeſia impoſſibile abbattendoſi nel vero acquiſtarmen te. Ariſtotele e gli altri lo pregarono, e Parmenide riſpoſe con un apo 7 pareinutile apologo: egli è neceſſario finalmente che s'ubbidiſca, tutto che mi èav viſo di tutto quello che patà il cavallo Ibico, cui Atleta e vecchio dovendo prendere la conteſa delle carrette, e per l'eſperienza iremando de'ſuccelli, alimigliando egli a ſe ſtello, dille cheegli già vecchio eracoſtretto di ritornar agli amori. Nel medeſimo modo diſſe Parmeni. de, a mepare di temer malto, quando penſo in che guiſa cosè.d'età avanzata, io polapaſar a nuoto un mare cosi profondo di ragionda menti. Intorno la ſentenza, oſia ciò che ſente il principale interlocu tore del Dialogo, ella è qualconveniva a un Dialettico eſperto, nel vagar per i generi delle coſe, enell'argomentare, e ben de gno, che nelle coſe intellettuali Platone, Secondoil teſtimonio di Apulejo, lo preferiſſe agli altri Pitiagorici, e n'imitaſſe laſotti gliezza, e nell' idee, e nel metodo di proporle. Nella Poelia. Epica,altro è che il Poeta imiti narrando un facto, altro che introduca un degliattori a narrarlo. Così nell' Odiſſea, aḥtre ſono le cofe che Omerodirettamente narra accadute ad Uliffe, altre quelle che narra Ulife ſteſſo.S'in troducono ne' Poemi i racconti, per variar i modi dell' imita zione, edancora per accreſcerla; ella è perciò doppia, quando nel Poema i perſonaggiimitati, imitano effi fteffi col loro rac conto. In queſto Dialogo, Pitidoroimita, narrando i diſcorſi che inteſe da Parmenide. I Dialoghi, benchè fpeciedi Poeſia Dramatica, in ciò con vengono con l' Epica, e Platone, che nellediſpute de'Filoſo fi volle imitare i combattimenti degli Eroi di Omero, emoldanche queſto nel modo di rappreſentarli. Nel Filebo propone ſenza alcro ladifputa chiaramente enunziata intorno la felici tà ed il piacere, nè premettealcuna circoſtanza ſtorica ai ra gionamenti dei tre interlocutori, Socrate,,Filebo e Protar co; così fa nel Sofiſta, nell' Eutifrone nelle Leggi, e nellaRepubblica, ma non cosi nel Convito, nel Fedone, e nel Par menide. Pitidoro vinarra ciò che ha udito da Antifone, e queſto è modo più artificioſo dell'altro,perchè vi ſi ricerca molta ſa gacità nel render neceffario il ragionamento, edaccompagnar lo di quelle circoſtanze che più mettano la coſa fotto gli oc chi,intereſſino il lettore ad aſcoltare i perſonaggi, e di tem po in tempo loricreino con opportune digreffioni, ma tutte convergenti alla quiſtionepropoſta, ſenza che ſe ne accorga il lettore. Nel diſcorſo naturale noipafliamo ſenza rifleſſo da una coſa all'altra, ma nel Dialogo, ſe ſi vuolimitando perfezionar la natura, nulla vi ſi deve introdurre ſenza ragion ſufficiente. La ſomma difficoltà dell' artificio del Dialogo è nell:interrogazioni, e nelle riſpoſte diftinte e preciſe, ma nel Par menide ildialettico s'accoppia col dottrinale e queſta è la parte dominante, perchèeſcluſe l' idee ſeparate, Parmenide ſem pre parla ſcorrendo per leſuppoſizioni.; ILLUSTRAZIONE D E L 1 PARMENIDE.}, ILLUSTRAZIONE di VELIA (si veda). tertentanutEstates L A diſputa su l' idee fatta tra Parmenide, Zenone', Socra te, ed uncerto Ariſtotele, viene a Glaucone, e ad Adi manto riferita da Cefalo per boccad'Antifone, il quale avendo familiarmente converſato con Pitidoro compagno diZe none', avea su queſta materia udito da lui le ragioni dei tre Fi loſofi.Reſtarono queſte cosi profondamente impreſſe nella me moria di Antifone allorgiovanetto, che molti anni dopo ſeb ben diſtratto dagli eſercizi equeſtri, potéin tutte le loro cir coſtanze rappreſentarle nell' abboccamento, che egli ebbecon Cefalo, e coi compagni. Tofto Cefalo eſpone il motivo della diſpucaParmenide ne Poemi avea detto che tutto è uno, e Zenone provato in uno ſcritto,che uno non è molti. Si comincia la Jercura dello ſcritto, e Socrate vi faſopra delle difficoltà a mi fura che ſi legge. Poco mancava' a' terminar lalettura, quan do Parmenide con Pitidoro, e Ariſtotele entrarono in caſa. Sileſſe di nuovo alla preſenza di Parmenide, e degli altri il pri moargomento, efi difputò incidentemente su la differenza del le due definizioni parendo aSocrate, che il dire tutto è uno foffe lo ſteſſo che il dire, uno non è molti.Glielo concede Zenone, é lodaća la ſagacità di Socrate dichiara', che non pervanità o per 'arcano di Filoſofia egli ha' fcritto, ma per fo ftener l'oraziondi Parmenide contro coloro che ſi sforzavano di ſchernirlo, perchè ſe moltecontraddizioni degne di riſo pativa l' Orazion di Parmenide, molte altre di piùridicole ſe ne inferivano dalle ſuppoſizioni degli altri. Zenone ſcriſfe il: libro nella ſua giovanezza, ma un certo avendoglielo rubato.fi pubblico. Siricomincia la diſputa. Parmenide, e Zenone lafciano a So. crace eſpor tutta laſua ſentenza su l'idee ſeparate, per le quali moſtrava la definizione dell'unoda Zenone affegnata non eſſer univerſale ". Accorcol Parmenide, che tuttala forza dell'argo mento (52 ) mento di Socrate fondavaſi su l’idee ſeparate,l'imbarazza co ftringendolo ad aſſegnarne alle coſe fiſiche. Non sa Socrate rifolvere la difficoltà. Parmenide fingendo di conceder l'idee ſe parateargomenta contro la loro participazione, contro il lo ro progreſo all' infinito,contro alla loro incomprenſibilità. So crate n'è molto curbato, credendo cheannullate l ' idee ſepara te non vi fieno più principj per ben filoſofare.Ammira Par menide il fervor di Socrate, e lo conſiglia ad eſercitarſi nellaDialetica per ben inveſtigare l'idee. Pitidoro ed Ariftotele, pre ganoParmenide ad eſemplificar il metodo dell'inveſtigazione dell'Idee. Egliſcieglie l'idea dell' uno, e col metodo delle ſup poſizioni la tratta.Orquattro ſono le quiſtioni che ſi poſſono eſtrar dal Parmeni de relativamentealla definizione di Zenone, che l'uno non è molti. La prima è quella dell'unoper rapporto all' idee feparate; Ia ſeconda dell'uno per rapporto asé; la terzadell'unc per rap porto all ' ente; la quarta dell'uno per rapporto al non ente.Le tre ultime quiſtioni ſono propoſte per via d'ipoteſi: ſe l'uno; ſe l ' uno è;fe l'uno non è. Per non traſcurar nulla di ciò che agevola l'intelligenza delDialogo, premetterò partitamente ad ogni quiſtione la Ipiegazio ne delle voci,e delle nozioni neceſſarie, ſtando più che mi ſia poſſibile attaccato alleparole del teſto quale Dardi Bembo il tra duffe; mi par inutile di por tutto ilDialogo, perchè eſſendoſi ri ſtampato di freſco, tutti coloro i quali hannovaghezza d inten derlo ſe ne faranno già proveduti,per gli altri èinutile evana ogni illuſtrazione. Zenone di VELIA defini l'uno ciò che non è molci.Approva Ariſto tele (a ) queſta definizione, perchè in generale ogni definizione, dovendoſi aſſegnare per le coſe più lenfibilia e più note, l'eſperienzadi tutti i ſenſi ci moſtra, che i molti ci ſono più noti che l'uno; i fanciullipiù teneri nel coccare, nel vedere, e nell'udire pereepiſcono i molti, e laloro cognizione è imme là dove hanno biſogno, che la loro ragione fi maturi unpoco per cominciare a dir uno, e quindi numerar su le I molti dunque eſſendopiù noti dell' uno, negandoli di forma 6 ) Metaf. lib. 1o. diata; dita. il (53) il concetto negativo dell'uno in quella guiſa, che negando le par ti ſi fa ilconcetto negativo del punto. Dall'uno G fa l'idea aſtratta dell'unità, comedall'idea dell'uomo l'idea aſtratta dell'umanità. Tre ſono le ſpecie dell'unità;la Lo gica, la Matematica, la Metafisica. L'unità Logica ſono i generi, e leſpecie, o certe idee univerſali atte a rappreſentar molti in uno; l'unitàmatematica è il principio compoſitivo de' numeri, o il prin cipio per cui finumera; principio differente dal zero, da cui ſi nuinera. L'unità metafiſica' èuna proprietà traſcendentale dell' ente, o che conviene all'ente in quanto tale,poichè d'ogni ente fi predica l'uno, come fi predica il vero, e il buono, o ſiail perfetto, ma la verità, e la bontà, o la perfezione, inclu dendo ordinenella varietà ſuppone l' uno, onde tra le proprie tà dell'ente egli è la piùuniverſale (a ). L'unità o l'uno nel ſuo concetto aſtrattiſſimo preſcinde datutte le relazioni, potendoſi per l'aſtrazione della mente non riferire, nèalle coſe che rappreſenta, nè a' numeri che compone, nè a ciò cui conviene: Inqueſto ſenſo aftrattiflimo definiſce Zenone l' uno, opponendolo ai molti ingenere. Contro queſta definizione cosi argomenta Socrate. Vi ſono idee ſeparate:dunque ogni idea eſſen do una in sè, e molti, nel participarſi a molti l'uno,eimolti poſſono accoppiarſi; dunque non pud dirſi, che l'uno fia molti. Primadi ſviluppar l' argomento rifletterò su certe voci, e nozioni di Socrate. $. 2.Suppone toſto Socrate, che vi fieno idee ſeparate. L'idea ſe condo l'etimologiadella voce Greca, significa propriamente com fa viſta, e per traslato ſignificacoſa inteſa, o ciò che s'inten de; ma tallora ſignifica l'atto per cuis'intende, il qual però meglio ſi chiama nozione o concetto. Åleinoo defintl'idea, intelligenza per rapporto a Dio, pri mo intelligibile per rapporto anoi,miſura quanto alla mate ria, eſemplare quanto al mondo ſenſibile, effenzaquanto a ſe ſteſſa. In tutti queſti ſenſi la prende or Socrate, ora Parmeni de;ma la prima nozione dell' idea ſeparata è che ella fia il primo intelligibile.$. 3• ve ) Wolfo Metaf. (54 ) §. 3. Socrate: oltre l' idee del bello, dell'oneſto, e del giufto, che Parmenide gli accorda, ammette ancora quelle dellimile, del diffimile, del moto, della quiete, dell' uno, e de' molti. Queſteultime idee ſono tra loro oppoſte e contrarie, come il caldo, il freddo, ilbianco, ed il nero; eſſendo contrarie, ciò che convie ne all'una, non convieneall' alira, e quindi ſecondo Socrate i ge neri, e le ſpecie, idee più o menouniverſali conſiderate in se non patiſcono paßioni contrarie, ma nulla vietanell'ipoteſi di Socrate, che non poſſano participarſi dalle coſe. 1 S. 4.Partecipare è propriamente ritener in sè una parte d'un cutto;; così l'ariapartecipa la luce ', poichè ogni particella d' aria ha in sè una particella diluce. In un ſenſo più ampio, la voce partici pare s'eſtende dalla quantità allaqualità, all'azione, all effenza Iteffa.;. così ſi dice, che l'accidentepartecipa della ſoſtanza', gli effetti delle cagioni, un figlio le virtù,eivizj.del padre: La par cipazione è quindi' più ampia della ſimiglianzalimitata alla ſola convenienza delle qualità, e molto più dell'imitazione, chealla fimiglianza aggiunge la relazione tra il modello, e la copia; due gemellinaſcendo saſlimigliano, e pur l'uno' non è la copia dell' altro. I Pittagorici'nel riferir le coſe all' idee ſeparate, come a loro modellidiceano', che participavanoo imitavano l'idee, ma fecondo Ariſtotele non mai filoſoficamente ſpiegarono levoci di participazione, e d'imitazione. S. 56 Cið fuppoſto, il primo argomentodi Socrate tratto da queſti principj fi pud diſtinguer in due per maggiorchiarezza. Ogni idea è una in sé, ed una in molti, dunque nel tempo ſteſſo, unopuò efser molti. Cosi lo conferma, Benchè l' idee lieno tra loro con crarie,nondimeno poſsono eſserº nel tempo ſteſso participate da. molti, anzi dalloſteſso ſecondo diverſi riguardi, ma in queſte participazioni ritengono la lorounità, dunque: ſon uno e molti. Così lo prova: oppoſte e contrarie ſono traloro l’idee, del ſimile, del diſſimile', del moto', della quiete, dell’'uno; édei molti; dunque comenulla viera, che lo ſteſso poſsa aver more in Metaf, inuna parte, e quiete nell'altra; eſfer fimile ad un altro in una parte, ediffimile nell'altra, così nulla vieta che ſia uno, e molti; una Caſa ha moltilegni, e molte pietre; ogni. Uo mo è uno conſiderato in sè, ed è o ſeſto, oſettimo conſide rato con altri. la un Uomo, altra è la deſtra, altra la finiſtra, altre le parti dinanzi, altre di dietro, altre le ſupreme, al tre leinfime. Nel Sofiſta egli dice; noi chiamiamo un Uomo denominandolo con molticognomi, mentre a lui attribuiamo i colori, le figure, le grandezze, le virtù,ed ivizi: nelle quali coſe tutte, ed in altre infinite, non ſolamente diciamoche egli fia Uomo, ma ancora buono, ed altre infinite coſe, e le altre fecondola ſtella ragione. In cotal gui sa fupponendo noi qualunque coſa una, di nuovol'appelliamo molte e con molti nomi..... Onde ſi è da noi data occaſione dicontraddi re, come jo penſo a' giovani, ed a ' vecchi di tardo ingegno: perciocche incontinente ci potrebbe chiunque far obbiezione che ſia coſa impos fibile,che molte sofe folero una, ed una molte. Dunque uno può eſſer molti; dunque nonè generale la de finizione, che uno ſia non molti. La participazione dell' ideaevidentemente lo manifeſta. Sciolto è l'argomento ſe fi nega l'ipoteſi dell'idee ſeparate perchè colte l'idee è colca la loro participazione. Parmenide rigecta l'ipoteſi, come nè generale, nè chiara; non generale.per chè nons'eſtende a cutti i cafi poflibili i; non chiara., 'perchè non pud fpiegarſi laparticipazione dell'idea. Cost:provo la pri ma parte non ſi debbonoaſſegnaridee delle coſe ſeparate, o aſſegnarſene di tutte le coſe '; che vuol dire, nonbaſta affe le.coſe morali, e matematiche, mabiſogna af. ſegnarne ancora per lefifiche: dunque non ſolamente vi ſono idee del giuſto, del bello, del buono,del grande, del fimile ec, ma dell'uomo, del foco, dell'acqua, e d' alcune coſe,che molti fimano per avventura ridicoloſe; i peli, il fango, le macchie., edaltre coſe ignobili, e vili. Socrate toſto lo nega, perchè gli pare, cheammettere queſt' idee, ſarebbe coſa troppo diſconvenevole, poi can didamenteconfera, che alcuna volta queſto penſiero lo turbo, e che quando di là fi fermaſe nefugge temendo di non corrompere la ſua mente, e fantaſia cadendo inciancie ineſplicabili., onde a quelle coſe ritornato (cioè all'idee del giuſto,del bello, del buono, ed all idee 'matematiche ) verſa intorno a quelle. In (a) Sof, pag. 306, (56.) In un caſo ſimile ſi ritrovò il P. Malebranchio;ſentendo egli la difficoltà di ſpiegar chiaramente, come l'eſtenſioneintelligibi-: le, eſſendo immobile in Dio, gli rappreſenti il moto, ove illuſtra queſto articolo dice nel fine: (a ) Io non oso impegnarmi'. a trattarqueſto ſoggetto a fondo, temendo di dir coſe, o troppo aftrat te, o troppoſtravaganti, o ſe ſi vuole, per non azzardarmi a dir co ſe che non so, nè sonocapace di diſcoprire. Queſto è il ripiego di Socrate. Ariſtotele (do ) ovenella Metafiſica combatte l' idee ſeparate malamente attribuite a Platone,adduce tra l'altre coſe, che dandoſi idee ſeparate ſi dovrebbe darne de'ſingolari, de' corrut tibili; egli non eſtendeche l'argomento da Parmenideeſemplifica to, e poida Alcinoo, che afferi non darſi nel fiſtema de' Platoniciidee delle coſe arcifiziali; uno ſcudo, una lira ec. ne delle co fe oltrenatura la febbre, la bile non naturale; non delle coſe ſingolari, Socrate,Placone; non delle vili, ed abbiecte ſozzure, paglie ec. donde traffero iPlatonici dopo Ariſtotele, queſta di ſtinzione, ſe non dal Parmenide? Propoſtache ha VELIA (si veda) un'obbiezione, che Socrate non può riſolvere, eglicangia l' argomento ad judicium in quello aid hominem, che vuol dire nonargomenta più ſecondo i principi della ragione univerſale, ma ſecondo iprincipj del diſputante, e ne deduce la contraddizione. Suppone dunque che vifieno idee ſeparate ", ma come poi date queſte idee lo ſpiegare che lienoparticipate dalle coſe Queſta participazione ſi fa, o ſecondo il tutto, oſecondo la parte. Parmenide dimoſtra, che nèl'uno, nè l'altro può eſſere. Siada una coſa participaca l'idea ſecondo il cutco, dunque tut ta l'idea è in ſeſteſſa.; e tutta fuori di ſe ſteſſa; dunque nel tempo ſteſſo eſiſte tutta in sè,e cutca fuori di sè. Siaľ idea conliderata in sè A, e participata fia B, C, Dec. generalmen te, o non A; dunque nel tempo ſteſſo l'idea è A, e non A, ciòche è contraddittorio. Nè occor dire che un giorno è uno, e lo Steffo, edinſieme in mola ti luoghi, e pur non è da ſesteso in diſparte. Il giorno non èche la luce del sole, diffuſa in tutto il noſtro emisfero. Or quel la parte diluce, che illumina me, non illumina il compagno ſebben mi lia vicino. Parmenideli ſerve dell'eſempio della ve la, (a ) Ricerca della verità T. 4. pag.... (b )Metaf. I..... (57 ) la, la quale molti coprendo, non è perd una in molti,perchè la parte che copre l'uno, non è la parte che copre l'altro. Reſtaa dimoſtrare, che l'idea non è participata dalle coſe ſe condo una parte; ladimoſtrazione è da se manifefta, perchè l'idea participata ſarebbe una, e nonuna; una tutta in sè, e non una nelle coſe che ne hanno ſolo una parte. Queſtomodo d'ar gomentare, è fondato ſul principio di contraddizione adoprato loventeda Platone, e ſtabilito da Ariſtotele, come il primo prin cipio in cui ſiriſolvono cutti gli altri. Eſperimentiamo noi cal eſſere la natura della noſtramente, la qual mentre giudica che una coſa ſia, non può inſieme giudicare, chela ſteſſa non ſia. Parmenide eſemplifica l'impoſſibilità di queſta ipoteſi. 5.8. La grandezza è ciò che è capace di più e di meno. Nel conce pir il più ficoncepiſce il maggiore, nel concepir il meno fi conce piſce il minore, e nelconcepir l'eguale non ſi concepiſce nè più, nè meno nelle quantità che ſicomparano. lo dico che li comparano, perchè nè il più, nè il meno, nè l' egualeconcepir ſi poſſono ſenza riguardar una coſa nel tempo ſteſ to che l'altra oſenza compararle, e in queſta comparazione pro priamente la grandezza confifte,la quale, come ben dice il Wol fio, non ſi può concepir ſenza un altro adifferenza della quali tà. Tutto quindi l' effer della grandezza è relativo, odha tut to l'eſſere in ordine ad un altro. Così Platone eſpreſſe la natu radella relazione nel Politico, nel Simpoſio, nel Sofifta, e pri ma di luiArchita, ed Ocello, (a ) i quali diviſero la relazio ne in quattro generi. Daqueſti autori traſfe Ariſtotele (6 ) la definizione, che dà della relazione.Nulla perd vieta, come et proverà, che per compendiare i concetti non ſiconcepiſca la gran dezza come qualche coſa di aſſoluto, a cui accade – eſſeremag giore, minore, ed eguale, e che di nuovo ſi concepiſcano il maggiore, o'lminore come aſſoluti, a' quali accada il più, o meno, o nè l'uno, nè l'altro.Suppoſto dunque, che fi dia l'idea della grandezza, e in conſeguenza delmaggiore, del minore, dell' eguale, così argomenta Parmenide. Sia A l'idea delmaggiore, B del minore, C dell' eguale; ſi dividano tutte2, e tre in partiineguali: С poichè dunque una coſa in canto è maggiore, in quanto partecipal'idea del maggiore, lia l'idea - B del maggiore A diviſa in parti ineguali, ela parte minore delmaggiore ſia participata, quello che la Tom. II. h par (á )Diſcuſ. Perip. Patriz; T. 2. pag. 185. (b ) Ad aliquid alia dicuntur quæcunquequod ipſa ſunt aliorum effe dicuntur. o il A (58 ) partecipa non ſarà egli neltempo fefto, e maggiore, e mino re? Maggiore, perchè parcecipa l'idea delmaggiore; minore per chè parcecipa la parte minor del maggiore. Così potràdirli della participazione della parte più picciola dell'idea del minore, edell' idea dell'eguale. Se'l idee dunque fi participano dalle coſe, ſe condouna parte loro non potrà mai effer quefta, una delle par ri ineguali. Parmenidenon procede olore, maè facile l'aggiun-. gervi, che nè meno pud parciciparedelle parti eguali, perchè la parte.eguale del maggiore participata dalla coſa,la farebbe nel tempo ſteſſo eguale, e maggiore; e così la parte eguale del minore, ſarebbe la coſa minore ed eguale.. 9. La noſtra mente, come per ſuanatura non può concepiricon tradditrorj, così non pud frappaſſar l'infinito,biſogna che s'ar reſti ad un primo, o ad un ultimo, il qual è come Tuncino cheſoſtiene curri gli anelli della catena. Ariſtocele, e'ne'mori, e nel lecagioni, e ne'fini dimoſtra l' aſſurdità del progreſſo all' infini 10, modo d'argomentare imparato dal Parmenide di Platone non men che l' altro delprincipio di contraddizione. Il Wolfo dimoſtròeffer impoſibile il progreſſoall'infinito rectilineo, e cir colare. g. 10,. Poſta l'aſſurdità del progreſſoall'infinito, così argomenta Par menide: Tu ſtimi che qualunque ſpecie fia una,quando pare i te cbe certe, e molte coſe fieno grandi, parendoti per avventurain ris guardando a tutte le coſe, che ſia queſta una certa idea, onde tu penfiche il grande fia uno. Prima d'inoltrarſi è da oſſervare, che qui Platoneinſegna, co me comparando le coſe, nel riflectere a quello in cui conven gono,ne riſulta un'altra idea, come prima avea inſegnato Epicarmo, Queſt' idea èſempre una, perchè uno è l'atto della mente con cui ſi rifletre a ciò che lecoſe hanno di commune. Continua Parmenide: Se'il grande, e l'altre coſe cheſono grandi nel medeſimo modo conſideralli per tutre le coſe, non apparirebbeegli da capo ceri' una coſa grande, onde farebbe neceſſario che queſte tuttepareffero grandi? Vuol dire che nel compararſi dalla mente di nuovo l'idea delgrande con le grandezze participate, nè riſulta un'altra idea di grandezza, perla qual coſa concludeParmenide: apparirà di nuo po altra ſpecie di grandezzafuor do esſa grandezza, e di quelle che fono ! (59 ) fono partecipi di lei, edopo tutte queſte, altra di nuovo con cui som rebbono queſte grandi, nè pidequalunqueſpecie fia una, ma piuttoſto di numero infinito. La ragione è, chel'idee della grandezza di nuovo aſtratte nella comparazione, eſſendo per loronatura re lative faranno fena pre di nuovo comparabili, e così all' infini to.Ariſtocele su queſto fondamento del Parmenide, e tutti i Platonici, e tra glialtri Alcinoo dillero, che non fu potea aver idee de relativi. $. 11. cioè perDal modo con cui Parmenide comparando l'ideę, altre idee He deduffe, concluſeSocrate, che le ſpecie ſono' atti dell'intel fetto, i quali non riſiedono, chenell'animo. Gli concede Para menide, che ogni atto dell' intelletto è uno, magli fa confef fare, che queſt' acto ha un oggetto, ed è l' ente'; l'ente perdin quanto ſi concepiſce o s'intende', non s'immagina o ſente: prende egli qutl'idea, non per la nozione, o per il concetro' della mente 1 atto, ma per larelazione che ella ha ad un certo oggecto, e conſidera l'unità dell'idea' nonrelativa mente all'atto dell'intelletto, ma all' ente che la partecipa poichèſecondo i principj di Socrate, ella è ſempre la ſteſa in tutte le coſe. Nededuce per confeguenza, che ſe l'idee ſono' at: ti dell'intelletto, le coſe chepartecipano della ſpezie', o deli? idea faranno tutte intellective, edintelligibili. Vi riſponde So crace, che le coſe non partecipano' dell' idee,in quanto' queſte fono atti dell'intelletto, ma in quanto rappreſentano le coſe;che vuol dire, in quanto l' idee Tono eſemplari, di cui le co fe fonolimiglianze; onde in tanto le coſe le partecipano', in quanto ad effe li fannoſimili. Parmenide contro queſte fimi glianze dell' idee, argomenta coll'aſſurdità del progreſſo all' ip knito, come fece delle grandezze. $. 12Supponiamo che' molte' coſé' fieno ſimili per la participazione dell' ideedella ſimiglianza. Potendoſi dunque comparar dall'in telletto le ' fimiglianze',e delle coſe, e dell' idee, Te' ne' eſtrar rà un'altra' idea di ſimiglianza, equeſta di nuovo comparando 1' idee con le coſe, darà un' altra idea difimiglianza, e co sh all'infinito, cio' che è aſſurdo”. Cosi eſprime queſtoargo mento Parmenide: non ſarebbe egli neceſſità grande, che' quel che è fimileal fimile' folle partecipe dell' uno, e della fleffa ſpecie? Or hi 2 non (60 )5 non ſarà ciò la ſtessa ſpecie, di cui le fimili coſe rendendoſi partecipifiano fimili? Dunque non può alcuna coſa eller ſimile alla ſpecie, ne la ſpeciead altrui, altrimenti oltre alla fpecie', altra ſpecie ſempre apparirebbe, cheſe ella folle fimile ad alcuna coſa altra dacapo', ne cellerebbe mai queſtoprogreſo, che non ſi faceſſe ſempre nuova fpe cie, ſe ancora folle ſimile laſpecie, a chi di lei ſi rendeſe partecipe: Ariſtotele propoſe lo ſteſſoargomento ſebben oſcuramente L'Uomo, dice, ſignifica non meno la ſoſtanzaſenſibile degli Uomini ſingolari, che la ſoſtanza intelligibile dell'Uomo persè, o fia l'idea dell' Uomo. Or ſe queſt' idee convengono in una coſa comune,fi concepiſce comparandole un terzo Uomo, equin di un altro, e così all'infinit.Ariftotele creſce l'aſſurdità Socrate lingolare participando dell'Uomouniverſale partecipa, e dell'animale e dell'animale a due piedi, e d'altre coſe,ciod, quelle che ha comuni colle piance, colle pietre, ed altre innume rabili.Converrà dunque moltiplicare all'infinito l'idee, onde per una coſa ſenſibileconverrà porne infinite; ſi può aggiungere che queſto numero di nuovo ſimoltiplicherà all'infinito am mettendoſi l' idee dei relativi, poichè ogni coſache è nell'Uo mo, pud compararſi a turce l' idee delle coſe viſibili, edinvidia bili, o della ſteſſa, o di diverſa ſpecie. Ma l'Uomo ideale, diceano iPittagorici, effendo incorrutti bile, ed univerſale non ſi può comparar a coſaſingolare, e cor ruttibile, ed eſtrarne quindi nuova idea? Ariſtotele viriſponde: i binarj feparati ſono anche eſſi incorruttibili, e pur per conoſcerli biſogna dar un'idea comune di binario, in cui convenga il binario B, ilbinario C ec. In oltre l'idea di figura è comune al cerchio, al triangolo, eatutte le figure piane e ſolide, onde ella, è propriamente ge nere relativamentealle ſpecie, ma chi può mai conoſcere una figura che non ſia, nè cerchio, nètriangolo, nè altra ſimile? Intanto la concepiſce la figura in genere, inquanto la mente non s' applica, che ai limiti che circonſcrivono lo ſpazio, fenza far attenzione rifeffa, nè al modo, nè al numero, nè al fito dei limitiſtelli. Spiegherd la coſa con un eſempio più fa cile. Egli è impoſſibile che ioconcepiſca un triangolo ſenza rappreſentarmi che egli fia, o Equilatero, oIſollele, Sca leno; altro è poi, che nel rappreſentarmi uno di queſti criangoli io non faccia determinata attenzione alle ſpecie dei tre lati. Noi nonintendiamo le cofe, dice San Tommaſo, ſe non cona vertendoſi a' fantasmi loro.Ora a qual fantasma è anneſſa l' idea della figura? Confuſamente a tutte le figure;ma io non ne, con (01 ) conſidero diſtintamente alcuna, e ſolo attendo a ciò incui cut te convengono, ed è d' eſſere uno ſpazio circonſcritto; ma ſe nelconcepire l' idee de' generi delle coſe matematiche v'è canta dif ficoltàammettendo l' idee ſeparate, quale ve ne ſarà nell'idee metafiſiche?Nell'ipoteſi Pitagorica ſi dovranno aſſegnar idee del poflibile, dell'ente,dell'atto, della potenza, della cagione, del principio, del modo,dell'attributo, del terminato, è dell ' indeterminato, del neceſſario, delcontingente', del perfetto dell'imperfetto ec. nè ſolo di queſte coſe, ma delprima, del dopo, dell'inſieme, del ſeparato, e finalmente del genere in quantogenere, e della ſpecie in quanto ſpecie: coſe tuote af furdiffime nè abbaſtanzaeſaminate da coloro che preteſero che noi vediamo le coſe in Dio, perchè adognuna di queſte coſe non men che all'eſtenſione, ed al numero dovrebbeaſſegnarſi un'idea, Ariſtotele con gran ragione v'aggiunſe, che neli ipo teſidell' idee ſeparate, oltre l'idee de relativi converrebbe am mettere l'ideedelle negazioni, e delle privazioni, o degli op pofti, cioè dei contraddittoridei contrarj ec. 9. 13. Dace l'idee, data la loro participazione, ed eſcluſa lacompa razione a'ſenſibili, ricerca Parmenide fe debbonſi annoverare l'idee tragli enti relativi; od aſfoluti. Vi fono delle coſe, di cui tutta l'eſſenzaconſiſte nel riferir fi all'altre, e queſte ſono relative, (8. 8.) é ve ne ſonaltre di cui l'eſſenza conliſte nella non ripugnanza dei predicari, che lecoſtituiſcono, e queſte ſon le affolute; Poichè tutto l'efferé de’ relativi ènel loro confronto, (5.8. ) includono effi neceffaria. mente due termini traloro oppoſti, il fondamento dei quali fo no le coſe affolute, che tra loro ficomparano; quindi il fonda mento del relativo è sempre l' aſſoluto. Un Uomofuffifte per sè, e ſe foſſe ſolo nel mondo, non farebbe nè Padrone, nè ſer-' vo,ma ſuppoſto che viva in una ſocietà, può eſſer l'uno, e l' altro, in guila peròche non è ſervo in quanto Padrone, nè Pa drone in quanto ſervo, ma come Padroneſi riferiſce a coloro cui comanda, come ſervo a coloro cui ubbidiſce, e l'uno,e l' altro gli accade in quanto è Uomo, ed a diverſi Uomini li ri. feriſce.Poichè dunque l'idee fi riferiſcono ai fimili che le par tecipano, biſogna cheſieno in ſe ſteſſe e parimenti perchè i ſimili che partecipano l'idee fipoffano riferir all’ idee, convie ne che fieno in ſe ſteſi. Biſogna in unaparola, che l'idee, e le coſe che le partecipano abbiano un' eſſenzadeterminata. Con clude (62 ) 1 clude quindi Parmenide, che l'idee hanno traloro, un ' eſſenza, ma che queſta non è un eſſenza tutta: relativa alle coſeche ſo no appreſſo di noi, o pure le coſe fi nominano ſimiglianze, o inaltramaniera di cui facendoſi partecipi, noi la nominiamo con, qualunque dieſſe.;. aggiunge parimenti, che le coſe che ſono in noi, non hanno la virtù ſuad'eſiſtere in verſo l' idee, ma fono quel che ſono relativamente a ſe ſteſſe.Parmenide quin di chiama le cofe. che ſono in. noi,, e: in torno a noi:equivoche: all' idee.. Cagione equivoca: degli animali, delle piante, demetalli ec. diſero Ariſtocele, e gli Scolaſtici il Sole, perchè ſebben concorraalla loro generazione, non conviene con loro, 0 non gli aſſomi glia chenell'eſſere. Parmenide parlando ad bominem par che allu da all' opinione diSocrate, il quale nell' ammecter l' idee, come cagioni delle coſe, era sforzatoad ammetterle come cagioni equivoche,, non potendo ammetterle, come cagionieſemplari, il che: Ariſtotele così: dimoſtrò:-ſe quando l'Uomo fi genera daSocra te, eglis'alfomiglia all'idea, e non a Socrate, fi potrà generar: { mileall'idea, liavi o non ſiavi Socrate;; ma ľ Uomo generandofia non s'aſſomigliaall'idea, ma a Socrate, come è manifeſto dall' eſperienza; dunque Socrate, enon l'idea è l'eſemplare del generato: Poſto dunque che l' idee: influifcanonella generazion delle coſe, convien ſempre porle, come cagioni equivoche;: mada: chi Ariſtotile traffe cal idea, ſe non da Placone? ' Or fe: l'idee nonhanno relazioni alle coſe, o ſono diloro ca gioni equivoche, come poſſiamoconoſcerle? Se le piante, de pie tre ragionaſſero,. potrebbonomairappreſentarli (rimirando ſe fteſ. ' fe,. ), che il Sole foſſe loro: tantodiſſimile? che ebbe. tanta parte nella loro generazione. Le noſtre idee nonſono cagioniequivoche delle coſe, le quali noi produciamo affilandoſi ſul loromodello. Un Architeto uno Scultore, un Pitcore fanno la caſa, la ſtatua,.,l'immagine ſecondo l'idea che ne hanno formata, e perciò comparano l'effet toall' idea per miſurarla,, e perfezionarla;, nella combinazione dell'idée chiare,.e diſtinte conſiſtendo la ſcienza, l'oggetto del la noſtra ha ſempreproporzione all'idee che d'effo formiamo;.. ma ſe l.idee: ſeparate come cagioniequivoche non hanno alcu na proporzione con le coſe che vediamo, non parpoffibile di: riconoſcerle, e in conſeguenza aver- Scienza di loro. Delle co fequindi rivelate, non abbiamo ſcienza ma fede; ſono certe, € infallibili, ma nona noi: chiare e diftinte.. Platone nel Filebo ſtabiliſce due generi di coſe;altre non 'han no avuto origine, nè finiranno giammai, perchè ſono immutabi li,e fempiterne; altre non ſono perchè ſempre 'fi fanno ſono a generazione, et corruzzioneſoggette: À queſti due ge neri di coſe, ' fa corriſponder due generi dicognizione; delle coſe immutabili, ed eterne ſi ha ſcienza, dell' altre non ſiha che opinione. Le coſe di cui s' ha ſcienza ſono l'idee, perchè ſono ſemprenello ſteſſo ſtaro, nè ſi può ſapere ſe non ciò che è, ed è ſempre nel medeſimomodo; le coſe di cui s' ha opinione fono le coſe ſenſibili, perchècontinuamente fluendo, non ſono mai nello ſteſ fo ſtato. Come dunque Placonenel Tilebo, dà fcienza dell'idee, e nel Parmenide non la dà? La riſpoſtagenerale è, che da cid che ſi dice in un Dialogo,nulla deve inferirſirelativamente a cid che ſi dice nell'altro, perchè Platone non ragiona ſecondola ſua ſentenza, come nelle lettere per eſempio, ma ſecondo le ſenten że altrui;oltre a cid, Platone trattando nel Filebo della defini zione della ſcienza egliè manifeſto, che tratta ſolo della ſua pof fibilità relativamente all'oggetto,ſenzapoi procurarſi di cercare, ſe ſi dia o no tale ſcienza negli Uomini, IMatematici definiſco no il cerchio, e il triangolo in quanto è poffibile, nè ficurano ſe eſiſta o.no: quindi ben ' li definiſce la Filolofia, la Scienza deipoffibili in quanto tali; nel Parmenide non della poſſibili tà, madell'attualità della ſcienza ſi tratta, e Parmenide mo ftra, che dandoſi l'idee ſeparate non poſſiamo aver 'ſcienza di effe, perchè non hanno alcunaproporzione con noi, e con le coſe.noſtre. 5. 15. Ammettendo con S. Agoſtino, eS. Tommaſo, cheIddio ab bia idee, e molte idee, onde per eſſe conoſca iſingolari, i fu turi, i contingenti, gli infiniti, non perciò poſſiamo dire,che abbiamo ſcienza dell' idee di Dio, o che poliamo conoſcere co me per queſt'ideeegli conoſca le coſe. Il Malebranchio, ed il Poiret, che lo tentarono,caderono ſecondo la fraſe di Socrate in ciancie ineſplicabili. 1. 16. (64 ). S.'16.: s' inoltra Parmenide: La ſcienza in sè conliderata è un'idea, come labontà, la bellezza ec. ma ſe queſt' idea della ſcienza, non ha alcunaproporzione alle ſcienze a noi note, non poßia mo conoſcerla, poichè le ſcienzeintanto a noi ſono note in quanto verſano su noi, o su le coſe che ſono intornoa noi. Or non conoſcendo l'idea della ſcienza in quanto tale, nè men poſſiamoconoſcere ſcientificamente l'altre idee, perchè per aver ſcienza dell' altreidee convien participar dell'idea della ſcien za, ciò che è impoflibile:Parmenide par qui ſupporre che la noftra ſcienza paragonata all'idea dellaſcienza ſia come il zero all' infinito ma ſe noi non participiamo dell'idea della ſcienza, come potremo ſcientificamente, o chiaramente, e diſtintamenteconoſcere il bello, l'oneſto, il giuſto, e l'altre idee? Nulla a mio crederev'è di più acuto, e profondo che queſtº argomento, e quel d ' Ariſtotele nonl'eguaglia, benchè per altro concluda contro l'ipoteſi dell' idee ſeparate.Oſservò egli che lº idee eſsendo immutabili per loro eſsenza, non ſi può pereſse ſpie gar il moto, dalla cui cognizione dipende quella della natura; dunquel' idee ſono inutili alla ſcienza per cui furono introdotte. Coloro i qualiamiſero con Eraclito, che le coſe ſenſibili ſono in un continuo fluſso,ricorſero all'idee ſeparate, le quali immutabili eſsendo, ſomminiſtravano a?Filoſofi dei principj immutabili del loro ſiſtema; la difficoltà è come iFilolofi le conoſceſsero, ſe la lor mente, non nell' eſsere, ma nell operaredipende dagli organi del corpo umano, ſoggetto alle vicende dell'altre coſefenfibili? f. 17. All' argomento tolto dal principio di contraddizione del progreſſo all' infinito, Placone aggiunge l' altro tolto dalle perfer zioni Divine.Come il retto è la miſura di ſe ſteſſo, e del cur vo, così il cumulo di tuttele perfezioni che è in Dio; ci ſer ve di miſura per giudicare, e delleperfezioni di Dio ſteſso, e di quelle dell'altre coſe. Per via del principio dicontraddizio: ne del progreſso all'infinito ſi dimoſtra l'eſiſtenza di Dio, eper via, o di negazione, o di eminenza, o di caſualità, fi di moſtrano leinfinite perfezioni di lui, onde ſe a qualche data ipoteſi conſegual'annullazione di qualche perfezione divina, l'al ſur ſurdo è maſſimo, perchèDio nell' effer principio dell'eſiſtenza, è ancora principio di tale eſiſtenza,e nulla può eſiſtere ſe ri pugna alla natura Divina. Socrate non potea nonconoſcer Dio comeprincipio intelli gente, dunque era neceſſario, che gliattribuiffè l' idee non me no convenevoli all'intelletto, che i tre lati ad untriangolo; pur tace Socrate, quando Parmenide gli prova, che la perfec tiſſimaſcienza o P idea della ſcienza convenendo a Dio, egli per queſt' idea nonpoteva conoſcer le coſe, ciò che era con trario alla divina natura. Par dunqueche Socrate ſupponeſſe l' idee ſeparate, ma dall'altra parte Ariſtocele dicechiaramen te, che Socrate noo ammetteva l' idee ſeparate ſe ben deffe gliuniverſali. Non ſi ſoddisfarebbe in parte alla difficoltà, di cendoli chePlatone, per bocca di Socrate, parlò dell' idee in fenfo poetico, per averoccaſione d'annullarle, e propor la doc trina che ha da lui copiato Ariſtotele,e della quale poi ſi ſervì contro que' diſcepoli di Platone, che realizzaronol' idee ſeparate.. 18. Annullate l' idee ſeparate, la voce idea nel progreſodel Dia logo, tutta fi riſtringe all' idee, che la mente aftrae comparan do lecoſe. S'è già accennato ($. 8.) il modo, con cui deduſ fe Parmenide l'ideadella grandezza, e de' ſimili, e li vedrà inoltrandoſi, che egli parlando dell'uno e dell'ente, proteſta di ſeparar le coſe con l'intelligenza, e con queſtafino sbra narle', che è quanto dire, diſtinguer i concetti o l' idee, ſecon doi rapporti delle coſe, foſſero ancora quefte ſempliciffime; nulla v'è di piùſemplice dell'anima per ſua natura indiviſibi le, e pur in eſſa ſi diſtinguonovarie potenze, ſecondo le rela zioni, che ai varj organi del corpo ella haoperando, onde fi dice che ella ſente, ë che ella immagina. Nella parte ancoraintellettiva, ſi diſtinguono le facoltà che ella ha di comparare, e di aſtrarre,e di combinare e di, e di contemplare l' idee', onde ella dichiaraſi mente, eingelletto, (c ) voci non altrimenti fi nonime, poichè le loro etimologie diconfrontano ai varj uffizj dell'anima; tutte quindi le ſcienze ſono ſu l'aſtrazioni fonda te. La fiſica aftrae dalle coſe ſingolari, la matematica dalleſen Tom. 11. i (a) Mens è detta a menfura, poichè l' anima compara, e miſura lecoſe, Intellectus da intus legere, poichè intendendo ſcieglie, e deduce unacola da un' altra. fibili, (06 ) fibili, la metafiſica da ogni materia. Vuoleil Patrizio, che come in una gran parte del Sofifta, čosi in tutto il Parmenide non ſi tratti che di quella metafiſica, che Ariſtotele colſe da Placone, edi cui le prime idee ne diedero i Pitcagorici, e tra gli altri, Archira ePeritione; io v'aggiungo che la me cafifica avendo due parti, cioè l' ontologia,o la ſcienza, che tratta delle proprietà dell'ente, in quanto ente, e la Teologia naturale o la ſcienza, che tratta delle ſoſtanze ſeparate dal la materia,come Dio e l'anima, Parmenide ſi riſtringe in que ſto trattato all' ontologia,e manifefte ne faranno nel progreſo ſo le prove; baſta accennar qui, chedovendofi dar un elem pio del modo con cui s acquiſtano l ' idee, ſcieglieParmenide l'idea dell'uno, applicando ad efla il metodo delle fuppoſizio ni.Due coſe aggiunge alluſive all'analiſi, ed alla ſinteſi. La prima che ufficio ed' uomo ingegnoſo il poter apprendere, come ſi ritrovi il genere di qualunquecoſa, ciò che ſi fa cominciando dall'analiſi, o dall'eſame delle coſeparticolari, e per l'aſtra zione, elevandoſi agli univerſali; la ſeconda, cheufficio è di uomo meraviglioſo inſegnar agli altri le coſe ritrovate, ciò cheſi fa per la ſinteſi, combinando l'idee generali, e quindi le lo rocombinazioni, da cui ſi deducono i problemi, e i teoremi, ed indi i corollari,e le annotazioni. Sommo acume di men te fi ricerca nel far le opportuneaſtrazioni, e di nuovo da.quefte aftrarne altre, ſin che ” analiſi propoſta ſiriduca all' ul time idee, e ſomma fodezza, ritrovare l'idee, concatenarle inguifa che alcri con facilità, e prontezza le intendano, e l'uno, è l'altrodimoſtra Parmenide, o col luo nome Placone. Se l'uno che ne ſegua. b. I. VuolUole il Ficino, che queſta prima fuppoſizione debba inten derſi. Se l' uno,perchè il verbo è, o ſia la copula del predicato o del ſoggetto v'è pofta, nonin grazia della coſa, ma dell' orazione. Nel legger la nota marginale delFicino mi ricordai, che Licofrone (a ) invecedi dire, il parete è bianco, diceva il parete bianco, ed altri il parete biancheggia, quaſi che Platone nonriprovaſſe nel Sofiſta l' orazion ſenza verbi, o che Ariſt. 1. Phil. che i verbi non foſſero ſtati inventati percompendiare i gius dizi ! Non è forſe lo ſteſſo il dire, io amo, che io ſonoaman te é io biancheggio, che io fono biancheggiante? La fuppofi zione dunque,je l' uno equivale all' orazione condizionata, ed implicità fé uno, nè così lapropone Parmenide, ſe non per intimarci, che a null' altro fi deve badarenell'ipoteſi, che all uno preſo in un concetto aſtrattiflimo. Nella Geometriaſinteticamente ſi comincia dal punto prin cipio della linea; nell'aritmetica,dall'uno principio del nume ro; e nell' ontologia dall' uno traſcendentale, checonviene ad ogni noftra idea. Eſclude tutte le relazioni, perchè riferendofil'uno per eſempio ad A, B, C ec. non è più uno, ma molti, in quanto in lui ficonſiderano le diverſe faccie che ſi riferi ſcono ai molti. Parmenide in queſtaprima ipoteſi eſclude dall' uno cutte le relazioni, cioè quelle dell'ente ingenere, e l'alore dell'ente in fpecie. Relazioni dell'ente in genere ſonol'identicà, e la di verſità, perchè non competono meno alla ſoſtanza, che allaquantità, qualità, ed agli altri predicamenti. Relazioni dell'en te in fpecieſono, la limiglianza, la diſſimiglianza, Peguaglian za, l'ineguaglianza,l'antichità, la novità eco perchè competo no o alle fole qualità, o alle ſolequantità ec. * l une e l'altre intanto ſi dicono relazioni, in quanto nonconſiderano le coſe in ſe ſtelle, ma relativamente tra loro: il diffimile,l'eguale ec. non li concepiſcono ſenza i due termini, che tra loro fiparagonano. Se l' uno in quanto tale non può compararſi ad alcuna coſa, biſognaeſcluder da lui tutte queſte relazioni, tan to più ſe nelle coſe riferites'includono i molti. Parmenide comincia dall'eſcluſione delle relazioni piùfacili a conofcere', che ſono quelle della quantità; paſſa alle relazioni dellaqualità, e ad alcre, e finalmente all'eſſenza; nè di ciò con tento efclude lerelazioni, che l'uno può aver all'opinione, al la ſcienza, é lino al nome. Sel'uno in queſto concetto aftrat tiſſimo fi nominalle, avendo ogni nomerelazione al ſenſo, al la fantalia, od alla mente, e quindi a tutti gli uomini,che lo pronunziano o l'odono, l'uno con l'aggiunta di queſte relazio ni ſarebbemolti. Si ſente più che non s'eſprimequeſt' ultimo grado, ed abbiamo grandeobbligazione a Platone, che in que Ro Dialogo, nel rappreſentarci la dottrinadella fetta Eleatica, ci ha moſtrato l'uſo opportuno delle aſtrazioni. Egli diconten ta di non moltiplicarla, che fino ad un certo grado, a fine che l'ideacoll' altrarla tanto non s'inlanguidifca, è sfumi; onde al fine la mente nonpoſſa più ravviſarla in quella guiſa, che i 2 l'im 708 ) l'immagine d'unoggetto riflettuta da uno ſpecchio ſucceflivamen te in molti altri, al findiviene si ombratile, che ſvaniſce da. gli occhi. Frattanto era neceſſariodimoſtrare in un ſoggetto aſtrattiſſimo per sè, l'uſo dell'ultime aſtrazioniche può far la mente, non eſſendovi altro modo di accennare, come in ogniquiſtione s'arrivi a quell' ultima idea, in cui conviene che vi ci ripoſi, ancomalgrado l'impeto innato, che inevitabilmente ci porta a ſempre più nellecognizioni inoltrarci. Nell'inveſtigazione poi dell' idea vaga Parmenide pertutti i generi, come era in uſo nell'antica Dialetica, e fatta la ſuppoſizio nedeterminata per via di comparazioni, ed eſcluſioni, egli ricava il puntopreciſo della quiſtione propoſta. Con la chiarezza maggio re che io poſſa,procurerò deſprimer diſtintamente tutti i gra di tallor dell'analiſi, e callordella ſinteſi Parmenidea. Nel trat çar l'altra quiſtione meconvenne ſeguire leinterrogazioni, e le riſpoſte degli Interlocutori ma quà folo Parmenide parla;onde bafta ſolo ſeguendo l'ordine del Dialogo premetter le.co. ſe neceſſarie,eſtrar la propoſizione, e dimoſtrarla fe fi può cal metodo de' Geometri. L' unonon è molti. Abbiamo quanto baſta illuſtrata queſta definizione; qui fo loavverto, che come il Wolfio, dopo d'aver definito, che l'en te ſemplice è cidche non ha parti, da queſta definizione ne gativa egli deduſſe, che l'enteſemplice non è ſteſo, non è diviſibi le, ſenza figura, ſenza grandezza, che nonriempie ſpazio, che non ha moto inteſtino ec. Così Platone, da ciò che è l 'uno, dimoſtra le fteſſe coſe, e molt'altre che andremo partitamente,conſiderando, e deducendo dalle nozioni preme{le. g. 3. 11 Wolfio defini iltutto ciò che è lo ſteſſo con molti; per abbracciar in una definizione non ſoloil tutto integrale, che chiamaſi totum, ma ancora il potenziale che chiamaliomne. Lo ſteſſo, come ſi vedrà fra poco, conviene non meno alle quantia tà, chealle qualità, ed alle ſoſtanze, e l'idea di molti è più univerſale, che quelladelle parti, convenendo i molti e agli enti ſemplici, ed a' compoſti come a'quantitativi. Parmenide non definiſce qui, che il tutto integrale, raccogliendoinſieme le 1 (69 ) le parti, e limitandole in uno, a cui niente manca, ed è perfua natura indiviſibile; la nozione di molti è quindipiù aftratta della noziondelle parti, e in queſto ſenſo Ariſtotele diffe, che il tutto è prima delleparti, e non le parti del tutto, il che, ſe ſi crede al Patrizio, tolfe daIppodamo Turio. (a ) §. 4. L'uno non è nè tutto, nè parte di sè. Se l'uno ètutto non vi manca alcuna parte, ($. 3. ) dunque ha parti; dunque è molticontro la definizione dell' uno ($. 2. ) Se l'uno è parte di sè, è un tuttoriſpetto a sè, ma non pud eſser un tutto, come ſi dimoſtrò; dunque non è partedisè. L'uno non effendo nè tutto, né ſteſo, od è indiviſibile, o è ſemplice.parte, non è 8. S. Ogni cutto ha principio, mezzo, e fine. Cid vuol dire, chepropoſtoſi un turco nel numerarne le parti fi comincia da quella che chiamaſiprima, e li progrediſce all' ultima paſſando per le intermedie. §. 6. L'uno nonha principio, nè mezzo, nè fine. ol, Se l'aveſse ſarebbe un tutto ($. 5. ) ilche è impoſſibile (8.4. ) Speſre volte inſegnò Ariſtotele, che l'infinito èſenza principio, ſenza fine; offerva il Patrizio, che lo preſe dal Parmenide,ove ſi dice, che l'infinito (o piuttoſto come io crederei l'indefinito ) non hane principio, nè fine, cioè non ſi sa in eſſo, nè dove comin, ciar lanumerazione, ne dove terminarla. In queſto ſenſo una li nea non è propriamenteinfinita, o indefinita, le comincia da un punto, nè una ſuperficie, nè un corpo,ſe la ſuperficie comincia da una linea, e il corpo daunaſuperficie. A queſtiinfiniti måtema rici, che cominciano da un termine, non compere la definizione,che Platone aſſegna dell'infinito, da cui eſclude il principio, ed il fine. (a) Diſcuſ. perip. T. 2. p. 280. S. 2: (70 ) S. 7. L ' uno è infinito. L'uno nonha principio, nè fine (S. 6. ) Dunque è infinito. (An. Si 6: ) 9. 8. La figuraè una parte dello ſpazio, o dell'eſtenſione circonſcrit ca da cerci limiti, o èretta come il quadrato, il cubo ec. o ro tonda, come il cerchio, la sfera,Pelifli, l'eliffoide ec. o miſta dell'uno, e dell'altro. Il principio dellafigura è dove i moder ni pongono il vertice, il fine dove pongono la baſe",il mez zodove la figura fi divide per mecà. 8. 9. L'uno non ha figura. Ognifigura, o recta, o rotonda ha principio, mezzo, o fine (8. 8. ) ma l'uno non haprincipio, nè mezzo, nè fine. ($. 6. ) Dunque non ha figura. L'uno èinfigurabile. $. 10. Non lo può concepire', che una coſa ſia in ſè ſteſſa ſenzail di 1 ſtinguere con la mente, che ella è comprendente e compreſa, cid che èconcepirla due volte, o di uno far due. Non ſi può conce pire, che una coſa ſiain altrui, ſenza che ella ſia toccata in mol te parti. Il luogo abbraccia, ocomprende la coſa in lui colloca ta · Eſer in alcrui, od effer in ſe ſtello,,ſono due oppoſti ſenza. mezzo, come il moto, e la quiete. So IT. L'uno non è inluogo. O ſarebbe in sé, o in altrui; ($. 10. ) ſe in sè, egli ſarebbe a sè ilſuo luogo, onde abbracciando ſe ſteſſo ſarebbe nel tempo fteflo, e comprendente,e compreſo, cioè l' uno ſarebbe due co ſe o molti contro la definizione ($. 2.)ſe foſſe in altrui, fareb be 1 1 1 1 (71 ) be toccato in molte parti, ondeavrebbe molte parti contro la definizione. (§. 2. COROL. L'unonon ècirconſcritto da alcuna coſa, terra, Cielo, materia, ſpazio ec. ANNOT. Daqueſtoargomento lice inferire, che Parmenide cob ſidera qui l'uno, in quanto è dallamente aſtratto da corpi, che ſono in luogo; s'è già oſſervato, che l'ontologiadegli anti chi era fondata su l' idee aftratce dalla materia, dalla forma, dalcompoſto, dagli accidenti; onde queſt'uno aſtratto da corpi, e da lorodipendente non ha alcuna relazione a Dio, ch'è un ente per sè, in sè, infinitocc.. 12. Il moto alla ſoſtanza, ſecondo Ariſtotele, è quando una coſa, pereſempio una parte di terra ceſſa d'eſfer terra, e comincia ad eſſer pianta. Ilmoto alla quantità è quando una coſa, per eſempio un fanciullo creſce nellaſtatura, ed un vecchio decreſce. Il moto alla qualità è quando per eſempio lacarne d unUomo fredda, dura, ed aſpra, li fa da sè calda, molle, liſcia. Pretendeva Ariſtotele, che queſti tre moti dipendendo dalla forza in crinſeca, chefacea cangiare alle coſe la ſoſtanza, e gli acciden ti loro, li diſtingueſſerodal moto locale, nel qual altro non ſi con ſidera, che il paſſaggio da un luogoall' altro: Parmenide, o Pla tone, benchè parli del moto di generazione, ed'alterazione, par ſolo far attenzione, ſecondo l'ulo de'moderni,all'accoppiamento delle parti, e quindi all aumento delle qualità, due coſeaccom pagnate dal moto locale, o di traslazione. Lo conſidera egli in linearetta, oin cerchio, nel qual moto una parte della coſa et forma nel mezzo, e lealtre parti fi rivolgono intorno al mezzo. Vuol poi, che tutto ciò che ſigenera ſi faccia in qualche luogo ſecondo il principio da lui in queſto Dialogoreplicato più volte. Ciò che non è in alcun luogo è nulla. Platone nel Teetetodice per bocca di Socrate: Se dimoſtran eli una ſpecie di moto, o due ſpecie,come a me pare, nondimeno io conſidero che cid non ſolamente appaja a me folo,mo ancora tu ne fii partecipe, acciocchè amendue parimenti patiamo qualunquecoſa face cia meſtieri, ficchè mi di, cbiami tu forſe moverſi, quando alcunecoſa fe mute da luogo a luogo, e nello steſo ſi raccoglie? Teodoro glie loconcede. Socrate ſoggiugne: Dunque fiare una specie questa, ma quandofermandoſi alcuna coſa nello ſteffo luogo s'invecchia, o di bian, ca fi fa nera,o dara dimolle, e ſi altera da certa altra alterazione, son chiameremo noimeritamente queſt' altra ſpecie di movimenti?... Ora dico che fieno due leſpecie del movimento cioè alterazione, la (72 ) la circonferenza. Egli dicecirconferenza in luogo di traslazione in cerchio, per moſtrar che nel pienoogni coſa va in giro., Conſidera poi quì, che nel farſi una coſa vi la unaccoppia mento, nel qual prima una parte fi congiunga a quella che li fa,mentre l'altra parte, che ſi deve aggiungere, è ancora fuori della coſa. L'unonon ha moto di alterazione, nè di generazione. Non di alterazione, perchè ſe ſialtera non è più uno, ac quiſtando nuove qualità; ſe fi genera non è più uno,acquiſtan do nuove parti. Or nuove qualità, e nuove parti fanno molti; dunqueſe l' uno o fi altera, o fi genera, è molti contro la de finizione. IN ALTROMODO. Una coſa non può generarſi o farſi che in un' altra, perchè tutto ciò cheè, o fi fa, è in qualche luogo, ma ſe l'uno non può effer in un altro (S. 11. )nè meno può farſi in eſſo. In ol tre ſe una coſa ſi fa in un altro, non ancoraella è ſe ſi fa. Or quando una coſa ſi fa, una parte è in lei, e una fuori dilei, perchè le parti fi vanno ſucceſſivamente aggiungendo, ma l'uno non avendoparti (5. 4. ) nè può eſſer nè tutto te in sè, nè tutto, nè parte fuori di sè.Dunque non può ge nerarſi. Corol. L' uno non è generabile, nè alterabile, nèpar §. 14. L'uno non ha il moto di traslazione. L'uno non è in luogo (5. 11. )ma la traslazione in linea ret. ta è una mutazione ſucceſſiva del luogo. Dunquel ' uno non eſſendo in luogo ($. 11. ) non può mutar il luogo, ſecondo la linearetta, ma nè meno pud mutarlo, ſecondo la linea circo lare, perchè deveraggirar nel mezzo, e tener fiffe le parti che fi rivolgono intorno al mezzo;ma l'uno non ha nè mezzo, né parte, dunque non può rivolgerſi in cerchio'(. 13.) Dunque le alluno non conviene nè l'uno, nè l'altro, non gli conviene il motodi traslazione. Q. 15. 1 1. 1 (73 ) g. isi Come ſi concepiſce il moto, nelconcepire la traslazione fuc ceffiva del mobile, o ſia il rapportocontinuamente vario della diſtanza del mobile a ' corpi contigui, così ficoncepiſce la quie te nel concepir il rapporto coſtante di diſtanza a ' corpiconti gui; quindi nel moto, il corpo va ſucceſſivamente occupan do diverſeparti dello ſpazio, e nella quiece occupa le ſteſſe par ti dello ſpazio. $. 16.Luno non è nè in quiete, nè in moto. L'uno non è in sè, nè in altrui (9.11. )ma ciò che è in quiete, è ſempre nello ſteſſo, ciò che li move è ſempre in altrui. Dunque ſe l'uno non è in ſe ſteſſo, nè in altrui, non ſi ripoſa, nè ſimuove. $ 17 Platone ha ſin ora conſiderato l' uno per eſcluder da lui la ragiondi tutto, di parte, di principio, di fine, di mezzo, di figura, di luogo, dimoto, cioè per eſcluder dall' uno tutte le relazioni che appartengono allaquantità, come la più nota, e più facile. Senofane pur provava, che l' uno erainfinito, im mobile, non ſi trasfigurava nella poſizione, non s'alterava nel laforma, non fi milchiava con alcri. Non è egli molto veri ſimile, che egli nearecaffe le ſteſſe ragioni, che poi Parmeni de più fteſe, ed affottiglid? PaſſaParmenide ad eſcluder dall' uno le relazioni dell'ente che appartengono allaqualicà, di cui le prime ſono l'identità e la diverſità. Non premette Parmenidealcuna definizione dello ſteſſo, e del diverſo; come fece del tutto; daiPittagorici (a ) impard, al dir del Patrizio, che l'identità, e la diverſitànon devono conſiderar fi come paſſioni dell' ente, ma come generi ſecondarj, idi cui primi ſono il moco e la quiere. Ariſtotele all'incontro riduce l'identità a una certa unità, e dichiara che ella come la diverſità appartienealla ſuſtanza, poichè fteſse ſono quelle coſe che con vengono, o nella materia,o nella ſpecie, o nel numero, o nel Tomo II. k gene (a ) Diſcuſ. Perip. T. 2.p. 207. (74.), genere di cui una è la ſoſtanza. Platone eſtende l'identità, edi verſità alle qualità, e da lui impårarono i matematici a dire, che leragioni o proporzioni, che ſono le ſteſſe con una ſtella, ſo no le ſteſſe traloro; e non ſi dice pur tutto giorno lo lteſto grado di calore, di lume ec. e.parimente ragioni diverſe, di verſo grado di calore, di lume ec. Dunque nonalla ſola fo ftanza, ma alla quantità, alla qualità, ed agli altri predicamenti apparciene lo ſtello, e il diverſo. Inliftendo il Wolfio su le nozioniſcolaſtiche, dà il criterio per diſtinguere lo ſteſſo dal diverſo. Quelle coſe,dice egli, fou no le stelle che ſi poſſono ſoftituire. ſcambievolmente ſalvoqua lunque predicato, che loro aſſolutamente, ſotto qualche con dizioneconvenga; ſicchè fatta la fortituzione, la coſa reſta ta le, come ſe non foſſeſtata ſoftituita. Se in una bilancia, in cui ſang equilibrati due peſi, incambio di un peſo, d' una certa grandezza, io ne ſoſtituiſco un alıro, in modoche l'equilibrio Loro non lia tolto, queſti due peſi, in quanto peſi, nulladiſtin guendoli: ſi chiamano gli ſteſſi. Se nel peſo che è prima nella bilancia,vi foſſe una certa figura, ed un certo colore, eun cer to grado di calore, e difreddo, ed anche un certo odore, e tutto ciò appuntino ſi ritrovalle nel peſoche ſi ſoſtituiſce, que fti due peſi non diſtinguendoſi, e nel peſo, e nell'altre qualità li chiamano gli fteſi; Lo ſteffo in numero è ciò che ſi affermadi ſe ſteſſo, o cui ripugna d'efiftere due volte; nel dirſi, queſto triangolo èque ſto triangoló, ' ſi predica lo ſteſſo triangolo di ſe ſteſſo, ondeconvenendo la ſtella eliſtenza al ſoggetto, e al predicato, egli è manifeſto,che il triangolo in quanto è nell' uno, e nell' altro non ha doppia eſiſtenza,mala ſteſſa, I diverſi poi ſono quelli, che ſcambievolinente non poſſonoſoſtituirfi, falvo ogni predicato che all' uno, o all' altro aſſo lacamente ocondizionatamente convenga. Così nel caſo della ſoſtituzione de' peſi dellabilancia, ſe un peſo nel ſoſtituirſi all' altro cangia d'equilibrio, il peloſofticuito è diverſo dal peſo, di cui preſe la vece; egli è diverlo in ragiondi peſo, benchè per altro poteſſe eller lo ſteſſo nella grandezza, nella figuranel calore, ed altre qualità. Poſſono dunque le coſe eſſer le ftel ſe in unpredicato, e diverfe negli altri; quindi ſi può diſtin guer lo ſteſſo, e ildiverlo in affoluto, e in relativo; ſono aſ loluti, ſe le coſe convengono intutti i predicati, o diſconven gono falva però la loro eliſtenza; ſono relativile convengono in alcuni predicati, ma diſconvengono in altri. E'cid neceſſa riodi ben avvertire, perchè in queſto Dialogo fi prende lo ſteſ 1 1 ſo, 1 (75 ) fo,e. il diverſo in queſti due fenfi. Qul Parmenide perd pren de aſtrattamente lacoſa, perchè a lui baſta, che l'identità, e la diverficà fiano affezioni, ogeneri delle coſe non preſe in sé, ma relativamente all'altre, baſtando queſtafola relazione per eſclu derle dall' uno; quindi può facilmente dimoſtrarſi,che l'uno non è, nè a se, nd ad altrui lo ſteſſo, perchè nel ſuo concertoaſtrat tiffimo efclude ogni comparazione; ma Parmenide in alcro modo lodimoſtra, rappreſentandoſi alla mente per via d'una nozione immaginaria, che l'uno prima è uno, e poi per forza della com parazione egli è molti. Ciò ſi rendeſenſibile col diſegnar l'uno col ſimbolo aritmetico I, e poi aggiongendovi A, oqualche alera lettera, onde egli fia prima i, indi 1 + A. S. 78 L'uno non è loſteſſo, nè diverfo a sè, nè ad altri. Se l'uno foſſe da fé ſteffo diverfo,ſoſtituendoſi l'uno per l'uno dove prima della ſoſtituzione fi concepiva i,dopo della foftitu zione si concepirebbe 1 + A, dunque non più i control'ipoteſi. Se fia lo ſteſſo ad altrui egli farà quello, cioè 1 + A non cið cheè, od uno, il che di nuovo è contro l'ipoteſi.. 19. L'uno non è diverſo, nè daaltrui, ne da ſe ſteſſo. L'uno convenendo con tutte le coſe, perchè d'ogni coſaſi dice, uno non è diverſo da effe, che in virtù di qualche predicato; dun quein quanto non è più uno; dunque non può eſſer diverſo dall' altre cofe. Non èla ſteſſa la natura dell' uno, e dello ſteſfo, perchè quando una coſa li fa laſteſſa ad aleuna non ſi fa uno; il colore di A per efempio ſia lo ſteſſo, cheil colore di B, non perciò mai A è B, perchè le due coſe colorite comparandoſi,benchè con vengano nel colore, e in queſto fieno uno, non perd convengono nell' çliſtenza, Se gli Itelli non ſi conofcono, che per la Toſti tuzione, gliftelli convengono bene ne'predicati; ma ſono fem pre due. Dunque quando unacoſa ſi fa la ſteſſa con l'altra, di due non ſi få uno, ſe non inquanto ſiconcepiſce, che con vengono, o nella quantità, o nella qualità ec. ma nonperchè convengono non ſono due; dunque o l' uno paragonato all' uno ſi fannodue, e cosi l'uno non è uno, o reſtando uno non k 2 ſi può (70 ) la pudfarſoſtituzione. Dunque non pud dirſi, che l' uno fia lo ſteſſo a ſe ſteſſo. 20.Parmenide paſſa a comparar l'uno coi fimili, e diffimili. Aris ftorele dice,che i ſimili ſono quelli che patiſcono lo ſteſſo, ei diffimili quei chepariſcono il diverſo; de' primi una è la qualità, dei ſecondi è diverſa laqualità,onde egli ripone i ſimili, e dilli mili ſotto l'identità, e diverſità,il che imparò da Platone nel Filebo (a ) e più facilmente dal Parmenide, ovePlatone defini ſce il ſimile, per ciò cui adiviene patir lo tego, il diffimile,ciò cui adiviene patir il diverſo. Conſidera quì Parmenide le.qualità, comeattributi o modi che ſi ricevano nel ſoggetto, il quale nel riceverle in cercaguiſa paciſce; ſono queſte nozioni immaginarie, come quella della ſoſtanza. Suqueſte orme Parmenidee, il Wol fio definiſce i fimili quelli, in cui le ſteſſeſono le coſe, per le qua li doverebbono diſcernerſi, onde ſecondo lui, lafimiglianza è l' identità di quelle coſe per cui dovrebbono tra lorodiftinguerli. Se in due volti per eſempio io ritrovo nelle parti gli ſteſſilinea menti, ne' lineamenti gli ſteſſi gradi de' colori ec. in fomma ſe ioritrovo, che le ftelle fieno tutte quelle qualità, per cui dovereb bonodiſtinguerſi, i due volti ſono ſimili; diffimili all'incontro ſono quei volti,in cui diverſe ſi ricrovano le coſe per cui tra lo ro fi diſtinguono, che vuoldire i lineamenti delle parti, le figu la collocazione, le grandezze. Il Wolfiofi fece ſtrada con que ſta definizione a definir i ſimili matematici, benoſſervando, che le loro proporzioni, benchè abbiano per fondamento ilquanto, firiducono al quale. re, S. 21. L' uno non è fimile nè diffimile ad alcuno, o ase, o ad altrui. Simile a quello cui adivienelo feſto (. 20. ) ma l' uno eſclude lo ſteſſo (S. 18. ) Dunque efclude il ſimile. L’uno ſe riceve alcuna coſafuor di quello che è l' eſſer uno, pa tiſce d'eſſer più l'uno, perchè egli èl'uno, ed inſieme la coſa che pariſce, onde almeno egli è due o molti; dunquenon è più uno; dunque ſe l’uno non paciſce d'effer lo ſteſſo, o loco, o conaltri, non può eſſer a ſe ſteſſo, o ad alcri ſimile, (a ) Patriz. Diſcuſ.perip. p.202. Il (77 ) Il dillimile è quel che pariſce diverſità (5. 20. ) mal'uno non può parire diverſità, dunque non è, nè diverſo da lui, nèda altrecoſe, altrimenti non ſarebbe più uno; dunque l'uno non è diſli mile, nè a ſeſteſſo, nè ad altrui. 1 l. 22 Concluſo che ha Parmenide non convenir all'uno,nè l'iden: tità, nè la diverſità, nè la ſimiglianza, nè la diffimiglianza, paſfa a ricercare ſe gli convenga l'eguale o l'ineguale, due pro prietà dellegrandezze comparate P une all' altre; l'eguale im murabilmente ſta nel mezzo,da cui l' ineguale allontanandoſi per ecceſſo ſi chiama maggiore, e per difettominore. L'egua le paragonato all'eguale ha le ſteſſe miſure, paragonato al maggiore ha meno miſure, e ne ha più paragonato al minore. Ra gionando Parmenidecon Socrate ad bominem, fi ferve del ter mine di participare, che non èallegorico, ove ſi tratta di par ti. Offervo che non miſurandoli, ſecondoPlatone, che con l'uni tà, e col numero, è manifeſto, che la miſura è ſecondolui quan tità; pur gli attribuiſce lo ſteſso, e il diverſo. g. 23. L'uno non è,nè eguale, nè maggiore, nè minore. Non participando, nè dello ſteſso, nè deldiverſo, non parte cipa mai, o le ſteſse, o le diverſe miſure, in conſeguenzanon è nè eguale, nè maggiore, nè minore. 6. 24. Come ſi miſurano le grandezzepermanenti, così ancora ſi mi ſurano le ſucceſſive, le quali paragonare l'uneall' altre, compete loro lo ſteſso e il diverſo, cioè il più, e il meno. Sidice che due Uomini hanno la ſteſsa età, quando è miſurata per lo ſteſso numero di rivoluzioni ſolari, e che hanno maggiore o minor età le ella ſiamiſurata per maggiori o minori rivoluzioni ſolari. L'antichità, la vetuftà, lanovità ſono relazioni degli enti ſuc ceflivi per rapporto alla loro eſiſtenzafucceffiva; antico ſi dice quello che da lungo intervallo di tempo e prima d'unaltro; nuo vo quel che ora è, e non fu che già poco tempo prima d'un al tro; ilgiovane, il vecchio, ſono propriamente le differenze dell' età degli Uomini,mas'attribuiſcono per mecafora a curce le coſe. 9.25. (78 ) f. 25. L'uno non èpiù vecchio, più giovane di ſe ſteſso, o dell' altre coſe. L ' uno non pudparticipare, oo delle ſteſse,, o di maggiori o minori miſure degli entiſucceflivi, perchè non può partici pare dello ſteſso, e del diverſo; ma quelch'è più vecchio, partecipa di maggiori miſure, quel che è più giovine diminori, dunque ec. g. 26. Per ben intendere come uno nel farli più vecchio dife fteſso o d'un altro ſi fa più giovane, mi è neceſsario trasferire alcu nenozioni della ſeconda ipoteſi, ed aritmeticamente ſvilupparle. g. 27 6 3 5 4 Seil rapporto del maggiore al minore crefca per l'aggiun ta agli antecedenti, ea' conſeguenti d'una grandezza eguale, il rapporto ſempre decreſce. Sieno inumeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, i quali ſucceſſivamen te creſcono per l'aggiuntadell'unità, èmanifeſto che (a ) > 4 $ Si prendano i quozienti o valori delleragioni. Il valore della ragione di = it; il valore di = ito il valore di = i +.Or tal eſsendo la ragione qual è il fuo valore ſe I +1/2 > it it ec. come èmani 3 feſto fard > 5 ec. Or rappreſenti A C l' età d'un 3 fanciullo di 3anni, e B D l'età d'un | fanciullo di due anni, s' aggiunga alla А С F primaetà un anno, ciod ad " A C. s'ag giunga CF, e alla ſeconda età B D SA D G.aggiunga un altro anno o DG. Onde s' averà la ragione di }; li vada aggiungendoſucceſſivamente alle due età un'anno, ed indi un'anno, e li averanno le ragioni di e di. Egli è manifeſto, che il fanciullo di tre anni è più vecchio diquello di due, ma nel creſcere all'uno, e all' al > 3 4 Ā 1 B tro (a ) Ilſegno è quello del maggiore, Il ſegno di < del minore. Il ſegno è quellodell'eguale. (79 ) tro un' anno la ragione che ne riſulta di è minoredell'altra; molto minore è quella di, e molto più minore quella di onde ſebbenil primo fanciullo ſi faccia ſempre più vecchio dell'altro, contuttociò perl'accreſcimento dell'egual quantità ſi fa più gio vane relativamente, perchédove nella prima ragione la differen za era nella ſeconda è minore di 1, equindi, ſempre mi nore. Egli è vero dunque, che un fanciullo nel farli' piùvecchio d'un altro li fa ancora più giovane. Se non ſi compari l'età di duefanciulli, ma ſi conſideri folo l' erà di uno, che ſempre riſpetto a ſe ſteſsocreſce di un'anno, egli è manifeſto, che per queſto eguale accreſcimento, neldecreſcer ſempre le ragioni degli anni cra loro comparati, lo ſteſso fanciul lonel farſi più vecchio di ſe ſtefso, fi fa ancora più giovane. Si vede quindi,che nel farſi il più vecchio dal più giovane, fi fa cid dal diverſo, e che nonè diverſo, ma'ſi fa. Corol. Lo era, lo efser ſtato, il li faceva, ſignificano imodi del tempo paſsato; il ſi farà, il ſarà, e ſarà per farſi, i modi delfucuro o dell'inanzi; l'eſsere, il farſi, i modi del preſente. f. 28. L'uno nonè in cempo. Se l'uno fofse in tempo participerebbe delle miſure del tempo;dunque or ſarebbe più giovane, or più vecchio, ma queſto non pud eſsere, comes'è dimoſtrato (9. 25. Dunque ec, IN ALTRO MODO. Quel che è in tempo nel farſipiù vecchio, ſi fa più giovane di ſe ſteſso, (§. 27.) ma l'uno non può farſipiù vecchio, nè più gio vane di ſe ſteſso, perchè non può farſi, nè una cola,nè l'altra (9.25. ) Dunque non è in tempo. Il più giovane che ſi fa dal piùvecchio è diverſo da lui, e non è ma ſi fa, ma l'uno non può ricever il diverſo(§. 18. ) Dunque non può farli dal più vecchio il più giovane; dunque non è intempo. Il più giovane non ſi fa dal più vecchio, nè in più lungo tem po, nè inpiù breve di fe fteſso, ma ſempre nell'egual tempo con le ſteſso, o fia, o ſiaſtato, o ſia per dover eſsere; mą l'uno non è ſuſcettibile dell'eguale (§. 23.) Dunque nè meno dell' egual tempo; dunque non avendo le paſſioni del tempo nonè in cempo.. 29. (80 ) S. 29. L'uno non partecipa, nè del preſente, ' nè delfuturo nè del paſſato. L'uno non eſſendo in tempo non può partecipare del tempo, ma le paſſioni del tempo ſono, il preſente, il paſſato, il futuro. ($. 27.) Dunque non le partecipa. Corol. Se l'uno non è partecipe di niun tempo, nonfu mai, nè ſi faceva, nè era, nè ora è fatto, nè fi fa, nè farà. 8. 30. Ogniente, o ciò che è partecipe di eſſenza, è, ſecondo Plato ne, o nel tempopreſente, o ſarà nel futuro, o fu nel paſſato. Nel Timeo egli dice, che Dio perfar il tempo fluente nel numero, fece un'immagine dell'eternità. Dunquel'eternità fiſſa in ſe ſteſſa non contiene, che il preſente, e ciò pur dicono iTeolo gi nel diffinirla con Boezio, una poſſeſſione tutta inſieme di una vitainterminabile. Negando dunque Parmenide, che il pre ſente competa all' uno, glinega l'eternità, onde è egli evidente che non parla di Dio, ma ſolo d'un entedi ragione, dal quale per l' astrazion della mente eſclude tutto ciò cheinvolve rela zione a qualche coſa, ed anche a lui ſteſo. Dall' altra parte, quiParmenide non eſclude dall'uno, ſe non cid che appartie ne per lo più alle coſecorporee e viſibili, il tutto, le parti, il luogo, l'eguale, il maggiore, ilminore, la generazione, la traslazione, le differenze del tempo; e ciò che dicedello ſteſ. fo, e del diverſo, del fimile, e del diflimile, che pur conven gonoalle coſe incorporee, lo ricava da ciò che ha negato ne' quanti. 1. 31. L'unonon è, o non ha eſſenza. L'uno non partecipa del preſente, del paſſato, delfuturo (9.29. ) ma ciò che ha effenza partecipa dell'uno, o dell'altro ($. 30.) Dunque l'uno non ha eflenza. Annot. Dall'uno conſiderato preciſamente comeuno, cioè a dire oppoſto amolti, ſi debbe eſcludere, oltre l'eſſenza attuale,an cor la poſſibile, perchè la poſſibilità come fonte, e principio dellarealità porta ſeco qualche relazione a cid che eſiſte, é dall' uno ognirelazione deve eſcluderſi.; molto più le relazioni dell' uno all'ente, diragione che chiamali intellettuale qual è il Lo-. gico, il metafiſico, ilmatematico, e l'altre relazioni ancora ché aver poteſſe all'ente immaginarioancor chimerico.. §. 32. tra coſa Primafi concepiſce la, non ripugnanza deipredicati delle co ſe, ed è l'eſſenza, e queſta non ſi dice d'altre coſe, od'al tre eſſenze, ma bensì o gli attributi, i modi, e le relazioni fi diconodeſsa; cal è la definizione logica, che Ariſtotele diede della ſoſtanza,chiamandola ciò che non ſi predica d'al ma che tutte le coſe ſi predicanod'eſsa. In que ſto ſenſo l'eſsenza nel ſuo concetto aſtratto, non differiſcedal la foſtanza, che in quanto queſta ſi riferiſce a ſe ſteſſa, ed agli aleride' quali è ſoftegno, per il che ſi dice, che ella non ha contrario, e non ècapace di più, e di meno. Se l' uno non può predicarſi dell'uno, o di le ſteſſo,per non radoppiarlo o farne due o molti, egli è manifeſto, che non è ſoſtanzato più ſe fi conſidera col Wolfio, che nella nozione della fo ſtanza, v'èqualche coſa d'immaginario, perchè ella fi rappre ſenca alla fantaſią, come unvalo od altra coſa, che in sè ri. ceve gli accidenti. $. 33 L'uno non èſoſtanza. L'uno non ha eſſenza. (S. 31. ) Dunque non ha ſoſtanza ($. 32. ) ſ.34. La ragione è propriamente quell'atto della mente, che da una coſan'inferiſce un' alera, od è ancora ſe ſi vuole la con neſſione delle veritàuniverſali; la ſcienza è la cognizione cer ta, ed evidente delle coſe, ed ètutta opera della ragione che deduce una coſa da un' altra. Nell' attribuireuna coſa ad un altra, ſe li ha qualche cimore, che ad efla ſi poſſa attribuirel'op poſto, ſi ha della coſa opinione. Col ſenſo poi non ſi percepi Icono, chele coſe ſingolari, o determinate in ogni parte, e quindi compoſte di molti. Daqueſte definizioni e manifeſto chenegli oggetti della ragione, della ſcienza,dell'opinione, del Tom. II. I fen ((82 ). fénfo s } includono moki, çd - inoltre che ogni coſa, che.0.4 ſénte, o su cui di ragiona fcientificamente, odopinabilmente, ha un' eſſenza attuale o poflibile; falfa o vera. 1 $. 356 Dell'uno non li ha ragione, ſcienza, opinione, ſenfo. Quefte coſe includono molti, edipendono dall'ipoteſid' un eſſenza (§. 34. ) ma l' uno non ha eſenza (S. 31. )e non in olude molti (.9.,2. ) Dunque ec, g. 36 Non ſi dà nome ſe non alle coſe,della cui eſſenza, o per ragione, o per opinione, o per ſcienza, o per ſenſo ſiha un ' idea o chiara, od ofcura, o diſtinta, o, confula, o miſta di que Itedifferenze. S. 37... L'uno non ha nome. L'uno' non ha effetiza:(: 34:) Dunquel'uno non ha nome. 1 §. 38. Ragruppando in poco ciò che ſin ora ſi è detto, ſipuò for mare tal fillogismo. Dal concetto aftrattiflimo dell' uno ſi de vono,eſcluder i molti di qualunque genere effi fieno; ma cid che appatriene allaquantità, alla qualità; alla refazione ec? vi s'includono imolti; dunque devonoqueſti eſcluderſi dal.concet to aſtrattilfino dell'uno,. ] Se fi diceffe, checosì concludendo ſi confonde l'uno col nul la, manifeſto è l'inganno, poichè ladefinizione del nulla è, che egli non abbia nozione alcuna o poſitiva, onegativa, ciò che elclude dal nulla ogni realtà. Quando'io dico all'incontro,l'uno non é molti, non tolgo a lui ogni realtà, benchè eſplicitámen te io nonvi rifletta. Io ſto più immobilmente che poſſo affil ſo su l'uno, in quantos’oppone a molti, e in queſta conſide razione preſcindo più che poſſo dalconſiderar l' uno, o per rap porto all'ente, o per rapporto al mio penſiero;noi poſſiamo, come accennai, più ſentire, che eſprimere queſte preciſionimentali, e momentanoe, ma 'non laſciamo di fentirte, e le fencia ·mo (83 ) mo ſepoffiamo eſprimerle in qualche modo, e farle' intendered agli altri; nè peraltro la fcola Eleacica; ed indi Placone le pro poſe, che per addeſtrar lamente ad inveſtigar l'idee delle coſe. Era necelfario fciegliere per eſempioquell' idea, in cui la pre ciſione arriva all'ultimo grado, ove pofla maigiungere la men te umana. Non ſi conoſce mai bene la natura', ' ed'i precettidella arte, che l'imita, fe non ned maffimo. Io dimando al Lettore; che leggeattualmente il Parmenide di Platone, e lo confronta col mio comentario, fèaltro faccio in effo, che ſviluppare il fenſo.ovvio det tefto: Abbia pur Pro clo,e gli altri Placonici, e Gentili, e Criſtiani confiderato queſto Dialogo, noncome ontologico, ma come Teologico, io ril pettando, e la dottrina, el'autorità loro', dirò che la mia Spiegazione ontologica non impediſce, chedegli intelletti più fublimi del mio, teologicamente non l'inalzino a coſemaggio ri, come fece il Cardinal Befarione, applicando a queſto Dia logo ladotrrina del preceſo S. Dionigi Areopagita. Si può ri leggere avendo preſentetútra l'intiera ſeſſione, quanto ivi diſ fi appoggiandomi alla dottrina di S.Tommaſo: Dio'è un en te fingolariſfimo, e nell' applicarvi quel che convieneall' en te di ragione; biſogna ftar attenti che non ſi confonda l' uno tonl'altro; la merafíſica degli antichi è la ſteffa che la me tafifica deimoderni; mia nel riferir la prima ' alle coſe, queſte includevano Dio, che gliantichi non ſeparavano dalla mate ria, che per preciſionedi mente, là dove laſeconda conſiderando fe coſe non ha a Dio, che un'analogia molco lontana,perchè fi diſtingue eſenzialmente, é realmente dalle ſteſſe. Se l'uno è, qualicoſe adivengono intorno ad eſſo. I. I. Nom On ſi ricerca ſe faecia meſtieri,che ſucceda- un cert' uno, ma ſe vi ſia l'uno; o pure ſoſtituendo la nozioneimma ginaria ſe l'uno partecipi l'eſfenza. Dall'ipoteſi così propoſta nefiegue', che' l'uno non è la pro: pria 'eflenza, o che l' effenzà, e l' uno nonſono gli ſteſi con: cerci z chi dice elfenza, dice preciſamente la: nonripugnanza dei predicati, e chi dice uno, dice 'non molti.; Nel cratcat queſta:ſuppoſizionë, Platone comincia a frami I 2 fchia (84 ) ſchiare all' aſtrazionile nozioni immaginarie più che di ſopra Queſto fa ſovente l'oſcurità del teſto,perchè per intenderlo ci sforziamo toſto a concepire ciò, che non è che un'imaginazione ed imaginazione tallora falſa, da cui li deduce una contraddizione, nèſempre però vera, ma apparente, il che raddoppia l'ab baglio, ſe non vis'attende; manifeſteranno gli eſempi ciò che io dico, in tanto mi ſia lecito dicontraſegnare con due ſimboli diverſi, A, e B, i due concettidell'ente, edell'uno. Nel farne il compleſſo A + B io rappreſento un tutto che ha dueparti, che io tra loro ſeparo con la mente, per ragionarne più diſtintamente fi2. Se l'uno è, ogni parte di queſto tutto (uno è:) può dividerſi in infiniteparticelle. Si prenda la particella uno, e ſi concepiſca come ſeparata per unmomento dall'altra particella ence, poichè per la fuppoſizio ne l'uno è, egli èmanifeſto, che conſta di due particelle, uno ed ente. Di queſto nuovo compleffoſi prenda la particella uno, e queſta per la ſteſſa ragione ſi dividerà in duealtre, ente ed uno, e così all'infinito. Or ſi prenda l'altra particella ente,e poiché ogni ente è uno, ſi dividerà queſta particella in due altre, le qualidi nuovo fi divideranno, e così all'infinito; dunque ogni particel. la delcutto uno è, ovvero è l'uno, ſi divide in infinite particel le all' infinito.Così può ſenſibilmente rappreſentarſi. Ente uno А + B 1 Ente uno uno ente 2 a +2b 2A + 2B ente uno uno | ente 3A ente, uno uno | ente 46 4A 4B 3. a 36 3B 1uno, Come A + B rappreſenta il primo compleſſo immaginario della e dell'entecosì 2a + 2b rappreſenta il ſecondo com pleſſo immaginario dell'uno, edell'ence dedotto dall'ente, o da A, e parimenti 2A + 2B ſignifica il ſecondocompleſſo imma ginario dell'uno, e dell'ente dedotto da B. ANNOT. Qui Platonefuppone darli reciprocazione tra le due pror (85 ) propoſizioni l'uno è, èl'uno, nella prima delle quali l' uno è il loggetro, cliente è l'attributo, enella ſeconda l'ente è il ſoggetto, e uno l'attributo. Perchè legitimamente ſiala reciprocazione del le propoſizioni, biſogna che il ſoggetto ſia tanto ampio,quanto l'attributo, onde può reciprocarſi la propoſizione. Il triangolo è unafigura di tre lati; nell'altra ogni figura di tre lati è un trians golo, ma nongià ſi reciproca la propoſizione, ogni ternario è nu. mero, perchè non ogninumero è ternario. Il non aver avvertita la legge della reciprocazione fececader in molti parallogismi tallora i Geometri. Corol. Poichè ogni ente è uno,l'uno ſi moltiplicherà come l'ente, onde potrà dirſi, che l'uno è infinito, oche l'uno è mol ti. Queſta è la prima contraddizione di queſt' ipoteſi, ma ècon traddizione immaginaria od apparente, perchè l'uno per sè non è molti, ma èmolti per accidente, cioè perchè gli accade di mol tiplicarſi, ſecondo gli entiche lo partecipano, onde non predi candoſi dell'uno nel tempo ſteſſo, e ſecondolo ſteſſo, gli oppoſti, non ha in sè vera contraddizione. g. 3. Platones'inoltra con le nozioni immaginarie. Conſiderando l? uno, in quanto partecipedi eſsenza, lo prende ſecondo ſe ſteſso con l'intelligenza, ſpartato da quellodi cui diciamo che ſia par tecipe, cioè dell'eſsenza. Ciò vuol dire, chedell'ente, e dell'uno Platone fi fa quei due idoli caratterizzati per A, e perB. Nel dirli che li prende l'uno coll'intelligenza ſpar; tato dall'ente,s'allude manifeſtamente all'aſtrazioni della mente. $. 4. 1 L'eſsenza o l'ente,e l'uno ſono diverfi. Alcro è l'eſsenza, ed altrol'uno (: 32. Sez. 2.)Dunque uno in quanto uno è dall'eſsenza diverſo, e l'eſsenza in quanto eſsenzaè diverſa dall'ano; dunque l'uno, e l'eſsenza ſono diverſi; Co sì puòilluſtrarſi tale ragionamento. L'ente o l'eſsenza in quanto eſsenza include lanon ripugnan za dei predicati coſtitutivi; l'uno in quanto uno include l'oppoGizione ai molti, ma queſti due concetti tra loro non convengo no; dunque ſonodiverfi. 8. 5. (86 ) $. s. L'eſsenza, l'uno, e il diverſo fanno tre concetti otre coſe trx loro diverſe. S'è già dirnoftrato, che l'uno, el ente non terminando lo ſteſso concetto ſono diverſi tra loro, ma il diverſo non includendonel ſuo concetto, che la non convenienza, fa un concet to diverſo, ed inconſeguenza una coſa diverſa dall' altre due; dunque l'eſsenza, l'uno, ildiverſo fanno tre coſe diverſe.. 6. Si rappreſenti l'uno per A, l'enre per B, eil diverſo per C ne riſultano quindi. Le combi- FA B7 In ogni combi-7 Tre poieſsendo le combina nazioni di nazione vie zioni v'è ancora A, B,CAC uno in dueErre volte uno? in ogni com uno in due tre volte due E binazione В С! uno indue tre volte tre Abbiamo dunque dedotto da A, B, C, o dall'ente, dall' uno edal diverſo il 2.primo pari, il ' tre primo diſpari, dae volte 3 parimentiimpari, 3 volce 3 imparimenti: impari. Sipuò an cora dedurre due volte dueparimenti pari', e queſte ſono tutte le ſpecie dei numeri. Combinandoſi il 2 il3 due volte, tre volte e fin quattro volte, ma non altre, ſi compongono tutti inumeri: fino al dieci. It 3* 2 + 2 = 4 2 + 3 2 + 6 = 3 ti 3 2 + 2 + 37 2 + 1 +2 + 2 = 3 + 3 + 2 3 + 3 + = te: 2 + 2 + 2 +19 1 + 2 + 2 + + 3 = I + 2 + 3 + 4 =10 II 10 è fatto dall'ı, e dal o, e ſignifica ', che il primo articolo deinumeri termina alla prima decina; fe ſucceſſivamente alla de cina ſi aggiungel'i, il 2, il 3. ec. ſi arriva alla ſeconda decina, e collo ftelso metodo allaterza, alla quarta ec: fino al 100, che è la decima decina da cui ſi va fino a1000, o 10 volte 1oo ec. I Pita (87 ) I Pittagorici chiamavanol yno il finito,come quello che li mitava l'infinito o l'indefinito ad una tal ſpecie o forma:dot trina, dice nel Eilebo Platone, la quale diſcende dagli Dei; queſta è, thetutte le coſe tengono in loro fteſſe il termine, o l'infinito innato; opiuctoſto l ' indefinito. Lo rappreſentavano nella materia i Pittagorici, e loſimboleggiavano nel 2, o nel binario, poichè ogni coſa ſteſa è divit bile indue e ognuna delle parti in altre due,; e così all'infinito. Quando a queſtoinfinito s'aggiungea luna, che vuol dir la forza o la forma ſe ne faceva ilcompoſto che era l'altro principio, di cui par la Platone; queſto compoſtodețerminato a una ſpecie dalla for ma componeva un tutto, in cui vera principio,mezzo, e fi në. Lo diffegnavano i Pictagorici per il 3, e lo chiamavano numeroperfecto, medio, e proporzione; oſſervò S. Agoſtino che numerando fino al 3,, €rapportando prima il 2 all'1, ed indi al tre nel comporſi la proporzionecontinua, aritmetica fi forma per la replicazione del 2 il 4, numero che immediatamente luccede al 3, ciò che non ſi ha negli altri numeri, per chè cominciandola proporzione aritmetica dal.2 chi replica il 3 non fa il numero cheimmediatamente lo ſegue od il 5 ma il 6; nel continuare la proporzione conqueſto metodo i numeri riſultanti ſempre più ſe n'allontanano. S. Agoſtino perciò offerva co'.Pittagorici, che la perfezione dei numeri è ne quattro primi,in cui gli eftremi ſono intimamente uniti ai mezzi, e i mezzi agli eſtremi.Quindi le più perfecte conſo nanze muſicali, ſono fatte dei primi quattronumeri 2 3-4, 1 ' 2'3? ſ. 7. Se l'uno è, egli è ogni numero. Nella combinazionedell'uno, dell'ente, e del diverſo fi de ducono tutti i numeri (9. 6.), Dunquenell' uno, in quanto è, vi ſono tutti i numeri,; Carol. Il numero eſſendo moltinell' uno, in quanto l'uno è., egli contiene moltitudine, e perchè i numerifono infiniti nell uno che è, vi farà una moltitudine infinita. COROL. 2. Ilnumero in moltitudine infinita, eſſendo inclu ſo nell'uno che è, farà eglipartecipe d'eſſenza. Si prenda la ſerie naturale de numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7ec. fino al oo unità eterogenea alla prima, e da cui fi comincia l'alcra ferie200, 30, 40, fino 200 = 60 altra unità eterogenea, da cui comin (88 ).cominciali, un' altra ſerie 2 co ', 300'ec. ſino a o, e cosi all' infinito. Sedi queſte tre ſerie ſe ne fa una ſola ſi ha 1.2.3.4.5 ec. co '... 00?... oo...,fino ad in cui ſi potrebbe cominciar di nuovo la numerazione. Cominciando dauno, li può con le frazioni continuar la ſe. rie decreſcente con lo ſteſſoordine che l'altra, onde 1 I 1 ec. • • ec. fino 3 4 5 I 1 I I I wec. 4Combinando la ſerie dei finiti intieri, rotti, e degli infiniti matematici, eimmaginarj, fi ha tutta la ſerie. ec. 1.2.3.4 ec. co oo oo ' ec. 0° 5 4 3 2 Inqueſte eſpreſſioni non v'è errore, purchè non s' attenda, che alla proporzionedelle quantità, nè ſi realizzino i ſimboli. Ma non biſogna credere, che lanumerazione ſia terminata, po tendoſi concepire, e tra gli intieri, e tra rotti,e tra gli infi. niti dei mezzi proporzionali, i quali ſono, come ben prova ilBa rovio, veri numeri (ſe ben noi non poſſiamo eſprimerli ) perchè ſimboli divere quantità, come i numeri, ointieri, orotti, e gli infinitamente grandi,egli infinitamente piccioli. Platone, al dir d'Ariſtotele, poſe i due infiniti (a) magnum et parvum, e queſti, come ben ancora lo riconobbe il P. Grandi, ſonogli infinita mente grandi, e gli infinitamente piccioli dei moderni Geome tri;infiniti replico immaginarj, de' quali con tanta chiarezza trattò il Wolfionell'Ontologia, ſgombrando tutte le difficoltà' che v'oppoſero coloro, che nonben inteſero queſte due ſpecie d'infiniti Platonici, caratterizzati da profondiGeometri con tan to utile della Geomecria, della Mecanica, ed altre parti delleMatematiche. Queſti due infiniti di Platone non ſono diverſi dai grandiflimi, emenomiſlimi, di cui qui parla. 8. 8. In quanti luoghi è l' ente, in tanti èl'uno. Se l' uno è egli accompagna ſempre l'ente, ma non v'è ente, che non ſiain qual che luogo (9.12. Sez, 2. ) Dunque in quanti luoghi è l'ente, in tanti èl'uno. a ) Plato vero duo infinita magnum et parvum. Arift. 3.Phiſ. c.4. §. 9: (89) g. 9. Se l' uno è, non ſolo ' egli è l'uno, ma un certo uno. Ogni enteſingolare partecipa dell'ente, dunque dell'uno; dunque come ogni ente ſingolareè un certo ente, ogni ente ſingolare è un certo uno. ČOROL. Si compartiſcedunque l'uno, non ſolo con le coſe in genere, ma con le coſe ſingolari, ondev'è l'uno, e il tal uno, e a queſto compete, come all'altro, eſfer molti,perchè vi ſono molti enti ſingolari, e compete loro il luogo degli entiſingolari. g. 10. Se l'uno è, egli è un uno che è uno, e cert' uno, e mol ci, eparti, e finito, e in moltitudine infinito. Egli è uno, e cert'uno, ſeaccompagnando gli enti è in ogni ente, ed in ogni cal ente; egli è tutto ſeogni ente, in quan to è, egli è un tutto; egli è párte, ſe ogni parte dell'enteè jina; egli è finito, ſe ogni tutto ha i ſuoi limiti, e infinito le contienein sè tutti i numeri. Annot. Queſte contraddizioni non ſono che apparenti. D.II. Se l'uno è, egli ha principio, mezzo, e fine. L'uno è finito, e tutto, eparte (S. 10. Sez. 3. ) Dunque ha in sè limiti, perchè ogni una di queſte coſene ha; dunque ha principio, mezzo, e fine. Corol. Dunque l' uno è partecipe difigura retta o roton da, o d'amendue miſta. ANNOT. Come l'uno, di cui quì parlaParmenide, pud effer Dio, o qualche idea divina, fe egli è circonſcritto datutti i luoghi degli enti, ſe s'individua cogli enti ſingolari, ſe è tutto,parte, finito, figurato ec. 5 Tom. II. m 6. 12. (20 ) Do? 127 ** Se. l'uno è,egli è in ſe ſtello, e iş altrui., Ciò che è tutto, comprende tutte le ſueparti; ma l'uno com prende tutte le ſue parti, dunque l' uno è un tutto; ma iltutto contien ſe ſteſſo, è l' uno è un turco. Dunque l'uno contiene ſe fteffa.ANNOT. La propoſizione è identica, e vuol dire: un tutto è. un tutto; o iltuttoè nel tucta; non ſi faccia più attenzione al tutto, mamaall all'uno, e liconcluderà, che l'uno è nell'uno. Si com bini poi l'uno, e il cucco, e ſiconcluderà, che come il cutto è in ſe ſtello, così l'uno è in fe fteflo. Quelche è in ſe ſteſſo, egli è in ogni ſua parte, ed in tutte le parti, ma il cuttonon può eſſer in niuna parte, perchè il più au conterebbe pel manco, nè meno iltutto può eſſer in tutte le par ti, perchè ſe in cutie, farebbe ancora tutto inciaſcuna, dunque il tutto non è in ſe ſteſſo, ma l'uno è il cutto; dunque non èin fe fteflo. Ogni coſa è in qualche luogo, perchè ciò chenon è in qualchekuogo è nulla e quel che è in qualche luogo è in fe felio, o in altrui, perchénon li dà mezzo; mas'è dimoſtrato che ſe è l'uno egli non è in ſe ſteſſo,dunque è in altrui; ma di ſopra s'era pur dimoſtrato, che egli era in le ſtello;dunque è in ſe ſteſſo, ed in alcrui. ANNOT. Non v'è quì che contraddizione apparente,perchè quando ſi dimoſtra, che l'uno è in ſe ſteſſo, ſi conlidera che l'uno èun tutto le cui parti fon tutte inſieme, quando all'incontro fi confidera, chel'uno è in altrui, non ſi concepiſce il tutto con le párti pret inleme, ma comequello che non è in niuna delle ſue parti. S. 13. Se P upo è, egli fta, e ſimuove. Quel che ſta è ſempre in ſe ſteſſo, perchè da lui non mai et di parte; 'ma l'uno eſſendo nell' uno, non ſi diparte mai da fe ftef ſo; dunque è ſemprenello ſteſſo; dunque fta. Quel che è ſempre in altri non è mai nello ſteſſo, enon eſsendo nello ſteſso mai non fta, e non ſtando ſi move, ma l' uno non è inſe ſteſso, ma ſempre in altrui; dunque ſempre fi move. ANNOT. Non è pur queſta,che contraddizione apparente.. 14. (91 ) $. 14. 1 e il Una coſa comparataall'altra, o è la ſteſsa, o diverſa, o è par te di quella coſa conliderata cometutto, od è tutto, conſiderata 1a cofa come parte. Così dice Platone, e parconſiderar lo ſteſso, e il diverſo relativamente alle qualità ſolamente, e laparte, cutto relativamente alla quantità. Se dunque fi dimoſtraſse, che unacoſa relativamente a un' altra non foſse, nè tutto, ne pare ce, nè la Ateſsa,ne ſeguirebbe per il metodo d' eſcluſione, che ella fofse diyerſa. g. 15. Sel'uno è, egli è a ſe ſteſso lo ſteſso, ed a ſe ſteſso diverſo. Se egli è in leſteſso, e fta ſempre, egli è a ſe ſteſso lo ſteſso, ſe egli è in altrui, eſempre lr move, è da ſe ſteſso diverſo. L'uno non è parte di ſe ſteſso, nètutto rifpetto a ſe ſteſso, nè l'uno è diverſo dall'uno; or s'è luppoſto, cheuna coſa compara ta ad un'altra, fe d'eſsa non è tutto, nè parce, nè diverſaſarà la ſteſsa; dunque l'uno ſarà lo ſteſso con ſeco; ma ſe l'uno è in al truinon è ſempre lo ſteſso a ſe ſteſso; dunque per l' eſcluſione Platonica ſaràegli da ſe ſteſso diverſo'. §. 16. ne Per eſpor: l'argomento ſeguente in tuttala ſua forza, convie. ne particamente illuftrare i principj da cui dipende. Siſuppo 1. Che l' uno è da sè diverfo, come da ente nell'ipo teſi, che egli ſia.2. Che il diverſo e lo ſteſſo, effendo contra rj, uno non può mai eſser dell'altro. Cost lo ſpiego · Molci enti potendo efiftere, od eſiſtendo nel tempoſteſso, lo ſteſso farebbe nel diverſo, ciò che è impoſſibile, non potendo i contrarj, cioè A, e non A ſtar inleme. Ben ſi vede che qui parla Platone deldiverſo, e dello ſteſso aſsoluto, e non relati. vo, quale abbiamo fpiegato nelG. 17. Sez. 2. perchè nulla vie ta, che due coſe non poffino eſser diverſe'nell'eſsenza, nelle quantità, nelle azioni ec. ed intanto eſiſtere nel tempoſteſso mi Iura eſtrinfeca delle coſe. Non è cosi conſiderando il diverſoaſsoluto, o l'idea del diverſo, e conſiderando lo ſteſso aſſoluto o l'ideadello ſteſso.; l'uno non può mai ſtar nell'altro, e in conſeguenza la ſteſsacoſa non può mai partecipare nello ſteſso tempo di queſte due idee contrarie.Allude qui tacitamente Par m 2 meni (92 ) menide a ciò che ha già dimoſtrato,parlando della participazio ne dell'idee. L'argomento ha tanto maggior forza,quando fi conſiderano gli enti ſeparati dall' uno, poichè ſe foſsero diverfi,per ragion del diverſo participerebbono dell' idea del diverſo che è Tempre una,dal che deduce Parmenide, che non poten do eſser diverſi per la participazionedell'uno nell'ipoteſi di Socrate, non ſono diverſi tra loro. 3. Suppone che lecoſe che non ſon uno, non fieno partecipi dell'uno, perchè non ſarebbono uno,ma uno in certo modo. Quì pur Parmenide parla dell'idea dell' uno, cheparticipandofi dalle coſe non è più uno, ma uno con certe circoſtanze, od incerto modo, ma ſe non ſon uno nor faranno eziandio numero, perchè ogni numero èuno. 4. Le coſe che uno non ſono, nè aſsolutamente uno, non poſsono eſser partidell'uno, poichè l' uno non può eſser parte delle co ſe che non fon uno, nè puòeſser tutto, quafi comparato a par ricella. Parmenide alludetacitamente a ciòche diſse di ſopra, che idea non pud eſser participata, nè ſecondo la parte, nèſecon do il tutto, dal che deduce, che le coſe che non ſon uno ne fonoparticelle dell' uno, nè ſono all' uno quaſi a particella. Ciò ſuppoſto cosìargomenta Parmenide col metodo d' eſcluſione. g. 17. Se l'uno è, egli è diverſo,e lo ſteſso con altre cofe; all'uno convien il diverſo, aſsolutamente in quantodiverſo, e non all” altre coſe, cui non conviene, che relativamente Dun quel'uno è diverſo dall'altre coſe.; le altre coſe non ſono diper fe dall'uno, nèſono parci, nè tutto riſpetto all' uno; dunque fono le Aeſse con l'uno. F. 18.Chi proferiſce lo ſteſso pome una, e più volte ſenza riferirlo a più coſe, comeſi riferiſce nei nomi equivoci, ed analoghi, eſprime fempre lo ſteſso concetto;dunque nel proferire la voce, diverſo; applicandola all'uno, confideratorelativamente agli altri, e un' altra volta agli altri conſideratirelativamente all'uno, nell'ado prar lo ſteſso nome s'eſprime lo ſteſsoconcetto. Quindi dice Par: menide: quando diciamo eſſer gli altri diverſi dall'uno, e l'uno ef ſer dagli altri diverſo, non mai introduciamo il diverſo afiguificar altra coſa, che la natura di cui è proprio nome. $. 19. (93 ) S. 19.s'è gia oſſervato, che fimile è quel che patiſce lo ſteffo; difts mile quel chepatiſce il diverſo (9. 20.Sez. 2.) Se l'uno è, egli è ſimile, e diſſimile a ſeſteſſo, ed agli al tri. L'uno è diverſo dagli altri (9. 17. Sez. 3. ) Dunquel'altre coſe ſono diverfe dall' uno, ma non fono diverſe nè più né menodall'uno, che l'uno dall' altre coſe (S. 18. Sez. 3. ) e ſe nè più, nè meno,rimane che egualmente fia uno. In quanto adiviene alle uno l'effer diverſodaglialtri, e gli altri dall'uno, egli patiſce la ſteſſo per rapporto aglialtri, e gli altri per rapporto a lui; ma ciò che patiſce lo ſteſſo è fimile,dunque l'uno e limile agli altri, e gli altri per la ſteſſa ragione fon fimilia lui. Il diverſo è contrario allo ſteſſo; ma fi dimoſtro, che l'uno agli altriè lo ſteſſo, e diverſo, (S. 17. Sez. 3. ) ed è contraria paffione effer loſteſſo agli altri, ed effer diverſo dagli altri ma in quanto diverſo parvefimigliante; dunque in quanto lo Steffo fia diflimigliante, ſecondo la paſſionecontraria. E' da notarſi, che l'uno è ſimile agli altri, in quan to diverſo, ediſſimile in quanto lo ſteſſo. S. 20. Due coſe che ſi toccano ſono preſentil'una all ' altra, nè tra effe vi ſi frammette un terzo, perchè in queſto caſonon più toccherebbono ſe ſteſſe, ma il terzo frappoſto. Ove due coſe fi toccano,due ſono le coſe, ed uno il contatto, ove tre li toc chino, tre ſono le coſe, edue i contatti; in ſomma creſcen do i termini creſcono a proporzione i contatti,ſecondo il nu mero dei termini meno uno. Si tocchino tra loro due puntimatematici, ' poichè nulla fra loro s'interpone, un punto per ragion delcontatto coinciderà con l'altro; fi facciano toccare da un terzo punto, queſtopu. re coinciderà, e quindi infiniti punti matematici non fanno che un punto,onde de liegue, che la linea non è compoſta di punti, o che i punti ſovrapoftigli uni agli altri non fanno grandezze. Ciò naſce, perchè tutti i punti ſonoomogenei ſen za parti, ma ſe vi foſféro degli enti tra loro eterogenei, ben chènon eſteſi, o ſenza parti, nulladimeno poſti gli uni appreſ so gli altri,benchè non componeſſero grandezza, tuttavia fa rebbono più, come ben offervòAriſtotele. Ciò diede occaſio ne al Leibnizio di compor l'eſtenſione di entiſemplici, ma ete (94 ) eterogenei, o diverſi di ſpecie, che eſiſtendoſcambievolmente gli uni fuori degli altri coeſiſtano in uno; quindi per la nozione dell' eſtenſione, convien conſiderare, e più enti che eſi Atano fuori disè, e che tra loro s'unifcano, e formino uno. Non fanno però un eſteſo;, perchèfe ben inſieme eſiſtano, non ſono tuttavia tra loro uniti, come allora cheliquefatti più me talli ſi confondono in una maſſa. Le partipoi indeterminatedell'eſteſo, conſiderate in aftratto, cioè ſenza far attenzione alla lorofpecie, non diferiſcono tra lo ro, che nel numero. Non ſarà inutile queftaoffervazione nel progreſſo. Intanto ſi oſfervi, che l'uno eſcludendo nel ſuocon cetto i più, oi molti, per quanto l'uno ſi moltiplichi per ſe ſteſ fo èſempre uno, onde egliè il ſuo quadrato, il fuo cubo, ed ogni altra potenza,foſſe anche ella di dimenſioni infinite, e non folo avete un eſponente, mamolti, come le quantità che ſi dicono eſponenziali. $. 21. Se l'uno è, eglitocca ſe ſteſſo, e l'altre coſe. L'uno è in fe fteſſo, ed in altrui (5. 12.Sez. 3. ) In quanto è in fe fteſſo vien impedito di toccar l'altre coſe, dunquetocca fe Hello; in quanto è in altrui, è nell'altre coſe; dunque le coccherà.IN ALTRO MODO Una coſa nel coccar l'altra giace appreffo quella che tocca, edoccupa la ſede vicina; ma ſe l'uno tocca ſe ſteſſo, giace appreſſo ſe steſſo,ed è quindi due coſe, il che non potendo effere, mani feſto è che non pudtoccarſi. Le coſe diverſe dall'uno, non potendo effer numero, perchè.nonpartecipano l'uno, non pociamo mai con l'uno far due, ma nel contatto v'èſempre almeno due (9. 19. Sez.-3.) Dunque l'uno non toccherà l'altre coſe.:ANNOT. La contraddizione pur è qut apparente, e ſi fa l'ano corporeo nelfupporre, che ei tocchi. Nozione immaginaria. 22. Parmenide ragionando adhominem con Socrate fuppone la par ticipazione dell'idee, combattuta nellaprima parte; conſidera quindi la grandezza, e la piccolezza, come due ſpecieſeparate, tra (95 ) tra loro contrarie; ben a cid s'avverta, perchè in queſtoconſiſte la deſtrezza del Filoſofo, e la forza del ſuo ragionamento, S. 23 2os' Se l'uno e, egli non è ně eguale, nè maggiore, në mi nore degli altri enti.Sia l'ente minore degli altri enti, egli dunque participerà dell ' idea dellapiccolezza, la qual è contraria alla ſpecie della gran dezza. Si concepiſca,che la piccolezza ſia nell' uno, o farà in tutto l'uno, o in alcuna parte dieſso; fe in tutto l' uno, eftenderà per l'intiero uno tutto al di dentro, chevuol dire lo compenetrerà con la ſua ſoſtanza, o l'abbraccierà con eſtremi li.miti al di fuori, che vuol dire lo comprenderà; ma ſe la picco lezza s'eſtendeal di dentro di tutto l' uno gli è eguale ", e fe lo comprende gli èmaggiore, onde la piccolezza ſarebbe nello ſteſ ſo tempo grande, ed egualecontro l'idea di lei. Se la piccolezza è una parte dell'uno, ne ſeguirà, cheella lia di nuovo in tutta la parte, o al di fuori, o ál di dentro quindi cheella fia eguale, o maggiore per le coſe dimoſtrare; dunque non potendo eſser lapiccolezza, nè in tutto l' uno, nè in parte dell'uno, non ſarà nell'uno, ondel'uno non farà pic colo, o minore degli altri enti. Corol. In alcuno degli entiper la ſteſsa ragione non po irà ritrovarſi la piccolezza, onde in queſtaipoteſi non v'è al tra cofa piccola, che la piccolezza ftetsa, ma dove non v'èil piccolo, non v'è neppur il grande, perchè l' uno non è che per riſpettoall'altro; dunque non vi faranno coſe grandi, trartone la grandezza, e quindi Iuno, e altre coſe ſaranno prive di grandezza, e di piccolezza. e S. 24. Sel'uno è, le altre coſe non ſono di eſso nè maggiori, nè minori, nè eguali. Lealtre coſe aſsolutamente parlando ſono prive di grandezza, e di piccolezza,dunque, rifpetto alla uno, non fono nè piccole, ne grandi, e per la ſteſsaragione, l'uno non è nè maggiore, nè minore dell'altre coſe, eſsendo privo digrandezza, e dipiccolezza. 5.125. S. 25.Se è l'uno egli farà eguale a ſe ſteſſo, ed all'altre coſe. Non è maggiore, nèminore dell'altre coſe, ma ſe l'uno non è, nè maggiore, nè minore dell' altrecoſe, egli per la forza dell'eſcluſione ſarà eguale. §. 26. Se l'uno è, egli èeguale a ſe ſteſſo, ed all'altre coſe. Non avendo in sè, nè grandezza, nèpiccolezza, nè eccede rà ſe ſteſſo, nè da ſe ſteſo farà ecceduto, dunque faràeguale a ſe ſteſſo. S. 27. L'uno è maggiore, e minore di fe ſteſſo. Egli è inſeſteſſo, dunque li comprende; dunque èmag giore di ſe ſtello; eſſendo in ſeſteſſo, egli è da ſe ſteſſo com preſo, dunque è minore; dunque è maggiore, eminore di ſe ſteffo. S. 28, Se l'uno è, le altre coſe ſono maggiori, minori edeguali all' uno. Null'altro v'è, che l'uno, e l'altre coſe, non dandoſi mez zo,($. 12. Sez. 2. ) Quel che è in una coſa è minore di eſſa (S. 10. Sezione 2. )e ciò che la contiene è maggiore; dun que, poi che ogni coſa è in un luogo, eche altro non v'è che l' uno, è l' altre coſe neceſſariamente ſono nell' uno, ol' uno nell'altre coſe; ma ſe l' uno è nell' altre coſe, queſte ſono maggioridell' uno, perchè lo conten gono; l'uno è minore, perchè è contenuto; dunquel'altre co le ſono maggiori, e - minori dell’uno: ma s'è dimoſtrato, che l' unonon eſſendo nè maggiore, nè minore dell' altre coſe, all' al tre coſe faràeguale (§. 24. Sez. 3.) Dunque egli è eguale, mag giore, minore dell'altrecoſe. Corol. Egli dunque può eſſere di miſure eguali, maggiori, e minori,riſpetto a sè, ed all' altre coſe. Quindi Ha 1 1 ! (97 ) Ha più miſure riſpettoalle coſe delle quali è maggiore, me no miſure riſpetto a quelle delle quali èminore, e pari miſu re riſpetto a quelle delle quali egli è eguale. 6. 29. 9Paſſa a dimoſtrare Parmenide, che ſe l'uno è, egli è parce cipe del tempo, ed è,e ſi fa più giovane, e più vecchio di ſe fteſto, e degli altri, ed in contrario,e che non è, nè ſi fa nè più giovane, nè più vecchio di ſe ſtello, e deglialtri par cicipanti il tempo. Per intendere adequatamente queſte propoſizioni,in cui s'af follano varj principi i biſogna prima ripaffare ciò che fi diſlenel ſ. 3. Sez. 3. 9. 27. Sez. 2. ove fi dimoſtrò. 1. Che chi partecipa dell'eſſenza, partecipa delle differenze del tempo. 2. Che cið che ſi fa più vecchiodi ſe ſteſſo, e dell'altre coſe, nel farſi più vecchio, li fa più giovane, ecið per eguali parti di tempo, ag giunte agli ineguali, il che abbiamodimoſtrato coll' eſempio delle ragioni di e diſucceſſivamente accreſciute di 1.comparando percið le ragioni di į, e di abbiam veduto, che i loro va Iori i ti,eit ! + divengono ſempre minori. Altreſuppoſizioniegli fa ne' ſeguentiargomenti. 1. Il tempo è un fluſſo, da cui ſi fa progreſſo dal pallaco alpreſente, e dal pre Tente al futuro, e dall'era all'è, è dall' è al ſarà. 2.Che una coſa che'ſi fa paſſa dal preſente ove è, nel futuro ove ſarà, e perciònel farli è di mezzo cra l'uno, e l'altro, onde propria mente ciò che è nell'inftante, non ſi fa, ma è quello che è, o, come l'eſprime Platone, una coſa cheha fatto acquiſto del preſente cella di farſi, od è ciò che allora convien chefi faccia. 3. Il preſente è ſempre unito all'uno, perchè è ſempre unito all'ente, dal qual l'uno è inſeparabile. 4. Il diverſo, o l'idea del diverſo è laſtella coſa ſecondo i principi di Socra te, e percid è ſempre uno, onde quelloche non è uno, non può eſer il diverſo, o l'idea del diverſo, onde le coſediverſe dall' uno, o che partecipano il diverſo, ſono più che l'uno, o hanno insè moltitudine, e in conſeguenza numero o più. 5. Delle più ſono prima le poche,che le molte, e delle poche prima il pochiſſimo. 6. La coſa che prima li fa èla prima, e le dipoi ſono più giovani delle già fatte innanzi. 7. E' impof fibile',che una coſa ſi faccia oltre la natura, onde in una co ſa che ha principio,mezzo, e fine, prima li fa il principio, indi il mezzo, e poi il fine, che vuoldire, il fine ti fa i'ulti mo. 8. Quel che ſi fa ultimo è più giovane di quelche fi fa Tomo II. il a e ce I 21 S: i n (98 ) il primo. 9. Chi ſi fa con tuttele parti infieme d'un tutto,, fi fa nello ſteſſo tempo inſieme col cutto.. 1 1ſ. 30. Se l'uno è, egli è, e ſi fa, e non è, nè ſi fa più vecchio, e piùgiovane di ſe ſteſſo. Se l' uno è participando l'eſſenza, participa del tempo ($.3. Sez. 3. ) ma quel che è in tempo, è in un fluſſo continuo o pal ſa dalpaſſato al preſente, o dal preſente al futuro (S. 28. Sez: 3.) Dunque l'uno econtinuamente in queſto paſſaggio. In quanto paſſadall'era all' è fi fa piùvecchio di sè;ma nel farſi più vec chio, ſi fa più giovane (S. 26. Sez. 2. )Dunque ſi fa più vec chio, e più giovane di ſe ſteſſo. Chi non oltrepaſſa ilpreſente, nel far progreſſo dal paſſato, nell'avvenire non ſi fa, ma è ciò cheè ($.22. Sez. 4. ) Dunque quando l ' uno tocca primieramente il preſente, nonſi fa allo ra vecchio, ma è vecchio oggimai, Nel toccar il preſente, co me haprima di lui fatto acquiſto, cefla di farli, od è ancora ciò che avvien che ſifaccia i $. 28.Sez. 3.) Dunque l'uno, quan do fatto vecchio conſeguiſce ilpreſence, cella di farſi, od è allora più vecchio di ſe ſteſſo, di ciò che eratoccando il pal fato; ma l'uno è di quello più vecchio, onde fi faceva vec chio;e facevali di ſe ſteſſo, ed il più vecchio è più vecchio del giovane; dunqueallora l' uno è più giovane di ſe ſteſſo quando fatto vecchio conſeguiſce ilpreſente, ma il preſente è fempre unito all'uno; dunque l'uno, ed è ſempre, eli fa più vecchio, e più giovane di ſe ſteſſo; ma facendoſi tale, od ef ſendoin tempo pari ritiene la ſteſſa età, e chi ritiene la ftel fa età, non è piùvecchio, nè più giovane; dunque l'uno eſ ſendo, e facendoli in tempo, non è piùvecchio, nè più gio vane di ſe ſteſſo. g. 31. Se l'uno è, egli è più vecchiodell'altre coſe, o l'altre coſe più giovani di lui. Nelle coſe diverſe, chehanno in sè moltitudine o numero, altre ſon fatte prima, altre dappoi; ma ilprimo che ſi fa è pochifiimo, (9. 26. Sez. 3. ) e nei numeri l'uno è pochiſſimo,dunque l'uno è facco inanzi alle coſe che hanno numero, o che fono. 1 fonodiverſe dall'uno, o ſono gli altri; ma il primo che ſi fa è più vecchio, lecoſe che dipoi ſi fanno, ſono più giovani; dunque l'uno è più vecchiodell'alcre coſe, e l'altre coſe più giovani. g. 32. Se l'uno è, egli è piùgiovane dell' altre coſe, e le altre coſe più vecchie dell' uno. L'uno non puòfarſi oltre la natura fua. Dunque avendo parti, o principio, o mezzo, o fine,ſi fa ſecondo la natura del principio, del mezzo, e del fine, ma il princi piofi fa il primo, è il fine ſi fa l'ultimo, ma l' ultimo fatto e più giovanedell' altre coſe, e l' altre coſe più vecchie dell' uno ($. 26. Sez. 3. );dunque l'uno è più giovane degli altri, e gli altri dell'uno. $. 33. Se l'uno è,egli non è più vecchio, nè più giovane dell' altre coſe.. Ogni parte dell' unoè una; ogni parte del mezzo è una, ed uno è parimente il fine, od il tutto,onde fi farà l'uno, é colla prima coſa che fi fa, ed infieme colla ſeconda,colla ter za ec. onde percorrendo ſin all'eſtremo fi farà un tutto, o 1 uno noneſcluſo nella generazione dal mezzo, non dall' eftre mo, non dal primo, non daaltro; ma ſe l'uno ſi fa inſieme con tutte le parti d' un tutto ha la ſteſfaetà con tutti gli al tri; dunque ſe non è nato oltre la propria natura, non èfac to prima nè dopo l'altre coſe, ma inſieme e fecondo queſta ragione non èpiù vecchio, o più giovane degli altri, nè gli altri dell' uno. ſ. 34. Se l'uno è, egli ſi fa più giovane, più vecchio di ſe ſteſſo. Se alcuna coſa foſſepiù vecchia d' altra, li farebbe ancora più vecchia di ſe ſteffa: A ſia piùvecchio di B, nel creſcerfi gli anni ad A, egli et fa più vecchio di fe fteffo,e di B; dun n 2 que (100 ) | 1 que l'uno nel farſi più vecchio dell' altre coſeſi fa ancora più vecchio di sè; manel farſi più vecchio, ſi fa ancora più giovane per la ſteſſa ragione, che creſcendo tempi eguali, la ra gione decreſce (5.27.Sez. 2. ) Dunque l'uno li fa più giovane di ſe ſteſſo, ma s'era dimoſtrato, cheſi faceva più vecchio (S. 30. Sezione 3. ) Dunque ſi fa più giovane, e piùvecchio di ſe Iteffo. 1 f. 35. Se l'uno è, egli non può farſi, nè più vecchio,nè più giovane dell'alere coſe. Ciò che fi fa più vecchio d'un altro, o piùgiovane, ſi fa più vecchio, e più giovane ancora riguardo a sè (1.37. Sez. 3.)ma l' uno non ſi fa, ma è, e più giovane, e più vecchio ri guardo a sè; dunquenon ſi fa, nè più giovane, nè più vec chio riguardo agli altri. Se l'uno è piùvecchio, che le altre coſe, ha più lungo tem po dell'altre coſe, ma creſcendoſiil tempo, egli ſempre eccede meno, onde ſi fa più giovane riſpetto alle coſe,delle quali era innanzi più vecchio; ma ſe egli ſi fa più giovane, quell' altrecoſe ſi faranno più vecchie; dunque le coſe che erano innanzi, e più giovanidell'uno, ſi fanno dell' uno più vecchie, cinè fi fanno più vecchie, riſpetto aquello che era più vecchio; ma le coſe più vecchie non ſono, ma fi fanno ſempre,perchè la fanno più vecchie, mentre l'uno ſi fa più giovane; dunque le coſe ſifanno ſempre più vecchie dell'uno. Le coſe poi più vec chie, parimente ſi fannopiù giovani dell' uno più giovane perchè l'uno, e l'altre coſe movendoli incontrario G fanno vi cendevolmente contrarie, cioè le coſe più giovani dell'uno,ſi fanno più vecchie dell'uno che è vecchio, ed all'incontro l'una più vecchio,li fa più giovane delle coſe più giovani;, ma non, è poffibile che l' uno, e l'altre coſe fieno fatte nè più giova ni, nè più vecchie, perchè le cali foſſero,non più li farebbo no; dunque le coſe, e l'uno tra loro ſi fanno più vecchie, epiù giovani: l'uno li fa più giovane delle cofe, per quello che parve eſſer piùvecchio, e prima fatto, l'altre coſe poi fi fanno più vecchie, per quello cheſono ſtate fatte dopo, e ſecondo la ſella ragione: l'altre coſe ancora ſe neſtanno riſpettivamente alla uno, come quelle che ſono ſtate più vecchie, eprima dell'uno. Dunque inquanto che nè l' uno, nè gli altri fi fanno, diſtan do1 (101 ) $ do ſempre tra loro di un numero pari, non ſi farà nè l'uno piùvecchio degli altri, nè gli altri dell' uno. Ma come decreſce ſempre la ragionedei tempi, o con minor particella ſempre tra loro differiſcono le coſe primedall' ultime, e l'ultime dalle prime, così è neceſſario che l' altre coſe ſifacciano, e più vecchie più giovani dell'uno, e l'uno dell'altre coſe. Quinciaggruppando in uno tutte le propoſizioni, abbiamo di. moſtrato, che l'uno è, eli fa più vecchio, e più giovane degli altri, e di nuovo non è più vecchio, nèpiù giovane di ſe ſteſſo e degli altri. Corol. Perchè l' uno è partecipe deltempo, o ſi fa più vec chio, e più giovane, egli è partecipe del quando, delfuturo, e del preſente. Dunque era l'uno, ed è, e ſarà, e ſi faceva, e fi fa, eli farà, e ſarà ancora alcuna coſa in lui, e di lui, ed è, ed era, e farà.COROL. 2. Perchè la ſcienza, l'opinione, il ſenſo, la defini zione, il nome,riguardando le coſe che ſono nelle differenze dei tempi, in quanto l'uno ècapace di queſte differenze, è ancora fog getto di ſcienza, d'opinione, difenſo, può definirli, e può no. minarſi. Annot. Qui Parmenide non dà ſcienza, edefinizione, ſe non delle coſe ſoggette al tempo, il che biſogna accordare conciò che diſke (9.16. Sez. 1. ) La ſcienza che appreſſo noi è ſcienza del leverità, che ſono a noi dintorno. 9. 36. Riſtringiamo adeſſo in poco, quantoPlatone ha propoſto nella propoſizione condizionale, o ſia nell'ipoteſi ſel'uno è. 1. Diftin le colla mente i due concetti dell'uno, e dell'ence., 2. Necom poſe un tutto intellectuale di due parti, o dei due concetçi dell' uno, edell'ente. 3. Tra loro paragonandoli ne deduſſe il terzo concetto del diverlo.4. Conclure che nell' uno o è una moltitu dine infinita di numeri, che dividonol' uno a proporzione dell' ente. 5. Che l'uno è tutto, e parte, e finiso, einfinito. 6. Da ciò che è un tutto finito, conſiderò in effo il principio, ilmez-, 2o, il fine, e quindi la figura. 7. Da ciò che è un turto, e che il tuttoè nel tutto, conclure che l'uno è nell' uno, ed in fe ftel 1o. 8. Da ciò chel'uno è comeparte nel tutto, conclure che è in altrui. 9. Che ſta, e ripoſa, ſeegli è in ſe ſteſſo. 10. Che ſi mo ve, le è in altrui. 11. Che è ſimile a sè inquanto l'uno, è lo ſteſſo che l'uno. 12. Simile agli altri, perchè paciſce d'eſſere co me gli altri. Che è diffimile in quanto cert'uno, e certo ente. 14. (102) 14. Che è lo ſteſſo, poichè ekſte, ed eſiſtono glialtrienti nello ſteſſotempo. 15. Che è diverſo, in quanto non ha in sè ciò che hanno gli altri enti.16. Quindi fimile, e diffimile, perchè patiſce le ſteſſe cofe. 17. Che èmaggiore, minore, ed ineguale, e non maggio re, minore, nè eguale dell'altrecoſe. 18. Che è, e ſi fa più gio vane, e più vecchio di ſe ſteſſo, e dell'altrecoſe, e non è, e non fi fa, nè più vecchio, nè più giovane dell'altre coſe, el'altre co fe di lui. 19. Finalmente, che dell'uno in quanto è li ha ſcienza,,ſenſo, opinione, e può denominarſi, e definirſi. Si potrebbe piùcompendioſamente ridur in poco l'argomento di Parmenide, conſiderando chereciproche ſono queſte due pro polizioni: l'unoid, è l ' uno, per il che ſi puòpredicar dell'ente ciò che ſi predica dell' uno, e dell' uno ciò che ſi predicadell' en per ragione dei diverſi concetti formali, predicandoſi dell' ente, laparte, il finito, l'infinito, il principio, il mezzo, il fine, la figura, loſteſſo, il diverſo, la quiete, il mo to, il limile, il diſſimile, e il maggiore,l'eguale, il minore, it giovane, il vecchio ec. cutti queſtipredicaricompereranno pari mente all'uno. Ben ſi vede, che qui non ſi parla chedell' en te corporeo, e degli enti particolari, a cui or compete una co fa, edor un'altra. il tutto, S. 37: Ma perchè i predicati oppoſti, come il fimile, ildiffimile, it maggiore, e il minore non poſſono competere nel tempo ſteſſo all'uno, ed all'ente ſenza contraddizione, Parmenide moſtra che queſti attributicontrari non gli competono nello ſteſſo tem po, ma in diverſi tempi; tal è lanatura di ogni ente finito: gli attributi, imodi, le relazioni, delle quali ècapace, non hanno luo go in lui, che ſucceſſivamente a differenza dell'enteinfinito, in cui tutte le perfezioni poſſibili, che attribuir gli ſi poſſono,.ftanno in lui tutte inſieme, onde non male con due parole molto energiche, ſebbenbarbare, ſi chiamò Dio dal Bulfingero, omni tudo compoſibilitatis. GliScolaſtici lo chiamarono atto puro, cioè atto ſenza alcuna miſtura di potenza,e quindi diametralmen te oppoſto alla materia che è pura potenza, e talmentepura, che al cuni degli ſcolaſtici la ſpogliano dell'atto entitativo,edell'eſiſtenza. $. 38 (103 ) go 38. Se l'uno è; egli prende diverfi ſtatiſecondo le:: differenza dei tempi. Nel tempo ſteſſo non ſi può participare, enon participare dell'eſſenza, e delle coſe che conſeguono al non participarla,ed al participarla; or il farli è renderſi partecipe dell' ellenza; ilrovinarli e privarſi dell' effenza; dunque l'uno non può ne! tempo ſteſſo, eprender, c laſciar l'eſſenza. Dunque la pren de, e la laſcia in diverſi tempi,Quando ſi fa uno, egli perde l' eſfer molte coſe; quando ſi fa molte coſe ceffad'effer uno; nel farfi uno, e molte, li fepara, e fi congiunge, qualora ſi faſimile, e diffimile, ſi affimiglia, e diffimiglia; quando ſi fa maggiore,minore, ed eguale, creſce, decreſce, e li pareggia; quallora movendoſi fiferma, e quallo ra fermandoſi li move. Or tutte queſte coſe, eſſendo tra lorocontrarie, l ' uno non può averle nel tempo ſteſſo, dunque l'ha in tempidiverfi. 9. 39 Non fi pud paſſar dalla quiete al moto, e dal møto alla quie te,ſenza cangiamento di itato. Un corpo che cangia fuccelli vamente la relazionedi diſtanza, che egli ha ad altri corpi vi cini, ha uno ſtato diverſo da quellod'un corpo, che conſerya ſempre a ' corpi vicini la ſteſſa diſtanza. Queſtocangiamento di uno ſtato all' altro ſi fa in tempo; ma conſidera Platone, chenel paſſaggio dal moto alla quiete, e dalla quiere al moro, v'è un non so ched'improvviſo, e di momentaneo, che ſi conce piſce nell'iſtante del paſſaggio, enon più appartiene al moto, che alla quiete; non al moto, perchè la coſa ſiconcepirebbe ancora in ripoſo; non al ripoſo, perchè la coſa fi concepiſceancora in moto, Conclude dunque Placone, che queſta natu ra improvviſa è quaſiſconvenevole tra il moto, e la quiete; che ella non è in verun tempo, e aqueſta da queſta paſſan do fi muta nello ftato ciò che li move, e nel moto ciòche ſi ri pola. 8. 40. (104 ).. §. 40. Se l'uno è, nell'atto che cangia ſtato,non gli competono più i predicati dell'ente. Nel paſsar l'uno dal moto allaquiete fi muta momentaneamen te, e all'improvviſo, o mutandoli egli non è inalcun tempo; dunque non ſta nè fi move. Così quando paſsa dall'eſsere alla rovina, o dal non eſsere al farſi, non è, nè ſi fa, nè fi diſtrugge. Parimentequando paſsa dall' uno in molti, e da molti in uno, non è, nè uno, nè molti, nèſi congiunge, nè fi ſcongiunge, e paf fando dal ſimile al diſſimile, od alcontrario, non è, nè affimi gliato, nè diſlimigliato, e paſsando dal piccolo algrande, ed all' eguale non creſce, nè decreſce, nè ſi pareggia. Annot. Daqueſta dottrina ſebben metaforicamente da ' Plato ne eſpreſsa, imparòAriſtotele ad introdurre tra i principj delle generazioni, la privazione mal apropoſito ſchernità da coloro, che non ne inteſero nè la forza, nè l'uſo.Quando una coſa ha perdute tutte le diſpoſizioni o determinazioni, che larendevano tale, ella ceſsa d' eſsere la tal coſa, cioè reſta priva di tutto ciòche la coſtituiva, e diſtingueva dall'altre coſe, ma nell'atto ſteſ fo, in cuiceſsa d'eſsere quel che era, comincia ad eſsere ciò che non era, o paſsa dallaprivazione alla forma contraria; queſto ſtato di mezzo che è tra la forma, e lanon forma, Platone chia ma natura mirabile, e momentanea, ed è certo, che ellanel fifa far i gradi della noſtra cognizione ci moſtra quelli della natura chenon opera mai per falti. Nel Timeo dice: Dovendo eſer l'ef figie delle coſediſtinta da ogni verità di forma, non fia mai prepa rato quel medeſimo grembodi tal formazione, ſe egli non farà informe di tutte quelle ſpecie, le quali èper ricever da qualche parte, percid che ſe egli faravvi alcuna di quelle coſeche in sé riceve fimiglianza, quando riceverà una natura contraria di quella dicui è ſimile, ovve ro un' altra, affatto malagevolmente la ſimiglianza, el'effigie di quel la eſprimerà quando moſtrerà la ſua, però egli è convenevole,che di tutte le ſpecie ſia privo quello che ha in sè da ricevere tutti i generi.Siccomequelli che hanno da fare unguenti odoriferi, l'umida materia, la qualevogliono di certo odore condire, di tal guiſa preparano, che * ella non abbiaalcun proprio odore. E coloro che vogliono in materie molli imprimerealcunefigure, niuna figura affatto laſciano primiera mente apparire in quella, ma quellecercano in prima di render qan to poſibil fia polite. Ciò ſi rende ſenſibilenelle quantità algebraiche poſitive, e ne gative, nelle quali non ſi paſsadall'une all'altre ſenza paſsar per 1 1 1 il (105. ) o il zero, che non è nènegativo, ne poſitivo, ed è il vero fim bolo della privazione. Nella Geometriail punto matematico equi vale al zero, che è il principio negativodell'eſtenſione, e dal quale fi comincia la miſura, come l'unità è il principiopoſitivo, per cui fi comincia la ſteſſa miſura. Il punto è comune alla linea,che ceſsa per eſempio di eſsere alla ſiniſtra, e comincia ad eſsere alla deſtra,o che termina d' eſser in alto, e comincia ad eſser a baſso; così egli non èdeſtro, nè finiſtro, nè alto, nè baſso. Tut te queſte ſono eſpreſſioniutiliNime, e ſebben noicele rappreſen ciamo per fpecie aliene, come il niente,o l' impoflibile, tuttavia molto fervono a reggere i noſtri ragionamenti.L'origine, e la natura del calcolo delle fuſioni dipende dall'uſo della naturamomentanea, ed ammirabile di Platone. In queſto calcolo non ſi cercano, ſecondoil Newtono, le quantità infinita mente piccole, chemainon poſsonodeterminarſi,ma la ragione del le quantità naſcenti, od evaneſcenti, cioè diquelle, le cui fuffio ni, o velocità nel naſcere, o nel ſvanire equivagliono alzero, il qual ſimboleggia il termine del ripoſo, e il principio del moto iltermine del moto, ed il principio del ripoſo. Sieno nel preſen te momento lefluenti quantità y, x; nel momento ſeguente di verranno ſecondo l' eſpreſſioneNewtoniana y toy, ed xtoy, ove o y, od ox eſprimono i momenti delle velocità.Softituite queſte eſpreſſioni in un'equazione propoſta, per eſempio in quel ladella parabola yy. =ax, quefta fi caogierà nell' equazione. yy + 2 oyy tooyy =oaxtoax o cancellando gli eguali 2oyy tooyy = oax, e cancellando il comune o 2yyt oyy = ax Sin che la quantità efpreſsa per o reſta finita, non può mai determinarli la ragione delle quantità che fluivano, ma nella ſup poſizione cheella s' annulli, come nel caſo dell' ultima o della prima velocità dellegrandezze, ove o s'eguaglia a zero, fi ha 2 yy = ax, e ponendo l'equazione inanalogia 2 y.a:: x.y ragione determinata, con cui le qualità cominciano otermic nano di Auire. Il Newcono ſpiega più a lungo queſte coſe nel ſuotrattato delle Curve, e lo ſpiega non chiarezza il Ditton nell'inſtituzionedelle Auſſioni; baſta a me d'averlo quì accennato, per moſtrare che agliantichi non man cavano quell' idee, che i moderni hanno poi ſviluppato, carat £erizzandole con canta utilità delle ſcienze, e delle bell'arri., 1 Platonepreſuppone nel ſeguente argomento, che la partenon è parte nè di molti, nè ditutti, ma di cert'una idea, e di cert'uno che chiamiamo tutto, ed è un cuttofatto da tutte le parti, e in sè perfetto, Dalla parola idea lice argomentare,che qui non fi craica che dei concetti, con cui fi concepiicono i molti, e iltutto, e le parti. L'idea dei molti è l'idea dei più aſſolutamente preſi, e comprende egualmente le parti, ed i tutti, dicendoſi molte, o più parti, molti opiù molti. L'idea del tutto è l'idea dell'uno più riſtretto in un certo numero,o riſtretto in cerci limiti; idea della parte è l'idea d'uno incluſo in queſtipiù già ridoc ti. Non ſi pud quindi rigoroſamente parlando dire, che la par teſia parte di molti, perchè conſiderandoli ſecondo la loro propria idea, nonfanno ancora il tutto a cui ha immediata re lazione la parte, Nel dir dunquePlatone, che la parte non è parte di mol ti, allude ai modi, o ai più vagamentepreli, e nel dir che la parte è parte del tutto, allude ai più riſtretti; ne'più, come s'accennd, vi ſono incluſe indifferentemente le parti, ei tutti, ondeſe la parte foſſe parte dei più, potrebbe eſſer parte di ſe Iteffa. AggiungePlatone, che ogni parte non è parte di qualun que uno ma d'un cert' uno, cioèdi un certo tutto. La par te del triangolo non è la parte del quadrato, nè unſoldato che è una parce d' un eſercito, è parte di una proceſſione di Frati. Iltutto poi che è fatto di tutte le parti, o a cui non man ca alcuna parte, èperfetto., Si oſſervi in oltre eſſer lo ſteſſo, il dir molti, o più d'uno; cheogni coſa quindi o è uno, o più, cioè molci; che una parte dell' eſtenlionecratca fuori di efla, o feparata da eſſa, eſſendo fteſa, contiene più, e ſedinuovo ſi ſepa ra in due, una di queſte parti eſſendo di nuovo fteſa, ritieneipiù. In altri termini ciò vuol dire, che non v'è parte dell'eſtenſione che nonſia diviſibile all'infinito, e come la prima divifione fi fa per 2, ed indi per2 i Pittagorici aſſegnavano il 2, come il fim bolo dell'infinito. Prima che unaparte fi ſeparaſſe da una certa eſtenſione, ella riteneva il nome di parte, maquando è ſeparata, e che di nuovo ſi divide, ella non è più parte, ma tutto.Queſti nomi di tutto, e di parte ſono ſempre relativi; coloro per ciò chedefiniſcono l' eſtenſione, ciò che ha parti fuori" di? parti, null' altrodicono ſe non che l' eſtenſione è l'eſtenſione, perchè non ha parti ſe non ciòche è eſteſo. Molto peggio fan no coloro, che ſuppongono, che l' eſtenſioneeſſendo compoſta di una infinità di parti fteſe, ſia compoſta d'una infinità diſo. ſtanze tra loro tutte ſeparate, perchè l'idea dell'eſtenſione null hache direlativo, e ſuppone la coſa aſſoluta,' o la ſoſtanza, su cui la relazione ſifonda. Il corpo fiſico, e mecanico non ſono pura eſtenſione, come ilgeometrico,; perchè nel corpo fiſico v'è la forza, o la for ma, e nel mecanicoil peſo, origine delle proprietà, e dei lo ro fenomeni.. 8. 42. Se l'uno è, leparti in quanto parti ſono parti dell' uno, o partecipano dell'uno. Le partinon poſſono eſſer parti di le ſteſſe, nè di molti ($. 40. Sezione 3. ) dunquedell' uno, il che è dire, che partecipano dell' uno. §. 43, Se l'uno è, iltutto in quanto tutto partecipa dell' uno. Il tutto cui nulla manca delle treparti è uno; dunque par tecipa dell'uno. Corol. Il tutto dunque, e le partipartecipano dell' uno, e ciò ſignifica un non so che di ſeparato da gli altri,ma eſiſten; te per sè, ſia egli qualunque coſa. ANNOT. Non par egli, cheParmenide nel dir, che queſt' uno ſia ſeparato dagli altri, e per sè eſiſtente,alluda all'idee feparatę che ha combattute nella prima ſeſſione '? Se non vuolciò dirſi, come contrario alla profonda Filoſofia d'un sì grande Uomo, non neliegue egli, che parlando qui con Socrate, parla bensi col fuo linguaggio, manel tempo fteffo incende di favellare fecondo le attrazioni della mente. 0 29.44. (108 ) 8. 44. Se l'uno è, le cofe che partecipano dell' uno fono altracoſa che l'uno. Niuna coſa può effer alcun uno fuor che lo ſteſſo uno; dunqueſe le coſe partecipano dell'uno, che vuol dire, non ſono lo ſtes fo uno,bifogna che fieno un'altra coſa. Dunque le coſe che partecipano dell' uno fonode verſe dall'uno. S. 4.5. Se l' uno è, le coſe che partecipano dell'uno, ſonoin moltitudine infinite. Se le coſe che partecipano l'uno ſono diverſe dall'uno, non ef fendo uno nè più d'uno non faranno niente; ma non fon l'uno, dunquepiù d'ano, dunque ogni parte d'uno, include in eſſa i più, e queſti altri più,e così in infinito, dunque le coſe clre parteci pano l'uno, ſono infinite inmoltitudine. COROL. Poichè il più include per fua natura la moltitudine infinita, ogni parte che d'eſſo ſi tragga fuori con l'intelligenza le benpiccoliflima rifpetto all'altre, ſarà in moltitudine infinita. ANNOT. Platonedice da quelle (cioè dei molti ) trar fuori con r* intelligenza alcuna cofapiccoliffima. In qual altro modo pud egli meglio indicar l'aſtrazione dellamente.? nel dir Platone, che confiderando la diverſa natura della fpeciefecondo ſe ſteſſa quanto di lei vediamo, fia egli infinito, e in moltitudine,altro non ſignifica con la diverſa natura, ſe non che ogni parte dell'eftenfione include in sè più, e queſti altri più, e infiniti in. moltitudine. 1g. 46. Se l'uno è, la parre in quanto parte è diverſa dell' uno, per chè l'unoè per sè indiviſibile, e la parte per sè divifibile. Se l'uno è, le parti ſonopiù che l' uno. Le parti diverſe dell'uno, ſe non ſono uno, o più d'uno, nullaſaranno, ma ogni cofa è uno o più; dunque ſe le parti diverſe dall uno non ſonuno, ſaranno più che uno. S. 48. Se l'uno è, le parti che lo partecipano hannotermine tra loro, e riſpetto al tutto, e il tutto riſpetto alle parti. Ogniparte è una, ogni tutto è uno; ſe l'uno e l'altro parte cipa l'uno; ma quelloche è fatto uno ha un termine. Dunque ec. Corol. All' altre coſe, che all' uno,avviene che partecipan do dell'uno, e di loro ſteſſe, ſi fanno in lorocert'altra coſa, il che dà loro il termine, ma la natura loro che include i più,è per eſſenza infinita in moltitudine; dunque le altre coſe che l'uno tutteſecondo le particelle loro, ſono infinite in numero, e par tecipi di termini. g.49. Se l'uno è, le coſe che partecipano l'uno, fono fimili, e dil ſimili, ſimovono, e ſi fermano, od hanno altre paſſioni con trarie, Le altre coſe chel'uno, ſono tutte infinite, o indefinite, fe condo la loro natura, onde tuttepatiſcono lo ſteſſo, ed aven do cermini, e diverſi termini, patiſcono ildiverſo, ma il limi le è quel che patiſce il ſimile, il diſſimile quel chepatiſce il diverſo. Dunquele coſe, altre che l'uno, ſono ſimili, e diffimi li.Maſe patiſcono le ſtelle coſe, e diverſe, pariranno anche il moverſi, ed ilfermarſi, l'eſſer maggiori, minori, ed eguali, l' eſſer più vecchie, piùgiovani ec. e 3. 50 Riepilogando le coſe dette, abbiam dimoſtrato che ſe l'unoche in quanto lo partecipano ſon d'ello parti. Che il tutto dal le partiriſultante partecipa pur dell' uno; che le parti parte cipanti del tutto, èdell' uno ſono infinite in moltitudine, che han (110 ). hanno termine tra loro,e rifpetto al tutto, come il tutto l'ha riſpetto alle parci, onde nel patir lecoſe ſteſſe, e diverſe ſono ſimili, e diffimili, ſi moyono, e fi fermano. Paſſaa confiderar Parmenide nella ſuppoſizione, che sia l'uno, coſa adiviene allecoſe che non partecipano l'uno. g. 58. Se l'uno è, e le altre coſe che nonpartecipano l'uno, non ſono nè tutto, nè parii, nè fimili, nè diffimili, nè leſteſſe nè diverſe, non ſi movono, non fi fermano, non ſi fanno, non ſidiſtruggono, non ſono, nè maggiori, nè minori, nè eguali, nè vecchie, nègiovani. Si concepiſca l'uno ſeparato dall'altre coſe, cioè fi concepi ſca chele altre coſe non lo partecipano, non vi ſaranno mol ti, perchè ognun de moltiè uno; non vi ſarà numero, o mol titudine ordinata che principia dall’uno, ilquale ſucceſſivamen te li va aggiungendo a ſe ſteſſo, e fa ogni numero unonella fua fpecie; non vi ſarà tutto, che è una moltitudine riſtretta in uño;non vi ſaranno parti, ognuna delle quali è uno ordi nata ad un altro uno; nonvi ſaranno coſe limili, nè diffimi li, nè le ſteſſe, nè diverſe con l' uno,perchè ſe teneffero in se -ſimigliznza, ediffimiglianza, comprenderebbono in sèdue ſpecie tra loro contrarie, onde non eſſendo partecipi di due, nemme no loſarebbono di due contrarj; non poſſono eſſer quindi le coſe nè ſteſſe, nèdiverfe, nè moverſi, nè formarſi, nè diftrug. gerſi, nè effer maggiori, giovani,e vecchie, perchè eſſendo ſem pre partecipi di due coſe contrarie ſarebbonopartecipi di nu mero. ANNOT. Queſto è lo ſteſſo che concludere che l' unotraſcen dentale, eſſendo inſeparabile dall' ente, è lo ſteſſo tor dalle coſe l'uno, che l'ente, od annullarlo. g. 52. 1 Parmenide ha ultimamente conſiderato,coſa accaderebbe alle coſe, ſe non vi foſſe l'uno, che per ipoteſi ſtabili. Orcangia ipoteſi, e cerca, coſa accaderebbe alle cofe fe non vi foſse l'uno.Queſte due ipoteſi ſembrano diverſe, ma ricadono poi nello ſteſso, perchè cantoè annullar le cote ſeparando da loro l' uno che è, od eſsere ſi concepiſce,quanto annuliarle ponendo le co ſe, e negando l'uno. SE (111 ) . B. I. Uandoper eſempio fi dice grandezza, e non grandezza, QI si dicono due coſe oppoſte,e tra loro contrarie, poichè la non grandezza diſtrugge ciò che la grandezzapone o in natu ra, o nella mente; le fi fanno quindi le due propoſizioni, lagrandezza è la non grandezza non è, tutte e due ſono nega tive, ma l'una è d'un ſoggetto finito, e determinato, l'altra d'un ſoggetro infinito, eindeterminato. La grandezza é il ſog getto di decerminata ſignificazione, lanon grandezza di ſignifica zione indeterminara, perchè non grande è il piccolo,non grande il punto, non grande l'unità ec. Or il determinato è contrario allindeterminato; dunque, come ben oſservò Marſilio Ficino, le due propoſizioni,la grandezza è, la non grandezza non è, ſono con trarie, ſebben l’una, el'alcra fieno negative. Lo ſteſso debbe dirſi delle due propoſizioni, l'uno nonè, il non uno non è, egeneral mente della propoſizione A non è; non A non è:nella pri ma ſi nega ad A l'eſere, nella ſeconda ad A che fi nega, ga l'effere.Negar ſemplicemente una coſa, e negare la nega zione, ſono coſe tra lorocontrarie. La propoſizione all'incon. tro A non è, e l'altra non A è, ſonoequivalenti, perchè nel la prima di A fi nega l' eſſere, nella ſeconda fiafferma, che ad A fia negato l' eſſere. Affermare la negazione è lo ſteſſo chenegar la cola; dunque equivalenti propoſizioni ſaranno, l'uno non è, il non unoè. E' poi da oſſervarli, che le negazioni, e pri vazioni ſi conoſcono per leloro realtà oppofte, la cecità per la vi fione, le tenebre per la luce, non Aper A. ſi ne B. 2. Se l'uno non è, nel pronunziar la propoſizione ai concepiſcechiaramente e diſtintamente, che l'uno non fia, o li ha fcien za di ciò ches'eſprime, e s'eſprime qualche coſa diverſa dall' altra, l'uno è. Le privazioni,e negazioni ſi concepiſcono chia ramente, e diſtintamente per le loro realtàoppoſte, dunque il non uno per l' uno (J. 1. ) ma la propoſizione il non uno è,è, equivalente all'altra l' uno non è, dunque queſta propoſizione l' uno non è,fi concepiſce chiaramente e diſtintamente, o li ha ſcienza di lei. Lapropoſizione l'uno non è, è diverſa dall' altra, 3 uno (112 ) ! $ 1 1 uno è, echiaramente, e diſtintamente ſi concepiſce la loro diver ſità; dunque nel dirl' uno non è, ſi concepiſce qualche coſa di diverſo. Platone così lo dice:eſprime primieramente alcuna coſa che ſi può conoſcere, poſcia differentedall'altra, colui che dice uno, aggiungendovi l'eſfere, oil non eſſere,perciocchè non ſi conoſce meno, ciò che fia quel che ſi dice non ellere, e comeſia certa co fa differente dall'altra. Corol. Può dunque predicarſi dell' unola ſcienza, e la di yerſità. S. 3. Se non è l'uno, o ſe il non uno è, il nonuno partecipa delle coſe che di lui ſi predicano, e non le partecipa. Del nonuno è, ſi predica la ſcienza, e la diverſità (Cor. ant. ) dunque partecipa diqueſte coſe, mapoichè egli non è, non aven do eflenza, non può participarle,perchè il non ente non ha pro prietà, dunque non le partecipa; dunque lepartecipa, e non le partecipa. COROL. Così s'eſprime Platone: Il non ente èpartecipe di sé, e d'alcuna coſa, e di queſta, e con queſta, e di queſta, e dicut te le coſe sì fatte; concioliachè non li direbbe uno, nè le diverſe coſedell'uno, ne avrebbe egli alcuna coſa, nè alcuna coſa fi chia merebbe, ſe nonfoſſe partecipe di alcuna, nè di queſte altre nondimeno è impoſſibile che ſial'uno, ſe egli non é, ma niuna cofa vieta, che non ſia partecipe di molte coſe,ed è neceſſario ancora ſe è quello l'uno, e non altro, ma ſe non è, nè l'uno,nè quello non ſarà egli; non ſi dirà nulla di lui, ed il ragionamento faràd'altra cofa, ma ſe fi ſuppone che quello uno non ſia, è ne ceſſario che ſiapartecipe di lui, e di molte altre coſe,. 4. Se il non uno è, il non uno èſimile a ſe ſteſſo, e diffimile all'altre coſe, ed al contrario. Il non unoconvien col non uno, dunque con ſe ſteſſo; dunque è ſimile a ſe ſtello. Il nonuno è diverſo dall'altre coſe che parte cipano l'uno, dunque è diffimiledall'altre coſe; ma il non uno non eſſendo, non può aver proprietà d'efferſimile, nè diffimi le, dunque ec. 8. S. 1 (113 ) §. 5. Se il non uno d, egli èeguale, ed ineguale all' altre coſe, e nel tempo ſteſo eguale, ed ineguale. Glieguali ſono fimili nella quantità; ma il non uno non ha ſimiglianza con l'altrecoſe, dunque non ha egualita; ma ſe egli non è eguale agli altri, gli altri nonſono eguali a lui, dunque è loro ineguale; ma gl' ineguali partecipano dell'ineguaglianza, cioè di grandezza, edi piccolezza; dunque l'uno che non è, egliè grande, e piccolo; ma tra il grande, e il piccolo ſi frammetter eguale, e chiha grandezza, e piccolezza, pud ancora aver eguaglianza; dunque l'uno che non èpuò participare di queſte coſe; ma s'è dimoſtrato, che non le partecipa, dunqueec. Se l'uno non è, ha in certo modo l'eſſere, o s'attri buiſcono a lui coſeche l'hanno.. -. Nel dire che l'iuno non è, ſi ha ſcienza di cid che ſi dice;nel dir che è, diverſo dall' uno, che è, e dall'alcre coſe; che è fimile, nonfimile; diſſimile, non diſſimile dall' altre coſe; eguale, no eguale, fiprofeſſa di concepire, e di pronunziare il vero, ma eſprimendoſi, epronunciandoli queſte coſe a guiſa di enti, all'uno che non è s' attribuiſconoin queſto modo, onde egli ha in un certo modo l'eſſere. B. 70 Queſtapropoſizione: il nulla è nulla, il nulla non è nulla, equivale a queſte altredue: il non ente è non ' ente; il non ente non è non ente. La prima di elle èaffirmativa, ed iden, tica, perchè fi afferma il nulla di ſe ſteſo, la ſecondaè nega tiva, perchè ſi nega il nulla del nulla, che vuol dir, ſi affer. maqualche coſa, perche una negazione diſtruggendo l' altra elleno affermano. Neldire il non ente, non ente, il non en te vien a participare in un certo mododell effere, affine di ef ſer non ente.. Nel dire all'incontro il non ente nonè non en te, il non ente per non eſſere non ente che vuol dir per eſ ſere, viena partecipar del non eſſere. Così intendo Platone, Tomo II. P allor 1 allor chedice: il non ente ad eller non ente ba il legame dei non eſſere, fe dee noneſſere, come lente tiene nella ſtella guiſa il legame deli eſere, perchè ei nonſia non ente, affinchè di nuovo ei fia perfettamente, e non ſiapartecipe il nonente delléſenza, del non eſſer non ente, ma dell'eſenza dell'eſer non ente, ſeil non ento fia perfettamente. $ Se l'uno non è, egli partecipa; e nonpartecipa dell' eflenza 1 L'ente è partecipe del non eſſere, ed il non.entedell'eſſe re ($. 7. Sez. 4. ) ma ſe non è, l'uno é neceffario che ſia partecipe del non eſſere, affinchè ei non ſia; dunque appariſce, che l'eſſenza ſianell' uno, ſe egli non è, e la non effenza ſé egli è. ANNOT. Tutti queſti ſonoſcherzi metafiſici, per dar luogo alle nozioni immaginarie, e quindi allecontraddizioni, che mo ſtrano le coſe impoſſibili; ben deve oſſervarſi, chefacilmente con effe fi cade in quel mirabile, che degenera in puerilità.Platone ſobriamente l' adopra, per dimoſtrare in quali raffina menti sfumavanole dottrine della ſetta Elearica. 9. 9. Se l'uno non è, ha mutamento, e inconſeguenza moto, e non ha moto, Šisru ! L'uno parve ente, e non ente, onde ftacosì, e non così, dunque fi muta paſſando dall' eſfér al non effer; dunque hamoto. Ma fe l'uno non è, non è in alcun luogo, perchè ogni en té è in qualcheluogo, ma non eſſendo mai in luogo non pudo paſſare da un luogo all'altro,dunque non percid fi move, per che non ſi traſmuta.. io.: $. io. Y Se l'uno nonè, non ſi altera, e non alterandoli ne ſi muta, nè ſi move. L'uno non eſſendo,non può mai verſare in quello che non è, dunque non alterarſi, poichè ſe l'unoda ſe stello li alceral fe in alcun luogo, non ſi ragionerebbe più deil' uno,ma di cer ta altra coſa; ma ſe non li altera non ſi rivolge in fe fteffo nè fimuta, nè ſi altera; dunque ec. ļ $. Se l'uno non è, fta e ſi moồe, e fi altera,Quel che non ſi move ſe ne ſta in quiete, e ſi ferma que gli che in quiete nefta; dunque l'ano non effendo, comeapo pariſce ſta egli e li move, anzimovendoſi è neceſſario che ſi alteri, perchè in quanto alcuna coſa ſi move,incanto ſe ne ſta ella non nello ſteſſo modo, ma altrimenti; dunque l'unomentre fi move ſi altera, e nondimeno non movendoſi in niun luogo in niunaguiſa ſi può alterare; dunque in quanto fi move", ciò che non è uno ſialtera; ma in quanto non ti move, non fi alce ra, dunque l'uno non eſſendo ſialtera, e non ſi altera. $. 12 Se l'uno non è, egli è diverſo da quel che eraprima, non ſi altera; non fi fa, non ci muore, e di nuovo ſi fa, emuore. Cidche ſi alcera è neceſſario che ſi faccia diverſo da quel che era prima, ma quelche non fi altera, non ſi fa në muore; dunque l'uno, non eſſendo mentre fialtera, e ſi fa, e periſce, ma non alterandoſi, non fi fa, nè muore, nè periſce,ed in do tal guiſa l' uno 'non effendo, li fa, e muore e di nuovo non fi fa, nèmuore. §. 13: Sin ora ha dimoſtrato Platone, che ſe l' uno non è, egli dà di sèfcienza, ed ha in sè diverlicà, che è partecipe, e non par tecipe di altre cole;quindi lo ſteilo-, e non lo ſteſſo con ſe ſtelſi move fteffo, ſimile e diffimile nè ſimile, nè diffimile, eguale, edineguale, non eguale, nè ineguale, partecipe d'eſſenza, e non partecipe, ſimuta, e non ſi muta e non ſi mo ve, fi altera, e non fi altera, ft fa, cperiſce, e fi fa, e non periſce. Tutte queſte concluſioni derivano dallapoſizione, l' uno non è; l'uno eſſendo inſeparabile dall'ente, ſe non v'è l'uno,nè pur v'è l'ente. OrPente non è, che il poflibile. Annullato dunque ilpoſſibile reſta l' impoffibile, da cui ſecondo l' Aflioma ſegue coſa, eximpoſſibile ſequitur quolibet, perchè nell'idea aſtrat ta dell'impoſſibiles'includono tutte le contraddizioni. Platone dal conſiderare, che l'uno non haeſſenza, e non n'è capace, nega tutte le altre relazioni che pud avere.Premetto a ciò che quando diciamo, che alcuna coſa non ſia, nel proferire,queſto non è, fi fignifica ſemplicemente, che non è al tutto in niun modo, enon eſſendo in niun modo, non è capace in alcun modo di eſſenza; dunque nonpotrà eſſere il non ente, ne in alcun modo farſi partecipe di eſsenza. §. 14.Se l'uno non è, non può farſi in alcun modo par tecipe d'eſsenza. Quel che nonè, ſignifica ſemplicemente, che non è al tur 10, in niun modo, o non èſemplicemente capace di eſsenza, dunque fe l'uno non è, non può mai eſsercapace d'eſsenza.. 15: ne la per Se l'uno non è, non pud farſit, nd morire. Chinon è partecipe di eſsenza, non la riceve, nè la de. Dunque fe. L'uno non è,non pud nè ricever, nè acqui ftar l'eſsenza, perchè non n ' è capace; dunquenon periſce, nè fi fa. $. 16. Se l'uno nonè, non fi altera, nè fi move, nè ſene ſta, non ha grandezza, nè piccolezza, nè parità, né limiglianza, e dia,verlin (11 ) 3 onde eſsenza, non può aver ne grandezza, nèpic marfi. Se verſitàriſpetto all' altre coſe, e a ſe ſteſso, nè gli conviene ale cun altroattributo Se l'uno non è, non ſi altera, perchè fi farebbe già, je pe rirebbepotendo queſto; ſe non ſi alcera, nè men fi move, ſe come non ente, non eſsendoin alcun luogo, non pud ſtar lo ſteſso in alcuna coſa, nè in alcuna coſafermarſi. Se non ha nè piccolezza, nè parità, eſser ſimile, o diverſo, orifpetto all'altre coſe, o a ſe ſteſso, nè le altre coſe potranno eſser in luiin alcun modo, gli ſono, nè fimili, nè diffimili, nèle ſteſse, nè diverſe, nèpud ſtar ſeco, non ha il di lui, o ciò che ſi dice di alcuna coſa, o queſto, odi queſto, o d'altrui, o ad altrui, o alcuna volta, o dopo, o al preſente, oſcienza, o opinione, o ſenſo, o fer mone, o nome, o qualunque altro degli enti.Annot. Sebben ſi oſserva, Platone al non uno toglie tutto quello che ha datoall'uno, conſiderato in ſe ſteſso nella prima Sezione, argomento evidente, che,quando tutti gli altri man caſsero, quì non ſi trarca che delle aſtrazionidella mente, fra miſchiate tallora con le nozioni immaginarie, quali ſono inque fta Sezione, e nel rimanente. Non ci reſta che l'ultima quiſtione, in cuiſi cerca ſe non è l'uno, che accada all'altre coſe. $. 1. S'orser Oſservitolto. 1. Che ciò che è, o è l' uno, o l'altre co ſe • 2. Che ſe queſte nonfoſsero (almeno nella noſtra im-. maginazione, o nella noſtra mente ) di loronon ſi diſputereb be, perchè il nulla non ha proprierà. 3. Che ſe dell' altreli fa vella, l'altre ſono il diverſo, poichè l'altro, e il diverſo ſono finonimi', onde diciamo altro non eſser l'altro, che l'altro d'al tri, ed efserdel diverſo diverſo, e che per far le coſe altre dalla uno, vi ſi debbeaggiungere qualche altra coſa, onde fieno per eſser altre, di cui ſaranno altre.3 Tesni f. 2. (118 ) S. 2.. Se l'uno non è, le coſe altre o diverſe dall'uno,non ſono altre. o diverſe, che per ragion di ſe ſteſse.. Nelle coſe altre dall'uno o diverſe dall'uno, vi's include' qual che altra coſa, per cui fieno altre,ma queſta coſa non pud ef ſer l'uno, perchè per ipoteſi egli non v'è. Dunque,poiché non v'è, che l' uno, e l'altre coſe, eſcluſo che altre coſe non fieno.altre per luno ne liegue che ſieno altre per ſe. ftelse, COROL.. Dunque: per ſeſteſse. ſono ciò che ſono tra se.., S: 3 Se: l'uno non v'è, le coſe altre dall'uno ſono tali per una moltitudine infinita. Non v'è che uno o i più, dunque lecoſe altre o diverſe 1 dall’uno, non potendo eſser altre che l'uno, il qualenon v'è per ipoteſi, non ſaranno altre che per i più, cioè per la mol: titudine;ma il più, o la moltitudine eſsendo per le ſteſsa in finita '; le coſe. altredall uno,. ſono alore per una: moltitudine infinita.. COROLLAR. Qualunque maladunque di loro appariſce in molti-. tudine infinita, e ſe alcuno ſi prenderàciò che menomilimo pare co. me. Sogno, incontinente in vece di quello che pareuno, ſi fa innangi una moltitudine infinita, e in vece di quellachemenomilimopar ve, apparirebbe grandiſſimo già, ſe il pareggialli ad altrecoſe in die Sparte da lui. Cosi: parla Platone: fia prefa qualunque parted'eſtenſione, el la è diviſibile in due, ed inoi in due, e così all'infinito.Della di viſione di cui è capace il tutto, ſono capaci reſpettivamente le parti,nè v'è particella si minima, che le noi nell' ipotefi che non v'è uno,poteſſimo vedere con un microſcopio miracolo fo,, non ci pareſse diviſa in unamoltitudine infinita di parti, ma tali che nell' iſtante ſteſso, che noivedeſſimo la parte, la vedremmo attualmente diviſa in altre parti infinite, ecosi all'in finito; non è che io dir voglia, che vedremmo l'infinito at tuale,perchè non poſſiamo intenderlo, non che vederlo, nè so come il Leibnizio abbiaporuto concepir nella più minima parte di ciò che egli chiama 'materia, unnumero attualmente infinito di monadi"; biſogna prima provare, che noiconcepia mo l'infinito attuale -, ed indi che vi ſieno queſte monadi; ma ſe vifoſsero, il che io non l' ammetto, che come principio di co gnizione, e non dinatura, in eſse, come l'eſprime il nome loro, v è un'unità, che è il fondamentodi concepir nella monade innumerabili proprietà; ma quì nell' eſtenlionePlatonica, biſo gna rappreſentarfi ogni parte deſsa ſeparata dall' uno; ' v'èin ciò contraddizione, ma appunto Platone - la ſuppone per de dur dall'aſsurdoi, l'impoſſibilità di ſeparar l' uno dall'ente. §. 4. Se non è l'uno in ognimaſsa apparente apparirà il numero, e le proprietà dei numeri, l'eguale, il maggiore, il minore. Tolto l' uno dalla maſsa, ci ſi fa come nel ſogno innanzi unamoltitudine infinita, in cui ſe ſi vuol ordinar colla mente la moltitudine, viſi trova il numero; quindi il pari, e l' impari; il picciolo, il grande, ilpiccioliſſimo, il grandiſſimo., compa rando tra loro le maſse, in cui s'èdiviſa la maſsa maggiore, e quindi l'eguale, perchè non ſi può paſsar dalmaggiore al mino re ſenza paſsar per l'eguale, ma queſti ſaranno tutti fantasmid' egualità, di maggiore, di minore, di pari, d'impari ec, come di numero. Senon v'è l' uno, ogni maſsa apparente avendo termine appa rente, riſpetto all'altra non ha nè principio, nè mezzo, nè fine riſpetto a fe ftefsa. Si prendaalcuna delle maſse apparenti coll intelligenza, in nanzi al principio, ſe le faſempre innanzi altro principio, e dopo il fine, ſegue ſempre un altro fine, enel mezzo altre coſe ſem pre più interne del mezzo, e ſempre minori, perchè nonſi può ricever in queſta alcun uno, non eſsendo l'uno. Annot. E ' daoſservarſi, che qui Platone dice, prender alcu na coſa con l'intelligenza, cioèaſtrattamente conliderarla í vi aggiunge poi che potendoſi prender la maſsaſenza l' uno, cioè fenza far aftrazione dall'uno, ſi sbrana qualunque coſa cosìpre ſa con l'intelligenza, che è quanto a dire con la mente fi* di vide in piùparti, e queſte in altre, e così all'infinito. S. 6. Se l'uno non è, preſaqualunque maſſa a chi da lungi la mira groſſamente par uno, ma chi da preffol'in tende è un infinito in moltitudine. Non potendo noi nulla concepir ſenzal' uno a prima viſta, e da lungi mirato ci par uno, ma da preſſo, e acutamentevedendolo, tolto l'uno, ci rappreſenciamo infiniti. COROL. Se dunque non v'èl'uno, ma l'altre coſe dall' uno, qualunque di eſſe è infinita, e con termineed uno, e molci. Se non v'è l'uno le altre coſe ci pareranno, e ſimili, e diffimili, e le ſteſſe, e le diverſe, e unire, e ſeparate, e moverſi, fermarſi; nèpotendo noi concepir le coſe ſenza l'uno le ve dremo, come adombrate da lunge,e patir lo ſteſſo, ed eſſere fimiglianci, mada preſſo molte, e diverſe, e peril fantasma della diverſità diverſe, e diflimiglianti tra loro ſteſſe e parimente ci pareranno le maſſe ſimili, e diffimili, e da loro ſteſ ſe, e tra di sè,e le ſteſſe, e diverſe tra loro, e che tocchi no, e fieno ſeparate da loroſteſſe, e fi movano con tutti i mo ti, e ſi facciano, e periſcano, e nell' una,e nell' altra manie e tutte le coſe sì fatte che li poſſono dedurre dalle coſe7 ra, già dette. S. 7. Ha dimoſtrato fin ora Parmenide 3 che adiviene alle coſeſe non è l' uno, cerca poi che fieno gli altri che non ſon uno. Se non è l'uno, le alere coſe non ſon uno, nemolti. Non ſono uno, perchè non v'è l' uno; non ſono molti perchè i moltipreſuppongono l'uno. ital 18. s. Se non v'è l'uno, non vi ſarà nè opinione, nèfantasma, ne ſcienza dell'altre coſe. Le altre coſe non hanno alcun concettocon niuna di quel le che non ſono, nè alcuna di quelle che non ſono è appreſsoad alcuna dell'altre che ſono; dunque appreſſo ad altri non v'è opinione, nonv'è fantasma dell'ente, e quindi dell uno; ma ſe non v'è l'uno, non effendopoſſibile il penſar a molte coſe fen za r uno, neppur èpoſſibile che ſi penſiche fieno uno, o mol ti le coſe.. 10. Se non vè l' uno, le coſe non fono nèfimili, nè diffi mili, nè le ſteſſe, nè diverſe, nè ſi toccano, ne et ſeparanoNon ſi poſſono concepir le coſe ſenza l'uno; dunque ſe non vi è l'uno, non ſipoſſono concepire, nè ſimili, nè diffimili nè le fteffe, nè diverſe, nè unite,nd ſeparate. COROL. Dunque ſe non v' è l' uno nulla v'è, onde o ſia l' uno, onon fia, ed egli e l'altre coſe ancora ſono, e non ſo no ad ogni modo riſpettoa fe ftelle, e tra di loro, e appajo no, e non appajono. II. Riftringendo inpoco tutto ciò che negli ultimi paragrafi s'è eſpoſto, egli è manifefto, che l'uno efiendo inſeparabile dall' ente, ove non v'è più uno, non v'è più d'ente,cioè v'è nul. la, ol'impoſſibile", da cui ſeguono tutti i contraddittorj,qual Tomo II. q Pla Platone ci eſpoſe per via di nozioni affatto immaginarie;egli ne fa veder i uſo, e moſtra nel tempo ſteſſo, quanto la fan taſia ſiadiverſa dall' intelletto, poichè ella ci rappreſenta una coſa, mentre la menteragionando ce ne fa concepire un'altra. Si conclude dunque, che Placone inqueſto Dialogo non fi af fiffa che a moſtrar ſuſo dell'aſtrazioni della mente,nell' inve ſtigazione dell' idee. 1. Con le negazioni, come fece nel primocapo. 2. Con le analogie dell'altre idee aſtratte; finalmente con le cognizionidell' idee, del ſenſo, della fantaſia, combinate a quelle della mente. LETTERAA SALIER Primo Cuſtode della Biblioteca DEL RE CRISTIANISSIMO. On dubitate cheio ſia mai per dimenticarmi di voi, co N°me alcuni venuti ultimamente diFrancia m' accufarono da voſtra parte; troppo m'è rimaſta impreſſa l'ideadella bontà, e gentilezza voftra, troppo è ſtato vivo il piacere e ſodo ilprofitto, che io ricavai dalle converſazioni letterarie, che abbiamo fpeſſoavute inſieme, e tra l'altre su l'opere di Platone; ce ne porgevano il motivole ſaggie rifleſſioni, che leggevaci l'Ab bate Fraguier, or su l'ironia diSocrate, or ful carattere de'So fifti, or su la Repubblica, ed or su le Leggi,tutti oggetti delle belle diſſertazioni, che egli diede alla voſtra Accademia.Solo la Iciò egli intatto il Parmenide, o non aveſſe il tempo, o la voglia d'applicarſi a ſviluppare un Dialogo, che è il più malagevole di Platone, otemeſſe dioffendere la ſoavità del ſuo genio con l'idee troppo auftere, efiloſofiche, delle quali il Dialogo abbonda. Voi ben ſapete, che per voſtroconſiglio m' applicai a leggerlo con attenzione e ne concepii quel fiſtema, dicui állor vi parlai. Venuto in Italia, e diftratto da graviſſimi intereſſidimeſtici, ne interruppi l'eſame già cominciato, ſebbene negli intervalli ioleggeſſi continuamente Platone; e l'avrete ve duto nel Sogno del Globo diVenere, che il Signor Conte di Cai lus v avrà forſe dimoſtrato in linguaFranceſe tradotto. Di tem po intempo io parlai del Parmenide con gli amici, emi fi fue gliò il deſiderio di compierne il ſiſtema da me abbozzato all'occalione del Platone di Dardi Bembo, che ſtampali in Venezia, con P aggiunta dellenote e degli argomenti del Serano letteralmente tradotti. Dalla Differtazionepreliminare ritrarrete l'idea generale del la Filoſofia di VELIA (si veda) cosìcelebre per l'acurezza, e per la profon dità de' Filoſofi, come la Jonica perla fodezza dell'eſperienze, e l'Ita 1 1ľ Italica per la felice combinazione della Geometria, e dell'A ſtronomia allaFiſica. Non è difficile ſcoprire, che la metafiſica do Ariſtotele è tratta ingranparte in queſto Dialogo, in cui Plato ne abbandona quaſi l' artificiopoetico adoprato negli altri, e ſi ſpiega nella maniera più ſemplice, e piùpreciſa. Nella prima Sef fione io v'oſſervai i tre fonti delle allurdità degliargomenti me tafiſici; il principio di contraddizione, il progreſſoall'infinito, el' annullazione fuppofta di qualche perfezione divina.GliEleatici, che forſe gli inventarono, riconoſceano i limiti dell'intelligenzauma na, e pur era queſta la minor parte della Dialectica loro, la qual vaga vaper tutti i lommi generi delle coſe. La quiſtione dell'origine e della naturadell' idee v'è più che abbozzata, e la riſpoſta che so crare diede a Parmenide,su la maggior difficolcà dell' idee, è la ſteſſa che uso il Padre Malebranchionel medeſimo caſo. Nell'al tre opere s' accuſa il Commentatore di dar troppoſpirito al ſuo Filoſofo; in queſta è cutto il contrario, poichè per quanto ſiſpieghi Platone, vi reſta fempre molto a medicare, e la compa razione del reſtofa ſempre vergogna al commento. Ficino e Serano, che aſſegnarono al Dialogo ungrado di ſublimità Teologica non convenevole, l'hanno sfigurato, e colto aglialtri il profitto, che avrebbono potuto ricavare da una ſpe colazione così bendedocta e conforta nè punto inteſa dai due Commentatori, i quali preteſero chein queſto Dialogo chiama to dell'idee, voleſſe Platone diſputare a pro dellefeparate, quan do egli manifeſtamente le rifiuto, tutto riducendo all' Ontologia che è la più bella, e la più utile parte della metafiſica In molci erroricadè miſeramente il Carcelio, per averla ab bandonata, eſpregiata; e non furonodal Leibnizio, ed indi dal Wolfio ridotti al ſuo vero lume i dogmi filoſofici,ſe non dopo che effi s' affaticarono a dimoſtrare, le nozioni Ontologiche eſſerquelle alle quali convien avertire prima d' inoltrarſi nella combinazionedell'idee, e quindineiſiſtemi. Tutti gli uomini pre veggono gli aſtratti ne'concreci, pochi hanno la forza di ſepa rarli, pochiſſimi quella di ridurli inteoria, ed è ſolo riſerva to a' ſommi Filoſofi il farne ſiſtema. Voi molto piùvedete in Platone, che io poſſa eſprimere; in canto vi prego a conſer varmi ilvoſtro affetto, ed eſſer certo che il mio farà ſempre inviolabile. La scuolastoica è quella che nell'antichità ha sviluppato con maggior rigore eprofondità una riflessione semiotica. Tuttavia l'indagine degli stoici sipolarizza, com'era già av venuto per Aristotele, su due ambitifondamentalmente di stinti tra di loro: da una parte, una teoria dellinguaggio in senso stretto, che comporta anche un'analisi dei rapporti tralinguaggio, pensiero e realtà (in corrispondenza della terna significante,significato, oggetto esterno); dal l'altra, una teoria del segnoproposizionale, connessa con la teoria dell'inferenza. Questi aspetti dellafilosofia stoica trovano però un pun to di convergenza, come vedremo, nel lorocomune legame con il lekt6n, un'entità che ha uno statuto eccezionale nellametafisica stoica. In effetti, a fondamento di quest'ultima, si pone laspeciale dialettica tra le entità che condividono la proprietà di essere"corpi" (sOmata) e quelle entità che sono invece corporee (asOmata).Più in dettaglio si può dire che di solito l'ontologia stoica prende inconsiderazione solo quegli individui che hanno la caratteristica di essereoggetti tridimensionali e di possedere altresì una resistenza nel tem po.Questi, appunto, sono i corpi e solo essi vengono consi derati esistenti. Ora,tanto nella teoria del linguaggio, quan to in quella del segno proposizionale,accanto alle entità corporee vengono prese in considerazione anche delle entitàincorporee, quali i lekta.Per il momento è invece necessario sgombrare ilcampo da due equivoci. Il primo concerne il destino che tocca alle entità incorporee:esse non vengono relegate semplicemente nell'ambito del non-esistente, mavengono investite di una esistenza derivativa' (Long ). Il secondo possibileequivoco concerne la nozione stessa di corpo. Contra riamente a quello che ciattenderemmo in relazione a una nozione moderna di corpo, per gli stoici erano"corpi" an che le qualità, in quanto venivano considerate comemateria in un certo stato. Le proprietà di un certo individuo costi tuisconostati o modi del suo essere e, per la loro esistenza, dipendono dall'esistenzadi questo individuo. Se l'individuo esiste, le sue proprietà sono appuntodisposizioni esistenti di materia (Rist). Si profila, a questo punto, unaontologia che pone al suo centro la nozione di "particolare": quest'ultimoviene carat terizzato come un oggetto materiale, che ha una forma defi nitacome condizione necessaria e sufficiente della sua esi stenza. La forma, delresto, è l'elemento caratteristico di un oggetto, che lo rende identificabilecome tale (Long). È proprio su questi presupposti antologici che si innesta esi sviluppa la teoria semiolinguistica degli stoici: il bisogno di una teoriadel significato e della verità nasce appunto a proposito deIl'identificazionedei "particolari", ed è con nesso a una teoria della percezione.Così, si terrà presente innanzitutto che per gli stoici le im magini(phantasfa1) prodotte nella mente dagli oggetti ester ni danno luogo a unapercezione vera se esse riproducono esattamente la configurazione di talioggetti.1 Del resto, le immagini giocano un ruolo importante nella teoria delsi gnificato degli stoici, come si sa che avevano una parte im portante anchenella teoria del significato di Aristotele. In secondo luogo si può considerarecome fondamentale il fatto che uno dei modi di identificare un"particolare" è quello di identificarlo linguisticamente. In questocaso è fondamentale l'abilità di A nel comunicare a B che sta par landointorno a X, come pure l'abilità di B di indicare ad A che egli ha compreso ilsuo riferimento. Il passo di Sesto Empirico che contiene i lineamenti fondamentalidella teoria linguistica stoica si trova proprio in un contesto che concerne unconflitto di opinioni intorno alla verità. È importante sottolineare che pergli stoici una teoria del la verità, cioè la ricerca delle basi per unaverifica delle pro posizioni, non può essere elaborata in maniera indipendente da una concezione della struttura del mondo e da ciò che può essere dettointorno a esso. Ecco il passo di Sesto. Alcuni hanno riposto il vero e il falsonella cosa significata (tò smainomenon), altri nella voce (phon), altri infinenel movimento del pensiero. Della prima opinione sono stati i porta bandieragli stoici col sostenere che sono tra loro congiunte tre cose, ossia la cosasignificata (tò smainomenon), quella significante (tò smafnon), equella-che-si-trova-ad-esistere (tò tyn chanon), e che, tra queste, la cosasignificante è la voce (ad esempio la parola "Dione"); quellasignificata è lo stesso stato di cose (autò tò pragma) indicato dalla vocepronunciata (tò hyp'autis dloumenon), che noi percepiamo come coesistente(paryphistamenon) con il nostro pensiero (dianoia1), mentre i barbari, purascoltando la voce che lo indica, non lo compren dono; infine,ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori di noi (ad esempio, Dionein persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce eciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor porea, cioè l'oggetto significatoo "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero o falso (Sext.Emp., Adv. Math.) A partire dalle notizie di Sesto, anche per gli stoici il fenomeno della significazione linguistica può essere ricostrui to nei termini diun triangolo. Si può osservare che compaiono i termini significante esignificato (come è dato trovare anche nella teoria moderna di Saussure), manon quello di segno. Come ancheslmsin6menon (significato) lekt6n(detto) tmsm lnon (significente) tynchAnon in Aristotele, lanozione di smeion appartiene a un altro ambito della teoria, che non è quellostrettamente linguistico. Si può notare anche che l'esempio che viene dato quiè abbastanza particolare, in quanto si tratta di un nome proprio. In secondoluogo, se da una parte, come per Aristotele, i termini che individuano lasignificazione sono tre e comprendono anche l'oggetto, che propriamente èesterno al linguaggio, tuttavia la coincidenza tra i due modelli è soloparziale. Soltanto il primo e il terzo termine, cioè la voce si gnificante el'oggetto, possono essere assimilati nei due triangoli. Un caso assolutamente asé costituisce il termine che si trova al vertice superiore del triangolo,chiamato prima ù·lJ_ main6menon, poi anche lekt6n. Soprattutto nella sua secondadenominazione costituisce un termine peculiare della filosofia del linguaggiodegli stoici e rimanda a un concetto complesso e di grande interesse. Un primoaspetto della sua peculiarità lo si può rilevare in un confronto conAristotele. (oggetto esterno, referente). Nella stessa posizione del triangolodella significazione Aristotele pone delle entità psicologiche, che venivanoconsiderate le medesime per tutti gl’uomini. Il lekt6n degli stoici, come cidice Sesto nel passo riportato, ha caratteri completamente diversi, in quantoi barbari, pur udendo i suoni e vedendo l'oggetto, non lo comprendono . Comerileva Todorov, la differenza tra le due nozioni consiste innanzitutto nelfatto che, mentre l'entità presa in considerazione da Aristotele si situa alivello della mente dei locutori, quella considerata dagli stoici si situadirettamente al livello del linguaggio. Todorov interpreta il lekt6n come lacapacità del primo elemento di designare il terzo. Tale interpretazione poggiaanche sul fatto che l'esempio dato è un nome proprio, che ha una capacità dide signazione come gl’altri nomi, ma è molto controverso se abbia un *senso*.La risposta che di solito si dà a questo interrogativo è negativa. I barbariodono sicuramente la sequenza di suoni /dione/ e vedono Dione, ma sono incapacidi connettere il suono con il suo oggetto di riferimento. Comprendere, dunque,come avviene appunto nel caso dei Greci, consiste proprio nel percepire laconnessione tra la parola che viene pronunciata e l'oggetto cui si riferisce.Anche Long identifica il lekt6n con tale connessione, ma nel senso che esso siconfigura come l'affermazione che un enunciato fa nei confronti di qualcheoggetto; in questo caso, la traduzione più propria di lekt6n è "ciò che èdetto", in quanto tale espressione copre sia la nozione di giudizio chequella di stato di cose significato da una parola o da una serie di parole.L'idea che il lekton si può configurare come una affermazione intorno all’oggettoemerge da una testimonianza di Seneca (Epistulae morales), in cui viene delineatouno schema triadico della significazione analogo a quello di Sesto, ma con unaproposizione – “Cato ambulat” -- laddove Sesto propone solo un nome (“Dione”).Seneca invita a distinguere tra l'oggetto di riferimento, cioè Catone, che èun oggetto materiale, e l'asserzione intorno a esso, che è un incorporale. Taleasserzione è propriamente il lekton, del quale termine Seneca propone trediverse traduzioni latine: “enuntiatum,” “effatum,” e “dictum.” Dato chel'esempio proposto da Seneca è una proposizione, risulta più agevole, rispettoali'esempio di Sesto, capire come possa essergli applicato il predicato"vero" o "falso".4 nfatti solo i lekta che costituisconouna proposizione completa possono essere veri o falsi. Nel modelloaristotelico della significazione, una espressione e un simbolo di uno statopsichico (pathmata en tiipsychi1) elo dei pensieri (noimata). In questo modo, nonviene operata una chiara distinzione tra la nozione di significato e quella dipensiero. Tale concezione ricompare del resto nella nota teoria di Ogden e Richards,i quali disegnano un triangolo semiotico in cui figura al vertice superiore lanozione di "thought" ("pensiero"). Diversa è la concezioneproposta dagli stoici. In effetti, dalla testimonianza concorde di Sesto e diDiogene, si ricava una nozione di significato nettamente distinto dal pensiero,anche se intrattenente con questo un certo tipo di rapporto. Dice infatti Sesto.“Gli stoici affermano che il lekton è ciò che sussiste in conformità con unarappresentazione razionale (logike phantasia) e che una rappresentazionerazionale è quella secondo cui il rappresentato (phantasthén) può essereespresso in parole (Sext. Emp., Adv. Math.). In termini del tutto analoghi siesprime Diogene (Vitae), usando anche le stesse espressioni. Cosi, da entrambii passi si può ricavare l'idea che gli stoici operassero una distinzione nettatra il lekton, che rappresentano il livello del significato, e larappresentazione razionalie (logike phantasma), che possiamo definire come delleforme di atti vità intellettiva o dei pensieri. Quest'ultime entità sono peculiaridella specie umana e possono, ali'occorrenza, essere espresse in parole -- aquesto infatti si riferisce l'aggettivo, “logike”. Ma, sempre dai due passi, sipuò ricavare anche che i due termini, il lekton e l'attività di pensiero,vengono messi in relazione. Long cosi commenta il passo di Sesto: "I take this difficultpassage to mean that the lekton is defined as the objective content of acts ofthinking (noesis)" e aggiunge anche "or, what comes to the samething in Stoicism, the sense of significant discourse". Prima di approfondire il senso di questaseconda asserzione di Long, soffermiamoci sulla prima. Dunque la relazione cheil lekton instaura con l'attività di pensiero è tale per cui esso si configuracome contenuto o risultato di tale attività. Ma questa nuova relazione, che veniamo scoprendo attraverso le testimonianze di Diogene e Sesto, comporta unelemento nuovo rispetto a quanto lo stesso Sesto dice altrove (Adv.Math.),quando ha messo in relazione il lekton con l'espressione significante (cioè conil smainon). In effetti, se il lekton viene ora definito come qualcosa chesussiste in conformità con una rappresentazione razionale, è evidente chel'accento appare spostato dal precedente rapporto con il suono della voce, aun rapporto con l'attività del pensiero. Questa, prima di dimostrarsiun'apparente contraddizione o un falso dilemma, ha diviso sia le testimonianzedegl’esegeti antichi sia le interpretazioni degli studiosi moderni deglistoici. Come mette bene in evidenza Mignucci, il lekton, essendo incorporeo,non può essere disgiunti da qualcosa di corporeo che faccia in qualche modo dasupporto ad essi e che permetta la loro esprimibilità. Il proble ma divieneallora quello di stabilire se a fare da supporto a un lekton siano: un suono dellavoce; o l'attività della mente che li pensa. La prima definizione di Sesto optaper la prima; la seconda, come pure la definizione di Diogene, per la seconda. Ugualmente,tra gl’interpreti moderni, Mates risponde che è la parola a fare da supporto allekton. Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di vista. Come dicevamo,questo è un falso dilemma, non resolubile tuttavia filologicamente, in quantonei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi di convalida per ciascunodei due punti di vista. Piuttosto è necessario considerare un duplicepresupposto che sembra agire nella teoria stoica. Da un lato il verificarsi didiscorsi significativi rimanda a un'attività intellettuale, in assenza dellaquale non è possibile che si diano i significati. Dall'altra, il risultatodell'attività intellettuale ha bisogno dei suoni della voce significativi peresplicitarsi oggettivamente. È possibile, anzi, trarre le conseguenze dalfatto che un lekton è definito da una parte come *contenuto* di unarappresentazioni razionale e dali'altra come il significato di una parola:conseguenze che indicano la necessità di postulare una stretta connessione trai contenuti dell'attività rappresentativa della mente e il loro essere significatiattraverso le parole. I due termini, in realtà, non possono essere disgiuntil'uno dall'altro. A questo punto possiamo comprendere la seconda asserzione diLong che abbiamo anticipato: il senso del discorso significante e il contenutooggettivo degli atti di pensiero devono essere considerati come la stessacosa.. La precedente conclusione viene del resto appoggiata da tà14 è datodalla "rappresentazione" (phantasia) passo Diogene spiega che laphantasia ha un ruolo assolutamente primario, in quanto non è possibile, senzadi essa, rendere conto di alcuni processi fondamentali della conoscenza, qualil'assenso (synkatathesis), la comprensione (kata/psis) e l'attività di pensiero(nosis). Infatti la rappresentazione viene per prima, poi il pensiero(dianoia) che è capace di parlare (eklalètik), esprime in parole (/6g01) ciòche esperimenta come il risultato della rappresentazione. Il passo di Diogene è importante perchéripropone la nozione, già platonica, del pensiero come discorso interno. Tuttociò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sulla considerazione diun passo di Diogene Laerzio (Vitae) in cui viene detto che il criterio di veri-.. In questouna sostanziale identità tra i processi del pensiero e quellidella comunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi sianobasati sulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nellateoria linguistica del significato.Il lekton, che abbiamo finora incontratocome elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce una nozionefondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è un fattoredi mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (smefa) per gli stoici sono anzituttodei lekta, in auanto sono costituiti da proposizioni. Questo fa sì che, comesottolinea Eco, nella se fllÌOtica stoica si verifichi una saldatura didiritto tra la 0ottrina del linguaggio e la dottrina dei segni. Infatti, perché ci siano segni occorre che siano formulate proposizioni e le proposizionidebbono organizzarsi secondo una sintassi Jogica che è rispecchiata e resapossibile dalla sintassi linguistica. Occorre tener presente che gli stoicinon dicono ancora che le parole sono segni (-- cf. H. P. Grice – “Not allthings that mean are signs. Words are not”) -- sarà Agostino il pri (110 afare una simile asserzione -- e rimane, del resto, una differenza lessicale trala coppia smafnonlsmain6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni sianodei lekta ci illumina sul ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre ilsegno non verbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jflmaniera implicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno checi viene data da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno,dicono che è una proposizione (axioma) che è l'antecedente (prokathegoumenon)in un condizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del CONSEQUENTE(ekkalyptikòn tou ligontos). E dicono che la proposizione è un lekt6n completoin se stesso; e il condizionale vero è quello che non comincia dal vero efinisce ] Riprenderemo più avanti le varie problematiche che vengonopresentate in questo passo. Per il momento ci preme sottolineare che in esso sidefinisce il segno come un lekt6n completo, cioè come una proposizione che sipone in rapporto di implicazione con un altro lekt6n, cioè con un'altraproposizione, secondo lo schema: p -:J q. Si deve notare che, come perAristotele, l'attenzione per il segno è esercitata in funzione della conoscenzache esso permette di raggiungere: l'ottica, in altre parole, è ancora quellaepistemica, e il segno appartiene a un campo che è distinto sia da quellologico sia da quello semantico in senso stretto. Il segno, infatti, non è unaproposizione qualsiasi che figuri come antecedente in un condizionale vero, ma SOLOQUELLA PROPOSIZIONE CHE PERMETTE DI SCOPRIRE IL CONSEGUENTE – cioè, chepermette l'accesso a una nuova conoscenza. Va comunque notato che, se l'otticacon cui gli stoici guardano al segno è la stessa di quella di Aristotele,assolutamente diverso è il tipo di inquadramento logico. È normallnenteaccettato che Aristotele pratichi la logica delle classi, mentre gli stoiciintroducono quella proposizionale. Ciò comporta che l'attenzione venga spostatadalla so stanza degli eventi (Todorov), per quanto concerne il punto di vistaantologico, e dal nome/aggettivo, che funge da predicato, alla proposizione,per quanto concerne l'espressione linguistica. In effetti, in Aristotele sipoteva notare un certo disagio a trattare le sostanze e le proprietà comesegni. Ciò che, invece, può essere trattato come segno sono i fatti e gl’avvenimentiespressi da proposizioni. E del resto Aristotele, pur senza denunciare ladifferenza, tutta- nel falso [ di un condizionale che comincia con il vero efinisce nel vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione "ESSAHA LATTE" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n) di quest'altra "ESSACONCEPTIO" (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh.). Essi chiamano antecedente la primaproposizione via fornisce alcuni esempi di segno -- come quello dellaRetorica. "Se essa ha latte, essa ha partorito" -- in cui vengonopresi in considerazione eventi e non sostanze. Ma nella filosofia aristotelicala teoria del segno ha una parte marginale. Il segno viene fatto rientrare nelprocedimento sillogistico (costituisce una premessa del sillogismo) e vieneconfinato nel campo dei procedimenti retorico-dialettici, se non è un tekmirion,cioè, un segno necessario. Nella scienza vera e propria, fondata sul sillogismoperfetto, il smeion non trova f>osto. Al contrario, nelle scuolepostaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un ruolo centrale: dallaretorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene esteso allascienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli stoici e gl’epicureivedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è noto a ciòche è ignoto. Preti sostiene che, a proposito della teoria del segno, traAristotele e le scuole posteriori si può individuare un anello di congiunzione,rappresentato dalla teoria di Nausifane, un seguace di Democrito e uno deimaestri di Epicuro. Da quanto ci è rimasto della sua opera, il Tripo de, 1 8 èpossibile cogliere i punti essenziali di questo passag gio . Per Nausifane,infatti, il discorso filosofico (basato per Aristotele sul sillogismo) e quelloretorico (basato sull'entimema) presentano in realtà la stessa strutturalogica. In entrambi i casi è necessario distinguere tra la CONSEQUENZA oconclusione (ak6/outhon), la"premessa" (homologoumenon) e "ciò che deriva dallepremesse" (tlnon lphthénton ti symbafnei: il sillogismo?). In ognuno deidue tipi di discorso il problema è quello di partire da cose presenti(hyparchonta) per giungere in maniera metodica alle cose invisibili. Il metododel passaggio è la akolouthia, "la relazione di consequenzialità",di implicazione o implicitazione, comune appunto a filosofia e retorica. Ora,come testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apò ton enargOn) alla comprensionedel le cose oscure (adla) per mezzo del segno come relazione di akolouthiacostituisce proprio il nocciolo della dottrina de gli stoici -- come pure ditutti coloro che Sesto riunisce sotto la possibilità di passaggioil nomedi "dogmatici". Non solo, ma come prova della centralità dellasemiotica, anche la dimostrazione viene considerata un segno: fatto chetestimonia la riduzione della filosofia della scienza a semiotica e che confermala tendenza delle scuole post-aristoteliche a ridurre o trasformare ilsillogismo nell'inferenza implicativa. 1 I tipi di segno, comune e proprio. Nella semiotica stoica siregistra la scomparsa della di stinzione terminologica tra tekmrion e smeion:il primo termine non viene più usato e i segni vengono tutti denomi natismeia. Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab bandono delsillogismo e della sua distinzione in figure la quale sorreggeva taleopposizione. Tuttavia, al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra"segno comune" (koinòn smeion) e "segno proprio" (fdion).Tale distinzione non era specificamente stoica, ma appartenente a una koinifilosofica ellenistica, sulla quale c'era accordo anche tra scuole per altroverso in contrasto. Una definizione sufficientemente chiara dei due tipi di segno si trova nel trattato semiotico di Filodemo. Un segno è comune (koin6n) pernessuna altra ragione che quella per cui può esistere, sia che l'oggetto nonpercepito (tò adlon) esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona checrede che questo particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, stausando un segno non valido e comune dal momento che molti che sono ricchirisultano malvagi e molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se ènecessario (ananka stik6n), non può esistere altrimenti che con la cosa chenoi di ciamo appartenere di necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi dentedi cui è segno (Philodemus, De signis)C'è una convergenza nelle scuole postaristoteliche nel ri tenere il segnocomune come non valido e nell'accettare in vece unicamente il segno proprio.Dalla definizione di Filodemo si ricava che una differenza peculiare consistenel ca rattere di necessità del segno proprio, che viene definito co me"necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto da quellocomune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il segnonecessario di Aristotele che ri chiedeva una connessione necessaria conl'oggetto a cui rin viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quelsegno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa rebbe segno, ma puòanche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezzadi un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altrino), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in secondae terza figura di Aristotele. Infatti per Ari stotele si poteva inferire dalpallore di una donna il suo es sere gravida (segno in 2a figura) oppure dallabontà di Pit taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi segni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a unaconclusione interessante: men tre Aristotele, pur negando validità scientificaai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epistemologicamente più basso, come quello della retorica, do minio delPopinione,la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulitadelle inferenze del tipo non necessario. I tipi di segno:"rammemorativo" e "indicativo" Filodemo aveva scritto ilsuo trattato intorno alla metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sestoriprende la di stinzione tra segno preso in senso proprio (idlos) e segnopreso in senso comune (koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione delsegno; ma, stranamente, assimila questa a un'altra opposizione, quella trasegno rammemorativo e segno indicativo: Il segno si dice in due maniere, comune(koinOs) e proprio (idt'Os). In maniera comune si dice segno quello che sembrarive lare qualche cosa: in questo senso sogliono chiamare segno anche ciò cheserve a richiamare alla memoria la cosa osservata in sieme con esso. Inmaniera propria si dice segno quello che è in dicativo di una cosa avvoltanell'oscurità. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente, e in manieracontraddittoria, tuttavia Sesto sembra voler mantenere la duplice distinzione,in quanto, dopo aver introdotto l'opposizione tra segno co mune e segnoproprio, dichiara di voler trattare solo di que st'ultimo; e poiché il segnoproprio è quello che permette di scoprire le cose che sono oscure, egli propone di distinguere preliminarmente le cose in "manifeste" e"oscure", e di suddividere ulteriormente quest'ultime in trecategorie. Ne risulta una quadruplice tipologia: (i) Le cose manifeste oimmediatamente evidenti: sono quelle che giungono alla conoscenza in manieradiretta; co me esempio Sesto porta "il fatto che è giorno e che io sto discorrendo"23 quando io faccio realmente queste cose. Le cose oscure insenso assoluto: sono quelle che han no una natura tale da non arrivare allanostra comprensio ne (kata/psis), come a esempio "se le stelle siano dinumero pari o dispari" o "se i granelli di sabbia della Libia sianodi un determinato numero".24 (iii) Le cose oscure temporaneamente: sonoquelle che pur avendo una natura manifesta divengono, per certe cir costanze,non evidenti per un certo tempo: l'esempio è il fatto che, chi si trova a unacerta distanza, non vede la città di Atene. Atene, visibile per sua natura,diviene tempora neamente invisibile a causa della distanza.2 (iv) Le coseoscure per natura: sono quelle che hanno una natura tale da non esserepercepite, ma sono soltanto pen sabili (noto1). Gli esempi sono "i poriintelligibili" e "il vuoto". Non si pone un problema di segni aproposito della prima e della seconda categoria, in quanto le cose manifesteven gono comprese in maniera non mediata e le cose oscure in senso assolutonon possono essere comprese affatto. Invece è proprio attraverso i segni chepossono essere comprese le cose che appartengono alle ultime due categorie. Mai tipidi segno sono diversi per ciascuna di esse. Le cose temporaneamente oscure si colgono attraverso i segni rammemora tivi, quelle oscureper natura attraverso i segni indicativi. Ecco la definizione che ne dà Sesto:Dei segni, secondo i dogmatici, alcuni sono ram· memorativi (hypomnstika),altri indicativi (endeiktika). Chia mano segno rammemorativo quello che,osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, appena esso sipresenta, se quella è avvolta nell'oscurità, ci conduce a ricordare la cosa cheè stata osservata insieme a tal segno e che non si presenta ora in manieraevidente, come avviene per il fumo e il fuoco. È invece indicativo, comedicono, quel segno che, non osservato insieme con la cosa designata in manieraevidente, pure, per la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui èsegno; così, per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima. (Sext.Empyr., Hyp. Pyrrh.) Il segno rammemorativo è, in sostanza, frutto di un'associazione costante tra cose comunemente osservate in con nessione empirica.Sembra, tra l'altro, che gli esempi che Sesto sceglie per illustrare questotipo si distribuiscano se condo la tripartizione28contemporaneità/anteriorità/po steriorità tra il segno e la cosa indicata: nelcaso di "fu mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in"cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" ilfatto indicato è anterio re; in "ferita al cuore-morte", il segnorimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza delprecedente, non è su scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui èsegno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmenosospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettonodi risalire all'"anima", o "il su dore" che rimanda ai"pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica deisegni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi,che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei"medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguenteschema la classifi cazione di Sesto: cose manifeste oscure nondanno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura dannoluogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che ladistinzione riportata da Se sto tra segno rammemorativo e segno indicativosolleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se netrova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stessoSesto. Inoltre, tale distinzione appa re addirittura in contrasto conl'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamentologico-for male della teoria del segno. Questa distinzione, per quantoimportante dal punto di vista epistemologico, appare irrile vante dal punto divista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione trasegno comune e segno proprio, secondo la testimonian za di Filodemo. È, tral'altro, il carattere necessario del se gno proprio che dimostra la coerenzadi essa con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre unsegno "ne cessario", come un'analisi più dettagliata della suastruttura ci permetterà di vedere. Ritornando alla definizione stoìca di segnoche abbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Primadi tutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa"connesso" o "connessione". Il suo significato logico civiene chiarito da Diogene: si tratta dell'asserto temporaneamentecondizionale del tipo "Se p, q", in cui a una prima proposizioneconsegue una seconda come nell'esempio "Se è giorno, c'è luce". Laseconda cosa da prendere in considerazione è la nozione di condizionale valido(hyghiés, "sano", igienico). Da un passo di Sesto, dove se ne trovala definizione, è possibile ricavare che questa nozione è affine alla moderna INTERPRETAZIONEVER-FUNZIONALE di "Se p, q". Infatti la validità o in validitàdell'asserto condizionale "Se p, q" dipende dal valore di verità dell’antecedentee del conseguente di esso.Sesto, in due passi paralleli, camente quelcondizionale che non comincia dal vero e finisce nel falso e fcrnisce unatavola dei valori di verità del tutto conforme a quella che la logicacontemporanea preve de per l'implicazione materiale: p q ·se p, q•valido vero vero falso falso vero falso invalido falso vero valido Sestoaccenna anche a un disaccordo tra i logici stoici a proposito del criterio pergiudicare un condizionale valido. Esso corrisponde a ciò che è stato definitodai Kneale il dibattito sulla natura dei condizionali, che anima le discussionidi logica ali'epoca degli stoici. Il terzo elemento da rilevare è legato allanozione di se- definisce come valido uni valido gno come antecedente(prokathegoumenon) in un condizionale valido. In effetti, come fa rilevare lostesso Sesto, i tipi di condizionale valido sono TRE nella tavola dei valoridi verità corrispondente all'IMPLICAZIONE MATERIALE: 1) V V; 2) F F, e 3) F V.INVALIDO: V F. Il problema diviene dunque quello di vedere se la struttura delsegno sia da ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionale valido, o soloin casi particolari. Ora, in effetti, un segno non può non essere espresso dauna proposizione vera, come pure deve essere vera la proposizione a cui essorimanda. Così SONO ESCLUSI sono il secondo (F F) e il terzo caso (F V), inquanto hanno un antecedente falso. Dunque, l'unica possibilità è relativa al PRIMOtipo di condizionale – cioè, quello che comincia dal vero e finisce nel vero. Mac'è un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al carattere che il segnodeve avere di essere *rivelatore* (enkalyp tik6n) del conseguente. In effetti,un condizionale del tipo "Se è giorno, c'è luce", nel momento in cuisi verifichino le due condizioni che sia giorno e che vi sia luce, è formato dadue proposizioni entrambe vere.Tuttavia, secondo Sesto, non si realizzano inquesto caso le condizioni perché vi sia un segno, in quanto entrambe leproposizioni rimanno a FATTI DI PER SÉ EVIDENTI (cf. la caverna di Platone). Ilprimo termine del condizionale non è *rivelatore* del secondo – cf. Grice:“Black clouds mean rain” – yes). In effetti, per comprendere la vera natura delsegno bisogna passare dal piano strettamente logico a uno più generalmenteepistemologico, epistemico, o cognoscitivo, doxastico incluso. Il segno, pergli stoici, non solo deve avere una corretta costruzione dal punto di vistalogico, individuabile nella implicazione tra due proposizioni vere, ma deveanche possedere il carattere di dispositivo che permette di accrescere la conoscenza.Come già in Aristotele, anche per gli stoici il segno si appoggia su un livellologico, ma si inquadra in un'ottica conoscitiva. Gli esempi di caratteremedico (Grice: “Those spots didn’t mean anything to me, but to the doctor, theymeant measles”) denunciano l'origine di quest'ottica. In generale il segnodeve permettere il passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso,come "egli ha sputato cartilagine bronchiale" – or Grice’s “Spots” --a una conoscenza di molto più difficile accesso, come "egli ha una piaganel polmone" (“measles – and Dahl ignored it. A tragedy – and part of afather’s responsibility and liability to know what measles spots mean””)Tuttavia, ciò che la teoria del segno acquisisce, passando dalle mani deimedici a quella dei filosofi, è una solida struttura dal punto di vistalogico-formale, tale da escludere la possibilità di inferenze scorrette o nonigieniche – malatta. Quanto ampio edifficoltoso fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere, sul pianologico, per stabilire un criterio atto a escludere le inferenze scorrette, lodimostra l'acceso dibattito che si sviluppò sulla natura dei condizionali(Kneale). Scrive infatti Sesto Empirico. Tutti quanti i dialettici sonogeneralmente d'accordo neli'affermare che un condizionale è valido quando ilsuo conseguente segue (akolouthei) dal suo antecedente, ma disputano sul come equando esso segua, e propongono criteri rivali (Adv. Math.). Riferendosi aquesto dibattito, Sesto elenca quattro criteri che sono proposti per stabilirela validità di un as serto condizionale: quello di FILONE MEGARICO (H. P.GRICE); quello di Diodoro Crono; quello della srsnartsis attribuibile aCrisippo; e quello della émphasis. Sulla disputa si può tuttavia fareun'osservazione generale preliminare. Il punto di partenza, infatti, come fanotare Hurst, è una relazione già conosciuta, nel senso che essa èriconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece costituisce lo scopo è unadefinizione di questa relazione di consequenzialità (akolouthla) in terminiformali. Nel corso dell'intero dibattito sulla natura dei condizionali i logicisi sono concentrati sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo, che puòpossedere proprietà autonome, essendo dotato di significato, non è stato presoin considerazione se non nella misura in cui poteva essere provato che essocoincideva con il definiendum. Si è cosi spesso creata una confusione tra i duelivelli e spesso sono stati scelti esempi che ambiguamente sono in grado dielucidare sia la relazione riconosciuta, sia le proprietà della relazionelogica che essi tentavano di identificare con la prima. Può aiutarci acomprendere meglio questo modo di procedere un paragone con i metodi dellalogica contemporanea. I logici contemporanei, infatti, sono in genere interessati unicamente al definiens, cioè alla relazione che essi possono stabilirein simboli, senza riguardo alla questione se tale relazione sia identica aquella che è ampiamente conosciuta, facilmente riconosciuta, e poco compresacome quella di una espressione di implicitazione ("following", “yielding”-- Hurst). A esempio Peirce e Russell erano interessati alle proprietà dellaimplicazione materiale indipendentemente dal fatto che essa riproducesse ilsignificato "usuale" di "implica" ("implies", odi “se”). Così pure Lewis era interessato al sistema della implicazione rigidasenza sostenere che l’im plicazione rigida rappresenti il significato di"implica" (cf. H. P. GRICE citato da P. F. STRAWSON, Introduction toLogical Theory – e P. F. STRAWSON, Introduction to “Philosophical Logic” onQuine on the meaning of ‘if’. --. Questa differenza nel modo di procedere traantichi e moderni comporta un'ulteriore differenza formal. Mmentre i logiciantichi sono interessati a dare un'unica definizione, i moderni lo sono afornire due definizioni: quella di "implicazione materiale" e quelladi "implicazione rigida". Filone è il primo esponente della scuolamegarico-stoica citato da Sesto ed è il primo che dà un'interpretazione vero-funzionaledell'espressione "Se p, q". Secondo Filone – citato da Grice nellaWilliam James IV, ‘Condizionali indicativi’ --, un'espressione condizionale èvalida o o vera se, e solo se, non comincia con il vero e finisce con ilfalso. Come abbiamo già visto, la definizione che Filone dà del criterio diconsequenzialità (ako/outhfas kritrion) corrisponde al quadro dell'implicazione materiale. Infatti sono tre i casi in cui il condizionale èvalido, corrispondente ai tre esempi seguenti:"Se è giorno, c'è luce" (VV); "Se la terra vola, la terraha le ali" (FF); e "Se la terra vola, la terra esiste" (FV).Come sottolineano i Kneale, è probabile che Filone ha in mente l'usodell'espressione "Se p, q" nel ragionamento e che vuole attirarel'attenzione sul fatto che la congiunzione dell'asserto condizionale con il suoantecedente implicita sempre il conseguente. L'interpretazione proposta daFilone è la più debole che soddisfi tale requisito. Diodoro Crono è ilmaestro di Filone, e la ragione per cui Sesto lo cita per secondo può essereforse attribuita al fatto che, mentre Diodoro riuscì a confutare Filone, quest'ultimo non riuscì a fare altrettanto con il primo (Hurst – “wheras H. P.Grice had no qualm about criticising his own tutee!”). La critica che Diodoromuove all'interpretazione filoniana -- verso la sua diodoreana -- insisteproprio sul carattere di debolezza di quest'ultima. Egli individua infatti degl’esempidi condizionale che, pur potendo soddisfare il requisito filoniano in un tempott, possono tuttavia mancare di soddisfarlo in un altro tempo t2. A esempio,l'asserto "SE É GIORNO, IO STO CONVERSANDO” è considerato VERO da Filonese si dessero le condizioni, in un tempo t, per cui è giorno e io stoconversando. Diodoro invece crede dimostrare che esso è falso, sostenendo chenon c'è niente nella sua natura che permetta di dire se esso cada o no sotto laDEFINIZIONE di Filone. Infatti, esso – “SE É GIORNO, IO STO CONVERSANDO” puòessere pronunciato anche in un tempo t2, quando è giorno -- MA io rimangosilenzioso. In questo caso esso avrebbe la forma – o interpretazione --invalida (falsa) VF. Per ovviare a questo inconveniente, Diodoro elabora unaconcezione secondo la quale un condizionale è valido quando "non ammise,né ammette di cominciare con il vero e finire con il falso". L'esempioche egli dà è "Se non esistono gl’elementi atomici delle cose, esistonogl’elementi atomici delle cose", che, secondo Diodoro, ha l'antecedentesempre falso e il conseguente semprevero: ciò basterà a escludere l'evenienzadi un antecedente vero con un conseguente falso, unico caso in cui ilcondizionale sarebbe non valido La terza concezione di condizionale validoriportata da Sesto è quella che, secondo diversi studiosi moderni (Mates; Bochenski),corrisponde alla implicazione rigida di Lewis o comunque a una forma diimplicazione necessaria (Kneale; Preti). In maniera concorde con il passo diSesto, che abbiamo visto, questa con cezione viene riportata da Diogene (Vitæ).ÈVERO un condizionale nel quale il contraddittorio (antikefmenon) delconseguente è incompatibile (macheta1) con l'antecedente, come a esempio “se ègiorno, c'è luce”. Il nome del sostenitore di questa concezione non ci è statolasciato da chi la riferisce. Ma vi sono prove che essa appartenesse a Crisippo(cfr. anche Miiller). La nozione di "incompatibilità", messa in scenada que sta definizione, è molto interessante, ma problematica in quanto nonviene chiaramente definita. Hurst, commentando il passo, tende a mostrare chela relazione di incompatibilità e anche, più in generale, quella di"consequenzialità" (following, yielding), non possono essere espressein termini estensionali, cioè mediante relazioni esterne, che sussistono tra leproposizioni in virtù di pro prietà che esse avrebbero al di fuori dellarelazione. Al contrario, è necessario ricorrere alle relazioni interne chesussi stono in virtù del loro significato. Può essere interessante confrontarequesta conclusione di Hurst con le osservazioni di Preti, il quale so stieneche l'esempio di Sesto, dato a proposito della “synartsis” (connectio”) sembraalludere a qualcosa di ancora più forte della strict implication di Lewis, allavera e propria tautologia". Preti basa la sua osservazione sulle notiziecirca la dottrina stoica che vengono riportate da Filodemo nel De signis. Ineffetti in quel testo è presentato come genuinamente stoico il metodoinferenziale della contrapposizione (ana skeu), che appare analogo a quellodella synartsis. Infatti, l'inferenza per contrapposizione è quella in cui lanegazione del conseguente comporta la negazione del l'antecedente. Essa siconfigura in maniera tale che la verità del condizionale "Se il primo, ilsecondo" è garantita dalla verità del corrispondente condizionale "Senon il secondo, non il primo". Preti sottolinea le affinità tra lasynartsis (secondo cui la negazione del conseguente è incompatibile conl'antecedente) e il metodo di contrapposizione (anaskeu) (in cui la negazionedel conseguente comporta la negazione dell'antecedente), e in entrambi i casichiama in causa la implicazione rigida di Lewis, con la precisazione che gliesempi forniti da Filodemo sembrano indicare un rapporto più forte, che tendea risolvere l'inferenza o in una forma di tautologia o in una forma diL-implicazione. Nel passaggio dalla teoria aristotelica del segno a quellastoica c'è, come abbiamo visto, uno spostamento di accento dai termini su cuisi costruiscono le proposizioni categori che nel sillogismo, alle relazionitra le proposizioni nell'as serto condizionale. Contemporaneamente si registraun'accentuazione del carattere, già presente in Aristotele, di consequenzialitànecessaria che la relazione segnica è chiamata a istituire: l'inferenza daltermine noto a quello non noto deve presentare un carattere cogente. – cfr.Hobbes on ‘consequence’ – Computatio – e Grice, “Meaning Revisited” – x, y –consequence --. Ci sono due ragioni di questo aspetto necessaristico dellasemiotica stoica, una legata ali'analisi della natura della ra gione e deisuoi processi, l'altra riferibile alla configurazio ne della metafisica stoica(Lacy). Per il primo punto è Sesto stesso a informarci che gli stoiciritenevano che l'uomo si differenzia dagli animali per la sua capacità didiscorso interno (logos endiathetos) e in virtù della sua abilità di combinarei concetti e di passare dall'uno all'altro. L'uomo possiede infatti la nozionedi consequenzialità (akolouthfa) e con ciò egli possiede anche la nozione disegno, che ha appunto la forma: "Se questo, quest'altro". Così l'esistenza del segnosi pone in stretta dipendenza dalla natura del pensiero umano. Quanto alsecondo punto, la metafisica stoica poggiava sull'idea che il reale fossecostituito da una catena ininter rotta di eventi, legati tra loro da rapportidi causa-effetto. Tali relazioni erano .:oncepite come necessarie in quantodipendenti daiPordine razionale istituito dalla divinità. In questo modo, laconsequenzialità necessaria nella relazione segnica valida riproduce quellastessa consequenzialità che si rintraccia a livello della concatenazione deglieventi. L'insistenza che gli stoici pongono sull'asserto condizionale esull'inferenza da segni indica proprio l'enfasi da loro col locata sullarelazione necessaria tra concetti e proposizioni a livello logico e tra causeed effetti a livello metafisica. Su queste basi, del resto, riposa la stessaaccettazione, con riserva, della divinazione da parte degli stoici. La divinazione consiste, infatti, nel cogliere la relazione che colle ga certiavvenimenti presenti e altri che avverranno.4 Ora, per quanto la razionalitàdegl’uomini sia sostanzialmente dello stesso tipo di quella che hanno gli dei,tuttavia questi ultimi possiedono la conoscenza dell'intera catena causale chelega gli eventi ("conligatio causarum omnium"), mentre ai primi èpreclusa. Gli uomini non possono conoscere dunque le cause ma solo gli indizicaratteristici delle cause ("signa causarum et notas") degli eventi esu questi si basano per predire il futuro. Ma, a differenza di quanto avverrebbe per gli dei, i condizionali degl’uomini intorno al futuro mancano dinecessità. Nel caso della scienza umana (che per gli stoici equivale a quellodella dialettica) il segno deve basarsi su un'impli cazione necessaria. Maquesta, che è una caratteristica irri nunciabile, non è tuttavia sufficiente adefinire un segno. Infatti, in un condizionale come: "Se è giorno, c'èluce» il giorno non potrebbe essere considerato un segno della luce in quantoentrambe le cose sono evidenti e quindi l'inferenza non può provare nulla. Laverità su cui si basa è certamente a priori e analitica, come sembra richiestonel caso delle verità necessarie, ma tale condizionale è privo dellacaratteristica di permettere di scoprire una nuova conoscenza. Il segnostoico, in conclusione, si deve inquadrare in uno schema logico (che è quellodeli'implicazione necessaria), ma deve contemporaneamente superarlo percollocarsi in un'ottica epistemologica, nella quale esso diventa fattoredell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener presente che l'essenza delsegno è l'inferenza che va dalle cose ma nifeste a quelle non percepite. Ma aquesto punto sembra delinearsi nella semiotica stoi ca un problemadifficilmente resolubile: come è possibile che l'inferenza segnica siaanalitica (se si pensa alla L-impli.. cazione di cui parla Preti) econtemporaneamente fornisca una nuova conoscenza (la scoperta di un fattonascosto)? Prendiamo come esempio di segno una dimostrazione (infatti anche ladimostrazione viene considerata, secondo la testimonianza di Sesto, un segno):-sono pori intellegibili nella pelle. - Il primo. - Dunque, il secondo . Quil'inferenza è condotta dal fatto percepibile rappre sentato dallo scorrere delsudore al fatto nascosto che esi stano pori nella pelle. La presenza dei poriè un fatto oscuro per natura. Infatti, essi possono soltanto essere conosciutidalla mente (noto1), ma non dai sensi in un'epoca in cui il microscopio non eraancora stato inventato. Sesto aggiunge, come argomento rafforzativo dellepremesse nel ragionamento precedente, un'ulteriore argomentazione: - compattoe non poroso. - Il sudore scorre attraverso il corpo. Pertanto non è possibileche il corpo sia compatto, ma esso è poroso. La premessa maggiore di questaargomentazione sembra essere basata sul test di contrapposizione (Q::jJ)applicato alla premessa maggiore del precedente. Infatti se al condizionale: p(se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo) ::q (ci sono poriintellegibili nella pelle) Se il sudore scorre attraverso la superficie delcorpo, ci È impossibile che un liquido scorra attraverso un corpo applichiamoil test di contrapposizione, otteniamo l} (se la pelle è un corpo compatto enon poroso) :>p (un liquido non vi può scorrere attraverso), espressioneche è alla base della premessa del secondo ragionamento di Sesto. Essapermette di sviluppare un ragionamento corrispondente al MODVS TOLLENS, checonvalida la conclusione del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se glistoici riescano a evitare, con il ricorso alla contrapposizione, lacontraddizione che esiste tra la richiesta di una relazione necessaria e apriori tra le due proposizioni del condizionale e la necessità che il segnoproduca nuova conoscenza. Di fatto la contrapposizione rende necessaria larelazione anche nel caso di verità fattuali, poiché parte dall'assunzione cheil fatto oscuro per natura sia legato a quello evidente in modo tale che ciòche è evi dente non potrebbe esistere se il fatto non percepito non fossequale viene rivelato essere. Antonio Schinella Conti. Antonio Conti. Keywords: Conti’sFrench letters – Conti’s Scritti Filosofici, Dialoghi Filosofichi, aboutwhether corpori celesti are inhabited -- l’infinito, self-referential,recursion, anti-sneak, regress, infinite regress in the analysis ofcommunication, calcolo finitesimale, calcolo infinitesimale, Enea stoico,Ottavio Stoico, Cicerone stoico, semiotica stoica – allegoria dell’Eneide,scudo di Enea, Il Parmenide di Platone – assiomatico dell’essere – L’essere e. Refs.:Luigi Speranza, “Grice e Conti” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Conti: il primo storico italiano della filosofiaitaliana – amato da Fiorentino -- la ragione conversazionale e l’implicaturaconversazionale – scuola di San Miniato – filosofia pisana – filosfia toscana-- filosofia italiana – Luigi Speranza (San Miniato).Filosofo pisano. Filosofo toscano. Filosofo italiano. San Miniato, Pisa,Toscana. Grice: “Conti is a good one – a historian ofphilosophy, or rather a philosophical historian – I never know! – his chapteron the Greek embassy that brought philosophy to Rome is stimulating!” Studia aSiena e Pisa. Si laurea a Lucca. Insegna a Lucca, Pisa, Firenze. Filosofo delbello, che define stare fra il vero e il buono, e li collega come il mezzo trail principio e fine. Altre opere: “Cose di storia e d'arte; Evidenza, amore efede, o i criteri della filosofia, discorsi e dialoghi. Famiglia, patria, Dio,o i tre amori”; “I discorsi del tempo in un viaggio in Italia”. In ogni cittàcoglie occasione per un insegnamento civile; a Venezia isulla religione, aMilano sullo stato, ecc.; “Il bello nel vero, o estetica”; “Il buono nel vero,o morale e diritto naturale”. “Illustrazione delle sculture e dei mosaici sullafacciata del Duomo di Firenze”; “Il vero nell'ordine, o ontologia e logica”; “L'armoniadelle cose, o antropologia”. Cerca di costruire una metafisica fondata sullarelazione, l'armonia, l'ordine; Studia l’educazione religiosa, civile e private;“Letteratura e patria, collana di ricordi nazionali”; “Nuovi discorsi deltempo, o famiglia, Patria, Dio Religione ed arte, collana di ricordinazionali”; “Storia della filosofia”, molto accreditata. “Sveglie dell'anima.Il Messia redentore vaticinato, uomo dei dolori, re della gloria. La mia coronadel rosario. Ai figli del popolo, consigli. Duprè o Dell'arte, 2 dialoghi.Evidenza, amore e fede o i criteri della filosofia” -- lezioni e dialoghi sullafilosofia cristiana; lavoro scientifico e popolare, e discorsi sulla storiadella filosofia, accordo della filosofia con la tradizione; discussione sullafilosofia e la fede. La filosofia di Dante. “Il bello qual mezzo”. DizionarioBiografico degli Italiani. Armonie ideali nell'opere belle. L'artista devetendere al più alto se gno ideale. Ordine dell'idea chiaro che include giudizje ragionamenti. Dialettica dell'arte, o dialettica rappre sentativa. L'idea èuniversale, talchè i particolari dell'arte non debbono mai ecclissare oescludere l'universalità del concetto; perché, altrimenti, arte bella non c'è’ L’ordineideale porge alle immagini formosità. eletta, che manifestasi o per cosestraordinarie, o per l'eccellenza de'modi, o per tutto ciò ad un tempo, maſuggendo le ampollosità. L'ordine idealesi determina ne sezni; onde s' origina l'armonia de'con trapposti. Armoniadell'ordine ideale con la natura, legge di corrispondenza e di contrappostoanche in ció. Armonia col divino pernatura.Il gusto del Bello. Regola prossima è il gusto. Sentimento di verità, dibellezza, e di bene. Che cosa è il gusto? Ana logie del gusto intellettivo colgusto sensitivo. Urficj del gusto; sanità e infermità; abiti buoni, o vizinsi; S'esaminagli ufficj del gusto intellettivo della bellezza. Effetto del gusto. Il gustonon può mancare a ' veri artisti, e avvertenze io giudicare il gusto loro dall'opere. Quattro gradi del gusto. Aiuto che il gusto del bello riceve dalsentimento logico e dalla morale coscienza. Stato di sanità o di malattia, cioèbuona o rea edu cazione. E empj. Statod' abiti buoni o viziosi. Esempj. Conclusione. Come si può guarire o correggereil gusto falso. Le leggi del gusto. Che cosa presuppone l'esame ch'uno facciadel proprio gusto, 3. affinchè possa regolarci un gusto buono e rettificarsi ungusto cattivo, 4. e primiera mente il derivato da falsa educazione. 5. Studioperciò di buoni esemplari. 6. Esame degli abiti viziosi, e quanto alla verità –7. e quanto a ' fini dell'arte. - 8. Il gusto deve mostrarci il modo e ilquando dell'operare. Elevazione del sentimento.Verosimiglianza. Esempj.Equazione di tutti gli elementi dell'arte con l'idea. Gusto de' limiti. Ilimiti massi. mamente ne segni esteriori.I Pedanti e i Licenziosi. Argomento. Che sieno i Pedanti e i Licenziosi.Significato più generale di questi vocaboli. 4. Si gnificato più proprio estretto. Errori contrarj e vizj comuni. La pedanteria va fuori di natura. 7.Esem pj. 8. Va fuor di natura la licenza. 9. Esempj. Non comprendonol'universalità i Pedanti. Esempj. 12. Nė la comprendono Licenziosi. 13. Esempj.Non hanno vera nobiltà i Pedanti, 15. e la licenza è ignobilità. Talchè gli unie gli altri non consegui scono fama durevole. Estro. Leggi dell'ordineimmaginato.. 1. Argomento. Immaginazione. Rinnovazione di fan tasmi, 3. einnovazione o invenzione. 4. Queste per tre modi, spontaneo. pensato, meditato.Leggeuniver sale della fantasia e sede di quella nell'intelletto. 6. Gradidell'invenzione immaginativa. Primo; mutamento di alcune cose percepite.Secondo;immagini di cose reali non percepite. Terzo; novità d'imma.ini fra percezionioscure. 8. Quarto; un ordine di verosimiglianze relativo a un or dine di cosereali determinato. 9. Quinto; relativo a no tizie vaghe. 10. Sesto; relativo adastratte generalità. 11. Settimo; fantasmi di cose semplici, spirituali,divine. 12. Ultimo; armonia universale di fantasmi e loro elevazione. 13.Perché l'estro abbia tal nome. Origini sue misteriose. 15. Estro fallace ovuoto, e vero o fecondo. Conclusione. Armoniainterna delle Immagini. Argomento. Sceltezza e vita delle immagini, Scel. tezzarispetto all'arti diverse; 3. e rispetto ai componi menti speciali d'un' arte;e rispetto agli argomenti. Sceltezza per la qualità e per la quantità. 5. Vitadelle immagini, 6. come le figure d'affetto nell'arte del dire. Unione delsensibile con l'ideale. Allegoria, e 8. allegorie speciali, e vizjdell'allegoria. 10. L'im magine deve ritrarre l'idea intera; e quindi bisognaimma ginar l'opera innanzi di farla e che rispondano i par ticolari al lutto el'e - trinseco venga dall'intrinseco, e gli accessorj dal principale. 13.Spiritualità delle im magini. 14. e vizj opposti. 15. Relazione specificatadelle immagini co' segni. Armonie di verosimiglianza in generale. Argomento elegge universale di corrispondenza e di con trapposto, e come si rifletta nelleimmagini dell'arte. 2. Questa legge apparisce nella qualità, quantità, tempo espa zio. 3. Relazioni. 4. Esempj antichi di letteratura. 5. Esempj dell'éranostra, - 6. Drammatica e lirica 7. Figure di confronto ne'linguaggi. – 8.Esempi del disegno e della musica. 9. Analogia del corporeo e dello spiritua le.10. Loro diversità; – 11. e contrapposto nella na tura e nell'arte. 12.Verosimile immaginoso, che differi sce dal reale, benchè gli somigli. 13.Quello trascende. Poesia e architettura. 14. Scultura, pittura, musica, e artiausiliari. Com'accade ciò. Armonie con la natura corporea. 1. Argomento. Leggenaturale di simetria. 5. Vi sta e udito porgono immediati all'arte bella isensibili rap presentati, Il lalto remotamente, il gusto e l'odoratoindirettamente forniscono all'arte cose immaginabili, salvo la poesia ch'èuniversale. Legge naturale di simetriane ' visibili aspetti, - 6. e ne' suoni. - 7. Legge corrispon dente nell'artebella. 8. Simetria di quantità nel grado. Simetria di quantità nel numero de'suoni, delle cose visibili. 11. Simetria naturale dello spazio. 12. Simetrianell'arti, quanto a’limiti. 13. Simetria di limiti anche nell'unione di piùcose. Simetria di luo ghi. 15. Simetria di tempo misuratore, e di tempo rappresentato. - Armonie con la natura spirituale. Gli affetti. Somiglianza loro;3. varietà; 4. contrapposto. 5. Personificazione immaginosa dell'unmo, 6. edella socievolezza; - 7. che dall'arti non prò mai scompagnarsi. - 8.Personificazione immaginosa del mondo materiale per tre modi. Materialismo nonpuò spiegarla. 11. Person i ſicazione immaginosa del soprannaturale; 12. presasostanzialmente da simboli e miti di credenze religiose; 13. ma trasformate dal.l'estro. 14. La personificazione, ritraendo l'uomo, ac cenna lo stato degliartisti e de' tempi loro. Grecia, Roma, Italia; suo scadimento; letterature straniere..16. Anche nell' altre arti avviene lo stesso. Immaginazioni tragiche e comicheArgomento. Può l'ottimo essere argomento del l'arte bella? 3. Può il pessimo? —15. Immaginazioni tragiche e comiche. - 5. Quando mai nasce l'immagina zionetragica più specialmente? 6. Quando la comica? 7. Condizioni dell'una, - 8. edell' altra. La morte immaginata nell'arte, 10. eidolori del senso, tragicamente; comicamente. 12. Deformità fisiche nel rispetto tragico; 13. e nelcomico. - 14. Le mostruosità nell'un rispetto, · 15. e nell'altro, e come inciò facilmente si trasmodi. Ordine de' Segni. Stile. Argomento. 2. Nozionegenerica dello stile. - 3. Nozione meno generica. - 4. Nozione determinata. 5.Ne cessità di meditare lo stile. 6. Idem. 7. Ordine dello stile. Unità. - 8.proprietà, evidenza, 9. vivezza, for. mosità. 10. verosimiglianza. Legge suauniversale. - 11. L'unione di dette qualità forma il decoro. 12. Esempio diessa, - 13. Esempio del contrario. 14. La misura nello stile. 15. Sunto.Armonia intrinseca dello stile e co ' propri segni.. 1. Argomento. - 2.Unitàdel bello stile. 3. Si riscon tra nell'arte del dire; ne'proverbj e rispetti, ·4. nelle sentenze, 5. nel periodo, 6. nell'armonia e nell'unione del discorso.7. Si riscontra nell' arti del disegno; nel l'architettura, 8. ch'è un discorsoanch'essa; - 9. nella scultura e nella pittura, 10. simili pur esse al discorso;- 11. e nella inusica; 12. che ha disegno perfetto, o unione d'armonia e dimelodia. - 13. Proprietà de' se gni; e come segni adoperino l'arte del dire, lamusica, 14. l'architettura, e l'arti figurative; 15. onde viene la proprietàdello stile. 16. Conclusione. Armonia dello stile col pensiero.. 1. Argomento.2. In che consiste l'evidenza. -3. Dee rispondere lo stile a integrità delpensiero; 4. e a varietà d'argomenti; - 5. abbracciando l'universalità dell'argo mento, proprio, 6. e distinguendolo, per poi bene com porlo. 7. Mancamentod'arte o di volontà impedisce tal perfezione. 8. Vivezza di stile, o moto, 9.nell'arte del dire, 10. nella pittura e scultura, 11. nell'archi tettor3, 12.nella musica. 13, Formosità, - 14. anche nello stile grande, e nel sublime. 15.Onde procede la deformità? 1Armonia dello stile con la natura..... 228 1.Argomento. 2. Il bello stile corrisponde alla natura dell'artista e a quelladegli oggetti. 3. Non si possono separare le due relazioni senz'errore edeformità. – 4. Avvi una parte relativa all'artista; 5. e una parte relativaagli oggetti, e danno armonia. 6. La legge di corrispondenza e di contrappostoſa nascere le diverso specie del bello stile in quei gradi che l'ordine ha varjnella natura. 7. Idem. 8. Nello stile tenue an prevalenza i simili, 9. Qua litàprincipale di esso è la venusià. 10. Nello stile mez. zano han prevalenza idiversi. 11. Qualità principale di essoè la naluralezza, 12. Nello stile grande han preva lenza i contrarj. 13.Qualità principale di esso è la pe regrinità Nello stile sublime han prevalenzai contrapposli supremi. 15. Qualità principale di esso è l ' ammirabilità. Artidel Bello speciali. Come si originarono le Arti speciali del Bello. Pag. 249 1.Argomento. — 2. Due generi supremi dell'arte bella, cioè arti di suono e artidi prospettiva. 3. Arte de' suoni parlati, e arte de' suoni armonizzati. 4.Arti prospettive di spazio, e arti prospettive di figura. -- 5. Artiprospettive distinte in arti di spazio imitato e di spazio naturale; in arti difigure imitate e di figure naturali. 6. Onde l'arti del disegno son distintedall'arti di naturale amenità e dalla mimica e danza, le quali sono artisecondarie. 7. Arti ansiliari dell'arti principali e delle secondarie. 8. Diversità di segni sensibili determinò diversità del significato, quanto al mondoesteriore, 9. e quanto al mondo interio. re. 10. Stato implicito dell'arti:poesia; 11. arti del disegno e musica. 12. Poi si distinsero l'arti del Bellofra loro; e s'esamina per la poesia, per l'architettura, 13. per l'artifigurative, 14. e per l'arte musicale. Di stinzione di ogni specie in ispecieminori. 15. Conclu sione. 16. L'arte bella fa quasi un mondo novello. Ordinefra l’ Arti speciali del Bello...... 1. argomento. Criterio per giudicare igradi dell'arti belle. 3. Segni supremamente ideali della poesia. L'ordine loroè una invenzione distinta dall'altra delle im magini. 5. Perfezione suprema de'significati poetici. 6 Ma questa precedenza rende difficile al sommo il poetarebuopo. 7. In che la poesia verso l'altre arti sia inferiore. 8. Architettạra, eperfezione ideale del suo disegno. 9. Perfezione del suo significato. -- 10. Inche cosa l'archi tettura è vinta dall'altre due arti del disegno. 11. Pit turae scultura; disputa di quale fra loro primeggj, antica. - 12. S' esamina quantoa ' segni, 13. e quanto al signi ficato di queste arti. 14. Musica; in che staun suo sin golare pregio, 15. da cui procede la potenza musicale; benche inaltro rispetto la musica resti- superata. - Della Poesia Argomento; definizionedella poesia. -2. Come la poe sia somigli la filosofia. 3. Consentono tutti neldivario fra considerare direttamente i sensibili esterni e il conside rarnel'altinenza con l'anima. 4. Però l'idea che regola i poeti, si è l'ideadell'uomo interiore, avvivata d'immagibi. Si riscontra ciò ne' sensibiliesterni, comuni alla musica e al segno e alla poesia; – 5, ne' sensibiliesterni, propri solo alle rappresentazioni poetiche; - 6. ne' sensibili interni, che la sola poesia può prendere per oggetto immediato; - 7. e poi, nellecose di pura intelligibilità. 8. Tanto è più alta la poesia, quanto più rendeviva immagine del. l'uomo interiore; - 9. e, inoltre, quanto più rende immagine di ciò che l'uomo dev'essere; 10. perchè il poeta tende alle più életteforme dell'anima; 11. e indi cerca immaginativamente di risolvere in armonia lecontraddizioni del mondo; 12. come si riscontra ne' poeti veri del tempo anticoe del nuovo, - 13. e anche ne' poeti scettici, ov'essi han vera poesia; 14.talché, quest' arte rappresenta in immagini l'universalità dell'intelletto. 15.E ogni ge nere perciò di componimenti nell'arte del dire può parteci - pare dipoesia. 16. Conclusione.Le specie della Poesia. Argomento. Tre modi principalidella poesia: espositivo, 3. narrativo, - 4. dialogico. sia par talora nonessere imitativa nè inventiva, se cade in soggetto reale. 6. Si scioglie ladifficoltà, distinguendo al. lora il soggetto reale dalla rappresentazioneimmaginosa. 7. Indi è varia l ' attinenza fra la poetica rappresentazione ed ilsoggetto. — 8. Idem. – 9. Indi anco è vario lo stile figu rato nella poesiaespositiva, 10. o nella narrativa, - 11. o nella dialogica. 12. Anche il numeromusicale dello stile diversifica. 13. Idem. 14. Diversifica pure l'ori. ginede' tre modi principali di poesia, l'espositivo prece dendo a tutti, 15. e poial drammatico il narrativo. • 16. Conclusione. 302 5. La poe Dell'idioma, 1.Argomento. - 2. Lingua, in significato generale, è unità parlata della moraleunità d'un popolo; 3. e che mai non manca di segni per cose antiche, 4. nè hasino nimi perfetti. 5. Le Parlate. 6. I Dialetti. - 7. Le Lingue. 8. Scelta frale tarlate. 9. Scelta fra' Dialetti. 10. Distinzione d'una lingua da ogni altralingua. 11. Uso di lingua parlata, e uso di lingua scritta; 12. iden ticinell'essenza, e in che diversi, 13. Come uso di buoni scrittori giova, 14. ecome giova uso di ben parlanti. 15. Realismo e Idealismo nell' usare l'idioma.10. Con clusione. Arti del disegno. Pag 338. 1. Che cosa sono l'arti deldisegno - 2. Il disegno è fon damento alle tre arti particolari.. 3. Doppiasignificazione del vocabolo disegno. -- 4. Ogni qualità sensibile de' corpi harelazione con la lor forma; 5. e può risguardarsi per natura, e per l'arti deldisegno, quasi accessoria. - 6. La forma ci palesa l'unità; 7. ch' esternadipende dall ' in terno delle cose, si per natura e si per arte. 8. Esempj diciò; e in che dunque consiste l'ordine ideato comune al l ' arti del disegno. –9. Per acquistare il disegno, ci oc corre abito astrallivo degli occhi, - 10.fantasia ferma e viva in ritenere la linea pura, 11. e intelletto esercitato adistinguere, paragonare, comprendere i contorni; 12. nè basta vedere, mabisogna saper vedere o guardare; 13. e in ciò sta il cosi detto giudizio degliocchi. - 14. Come si faccia l'esercizio nel disegnare. 15. Una regola princi.pale per l'arti secondarie. Architettura.... 1. Che cosa è l'architettura. 2.Si originò dal convi. vere umano. - 3. Si distinse dall'ingegneria per fine dibel lezza, 4. ritraendo l'immagine formosa del consorzio umano, 5. Questa ideaperció la rende inventiva; 6. e indi l'architettura prende significato a ' suoidisegni, 7. e anche la loro unità; 8. ehe si palesa nelle proporzioni dellamassa, nel congiungimento delle linee, 9. e anche negli ornamenti. – 10.Com'espressione del consorzio uma no, quest' arte abbraccia le altre arti deldisegno; – 11. s' accorda co' luoghi abitati dall ' uomo, e a sė li conforma;12. imprime la bellezza sua nelle città intere, - 13. nel l'intera patria d'unanazione, — 14. per ogni luogo di es sa; 15. e si distende a tutta la terracivile, com' efligie inica dell'incivilimento. 16. Conclusione. S ulura. Checosa è la scultura. - 2. Principale soggetto al l'arti figurative si èl'aspetto umano. - 3. Più proprio della scultura è la relazione de' lineamenticon la vita interiore, anziché dell'uomo con la natura. -- 4. Indi all'artesculto. ria il colorito e accidentale, ec. - 5. Nè la scultura di tutto rilievoha paesaggj, che ristretti son' anche nel bassorilievo: - 6. è limitata nelfigurare animali; --- 7. e anche ne'gruppi di ligure umane. - 8. Soggetto piùproprio alla scultura ė la bellezza umana del corpo, e in essa si comprende lafisio. logica e la fisica. 9. E perché si dica ciò della scultura piucchè dellapittura, distinguendo tra figura e forma. - 10. L'unità intera della immagineumana comparisce nella scule tura solamente. 11. Divario i'ra le due arti nelnudo e ne' panneggiamenti. 12. Limiti posti dal pudore. 13. Qual sia -dunquel'idea esemplare dell'arte scultoria, 14. E come bisogni evitare ia essa,piucché nella pittura, il freddo ed ilgenerico; -- 15. ma senza cascare nei vizj opposti, 16. Conclusione. Pittura....Pag. 395 1. Che cosa è la pittura. – 2. Idea che serve d' esemplare alleimmagini ed a'segni di quest'arte, cioè armonia fra l'uomo e la naturaesteriore, come rilevasi dal colorito; 3. e perciò dalla figura colorata e dalprospetto aereo. - 4. Magistero essenziale della pittura è il colorito; – 5. manon contraſfacendo i rilievi della scultura, 6. nè gareggiando con le cosereali pe' colorie per gli splendori, 7. nė pe' se goi di vitalità;gareggiamento impossibile, - 8. e dannoso; 9. bensi eleggendo que' segni chesveglino i sentimenti nell'anima nostra, come le cose di natura sogliono. 10.La pittura è visione di fantasia. 11. che splende in gen tilezze d' ornamenti,e in paesaggj. 12. e ne segni del con • versare umano, 13. e nell'unioneverosimile di più tempi e luoghi, 14. e nel simboleggiare affetti sovrammondani.15. Conclusione. 16. Utilità di tutte l' arti del dia segno. Musica. Che cosa èla musica. 2. Qual n'è l'idea regolatri ce. Relazione de' suoni col sentimentoumano. 3. Ragione anche fisiologica di tale attinenza. 4. E indi attinenzaprincipale di quest'arte con la voce umana. 5. Ma la relazione de' suoni colsentimento é indefinita, 6. e però la musica può indefinitamente significareogni affetto. 7. Esprime e incita direttamente l' esaltazione degli af. fetti,8. e viene usata per significare più vivo l'esalta. mento comune alla poesia edall' arti del disegno. 9. Ciò apparisce altresi dal significato universaled'armonia. 10. Però idea suprema e reggitrice della musica è, ch' essa rendaimmagine dell' esaltazione di ogni affetto umano. La quale idea si determinanel concetto de' componimenti varj. 11. onde nasce la musicale unità, – 12. el'invenzione di una frase principale, 13. che si svolge. - 14. Errori sulla na.tura della musica. Sensisti e Positivisti assoluti, - 15. Sen timentali,Aritmeticanti, Retoricanti. 16. Conclusione. CAP. L. Unione fra tutte l’ Artidel Bello... 434 1. Danni del separare l' Arti, e argomento. 2. Unità d'obbietto, di soggetto e di potenza prevalente nell' Arti del Bello. 3. Perfezionamentiloro successivi, e legge di que sta successione. - 4. Si risolve una difficoltà.5. Prima si perfezionò la poesia; 6. indi l'architettura; - 7. poi la scultura,e poi la pittura; — 8. Apalmente la musica. 9. Aiuto che si porgono l'Arti;quale la poesia? – 10. quale l'architettura, 11. l'arti figurative, - 12. lamusica? 13. Si conferma l'unità essenziale dell'Arti fra loro. -- 14. Ri tornodel pensiero alle cose ragionate; 15 e 16. indi con clusione generale.DIALETTICA. La Filosofia e i Concetti universali. Idea della Filosofia. Checosa è la Filosofia? È scienza delpensiero, ma del pensiero in atto di vita, e non soltanto delle leggi logicheastratte; e però è Scienza della coscienza e dello spirito; Scienza deglioggetti connaturali al pensiero, e però di Dio, dell'universo e dell'uomo;Scienza, per tanto, delle somme cause, dell'ultime ragioni e de' primi principj; Scienza, poi, della conoscenza, della scienza e della verità. Perciònell'idea di relazione s ' appuntano i quesiti tutti della Filosofia; e ivitroviamo la sua più alta verità. Talchè la Filosofia e Scienza di Dio, delmondo e del l'uomo nell'ordine loro uoiversale; o, più breve, Scienza dellerelazioni upiversali; e siccome queste forman l' ordine, dunque altresì Scienzadell'ordine universale. Come in ognialtra Scienza, cosi nella Filosofia si ha perfezionamento, levandosi a un'ideasuperiore. - 12. Questa è l'idea di relazione. - 13. Ciò richiede la tendenza eil bisogoo de' postri tempi. – 14.Im portanza della Filosofia; danni d'unaFilosofia separativa. Vantaggj d’una Filosofia comprensiva. 16. Sunto. LaVerità.... 1. Perché dobbiamo esaminare l'idea universale di verità. 2. Laverità è sempre entità conosciuta. – 5. La verità è ordine d'entità conosciuto.- 4. Si procede relazione in relazione. L'unità dell'oggetto conosciuto sicomprende, si distingue, 6. si riupisce di nuovo. - 7. Però gli Antichi disseroche la verità è pei giudizj. - 8. L'errore perciò sta nel vedere l'oggetto dauna parte sola, e quindi nel travedere, 9. come si rileva degli errorimetafisici; - 10. nello Scet ticismo medesimo, e negli errori morali e delleScienze fisiche. 11. Sicchè l'errore confonde, separa, nega. 12. Jadispieghiamo il progresso della scienza e della civiltà, 13. o il regresso; 14.le invenzioni e le scoperte. – 15. esame dell'idea di verità ci mostra ilcostrutto semplice degli Univer sali, presupposto da ogni conoscenza. - -L'Entità. Pag. 1. Si comincia dalla nozione d'entità. — 2. Che cosa sono gliuniversali, - 3. Tre ordini d'universali: gli analogici, 4. gli attributimetafisici, e le condizioni universali del creato. - 5. L'uoiversale si è inogni cosa e presentasi all'intelletto. - 6. L'idea d' entità primeggia fra gliuniversali. La esami Darono gli Antichi, – 7. i Padri, il Medioevo, e laFilosofia moderoa. 8. Non possono farne a meno anche gli Scettici e iSoggettivisti. 9. Questa idea non può pegarsi. Ma esaminandola, bisogna evitaretre difetti. - 11. Si tripartisce: idea dell'essere comunissimo, - 12. idead'essenza, - 13. idea d'esistenza; – 14. com' apparisce anche da' linguaggi,15. e dall'antica dottrina sull'essere e sulla possibilità, ch'è di tre specie.- 16. Conclusione. L'Ordine dell'entità.... t. L'idea d'ordine si distinguenell'idea di relazione, d'atto della relazione e di correlazione. 2. Che cosa èla relazione? L'esperienza ce la mostra ovunque. 3. Ogoi en tità è un tutto direlazioni, benchè, quando si tratta di cosa fioita, non essenziali. Ciò sirileva dal concetto d' essere, - 4. d'essenza e d'esistenza. – 5. La relazione poiè, o intrinseca, - 6. od estrinseca (cioè ad intra, o ad extra ). – 7. Ognirelazione si è atlo; anche le attineoze ideali o di ragione. - 8. Conie siprocedè per giungere a questa universalità dell'idea d'allo. Gli Italioti,gl’lonici, Platone; 9. Aristotele; 10. i Padri, gli Scolastici, e il Cartesio;11. il Leiboitz e la Fisica nioderna. 12. Correlazioni. Unità e triplicità inogoi cosa. -- 13. Dottrine aptiche su ciò. - 14. Il Dogma cristiano dellaTrinità. - 15. Le correlazioni spiegano la legge universale de' simili e de'contrapposti, 16. Conclusione. l conoscimento dell'Ordine.. 1. Nel conoscimentodell'ordine si distingue il Vero, il Bello ed il Buono, distinta la triplicerelazione della Verità col l'intelletto, benchè io significato generalissimoogoi relazione col nostro conoscimento sia Verità. 2. L'universalità del Verocorrisponde ai gradi dell' essere; e come li notarono già i Filosofi. - 3. Cosenon animate; 4. cose animate; 5. gl'intelletti, ove la presenza dell'entità èmanifesta. 6. La verità è relazione dell'entità con gl’intelletti, cioèintelligibi lità. Che cosa è la Bellezza, cioè l'ammirabilitd, con trapposta alVero. Suoi gradi, 8. ne' corpi non animati, Degli animati e negl'intelletti. 9.Che cosa è il Bene, cioè l'amabilità. Suoi gradi, — 10. ne' corpi, neglianimali e nella mente, 11. Assioma che deriva dall'esame degli universali, -12. e loro convertibilità mutua; – 13. la quale si manifesta nella scieoza,nell'arte e nella vita, perché il Buono conduce al Vero ed al Bello, - 14. e ilBello conduce al Vero e al Buono. -15. Nell'esame degli universali analogiciabbiamo riscontrato le distinzioni già fatte dai Filosofi antichi e recenti. -16. Conclusione, e come il Bello morale sia l'accordo del Vero, del Bello e delBuono. Attributi metafisici correlativi e Idea di Dio. Pag. 101 1. Esamedegliattributi metafisici, al quale ci porta l'esame degli universali analogici. —2. Che cosa s'intende per attri buti correlativi metafisici. 3. Idee di questiattributi, tro vate nell'idea d'entitd; 4. trovate nell'idea d'ordine delaĽentità; - 5. trovate nell'idea di conoscimento dell'ordine. - 6. L'idee degliattributi metafisici correlativi, e l'idea di Dio, non sono correlazioniastratte; - 7. nè limiti soggettivi; - 8. nè un ideale soggettivo; 9. nè,d'altra parte, sigoi ficano che Dio sia il grado supremo degli esseri; – 10. nèla parte o il tutto; 1. nè Pessenza o la sostanza delle cose contingenti. – 12.La correlazione degli attributi metafisici viene rappreseotata dall'idea delpossibile fra l'idea d'Eote e l'idea d'esistente, o dall'idea d ' indefinitofra quelle d'Infinito e di finito. - 13. La correlazione stessa fu puresignificata dal Gen tilesimo, 14. da' simboli suoi più notevoli, 15. e dallasimbologia naturale. - 16. Conclusione. Cap. VII. Idea di Creazione.... 121 1.Possibilità razionale della creazione. - 2. Vi ha nel pensiero umano questaidea dell'atto creativo, cioè di Causa prima. — 3. L'idea di causa si distinguedall'idea di sostanza; 4. e si riferisce ad un che, il quale comincia dal nullaquanto all'esistenza, benchè non quanto alla potenza; 5. si riferisce, poi, adun termine distinto essenzialmente dalla cau sa, o ad extra. - 6. Più vera epiù potente fra tutte le cagioni è l'intellettiva. 7. La Causa creatrice sidistingue dalle cause naturali, perchè alla totalità delle cose preesiste lapos 8. perchè il soggetto, cioè la sostanza, si produce ad estra; 9. e perchèavvi efficienza intellettuale assoluta: - 10. opde la Causa creatrice fuchiamata Verbo ia tutte le Tradizioni sacre, e il mondo è arte di Dio; -11. laquale produce una somigliaoza divina nell'universo, mentre Dio non somiglia ifiniti e li trascende. Gli errori e i dubbj sul dogma razionale di creazionenascono dalla fantasia, - 13. e dallo sdegoare il mistero, comune ad ognicausalita; 14. sicchè gli errori provocarono lo svolgimento del Teismo nell'etàde' Padri e de' Dottori, 15. e dell'età della Riforma e del Rinnovamento. - 16.L'idea di creazione ba tanta importanza, sibilità pura; - perchè risguarda laCausa universale. CAP. VIII. Idee relative all'Entità della Natura....... 1431. Argomento; le condizioni dell' entità: Prima condizione della natura, perl'essere suo, il quanto; 2. che si distia. gue nell'unità, 3. nel numero 4. (chenon può essere infinito), 5. e pella unione delle unità. 6. Condizione secondaper l'essenza, il quale; - 7. che si distingue nella varietà, 8. nellacontrarietà, 9. e nella somiglianza;. 10. più notevoli dove la oatura è piùalta. - 11. Terza condizione per l'esistenza, il quando; 12. che si distinguenel momento, -13. nella successione, - 14. e nella durata; - 15. nonpredicabili dell' Eternità. 16. Conclusione. il pine. - Idee relativeall'Ordine della Natura....... Pag. 1. L'ordine della natura viene dall'attinenza della crea zione, 2. La relazione delle cose create ci dà ladipendenza, o derivazione; 3. ossia la sostanza, - 4. la causa, 5. e l'essenzareale. - 6. L'Atto delle cose ci dà il come (quomodo); – 7. ossia il principio,8. il mezzo, 9. e 10. Le correlazioni delle cose ci dàono il dove, che puòessere correlazione ancointellettiva, 11, e correle zione materiale; - 12.ossia il punto, - 13. Y estensione particolare, 14. e lo spazio, 15, che nonpuò essere infinito, ma è nell'infinito; 16. e il sublime si origina da cið.Cap. X. Condizioni naturali del conoscimento...... 1. Criterio della conoscenza;ove si riscontrado: l'oggetto ideale, – 3.6. l'idea, - 4. che ci fa conoscereil si mile per ilsimile, 5. (onde si spiega la formazione dell'idee universali,e la conoscenza delle cose esteriori, 6. di noi stessi, degli altri uomini, -7. e di Dio), - 8. c. il senti mento, in relazione del quale ogoi cosa dicesiun fatto, ed esso medesimo ha questo pome. 9. Forma del bellezza; - 10. e quisi riscontrano: la cosa formata, 11. l'idea esem plare, 12. e il gusto. - 13.Legge del bene, ove si ri scontra il bene oggettivo, - 14. la felicità, - 15. el'utilitd. - 16. Conclusione. Divisione della Filosofia e Arte dialettica. L'Enciclopedia....1. Per determinare i quesiti della Filosofia, bisogna ve. dere le sue parti el'Enciclopedia o l'albero del sapere umano, Ordine di formazione, ordine dilogica dipendenza. Criterio armonicamente oggettivo e soggettivo per trovare ladistiozione dello scibile e l'ordinamento suo. Quattro classi di conoscenze:onde vengono la Teologia positiva, la Filosofia, le Matematiche e la Fisica. 6.Parti della Fi losofia universale. - 7. Filosofie particolari e applicate. 8.Matematica. - 9. Fisica. - 10. Storia sacra, umana, na turale. – 11. Artifilosofiche, matematicofisiche e storiche. 12. Tradizione perenne dell'Eociclopedia. – 13. Errori che la guastano. Pericolo dell'Enciclopedie adizionario, le quali spezzano la continuità del sapere. - 15. Divisione dellaFilosofia in tre parti: la Dialettica, l' Estetica e la Morale. - 16.Conclusione. La Dialettica. Che cosa è la Dialettica. È quasi un dialogo.Esemplare unico dell'Arte logica è la natura, -se no e s'op v'è ignoranza. L'Artelogica è osservazione di natura, - 6. se oo avvi leggerezza, impazienza epreoccupazione appas sionata. È imitazione di natura, 8. se no avvi artifi cio.– 9. È inveozione ordinativa, pop oggettiva, - 10. se no avvi l'assurdo. - 14.È per fine di verità, - 12. se no si confondono l ' arti, che per altro s'accordano e s ' aiutano. 13. La Verità, com'oggetto dell'Arte logica, vienedeter minata dalle operazioni di questa, - 14. e però è ordine d'en titàripensato, 15. ragionato, — 16. e significato. La Critica interiore vera e lafalsa........ Pag. 251 1. La Critica suppose un Criterio, che paturale conoscenza porge alla riflessa. - 2. Il bisogno di Critica interiore viene dalbisogno di cercar l'origini dell'errore, e dall'altro di sceverare nellecognizioni la parte oggettiva e la soggettiva; - 3. e però è antichissima;benchè a questa si contrapponesse Ja Critica eccessiva. 4. Esempj dell'una edell'altra nel Cartesio e nel Kant. 5. Principiare dal dubbio universale non sipuò; e questa è critica smodata, o fuori di natura. 6. La riflessionefilosofica deve cominciare dalla ignoranza filosofica, piuttostochè dal dubbiometodico. 7. Però la Critica eccessiva non può condurre alla scienza; pone,qualunque sia l'intenzione de' Critici, alla virtù; 9. è causa di desolazione,- 10. o di misera indifferenza. 11. Jovece per la Critica razionale s' affermail oaturale co noscimento, 12. la forma di questo e la materia; 15. cioè laforma naturale in relazione con gli oggetti, e la realtà degli oggetti stessi,che costituiscono la materia necessa ria o coboaturale del pensiero. · 15.Postulati della Critica - 16. Ogni operosità viene impedita dal Criticismo.Cap. XIV. Verità connaturali al pensiero umano. 272 1. Tre requisiti delleverità connaturali. – 2. Esistenza di noi stessi. - 5. Errore del Kant e de'Positivisti, - 4. e loro confutazione. 5. Si riscontrano i requisiti dellaconoscenza naturale nella coscienza di noi stessi. – 6. Notizia del mondoesteriore, – 7. e dell'ordine suo. — 8. Opinione del Kant e de Positivisti, 9.e loro confutazione. - 10. I requisiti della conoscenza naturale si trovanonella notizia del mondo. 11. Idea di Dio. - 12. Opinione del Kapt e de'Positivisti. 13. Confutazione, 14. Si riscontrano nell'idea di Dio gli stessirequisiti o spontaneità, - 15.inconvertibililà e insepa rabilità. Da questenotizie di noi, del mondo e di Dio risulta la sostanziale totalità dellacoscienza. 16. La Filosofia non può disconoscere questa materia del pensiero edella scienza. Armonia tra le forme della conoscenza e le cose. 294 1. Che cosaè la forma. – 2. L'armonia tra le forme del conoscimento e gli oggetti, ondeprovenga. 3. Apparenza sensibile, - 4. corrispondente agli oggetti percepiti; –5. e quindi si fece da Galileo e poi dagli altri la distinzione fra le qualitàprimarie de' corpi e le secondarie; - 6. talchè verifi chiamo che l'apparenzesensibili son segoi reali, realmente vera. - . corrispondenti alla realtà dellecose. -7. Aoche le apparenze, che dano'occasione d'inganno, procedono da leggidi natura. - 8. La vista ci dà i segoi apparenti delle distanze. – 9. For meintellettuali, corrispondenti all'entità e verità delle cose, ue' concetti, -10. ne giudizi, -11. e oei raziocioj. 12. Armonia tra il conoscimento di ciòch'è o avviene deotro di noi, e il conoscimento di ciò ch'è fuori di noi: per isegoi del l'anima del corpo; – 13. per l'analogie fra l'anima l'uoj verso; -14. per l'intendimento delle qualità e delle condi zioni d'ogoi cosa esterna; eper la conoscenza di Dio. 16. Conclusione. Principj armonici della ragione...Pag. 318 1. Che sono i principj universali della ragione. — 2. Na scono dalleidee universali, e s'ordipano com'esse. -3. Prima classe, corrispondente agliuniversali analogici. Per l'entitd si distinguono più principj, riflettendo all' idee d' essere, 4. e all' idee d'essenza e d'esistenza. 5. Per l'ordine dell'entità, si distinguono, riflettendo all'idee di relazione, 6. di atto dellarelazione e di correlazione. - 7. Per il cono. scimento dell'ordine, sidistinguono, riflettendo all' idee del Vero, – 8. del Bello e del Buono. – 9.Seconda classe, cor rispondente agli attributi metafisici correlativi. – 10.Terza classe, corrispondente alle universali condizioni della Datora fioita. Sihanno: Per l'entità di questa, i priocipj di quantild, di qualità e di tempo;11. per l'ordine della natura, i principj di derivazione o dipendenza, - 12. dimodalità e di confinazione o del dove; – 13. per il conoscimento dell'or dine,com ' esso è negl' intelletti creati, i principj che risguar dano il criteriodella verità, la forma della bellezza e la regola del bene. In che stial'utilità de' principj uni versali. Due opinioni estreme ed erronee: l' una cheli Dega, l'altra che li reputa generativi di tutto il conoscimento. - 16.Conclusione. L'Osservazione...... 340 1. Materie da trattarsi. — 2. Atteozione.- 3. Osservazio ne. – 4. Riflessione. - 5. Si verifica ciò nelle verità d'esperienza esteriore, cosi per Arte logica naturale, 6. come scientificamente. 7.Si verifica delle verità di esperieoza interiore, cosi per suggerimento dinatura, 8. come per la Scienza. 9. Si verifica delle verità intellettuali pure,10. cioè negli universali della Metafisica e delle Matematiche. 11. Si verificanelle conoscenze ricevute dall'autorità, 12. e ipdi vien la Critica, 13. Lostesso aodamiento si vede nel procedimento storico delle Scienze. -44. Idem,-15.Anche nel procedimento della Letteratura. 16. E anche nell'Arte pedagogica.Metodo che imita la Natura...... 1. Che cosa è l'imitazione dialettica: partesostanziale del metodo. 2. Sintesi primitiva. – 3. Analisi. - 4. Sintesi 541 -secondaria. 5. Legge dialettica. 6. Il metodo allora è quasi un contrappuotomusicale. -7. Però non può essere nè solameote analitico, nè solamentesintetico. 8. Difetti del Puno e dell'altro, - 9. Il metodo compreosivo gliuoisce. 10. Contrarie inclioazioni di ogni età verso l'analisi eccessiva o lasintesi eccessiva. 11. Esempio del Gioberti. - 12. Il vero metodo èpropriamente dialetlico o dialogico. 13. Sua utilità nelle Scienze; 14. nell'Arti del Bello, - 15. e nel ” Arti del vivere civile.. 16. Conclusione. L'invenzionedialettica..... Pag. 381 1. Che cosa è l'invenzione scientifica, o che cosa èla Scienza com'ordine meditato di conosceoze, - 2. Si comincia dallacomprensione dell'oggetto per una definizione nominale; - 3. poi si vieneall'analisi con la divisione, – 4. con la tési e con l ' antitesi, con la provadall'assurdo, e con l'elimina zione; - 5. fochè si giunge alla definizionedialettica, che può essere o intrinseca o per via disole relazioni. Poscia,passando alla sintesi, abbiamo l'ordine induttivo e il dedatti 7. Tutto questomirabile ordinamento è una ricerca delle ragioni, e uno spiegare per esse; oodegli Antichi dis. sero che saper vero è un sapere per le cagioni; - 8. cioè perprincipj; - 9. e questo s'avveranella teorica degli universali, - 10. e nellaScienza dell'uomo, dell'universo e di Dio; s'avvera nelle Scieoze civili estoriche; Delle Matematiche, e nella Fisica. Indi si spiega l'invenzione deglistromenti e delle macchine; 15. come altresi la ipotesi e l'intuizionedottrinale. 16. Supto. vo. – IL FINE DELL’ARTE DIALETTICA. Argomento. Connessione logica. Che stato deressere quello di chi cerca la verità, e DIFETTI CHE BISOGNA EVITARE. Si puòerrare io ciò per leggerezza, o per unapreoccupazione. CHIAREZZA e difetti da evitarsi. Errori che procedopo daleggerezza, e da preoccupazione,prendendo per chiaro ciò che non è. Certezza; e difetti evitabili; badandoanche ip ciò di non errare per leggerezza d' assensi e per qual chepreoccupazione, stimando che sia certo l'incerto, e vice Connessione, chiarezza,certezza, non possono realmente trovarsi che pella verità. Si concbiude: chefine d'ogoi Scienza, e perciò anche della Filosofia, non è di dare a noi, quasimancanti d'ogni ragionevole conoscenza, un primo conoscimento della verità, sil' ordine riflesso della co gosceoza e della verità: e poi, che L’ARTEDIALETTICA È ALTRESÌ UN ABITO MORALE; e ancora, che L’ABITO DEL PARLARE meditato giova molto all'ordine del pensareRAGIONATO E RETTO versa.. I Criterj della Verità o Leggi universali dellaDialettica. L'Evidenza, o il Criterio della Verità. Argomento, e qual sia ildisegno della Dialettica, e qual ragione v'abbia di trattare qui de Criterj; edottrina loro semplicissima. Il Criterio è uoa regola, perch'è un segno dellaverità in relazione con l'intelletto. Non può negar si, fuorchè negando laconoscenza; non può travisarsi, fuorchè da' sistemi sostanzialmente falsi; e viha una dottrina costante sulla natura del Criterio. Il Criterio è un segnoapparte nente all'ordine della verità, ed è universale. II Criterio, perciò, èl ' evidenza dell' ordine di verild; è quindi uno e moltiplice, ossia è unordine di Criterj; perch'è l' evidenza dell'ordine di verild in sè stesso, ene' suoi contrassegni universali; cioè coutrassegni d'amore e di fede, perchèl'ordine della verità corrisponde all'ordine della nalura umana. Il Criteriovale altresi nelle cognizioni anteriori alla Scienza, 10. nè la Scienza puòdisco noscerlo. 14. Nella Scienza, poi, l'evidenza precede il ragionamento,l'accompagna, e lo compisce. 12. Nella Filosofia, l'evideoza del Criterionaturale si converte in evi deoza scientifica; non già perchè si comioci daldubbio; anzi non può cominciarsi da esso, perch'è un riconoscimento. – 13.Criterio della Filosofia è l' evidenza dell'ordine universale;. 14.senza di chequella è fuor di natura. - 15. Criterio delle altre Scienze è l' evideoza d'unordine particolare; ma in essa i Criterj sccondarj bao solo un ufficioindiretto e più ristretto. L'evidenza del Teismo, come di verità ordinatrice odi Criterio supremo.... 1. Perchè la verità di Dio creatore sia Criteriocompren sivo alla riflessione. 2. La Scienza de' limiti è scienza ne cessaria;e il Teismo ci avverte de' nostri limiti. 3. Questi sono la natura stessadell'intelletto e delle cose. 4. Soprin telligibile, soprannaturale, 5.intelligibile: 6. la verità di creazione fa serbare questi limiti, e spiega ilperchè del sovrintelligibile divino, –7. del sovriptelligibile naturale, 8. eci rende liberi e sicuri nello studio delle cose intelligibili, che sonoinesauste a mente umana. - 9. Quindi essa rende soddisfatto qualunque bisognodell'uomo, e ordina le Scienze che si riferiscono a' bisogoi stessi. Teologiapositiva, - 10. Filosofia, Matematica, — 11. Fisica, 12. Filosofia della Storia, Filologia e Critica. Quel Criterio spiega la legge del progresso inFilosofia e il regresso sofistico. – 14. I siste mi, opposti alla verità dicreazione, ristringono la conoscenza riflessa, 15. e poi l'apoientano. - 16.Conclusione. Sistemi opposti al Criterio della Verità, e pri mieramente ilPanteismo.... Pag. 472 1. Argomento. - 2. Contradizioni del Panteismo, e proposito di affermare le contradizioni.- 3. Panteismo orientale, 4. pitagorico, -5. eleatico ed ionico; - 6. degli Ales sandrini e Gnostici, - 7. chedifendevano il Paganesimo; 8. de' Reali nel medioevo, – 9. e dell'altre Sètte;- 10. del Bruno e del Campanella 11. (sterili, se paragonati al Car tesio ed aGalileo ), · 12. dello Spinosa (non paragonabile alla fecondità del Leiboitz),- 13. de' Panteisti tedeschi, 14. e de' loro discepoli. 15. Verità grandi, chebalenano dal Panteismo; 16. il quale, bensì, le travisa, e però nega i fattipiù sublimi della coscienza. II Dualismo. 493 1. Argomento. - 2. Io che ilDualismo è peggio, e in che meglio del Panteismo? 5. Dualismo fra gl' Indiani.4. D'Anassagora, - 5. di Platone, -d'Aristotele, 7. degli Stoici. - 8. Dualismotra certi Filosofi maomettani. 9. Dualismo nella Cristianità del medioevo; 10.e come le tracce del Dualismo antico si trovino anche ne' Dottori scola stici;- 14. talchè se n'occasionava, ne' tempi della Riforma, up Dualismo nuovo, nonantiteistico, macosmologico e antro pologico. Cartesio; – 15. ed effetti delsuoDualismo, segnatamente nel Malebranche, - 14. e nel Leibojtz; 15. o anchenell'Idealismo, nel Sensismo e nello Scetticismo poste riori. 16. Il Dualismoriduce i contrarj a contradittorj, - talchè rompe ogoi armonia. L ' Idealismo eil Sensismo.... 515 1. Differenza fra l ' Idealismo e il Sensismo. 2. Cennostorico di questi sistemi. – 3. Io che propriamente consiste l ' Idealismo (esbaglio d' alcuni moderni), e paragone con gli effetti del Sensismo. - 4. Vizioprincipale degl ' Idealisti. 5. Nel Sensismo la coscienza umana non riconoscesè stessa; 6. non l'intelletto, essenzialmente diverso dal senso; - 7. non - 8.non l'idealità; 9. non la riflessione sopra di noi; 10. non la religiosità; 11.non la certezza nella cogoizione de' corpi; 12. non la Filosofia; si solamentela Fisica, - 13. ma falsata e con metodi non suoi. - 14. E sono alterate ancole Matematiche, - 15. com' altresi la Sto ria. - 16. Sunto.LoScetticismo. Argomento. 2. Scetticismo nell'Asia e fra gl ' Italo greci; - 3.nell'età Socratica e del medioevo; 4. nell'età moderna. – 5. Eclettici eMistici, che non riparano allo Scet ticismo, dacchè gli concedono di partiredal dubbio. – 6. Idea Jismo scettico e Sepsismo scettico. 7. Razionalismo, 8. ePositivismo; – 9. e quindi Scetticismo metafisico, antimetafisico, - 11. chebensi trova la Metafisica per tutto. – 12. Come la natura repugoi dalloScetticismo. 13. Con seguenze principali di questo. Desolazionee scherno. - 14.Dif ficoltà pelle controversie, o Dommatismo scettico; abito di giudicare de'fatti umani da sole circostanze esteriori. 16. Lo scetticismo riduce a nulla ilpensiero. 10. e 15. e L'Amore della Verità... 22 4. Che cosa è nell'ordine suopieno il Criterio? Condizioni intrinseche ed estrivseche per la conoscenzadella Verità. 2. Sentimento e amore. 3. L' affetto è conoscenza e la conoscenza è affetto. -- 4. Bisogna secondare con la libera riflessione il naturaleaffetto. 5. Come l'affetto della Verità dia im pulso al ragionamento,l'accompagni e lo assicuri, e perciò bi sogna guardare a quell'impulso, 6. aquella compagnia e a quel riposo; - 7. e sbagliarono tanto i Sentimentali, chedi visero l'affetto dall'evideoza; 8. quanto gli Astratteggian ti, che separaronol'evidenza dall'affetto. 9. Ufficio del l'amore di Verità nelle Matematiche edio Fisica. - 10. Ufficio di quello in Filosofia, il quale altresì ci mostra gliaffetti con naturali, che corrispondono agli oggetti della Filosofia stessa; -11. cioè l'amore di noi medesimi e degli altri uomioi, 12. l'ammirazioneaffettuosa per l'ordine della natura 13. e gli affetti religiosi. – 14. Quelloè anche Criterio degli Studj critici, storici e teologici. – 15. Nelle passionil'affetto patu rale può facilmente riconoscersi. – 16. Per l'affetto la scienzasi converte in sapienza. salità; Il Senso Comune... Pag. 1. Quando la parolaserve di Criterio? - 2. Che cosa è il Seoso Comune? Due sigoificati di esso, -5. dal separare i quali vennero due opinioni false, · 4. Limiti del Senso Comune:. 5. i principj, 6. le immediate percezioni, 7. e le immediate conclusioni.8. Ufficio diretto e generale del Senso Comune in Filosofia; non cosinell'altre Scienze, 9. fuorchè dov'esse s' uniscono alla Filosofia stessa. -10. Obie zioni sull'esistenza del Senso Comune, per la contrarietà delleopinioni. Obiezioni contro la testimonianza de' Lioguagej al Senso Comune, perla supposta indifferenza de' vocaboli al si e al no; – 12. per il materialesignificato primitivo di parole che ricevevano poi un sigoificato spirituale.13. Obiczioni sulla ragionevolezza d'usare il Senso Comune a Criterio, quasichè questo sia credenza, non evidenza; - 14. quasichè vo gliamo reputarlo sapienzao scienza; 15. quasichè occor resse interrogare tutti gli uomini.. 16. Sunto, enecessità di ricondurre le Scienze alla natura, come le Arti del Bello.Tradizioni e progressi nelle Scienze... 1. Criterio delle Tradizioniscientifiche. 2. Due siguifi. cati del vocabolo Scienza. – 3. Dobbiamoverificare l'univer 4. distinguendo i principj, i teoremi, i problemi, e glierrori. 5. L'unità del consentimento non toglie la libera varietà. -6.Consentimento e progresso pe' principj e ne' teo remi, -7. e ne' problemi. – 8.Le Sètte son dimezzatrici della Verità; 99.. eppure confermano i teoremi, 10. eson’oc casione di progresso, mostrando i mancamenti della Filosofia, 11.perfezionandone la forma, 12. e alcune dottrine particolari, - 13. e le loroconseguenze nelle dottrine de'Fi losofi. – 14. Nascono due opinioni false: cioèi sosteoitori della sola evidenza privata; – 15. e i sostenitori del solocriterio storico. - 16. Conclusione. Relazioni fra le Scienze e la Religione.....1. L'argomento, che ora si tratta, è Glosofico di sua na tura, – 2. Duesignificati della parola Religione. - 5. S'esclu de: che la Filosofia debbaricevere l'autorità senz' uo motivo evidente di ragione; – 4. che, per l'esame,debba sospendersi la Fede; 5. che l'autorità del verbo religioso sia un Criterio diretto per ogni Scienza; - 6. che la Filosofia debba en trar pe' Misteri,o la Teologia nel ragionamento filosofico; – 7. che sia lo stesso metodo e lostesso fioe a’ Filosofi e a' Teologi. - 8. Nel fatto, l'efficacia delleReligioni è universale sopra i sistemi filosofici; 9. e sempre la Religione s’è reputata upa Fede; 10. Criterio è poi, se corrisponde alla coscienza; 11.talchè sia un'evidenza e una credenza, cioè una credenza evidente. · 12. Faquasi specchio all' uomo interiore, - 15. che riconosce l'integrità dell'esseresuo io quella. 14. Gra vissimo errore del negare validità razionale lenza nonfilosofica. 15. Il Criterio religioso sublima l'animo e lo ràs. serena,porgendo così le due condizioni necessarie d'ogni me. ditazione più alta. 16.Sunto. Leggi speciali della Dialettica. oi. - - Dell'Ordine, come suprema Leggerazionale. Legge suprema razionale.Leggi concrete o datu rali, Legge soprema è l'ordine. Unione de' termi.Cercare questa unione, rispetto agli oggetti, pelle operazioni, cosi dell'Artebella e dell' Arte buona, come dell'Arte dialettica. Cercare la somiglianza de'ter mioi, – le loro differenze, e leloro contrarietà, escludendo i contradittorj. Ksempio tolto dalla teo rica de'Criterj. Errore, deformità, male, sono disor dini. Ogni errore non altro è, cheda una parte soltanto risguar dare la verità, segregandola dal resto che leappartiene, e senza cui non è più verità. - Gli errori e il male cadono d'eccesso jo eccesso. Meraviglie della ragione umana, che imita l'ordine dellanatura interiore ed esteriore. Coo clusione. Ordine dell'idee Ripensamentodell'idee. L'idea, del suo valore intimo, è sempre vera; quantuoque altresi peridea s’in. tenda lutto ciò che con la riflessione s'afferma e nega; e alloral'idea può essere falsa. Bisogna esaminare il positivo del l'idee; nè può darsiun'idea negativa per sè medesima. 6. Poi bisogna esaminare l'ordine dell'ideecon gli oggetti, e come non possiamo pegar l'idea d’un oggetto, se igooriamo lasua intima essenza, nè possiamo negare l'idea d'un fatto, se ignoriamo ilcomeavviene il fatto, ec.; e bisogoa esa minare qual sia la natura dell'oggetto,coocepita per mezzo dell' idee. - 8. Idee a priori e a posteriori? L'idee hannofra loro uo ordine cbe va riconosciuto; 10. talcbè, riflettendo a quello, siformano idee distinle, adequale, chia -A1. e ci leviamo all'idea perfetta.Bisogna, in line, ch' esaminiamo la forma concettuale dell'idee, 13. la loroestensione e comprensione, 14. onde riconosciamo l'unità 15. per la qualel'idea è un esemplare unico di 16. Chi poo badi alla oatura dell' idee non puòintendere alcuni fatti maravigliosi della patura umana. Ordine della Memoria..1. Argomento.La legge della Memoria è l'ordine stesso che regge l'idee. 3.Associazione dell'idee. 4. Come possono in unità raccogliersi le varieassociazioni, notate da' Filosofi. 5. Quella medesima legge si distende alrichiamo de' fantasmi e de'segoi. - 6. E anzi, abbraccia tutte le facoltà,concorrenti nella Memoria, 7. e unità naturale del. 8. e l'unità morale delgenere umano. — 9. Que st' ordine, ch'è legge della Memoria, diviene regola. Èneces saria l'attenzivce sull’idee e il raccoglimento. 10. Bisogoa 32 * re,dell' idee, molte cose. ſaomo, - considerare la coonessione dell'idee e i segniseosibili per facil. mente richiamarle. - 11. Inoltre, acquistar l'abito dellari flessione sull'ordine de' giudizj e de' raciocinj, per il pronto discorsoscientifico. 12. Singolarmente quell'abito è neces sario per la Memoria delleparole. 15. Tadi procede la pa dronanza dell'esporre. 14. Per l'uoitàcoosapevole interna, occorre rammemorare il nostro passato. 15. Per unitàmorale del genere umano poi, occorre la Tradizione, ch'è me moria. – 16.Conclusione. Ordine de' giudizj.. Pag. 166 4. Argomento. 2. Co.ne dall'idee sisvolgono i giudizj; - 3. onde i giudizj possibili sono distinti da’ formati oreali. - 4. Categorie, 5. oggettive e soggettive. 6. Perfezio oamento di questadottrina. - 7. Categorie oggettive, o se condo gli Universali; 8. Categoriesoggettive: 9. I. quanto alla forma concettuale dell'idee, giudizj universali,ge nerali, particolari, singolari; - 10. II. quanto alle relazioni fra l'idee,categorici, ipotetici, disgiuntivi, 11. problema tici, assertori, apodittici, -12. diretti e comparativi, astratti e concreti, a priori e a posteriori, - 13.analitici e sintetici; - 44.III. quanto alla forma de'giudizj, affermativi,negativi, limitativi; 15. IV. quanto alla relazione di più giudizj,equipollenti, convertibili, contradittorj, contrarj e subcontrarj. 16.Conclusione; e come sia necessario, giudicando, solle varsi all'idea distinta,chiara, adequata, e quindi perfetta, di ciò che meditiamo. Ordine del ragionamento..186 1. Argomento. Regole. • 2. Legge dialettica. Idea media; e come ilraziocinio sia un giudizio complesso che si scioglie in tre giudizj. – 4.Priocipio formale del raziocinio. - 5. Deduzione e induzione. - 6. Deduzionedal simile al diverso. – 7. Induzione dal diverso al simile. - 8. La differeoza tra il ragionamento deduttivo e l'induttivo, in che non può consistere? —9. Qual'è duoque la differenza del ragiona mento deduttivo, 10. edell'induttivo? -Da essa viene la regola. 12. E, per opposto, dal violarlavengono i sofi - 13. e si vedenel dedurre, - 14. e nell'indurre.: 15. Non devemai separarsi la 'regala formale dalla materia del ragionamento; - 16. oè lamateria di questo dall'ordine suo. C.: P. Utilità del ragionamento. 206 1.Argomento. 2. Come deve intendersi che si procede dal noto all'ignoto? 5. Checosa troviamo di nuovo per via del ragionamento? 4. Deduzione; 5. in Fisica, inMa. tematica applicata; – 6. altre scoperte, – 7. per equipollen za,conversione, opposizione, esclusione'; 8. deduzione per via di regole applicate.– 9. Induzione, é sua certezza. --40. Induzioni fisiche. 11. Analogia. 12.Ipotesi. – 13. In duzione metafisica. – 14. Due erroriopposti: l'uso di coloroche immaginano la deduzione quasi generazione; 15. l'al tro di coloro chenegano il dedurre. 16. Conclusione. smi;Unione e varietà de'Metodi. Argomento. 2. La verità, com ' ordineconosciuto, si trasforma in Metodo: può vedersi dalla Storia della filosolia,3. e delle Scienze fisiche; 4. talchè vana è la disputa se preceda l'importanzade'Metodi o de principj; - 5. e quindi ancora si vede che il Metodo risguardail soggello e l'oggello, e ch'è psicologico ed ontologico insieme, 6. cioècritico. - 7. Faria il Metodo; ma neile varietà c'è leggi comuoi. 8. Le varietàpoi derivano dalla natura dell'argomento, 9. taotoché riesce assurdo ilcoofondere tra loro i Metodi; 10. e vba Scienze deduttive, 11. induttive,. 12,miste; 13. più sintetiche, o più analitiche. 14. I Metodi, variando secondo lavarietà delle cose, diversificano pure secondo la mente di chi pensa la verità,15. e secondo la mente di co loro, a cui la verità s ' espone. 16. Sunto. Abitinecessarj al ragionamento Metodo è abito, e richiede: abito di virtù, abitointellettuale che disponga l'intelletto all'Arte ragionativa, e abitodell'Arte. Abito morale, cioè amore della Verità. Bisogna essere preoccupatisolo da questo amore; unito alle virtù morali, e come dagli abiti viziosiopposti s' of feoda il ragionaiento buono. Abito intellettuale del raccoglimento, donde nasce il diletto della meditazione, e che porta con sèl'abito di badare all'armonia delle facoltà e delle dottrine, e di ordinare iproprj studj. Abito intellettuale dell'Arte, cioè il possesso delle regole. 41.e dell'ordine loro; 12 donde procede la necessità di tre atti razionaliabitualmente, cioè l'esame del pensiero del principio de' ragionamenti, a mezzoe io fine; 13. il quale ultimo è importantissimo; 14. e indi viene il possessodella ragione; 15. acquistato piucchè mai dall'esercizio della pewna e delladisputa; 16. purchè questa sia conveniente. L’ESPOSIZIONE. Iinportanzadell'argomento, Ufbej della PAROLA: interno e SOCIALE. LA PAROLA s’uniscestrettamente al pensiero, ma non lo costituisce; bensi lo determina. Nonbastano i fantasmi, ma ci vuole IL SEGNO dell'idea, tanto più che IL DISCORSOesterno aiuta con la successione sua la riflessione discorsiva. LEGGEDELL’ESPOSIZIONE si è la legge dialettica; ossia determinare con la lingual'ordine del pensiero; il che apparisce anche da' nomi che si dànoo a'termio idella proposizione e del raziocinio, e al congiungimento de' termini; e poi, labellezza dello stile dottrinale accorda il Vero col Buono. Regola perciò è:determinare coll'ORDINE DELLA PAROLA l'ordine del pensiero; in conformitàdell'idee e dell'idioma, donde si traggono le regole tutte grammaticali, e dello stile. Quindi è impossibile separarela bellezza dell ' Esposizione dalla profondità e dall'ordine del pensiero. Senon determiniamo con le parole il proprio concetto, in conformità dell'intimolegame fra i concetti, e in conformità del linguaggic, vengono gravi errori. L’INTERPRETAZIONEE L’IMPLICATURA (“He hasn’t been to prison yet”). L'Interpretazione. Argomento.In quante maniere debba determinarsi l'ordine del pensiero ALTRUI altrui.Relazioni del DISCORSO con la lingua; e perciò la sappia, chi vuolesser critico;tutti sapere ogni liogua, non si può pè giova; e allora valersi degl'interpretimigliori. Relazioni del DISCORSO con la mente ALTRUI; e perciò stare al sensoletterale, quanto si puo; oon interpretare alla leggiera né cop troppo di SOTTIGLIEZZA,non alterare né i difetti né i prenj; badare AI FINI che il testimone o loscrittore SI PROPONEVA – “what he meant, not what he means!” -- Relazioni del DISCORSOcon l' animo ALTRUI; e pero guardare alla capacità e alla veracità conargomenti intrinseci ed estrioseci;: nè la capacità negare, preoccupati daun'idea; nè, per la veracità, eccedere ne' due vizj opposti d'una Criticaadulatrice o caluoniatrice. Relazioni con la Società umana; e però conl'incivilimento, con la Religione, con l' uniune delle prove. Sunto, Metodi secondo le varie Discipline. Metodi speciali. Perchè i Metodi sidistinguono secoudo le Discipline varie?Quanti sono i Metodi speciali, che procedono dalla relazione varia deglioggetti con la mente? Ogni errore sostanziale di Metodo procede da un errore sudetta relazione. Gli errori de' sistemi sul Metodo, esaminati, rendonotestimonianza tutti insieme alla vera dottrina. La distinzione de' Metodi ènecessaria pell'Arte del Vero, come si distinguono l'Aiti speciali nell'Artedel Bello; e chi oega la differenza de'Metodi, pega implicitamente esplicitamente una qualche verità; come nell'ArtiBelle, 8. cosi nell'Arte dialettica. 9. Connessione de' Metodi;. 10. e ciò sivede anco nell' Arti del Bello. Hl. Ma la connessione non toglie poi ladistinzione, 12. secoudocbė il rispetto delle verità mediane o collegatricidiversifica; 13. onde bisogna rispet tare la varia competenza nelle Scienzediverse; 14. beocbe uno Scienziato possa partecipare di più Scieoze. 15. Sunto.- 16. La confusione de' Metodi è coutro il progresso della civiltà. Metododegli Studj religiosi. Argomento. 2.Proprietà del Metodo negli Studj re ligiosi. – 3. Metodo storico circa i fatti;– 4. e guardare do v apparisca propriamente la loro Storia. 5 Metodo joterpretativo circa i fatti, -6, e le dottrine, 7. Metodo filosolico circa lapossibilità razionale de' fatti dividi, 8, e come gli . Avversarj neghino irragionevolmente questapossibilità; 9. poi, circa la razionale convenienza in genere de ' fatti divini,ma esclusa sempre la necessità; -poi ancora, circa la ra zionale convenienza inispecie, cosi de preliminari della Fe de, 11. come nelle Verità misteriose. 12.Unione del Metodo filosofico, dell'interpretativo e dello storico, per leorigini del Culto e per la sua universalità nel tempo, 13. per le sue relazioniuniversali con le Scienze e con l'Arti, 14. con la Civiltà intera, e con tuttigli altri Culti. Metodo teologico si distingue dagli altri Me. todi e vis'accorda.. Pag. 342 1. Argomento. 2. Il Metodo teologico si distingue dalfilosofico, perchè muove dall'autorità, – 3. perchè risguarda il soggettomedesimo in un rispetto differente, 4. perchè, quantunque abbia io sè una partefilosofica, non è meramente filosofico. Si distingue dal Metodo critico efilologico, percbė storicameote e ioterpretativamente riconosciamo causesovrunane, l' Intelletto sovrumano, tini soprannaturali. 6. Si distingue dalMetodo matematico, perchè risguarda la libertà divina e l'umana ne' fattireligiosi. Si distingue dal Mo todo fisico; e tal distinzione ha importanzaeguale pe' Teologi, che non debbono considerare come il mondo è fatio, - 8.6 pe' Fisici, che non debbono considerare come il moodó fu fatto. 9. Il Metodoteologico s'accorda poi col filosofico; perchè il Teologo non deve separare mail'attinenza fra Teologia e Filo sofia che porge a quella le verità prelimioari,l'analogie razio nali e l'ordinamento; - 10. pè il Filosofo deve mai separarel'attinenza tra Filosofia e Teologia, che rende più autorevoli o efficaci leverità razionali. II Metodo teologicos'ac corda col critico, perchè il Teologo ha bisogno di guardare alla Storiauniversale e alla Linguistica; — 12. il Filologo ba bi sogno diguardare allaStoria religiosa e ai monumenti sacri. S'accorda col matematico, per laseverità del ragiona mento, per molti esempj, per molte dottrinefisicomatematiche, per l'evidenza del concetto d'infinità. S'accorda col fisico, perchè il Teologo non deve mai tenere la scoperta di cose na - 15. pė ilfisico deve spregiare la verificazione delle ipotesi, secondo le narrazionisacre. 16. Sunto. Metodo della Filosofia. Argomento. Proprietà del Metodofilosofico. – 3. Raccoglimento nella coscienza. 4. Esame de' fatti interni,delle loro leggi e cause. turali; Delle relazioni con gli oggetti; 6. e peròavvi una parte del Metodo, asceosiva da'fatti agli oggetti stessi, e una partediscensiya dagli oggetti a ' fatti. -7. Si distingue dal Metodo teologico, edal critico o filologico: 8. dal matematico, per la natura de' concetti, lanatura degli oggetti; – 10. dal fisico, per la natura de' fat ti, e per lerelazioni loro con gli oggetti, 11. e quindi per la ricerca delle classi loro,e leggi e cause, e per i priocipi della ragione. - 12. Si accorda col Metodoteologico per l'esa 9. e per . - me della coscienza; 13. col critico ofilologico, per lo stu. dio dell'umana natura pe' fatti umani esteriori e nellelingue; 14. col malematico, per la speculazione di verità con ma teriali; – colfisico, per l'altigenze fra le cose intellettuali e le corporee. 16, Sunto.Metodo della Filosofia Civile. Argomento.Proprietà del Metodo nella FilosofiaCivile. Questa si fondi sopr'i fatti, – 3. badando alla notizia loro precisa eal collegamento loro. 4. Studio delle cagioni; ma fuggendo di prenderel'analogie per identità. Esame delle cagioni esteriori ed interiori, nonseparabili, ma distinte. - 6. Le cagioni interiori hanno più importanza: 7. masenza trascurare l' esteriori. Si ascende alle leggi o ragio ni. Leggi supremedella Scienza storica, della Politica, della Giurisprudenza, dell'Economia. -9. Le dette leggi non tol gono la libertà, - 10. come la libertà non togliealle conse guenze proprie la necessità; 11. tantochè in ciò risplende l'ordinedella Provvidenza. – 12. Dopo l'esame induttivo delle cagioni e leggi può farsila deduzione, o probabile o necessa ria, di ciò ch' è avvenuto e che puòavvenire. 13. Questa Filosofia delle ragioni o leggi, che governano le nazioni,non può trascurare il procedimento storico; ma neppure si può, per questo,trascurare la teorica di quelle. - 14. Talchè la Scienza civile ha duepresupposti, la Storia e la batura. –15. Però il Metodo suo si distingue daogni altro, 16. e a tutti si upisce. Metodo critico nella Storia. 401 t.Argomento. – 2. Esame de' fatti, Discipline che aiutano in ciò la Storia:Cronologia e Geografia, – 4. Archeo logia, Diplomatica, Statistica, Archeologiapreistorica, Etno grafia. 5. Come si può andare in eccessi con queste discipline. Ipercritica. Esame delle cagioni; e iodi lo Storico rifà la Storia entrodi sè. 8. Cause finali, 9. particolari, generali, 10. psicologiche, A1. divine.Oggettività della Storia; 15. e come ciò la renda bel lissima e ammaestrativa.– 14. Come lo storico si distingua da ogoi altro Metodo; 15, e vi si accordi.16 Sunto, Metodo critico nella Linguistica. 1. Proprietà del Metodointerpretativo delle Lingue. 2. Raccolta ed esame de' vocaboli. – 5. Comebisogna valersi dell ' uso proprio nelle Lingue parlate, e come giovino i testimoni dell'uso. A chi ricorrere per lo Lingue morte. Grammatica poi determina leclassi e le leggi de' vocaboli, 5. Avvisi necessarj a far bene la Grammatica. –6. Io che con siste la Filologia comparata. – 7. Utilità di essa, e da qualiestremi bisogna fuggire. 8. Il fine dell'esame filologico è interpretativoprincipalmente; – 9. e ciò ne determina i con fini, i modi, 10. e le relazioni;che sono massimamente due: con la Letteratura, 11. e con la Storia, - 42. Eiodi anche vediamo le indirelle relazioni della Linguistica; cioè con 4. La ca,la Teologia. 13. con la Filosofia, 14. cop la Matemati 15. e altresi con laFisica, sempre distinguendosi da tutto ciò. 16. Sunto. Metodo matematico...Pag. 440 1. Proprietà del Metodo matematico. – 2. Quantità pore, cioè astratteda ogni altra idea. – 5. Nel che, poi, bisogna di stinguere fra l'insegnamentoelementare ed il superiore. 4. Si cerchino le ragioni, sgombre da ogo' ideastraniera. 5. Idea dell'Infinito, distinto dall'indefinito matematico. - 6. IlCavalieri. – 7. Distiozione dal Metodo teologico, - 8. e relazioni con esso;dal Metodo filosofico: e accordo con la Logica, onde l'insegnamento dellaMatematica è razionale, 12. Distinzione dal Metodo critico, segnatamente dalletterario, 13. e accordo. - 14. Relazione col Metodo fisico. 15. Come ledimostrazioni matematiche abbian virtù di assestare gl'intelletti, e anchepossano dissestarli.. 16. Sunto. Metodo nelle Scienze fisiche. Argomento.Proprietà del Metodo nelle Scienze fisiche, - 2. Prinia d'indurre si cominciadall'Analogia; 3. cbe talora non può giungere all' Induzione, 4. Può esserefonte di errori; o del troppo generaleggiare, 5. o del poco. Essa è di moltadifficoltà. 7. Regola da tenersi. – 8. Indu zione. Uffioj del senso edell'iotelletto. 9. Ci solleviamo alle 10. alle cause, - alle leggi, 12. e peròal. l'ordine. Doppio errore de' Sensisti e degl ' Idealisti. 14. Frantendonoallri la luduzione, ch'è legittima e necessa ria, 15. e da cui siamo condottialla Deduziune. Suato. Cap. L. Segue del Metodo fisico; e Ordine fra le Scienze..479 classi, 16. 1. Argomento. Abiti che prende la meote per gli Studi fisici. –5. Idem. 4. Necessità di mantenere l'ordine fra le Scienze. - 5. Guai, se laFisica è usurpativa. Confusione della Fisiologia con la Psicologia: – 6. de'fatti esteriori con fl'interiori. Confusione di linguaggio, e dogmatismo. 8. Siconfondono i bruti con l'uomo; – 9. la volontà con gli atti meccanicamentedeterminati. – 10. Si distingue il genere umano in più specie, poi si pongonole trasformazioni di tutte le specie; -- 11. si confonde l'ordine de' fini colpiacere • con la materiale utilità. - Abiti cbe prende l'intelletto per gliStudj religiosi; Filosofia; per le Matema. tiche; per la Gritica. Conclusione.STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA. Epoca dell'’era pagana. Civiltà degl’ialici. Successionedei loro sistemi.. Scuole italiche. Sistemi latini. CICERONE Giureconsultiromani. CIVILTÀ DEGL'ITALICI. SUCCESSIONE DE'LORO SISTEMI. Tre tempidell'incivilimento italici; i l'elasghi, la trasformazione loro negli Elleni,le colonie. Il terzo è più nolo; quali sono i suoi termini. Cinque cagioni piùprincipali dell'unione fra la civiltà orientale e l'italica: colonie, commerci,viaggi, lingue, tradizioni. Tre opinioni sopr’esse; tutto dall'oriente, nulla eopinione media. Dipendenza non generica nė volgare della filosofia italica;daʼsistemi orien tali. La civiltà jtalica fiorisce primamente dove più vive lecomunicazioni con l’Asia e dove più ricco un anteriore incivilimento. l'eroquest'epoca si chiama oriental italica. Questa è un'età di passaggio, fra lequalità orientali e il tempo socratico. Si veda le attinenze lia filosofia italicareligione e civiltà. Quanto alla religione sacerdotale, se n'ha indizi per lememorie de ' Pelasghi, de ' Misteri e degli Orfici. Celebre passo di Erodotosulla religione de ' Pelasghi, e sul nome degli dèi posteriori ec., econseguenze di ciò. Somigilianze tra la religione pelasgica e quella de'Bragmani. Misteri: quelli di Samotracia istituiti da 'Pelasghi; domma ches'insegnava segretamente e molto simile al panteismo dell'India. Ciò pur anchene’ misteri eleusini; panteismo naturale, metempsicosi, immortalità,purificazione. - La teologia d’Eleusi non può interpretarsi solamente in sensofisico. Testi monianze di lode que' Misteri pel domma sull'immortalità. Le dueanime; anch'in Omero ec. – Gli Orfici: qualcosa di storico v'è circa Orfeo,benché con mistura di simbolo.-- La dottrina che va sotto il nome d'Orfeo siraccoglie da tradizioni antiche e da'versi orlici. Le tradi zioni attribuisconoa Orfeo una religione collegata poi a'Misteri eleusini: cosmogonie orliche,somiglianti all'indiane. Quanto a'versi orlici, que sli non appartengono aOrfeo; ma parecchi son certamente molto antichi. Da varj ioni (che siriferiscono qui, apparisce il panteismo naturale come ne ' Vedi. Passi che fecela religione tra l'Italogreci: panteismo natu rale con molte tracce del Diounico; adorazione degli astri, massime nel volgo; teogonie, o emanazioni semprepiù specificate e che prendono attri boti e nomi distinti; individuazione ultimae volgare del politeismo, specie per opere degli artisti e de' poeti,abbandonando quasi ogni simbolo. Memorie sul combattimento fra le religiosetradizioni e il politeismo cre scente. - La filosofia, dunque, primasacerdotale; poi sacerdotale e laicale ad un tempo; cedè inline al politeismo,rispettandolo, se non altro, come apparenza o credulità popolare. Questoresistere al male, e poi cedergli, si vede ancora per l'altre parti dellaciviltà italogreca. La filosofia venne preparata da molte cagioni, e però dovèfiorirvi assai presto, anzi chè cominciare a' tempi di Talete molto dubbiosi. -La filosolia mosse da un ritorno sulla coscienza morale Questa filosofia moralee religiosa fiori, prima di Taleto, non solo in Italia ma tra gli Ionj pur anco;e se n'ha prove non dubbie. La cuola pitagorica precedeva Talute; ma va di.slinto Pitagora dal Pitagoresimo. - Molti argomenti di fatto e molte auto ritàper mettere in saldo le antiche origini di tal filosofia. Anche la scuola diXenofane antecedė Xenofane stesso; e quindi abbiamo, prima il Pitagoresimo, poila scuola cleatica e l'ionica, infine i sistemi negativi. L'epocadell'incivilimento italogreco si può distin guere in tre tempi; de Pelasghi (ocon qual altro nome si voglia chiamare que' popoli primitivi); della trasformazione di essi negli Elleni; delle colonie. L'età de' pelasghi o degl’antichiabitatori d'Italia si perde nella notte de’ secoli, ignoto il principio e ladurata. È certo bensì, che quegl’abitatori vennero d'Oriente, come se n'haprova in tutte le memorie e ne’ linguaggi e nelle reliquie dell'arti, e che i pelasghi,quantunque paruti barbari a Ecateo e ad Erodoto e di barbaro dialetto, sono lapiù antica sorgente e più copiosa delle genti e lingue e religioni elleniche (Balbo,St. d'It.; Cantù, St. univ.; Guignaut, note al Lib. IV del Creuzer, Rel. del'antiquité. Sembraron barbari, perchè reliquie di popoli più segregati allorada'popoli nuovi, già molti passati avanti. Fatto è che di là, ove i pelasghiabitarono, fan derivare i greci la civiltà loro, dall' Elicona, dall'Olimpo edal Pindo. Accadde poi e IN ITALIA un cozzo di popoli. Qual cozzo, e di chepopoli, è molto incerto agli eruditi. Ma questo si sa, ed Erodoto l'afferma piùvolte, che al lora con trasformazione lunga e tempestosa i pelasghi siconvertirono in elleni. Viene poi l'età delle colonie; un rovesciarsi di gentigreche le une sull'altre, un invadere, un esulare, e indi un propagarsi dicolonie, prima nell'Asia minore e nell'isole, poi nella Calcide, nell'Eubea, inSicilia e SULLE COSTE D’ITALIA, e infine (propag gini di colonie da colonie) inAsia, in Tracia, sul Danubio e nel Mar Nero. Questa terza età è propriamentestorica. Dell'altre due il più va ingombro di favole. La terza comincia,secondo l'Hofler assai temperato nelle cronologie, sul secolo undecimo avantil'èra nostra. (St. Univ.) In un'età così lunga e operosa, e ch’ebbe così lunghee ricche preparazioni, si forma la civiltà e FILOSOFIA DEGL’ITALICI -- laquale, svolgendosi nelle colonie d’ITALIAe dell'Asia minore, cedè poi alprimato d' Atene; onde comincia una seconda età di filosofia. Nell'epoca di chesi parla ora, in ogni tempo del l'epoca stessa, cinque cagioni principalmentemantenevano unite la civiltà orientale e l'ITLICA; colonie, commerci, viaggi,lingue, tradizioni: Le colonie, nè dico solo l'egiziane di Lelege, Danao,Cecrope ed altri, ma le prime venute dalla terra degli arii e de' persiani, el'ultime ellene che si spargevano per l'Asia minore; i commerci, che com’apparein Omero, non cessarono mai tra ITALIA e le coste dell'Asia. I viaggi perl'Oriente, non possibili a negare in tutto, de FILOSOFI d'allora, come Ritternon nega quelli di PITAGORA A CROTONE, Ritter negatore sì voglioso. Le lingue,che certo prendevano gl'inizj degli Orientali, e con le lingue le tradizionid'ogni maniera. Tra queste, principali le religiose, in torno a cui son tre leopinioni: da Erodoto fino a Creuzer la mitologia ITALICA, la grecasegnatamente, si reputarono di provenienza orientale e il più egiziana. Ma poiMüller, Voss e altri riferirono tutto ad origine greca. Guignaut (Note alCrcuzer) ed altri con lui tennero finalmente l'opinione media. E questa si èche i germi delle credenze religiose si trapiantassero d' Asia com'anco radicie forme generali delle lingue; ne può pensarsi altrimenti, dacchè ivicoabitarono un tempo le genti ellene: ciò non impedì, nè mai l'im pedisce unosvolgimento di proprie fattezze così nelle lingue come nelle religioni: all'etàpoi delle colonie, quand' elle si sparsero sull' Asia minore, per l'Egeo e nelPonto Eusino, dalle comunicazioni fra loro e i vicini orientali scaturi lafonte più copiosa d'idee e di simboli asiani, manifesta già in Esiodo ed inOmero. Talchè (ponete mente, o signori),se lo spargersi di colonie nell'Asia minore avvenne dall’undecimo all'ottavosecolo incirca, e nel con tinente poi d'ITALIA e di Sicilia dall'ottavo alsesto, que st'ultimo fatto s'incontra per appunto col ritornare delletradizioni orientali fra gl’elleni, e ne sorge in mezzo la filosofia nuovadegl'ITALICI. Non istarò dunque a disputare com’essa deriva più o menoda’sistemi orientali, bastandomi ch'ella dipende per fermo da molte tradizionid'Oriente o per le origini delle schiatte o pel riaccostarsi loro all'Asia. Chetal dipendenza poi de' popoli d'ITALIA, nazione antichissimamente civili enella civiltà loro pertinaci, possa credersi affatto generica e volgare, cioèsenz'efficacia sull'educazione speculativa, giudicatene voi, o signori, che purvedete gli effetti odierni del comunicare le nazioni fra loro. Dove fu egli ilprimo fiorire della civiltà ITALICA? nelle colonie d'Asia e di Magna Grecia. Nongià in Grecia propriamente detta. Perchè mai, o signori? La ri sposta non parmalagevole. Prima che in Grecia, fiori la civiltà negl'Ionj dell'Asia minore,appunto perchè più vicini all'Asia media, sorgente de' popoli e della civiltà;e prima pure che in Grecia fiorì nella Magna Grecia, cioè in ITALIA, perchè ivipiù forse ch'altrove ra dicò la civiltà pelasga, e perchè le tradizioni chefanno ionio Pitagora e ionio Xenofane, venuti tra noi, dan segno come frequentie vive fossero le comunicazioni tra LE COSTE ITALIANE e l’Asia minore. Dicopoi, ad ogni modo, che le colonie greche trovarono in ITALIA grandi semenze diciviltà, nè però ebbero impedimento, anzi ebbero aiuto a presto incivilirsi eprosperare. Di fatto recatevi a mente, o signori, due cose molto important. Prima,che le tavole d'Eraclea, lette dl Mazzocchi, fan prova come i coloni greciprendessero dagl'ITALIOTI misure e confinazioni agrarie. Seconda, che i Lucani,i Bruzj, i Sanniti, dopo essersi ritirati davanti alle colonie greche, eriparatisi a’ monti, ne discesero poi, e le ributtarono (Hofler), talchè piùnon resta in ITALIA dialetti greci (in PUGLIA ve n'ha, ma di colonie recenti efuggite dai Turchi); la qual cosa non poteva accadere, se que'popoli montanarinon serbavano istituti civili. Ecco il perchè ho chiamato quest'epocaorientalita logreca (italogreca ITALIOTA per più brevità); greca, perchèfilosofia di colonie greche; ITALIANA perchè sorse più splendida in ITALIA econ tradizioni italiane (italica chia marono pure i Greci, come Platone edAristotile, la scuola pitagorica e di VELIA); orientale, perchè con origini ecomunicazioni asiatiche. Non si toglie a' Greci la loro eccellenza ' se notiamoquel ch ' essi appresero; offenderebbe la verità e loro chi loro negasse lamira bile potenza di far proprio l'imparato e di dargli bellezza e compimento;essi il ricevuto per dieci lo ridussero a mille e quel mille lo insegnarono almondo; ecco la lor gloria vera e non superata. Quant' all'ITALIA nostra, osignori, principalmente sul terreno di lei sorse co' Pitagorici questafilosofia nuova che tanto potè su Platone e sopr’Aristotile. L’ITALIA ricevèdal 1 ° Oriente e da’Greci, l’ITALIA poi restituì alla Grecia e alla civiltàde' secoli avvenire; e potè dirsi allora quel che poi disse PLINIO. Omniumterrarum alumna et parens, omnium terrarum electa, una cunctarum gentium intoto orbe patria. Ma le lodi antiche suonano vituperio a’tra lignati:avvaloriamoci, o signori, d'emulazione e di virtù, e non di lode. Equest'epoca, di fatto (come dissi altrove), è un'età di passaggio; ritieneancora le qualità orientali, ma che mostrano già di convertirsi nell'altredell'età socratica. Così tra gl’ITALIOTI come tra gli Asiatici, abbiamo unsistema religioso sacerdotale; ma ora si nasconde ne' misteri, e si separaperciò interamente dalle credenze popolari che prevalgono. Tra gli uni e tragli altri la filosofia dipende dal sistema religioso. Ma ora si svolge in unmodo più laicale e più da sè stesso, perchè così ri chiede la mobilità diquelle repubbliche, e perchè il sistema religioso si rimpiatta, e nè hasull'invecchiare il vigore speculativo degl'inni e commentarj vedici; par comeun'eco de' tempi passati, più che voce vivente. E siccome la filosofia diquest'epoca pigliò i germi da' misteri (Ritter), che hanno del panteismoorientale, così ell'hanno del panteistico a mo' degl'Indiani, ma con tendenzepiù manifeste alla DIALETTICA che va per distinzioni anzichè per confusioni.Poi, qui come là s' unì la poesia con la speculazione, ma più altresi se nedistinse; perchè i poemi omerici non furon mai ravviluppati con unaenciclopedia d'episodj. Ed i poemi scientifici di VELIA (il Sulla Natura diParmenide) e di GIRGENTI (il Della natura di Empedocle) s'accostano alla prosa.E qui come là v'è ncertezze storiche, meno per altro. Giacchè il più delleincertezze cadono su' misteri e sulle origini pitagoriche, non già sulle scuoleposteriori. Premesso ciò, si veda, o signori, qual fosse in attinenza con lafilosofia la religione e la civiltà degl'ITALIOTI. Della religione, comesistema sacerdotale, me ne passerò più breve che non feci per l'India, giacchè(com ' ho detto) quel sistema era sul morire, e se n'ha meno ragguagli e menocertezza. La religione sacerdotale ITALIOTA si può ricercare in tre modi: perle notizie assai oscure dei Pelasghi, i quali tennero idee religiose piùprimitive e più vicine alle orientali; per le notizie scarsissime de' Misteri;per quelle degli Orfici. Essi e l'origine de' Misteri appartengono, credo,all'età di combattimento e di trasforma zione. Quanto a’ Pelasghi, Erodotoscrive che da loro non si metteva nome agli dèi; aggiunge che i nomi vennerod'Egitto e che i pelasghi non li volevano accettare, sì ne rimisero ladecisione all'oracolo di Dodona, riuscito favorevole a que' nomi; e dice infineche le nascite e le forme e gli aspetti degli dèi vennero cantati da Esiodo eda Omero; tutte cose già ignote. Vuol notarsi com’Erodoto accenni pure che unsimbolo osceno gli Ateniesi lo presero da’ Pelasghi, i quali ne spiegavano ilsenso ne' Misteri; e sappiamo di fatto che pure ne' Misteri eleusini e bacchicisi mostrava i simboli femminili e maschili secondo i riti d'Oriente. Erodoto,uomo schietto, n'avvisa che il narrato da lui circ' a ' Pelasghi glie l'avevanoappreso le sacerdotesse di Dodona, ma che il resto, circa le invenzioni d'Omeroe d' Esiodo, lo diceva di suo. Che cosa si raccoglie, o signori, da questoluogo così famoso? Primo, che la religione de' Pelasghi era più delle succedutelontana dal politeismo; secondo, che quella si rappresentava co'sim boliorientali della generazione divina e però ne teneva i principali concetti;terzo, che il passaggio dalle divi nità innominate alle nominate, cioè da unche meno pagano ad un più, non accadde senza contrasto, e indi si ricorse aglioracoli; quarto, che tenuto il simbolo antico ed esteriore, la sua spiegazionesi fece nell'in terno de' Misteri; quinto, che i nomi si suppongono venutid'Egitto in età più recente, perchè all' Asia media non s'imputavano queste tradizioni;infine che Erodoto reca l'antropomorfismo ad invenzione di poeti, non perchègià tal errore non fosse cominciato popolar mente, ma perchè que' poetil'ordinarono (più o men di proposito) in sistemi di mitologia, ed in modispecificati. Che poi la religione pelasgica somigliasse quella de Brag mani loattestano Ferecide e Acusilao in Strabone (Ed. Sturz ); dicendo che i Cabiri,divinità pelasgiche, son generati da Efesto e Cabira, e che sono tre Cabirimaschi e tre femmine. (Creuzer ) Venendo a’ Misteri, abbiamo da Erodoto, nonsolo che i Misteri di Samotracia venissero istituiti da' Pela sghi (II, 5), ma(com’abbiamo sentito ) che altresì nel l'interno di quelli si spiegasse isimboli esterni. Come si spiegavano essi? Apollonio di Rodi serbò del vecchiostorico Mnasea un luogo prezioso circa i dommi primi tivi di Samotracia. (Schol.Apoll. Rhod. ad 1, 917.) Che dommi, o signori? Similissimi a quelli dell'India.S'in segnava, di fatto, un principio onnipotente, Azieros; la materia fecondata,Aziokersa, o principio passivo; e il principio attivo, fecondatore, Asiokersos.Vuol egli dir ciò che il principio attivo ed il passivo si distinguonodall'essenza universale, Azieros o Brahm? 0 piuttosto (giacchè l'interpretazione di que' nomi non è certa ), Aziokersa, Azieros, Aziokersos eCasmilo o Cammillo che da taluno s'aggiungeva secondo Apollonio, rispon dono aMaya, a Brahma, Visnù e Siva, taciuta l'essenza universale, il Dio neutro, comenon si nomina il Dio supremo nel Rig Veda? tanto più che Casmilo risponderebbe, l'afferma Dionosidoro, ad Ermete cioè al Dio delle trasformazioni.Comunque, nell'incertezza de' docu menti tal cosa è certa, il domma samotraciomostrare analogie non poche col panteismo vedico e con la Trimurti. (SaintCroix, sur le Mystères du Paganisme; Creuzer, V, 2. ) E risponde non meno aquel panteismo la dottrina samotracia dell'età varie mondane, o che il mondo sidistrugga e rinnovi per forza di fuoco. Anche ne' Misteri eleusini s'esponevala dottrina d’un principio passivo, d'uno attivo, dell'armonia mon diale che nenasce, e di ciò che distrugge le forme senza intermissione. Bacco, Cerere,lacco e Mercurio, ossia grecamente Dionisio, Demeter, Iacco ed Ermete, nonritraggono forse, o signori, i sistemi dell'India, del l'Egitto e della Persia?E forse su quelle divinità è, innominato, il Dio androgeno, o il Cronos e loZeus de' tempi remoti, divenuto poi un principio maschile, contrapposto aGiunone principio femminile. Di que' Mi steri non si sa i particolari, vietatorigorosamente il propalarli, come dice Pausania (art. Beozia) e Apollodoro(Argon. I), e come dimostra il Meursio (De Festis Græcorum). Pure, da'cennidell'antichità si ritrae che insegnavasi nell' orgie il panteismo naturale (com’hodetto di sopra), e la metempsicosi, e l'immortalità del l'anima (forse col ritornoall'essenza divina), e la puri ficazione per mezzo della virtù. Il panteismonaturale viene indicato da CICERONE (De Nat. Deor.), che diceva: come ledottrine de'Misteri eleusini, ridotte a termini di ragione, si conosce meglioper esse la natura delle cose che quella degli dèi. Che vuol egli dire? CICERONEaccusa di dottrina neramente fisica gli Eleusini, che la teogonia confondevano,in realtà con la cosmogonia, e ciò accade nel panteismo naturale. Prova,dunque, tale accusa, e viene confermato da molt' indizj, che la religione d'Eleusi somiglia il panteismo de' Vedi; di fatto, che si trattasse d'una fisicasoltanto, o senza vedervi dentro la divinità o un che superiore alla naturaesterna ce lo vieta lo stesso CICERONE. Egli scrive nel II “De Legibus”, che iMisteri eleusini s ' hanno da riguardare come il massimo beneficio d'Atene,perch'insegnano a viver lieti e a morire tranquilli nella speranza di vitamigliore; cosa ripetuta da lui nelle Verrine, V. Dice Platone (Fedone) chel'iniziarsi a' Misteri purifica i cattivi, e dà a'buoni felicità eterna, cioèun'abitazione comune con gli dèi dopo la morte. Isocrate afferma (Panegirico)che i Mi steri mettono in cuore agl'iniziati le più dolci speranze quant'allafine di questa vita e quant'all'altra che non finirà mai. Che poi gl'iniziatis'ammaestrassero alla virtù si ha da molti argomenti; e il Meursio dimostra chequelli si preparavano a’ Misteri con gli esercizi di castità, e poi sicredevano astretti, quasi da sacramento, a rendersi migliori. Così Aristofane (Rane)mette in bocca a un coro d'iniziati queste parole: « Il sole e una luceaggradevole sono per noi che onoriamo i Misteri e osserviamo le regole dellapietà verso i forestieri e verso i cittadini. » Però que' Misteri si chiamavanteleti (7: ) ett ), giacchè da loro veniva la perfezione della vita. Va notatoche la me tempsicosi s' univa col domma dell'immortalità in que sto modo:credevano gli antichi che il principio animale, principio di vita e di senso,distinguasi sostanzialmente dal principio intellettivo; e che l'uno, cioèl'animale, passi di corpo in corpo, ma l'altro se ne sciolga dopo alquanti giridi secoli e in premio del vivere onesto, ritornando all'essenza universale odivina. Però si di stingueva in Persia il fervéro o genio dall' animazione, ein China Hoen da Pe, e tra gl’Indiani atma e pran, e in Grecia il démone (dzepov)o anche logo da psiche, e tra’ ROMANI “animus” da “anima”. Quindi l'animasensitiva s'immaginò non altrimenti che come materia sottilissima, e che,divisa dal corpo, ne teneva le apparenze, erane lo spettro od il fantasma,vagante nelle notti e intorno a' sepolcri. Tal distinzione si vede pertino inOmero, allorchè Ulisse approdando a'Cimmerj inter roga i morti (Odiss.): «D'Ercole mi s'offerse alfin la possa, Anzi il fantasma; però ch'ei de' numiGiocondasi alla mensa, e cara sposa Gli siede accanto la dal piè leggiadro Ebe,di Giove figlia e di Giunone. » La terza fonte di notizie, cioè le memorieorfiche, non vanno soggette, o signori, a tanta perplessità, e può trarsene qualchecostrutto; purchè evitiamo così la co moda credulità come l'eccesso de critici.S'è giunti a du bitare d'ogni realtà storica ed antica rispetto ad Orfeo; ma,quantunque la parte storica si frammischi a' por tenti della favola, e un nome (alsolito) rappresenti le dottrine e i canti di più, nondimeno qualcosa di reale ed'antico vi ha; perchè Ibico (in Prisc.) che fiorì presso al 550 prima di GesùCristo, già ram menta Orfeo; lo rammenta Pindaro (Pith.), anzi lo chiama padrede canti apdov Tr UTEP (Ott. Mül ler, St. della Lett. Gr. ); lo rammentanoancora gli an tichi Ellenico e Ferecide e le tragedie ateniesi. Da molti luoghidi Platone (Leg. VIII; Ione, Convito, Rep. 11) apparisce che a tempo di luieran divulgati già molti carmi col nome di Museo e d’Orfeo; questi è citato nelFilebo e nel Cratilo; e si scorge che l ' espiazioni de’de litti appartenevanoalle discipline orfiche. La dottrina che va sott' il nome d’Orfeo si racco glieda tradizioni antiche e da versi orfici. Quanto alle tradizioni antiche, elleattribuiscono tutte ad Orfeo una religione, che istituita da lui si collegòquindi a Misteri d'Eleusi (Müller): e ciò conferma il già detto sulla natura diquel sistema religioso. Si rileva poi dagli antichi scrittori un sistema orficodi cosmo gonia, benchè sotto più forme, e talora v'han messo la mano autoridell' èra cristiana. Creuzer ne dà cinque di tali cosmogonie; rilevantissimaquella di Ferecide Siro, pel quale son tre i principj Zeus o Giove o Cronos ol'etere, il Caos o massa inerte ch'egli vivifica, il Tempo o la durata senzalimiti. E qui voi scorgete, o signori, l'indefinito ch'è concepito nell'astrazione del tempo (come tra’ Persiani ), e dall'indefinito i due principj,l'attivo ed il passivo. Nella cosmogonia che viene riferita da Atanagora e daDamascio, v’ha l'idea indiana dell' uovo nell'acque, da cui esce Eros o Fanete, amore o manifestazione dell'armonia universale; e tal idea orfica vienerammentata negli Uccelli d'Aristofane. Il mondo, poi, si rinnova perbruciamento (co me secondo Eraclito, gli stoici, gl'Indiani e l'orgie eleusine), in virtù di Dionisio corrispondente a Siva. (Creuzer) Mi pare che ilMaury ottimamente riduca le teogonie o cosmonie orfiche a questo: Cronos generai due principj, l'etere e il caos; il caos in virtù dell' etere prende la formad'uovo, avviluppato dal l'erebo o dalla notte, cioè dalle tenebre primitive, acui segue la luce o l'amore, quando l'uovo si spacca, ossia quando il germeinvoluto si svolge nelle sue parti: queste le idee più principali che risultanodal paragone de' più antichi testimoni. Ma i versi che ci restano sott'il nomed’Orfeo, son essi autentici? Aristotile e Cicerone negarono già che i versipropalati fin d'allora come d'Orfeo gli apparte nessero; e più n'è dubbio a' dìnostri, perchè nei primi secoli dell' èra volgare molti documenti si rimaneggiarono, e molti se ne invento. Ma dice Mullachio (Fragm. Phil. Græc., ed. Didot.Parisiis): Plerique ver sus puroque et simplici sermone insignes sunt; talchè,considerata la purità e il fare antico di molti versi, e il riscontro di varietestimonianze. ond' essi ci sono tramandati, e l'accordo loro con le tradizionivetuste, possiamo affermare che quelli senz'essere forse d’un poeta che sichiamava Orfeo, sien per altro reliquie vere degli Orfici antichi. Udite l'innoinsigne alla Natura, tradotto dal Cantù nella Storia universale e riferitonegli Schiarimenti (Tauchnitz): « Natura, diva madre universale, in tante guisemadre, celeste, venerabile, molto creante spirito (o cuor ), regina che tuttodomi indomata, tutto governi, in tutte parti splendi, onnipossente, ve neratain eterno, divinità a tutte superiore, indistrutti bile, primonata,antichissima,... comune a tutti, sola, incomunicabile, padre a te stessa senzapadre, che per maschia forza tutto sai, tutto dài, nodrice e regina di tutto;feconda operatrice di quanto cresce, di quanto è maturo dissolvitrice, dellecose tutte vero padre e madre e nodrice e sostegno. Le quali ultime parole giàudimmo per Aditi nell'inno del Rig Veda. Or bene, che dottrina s’asconde, osignori, ne' versi orfici? La stessa che ne' Vedi: la natura universale è padree madre, ossia, principio attivo e passivo; ell’è divina, perchè non è lamateria, sì l'essenza universale, spirito divino primo e materia prima in unità;è senza padre, cioè senza principio; è primonata, cioè generata da sè stessacon uscire all'atto dall'indefinita potenza; indi, ella è padre di sè stessa;infine, si palesa con tre divine opera zioni, genera tutto, sostiene tutto,distrugge tutto. In Clemente Alessandrino (Stro. V), in san Giustino (Co hort.ad Græc.), in Eusebio, nell'egloghe di Stobeo, in Proclo, in Porfirio e inaltri si ha varj altri frammenti più o meno antichi, ma che rendono lo stessosistema. Un inno ch'Eusebio prese da Aristobulo peripatetico. insegna qual sial'unico genitore del mondo, comie lo chiamano i prischi documenti degliuomini,contro l'er rore antico, cioè contro il politeismo; e che Dio tiene insè il principio, il mezzo e il fine. (Pr. Ev.) Riferirò un altro innoch’Eusebio tolse da Porfirio (Ivi, e Stobeo, Eclog. Phis. 1, 2, 23, e Bibliot.del Didot, Framm. ec. p.6 ): « Primo e ultimo è Giove che splende col fulmine.Egli capo e mezzo, e a lui son create tutte le cose. Giove è nato maschio,Giove nato intatta ver gine. Egli sostiene la terra e l'aria stellata de 'cieli;ed è insieme re e padre d'ogni cosa e autore della loro origine. Unica forza eunico demone che governa tutte le cose, quest' unico le chiude tutte nel suocorpo regale, il fuoco, l'onda, la terra, l'etere, e la notte e il giorno, e ilconsiglio, e il primo genitore e nume del l'amore: contiene tutto ciò Giovenell'immenso corpo. E il capo esimio di lui e il volto maestoso irradia ilcielo, intorno a cui sparge con molto lume la chioma pendente e aurea d'astri;e gli sta sull'alta fronte, a somiglianza di toro, un doppio corno chel'accende di fulgido oro. Ivi sono l'oriente e l'occidente, giri noti a' supremidèi. Son occhi di lui il sole e la luna che corre di contro al sole. In lui èmente verace, ed etere regale non sottoposto a morte, il quale col consigliomuove e regge ogni cosa; e quella mente, perchè prole di Giove, non può esserenascosta da niuna voce o stre pito o suono o fama. Così, egli beato possiede esenso dell'animo e vita immortale, spandendo il corpo illu stre, immenso,immutabile e con valida forza di brac cio. A lui son omeri e petto e tergaimmani le ampiezze dell'aria; e con veloci e native penue precipitando, eglivola intorno a tutte le cose. La terra, madre comune, ei monti che levano l'alte cime, formano il sacro ven tre di lui ne fanno la zona media i tumidiflutti del mare sonante. L'ultima base che sostiene il nume, sta nell' intimeradici della terra e negli ampj spazi del l'erebo e negli ultimi confini cheinaccessa ed immota spande la terra. Tutte le cose egli nasconde primamente nelmezzo del petto, e poi le manda fuori nell'alma luce con opera divina. » Tra lefigure poetiche non si può non vedere in quest'inni l'opera della riflessioneche affaticasi di scoprire e spiegare l'attinenza fra Dio e l'universo,confondendola, per abuso d'induzione, con l'attinenza tra l'unità dellesostanze e la moltiplicità c mutabilità de'fenomeni. Non fa dunque meravigliase Pitagorici, Eleati ed Ionj che presero gli esordj dalle dottrine orfiche ede' Misteri e però dall'antiche tradi zioni pelasghe, cadessero nel panteismo.Ecco dunque i passi che sembrano fatti dalla reli gione fra gl’ITALIOTE. Primaè un tal panteismo natu rale, in cui le divinità sono le forze della naturu;non le forze per altro simboleggiate, come interpretò poi la scuola de' Fisici(Plutarco la distinse sì bene dall'an tica scuola de' Teologi), bensì le forzenaturali confuse con gli attributi divini. In quel panteismo, come nel RigVeda, gli dèi son poco determinati: differiscono poco gli uni dagli altri;escono tutti e rientrano nel Dio unico (Creuzer, V, 4). Talche certi Padripensarono ch'ei fosse un culto dell' unico Dio creatore, e tal cultocontrapposero alla corruzione posteriore dell'idolatria; Storia della F lofint.17 2 ill 1 ma, veramente, non può chiamarsi un teismo, bensì un panteismonaturale, dove nondimeno le tracce del l'unità di Dio si conservano cosìspiccate da causare l'opinione ch'io vi diceva. Però le divinità pelasghe nonavevano un nome, dice Erodoto; e a dar loro un nome s ' opponevano lesacerdotali tradizioni (Ispot 20091). E come narra Platone nel Cratilo cheprima si chiamò in genere 0: 9 le divinità, così cabiri le dissero i Pelasghi,ossia (forse) potenti; e ciò risponde agli dei complices o consentes degliEtruschi. Poi, questo panteismo naturale si ristrinse più par ticolarmente (especie nel culto popolare) all'adorazione degli astri, dove più che in altro ciapparisce la po tenza di Dio: e che sia così l'attestano Platone (Fileb. eCrat. ) ed Aristotile (Met.). Allora Zeus o Giove fu proprio il cielo; e simantenne questo nel detto volgare: Giove che fa? per dire: che tempo fa? Ma ilpanteismo naturale de' sacerdoti più e più si foggiò a sistema d'emanazioni,per ispiegare con modo determinato la dipendenza di tutto dalla causa prima; eindi le teogonie e cosmogonie orfiche e quella d’Esio do. Le operazioni divine,allora, ebbero nome partico lare, e vennero simboleggiate con immagini esterne;come narrai che la triade pelasga prese il nome dall'onnipo tenza e dallafecondazione; e si sa del Giove con tre occhi in Argo (Pausania ), della Venerepiramidale di Pafo, e co' due sessi (statuina nella bibliot. naz. di Pa rigi),dell' Apollo a quattro mani, del Sileno a due te ste, di una dea a quattroteste nel Ceramico d' Atene, del Giano bifronte, della Diana mammellata d'Efesoe della Cibele come informe pietra. Tutti questi nomi e simboli, a poco a pocodivennero nomi e attributi pro pri di certe divinità specificate; e la Trimurti,le cui vestigia restano fin anche negli dèi omerici, Giove, Net tuno e Plutone,s'individuò per modo che l'un Dio non più si confuse con gli altri, e questi simoltiplicarono all'infinito. Però, questa individuazione favoriva il politeismoa volgare e si mescolava con esso, e n'era eccitata e lo eccitava; e ambedue sistabilirono più che mai con l'arti del disegno, che lasciati quasi del tutto isimboli, ri dusse gli dèi a forme umane, con alcune qualità pro prie diciascuno. Un'ombra di simbolo restò, ma velata, nelle forme tra maschili efemminili di Bacco e d'altri dei, figura sacra dell'androgenia, quandos'abbandono la rozzezza dello scarabeo (Winkelman, St. dell'arte ec. ); e talsimbolo (sia detto di passaggio ) alcuni artisti vo gliono imitare quasiperfezione di membra umane e le sono immaginarie! Fatto sta che la scuolad'Egina, Polignoto, Fidia, Prassitele, imitando i poeti ebbero più ch'altroefficacia nel fermare quel politeismo di dèi spicciolati. Vuolsi por menteadunque, o signori, che da un lato restava la tradizione sacerdotale, benchèpiù e più cor rotta, e cresceva dall'altro il politeismo. Come restava latradizione? Ne' Misteri; già lo vedemmo. E perchè mai dovè occultarsi? Diconole memorie antiche, i primi re di Grecia e d'Italia fossero ad un tempo sacerdoti, capitani e giudici; patriarcato ch'è origine d'ogni nazione. (Arist.Pol. III, 14. ) Le memorie stesse ci nar l'ano poi d'un contrasto lungo esanguinoso tra le classi sacerdotali e le guerriere; il che apparisce anconell'In die; ma se ivi le liti si composero stabilmente, fra gl'Ita logreci alcontrario scapitò la classe sacerdotale che (l'accennano i racconti circaErettéo e gli Eumolpidi) si dovè segregare in alcuni luoghi, come Eleusi,lasciando a' re tutto il resto; e così, a poco a poco, e tanto più quandosorsero i governi popolari, s'abbandonò l'inse gnamento religioso e restòsolamente i riti esteriori del sacrifizio e delle feste. Quell'insegnamento,dunque, escluso da ' popoli, rifuggivasi nel mistero, in que'luoghi appunto chela classe sacerdotale abitò, com’Eleusi e i sacri querceti di Dorona. E che faintanto la filosofia? Ella è sacerdotale dap prima, o teologia, perchè tenutele tradizioni asiatiche, cresce nel sacerdozio pelasgo ed orfico; poi, nell'età che > il sacerdozio si separa es’asconde, dalle semenze reli giose de' Misteri germogliano i primi sistemicome i pi tagorici, che han del sacerdotale e del laicale ad un tempo. Questafilosofia, perciò, combattè dapprima il politeismo, per esempio ne' frammentidi Xenofane che derideva il fingere dèi a somiglianza nostra. Poi, dac chè ilconcetto di Dio sempre più s' annebbiò, i poste riori consentirono a' tempi, egl' Ionj, gli Eleati, e molto più i sofisti, menaron buona, se non altro comeappa renza o come credulità popolare la mitologia. Nè altrimenti andò negliordini tutti della civiltà. Di fatto; quando i governi regi si mutarono inpopola reschi, molta efficacia e salutare v'ebbe la filosofia mercè iPitagorici, e segnatamente Zeleuco e Caronda, i cui frammenti di leggi muovonodal dimostrare che Dio è; ma in progresso la filosofia non potè resistere allali cenza, fu perseguitata, e però cadde in mano di sofisti che inventaronol'arte della parola per la parola, malvagi adulatori di plebe e mercanti dicavillo. Abbondando le ricchezze, nate da operosità, fiorirono scienza ed arte;ma successe un abito d'ozio e di godimenti, e la Magna Grecia in ITALIA el'Ionia caddero in mollezze di trista fama. Resisterono i primi sapienti, comedimostra l'istituto pitagorico; ma cedè a poco a poco la loro austerezza, e giàXenofane canta « ch'è dolce nel verno stare al fuoco bevendo, e domándareall'ospite: quant'anni avevi tu quand' il Medo invase? » il Medo, o signori,invasore della patria ! lei sofisti, all'ultimo, la filosofia diventò l'arte digodere. Nell'ordine morale s'arrivò a tal segno ch'Ateneo rimprovera Platone,perch'e' disse nel Sofista come Parmenide di VELIA ama Zenone di VELIA;quasichè tal parola, detta di giovane, non ricevesse mai buon senso. E lafilosofia, resistente dapprima co' Pitagorici, giunse co ' sofistiall'indifferenza tra bene e male; indifferenza molto diversa e peggioredell'indiana; chè questa è non curanza del moltiplice e vario ch'apparisce, ingrazia dell'unità sostanziale, ma quella è non curanza senz'al tro; ivi èun'ombra di moralità, qui nessuna. Mostrate così l ' attinenze tra filosofia,religione e ci viltà degl'Italogreci, resta che vediamo il principio e lasuccessione de' loro sistemi. Cominciamo da dire che in tutta questa età e perconfessione di tutti, v'ha incer tezza sul tempo preciso de' varj filosofi; ebisogna ri correre il più a Diogene Laerzio, autorità poco accettata. Lecongetture dunque son lecite; e tutti ne fanno. Avvertirò inoltre che suldefinire l'età de' tempi remoti variano le tendenze degli Orientali e de'Greci; que sti tirano al meno e quelli al più. Per che ragione? I Greci amandola certezza de' fatti, li trasportano quanto più si può nel tempo storico, elontani dal favoloso; al contrario degli Orientali, che amano l'indefinito dese coli; effetto del panteismo. Premesso ciò, rammentate, o signori, che primadell'undecimo secolo avanti Cristo Pelasghi ed Elleni si mescolarono insieme; eallora co minciò l'età delle colonie; e da esse la più nota civiltà ITALIOTA.Quali preparazioni vi riscontriamo noi per la filosofia? La civiltà pelasga, ledottrine orfiche, i Mi steri; inoltre le comunicazioni più che mai frequentiper l'Asia minore (dove prosperavano tante colonie) coll' Asia media. E chetempi erano quelli per l'Asia media? Rammentiamocene, o signori; erano i tempidi splendida civiltà, quando circa il mille avanti Cristo si compilavano i Vedied i poemi, e fiorivano le scuole di filosofia. Chi potrà dunque negare, chedate tali prepa razioni e la civiltà delle colonie, e dato quell'impeto di vitacivile ond' il pensiero s'agita tutto, e poste le sedi nuove in paesi nonselvaggi come l' America, ma già inciviliti, sorgessero presto le speculazionifilosofi che? Non farebb' egli un'ipotesi strana chi le credesse indugiate atre o quattro secoli dopo, fino a Talete, anzichè colui che le dicesse più menogià in via circa il mille od al novecento prima dell' èra volgare? A ogni modo,tempi precisi non se n'ha; e poichè la critica devé supplire, parmi piùragionevole vi supplisca così, che stando ad indizi già riconosciuti per pocoprobabili. La filosofia mosse anc' allora da un ritorno sulla coscienza morale;ce ne assicura la moltitudine di sen tenze attribuite dagli antichi a ' Settesapienti; a uno de' quali, cioè a Chilone, si reca il detto: conosci te stesso.Abbiamo poi alcuni tra ' poeti gnomici, come le recide, della cui antichità nonsi dubita punto; e chi, Foclide per esempio, lo fa contemporaneo, chi anteriorea Pitagora. Le sentenze di Mimnermo, Evano, Metrodo ro, Teognide e va'discorrendo, mostrano chiaramente la riflessione sulle verità morali, benchènascosta in afori smi. Così queste di Foclide: « Non dire mendacio, ma parlasempre con verità. Primieramente venera Dio e quindi i tuoi genitori. Nondisprezzare i poveri, nè voler giudicare alcuno ingiustamente, perchè se tugiudiche rai male, Dio poi ti giudicherà. Fu da Dio a’mortali dato in uso lospirito ch'è immagine di lui. Il corpo abbiamo dalla terra e si scioglie inessa e siam polve re, ma lo spirito va in cielo. » Or bene, io dico, e misembra di poter essere sicuro, che codesta filosofia morale e religiosa sorse efiori prima del panteismo materiale di Talete e d’Anassi mandro; perchè n'hoprove storiche (come dirò), e per chè dalle tradizioni sacre orientali e orfichenon si poté saltare in un subito alla materialità. Dove fiorì? Non in Italiasoltanto co ' più antichi savj della scuola ita lica, ma nell' Asia minorealtresì, fra gl ' Ionj, dovunque insomma germinò la civiltà ellena. Di fatto,che che vo glia credersi delle tradizioni circa Pitagora e del suo venire dall'Ionia, esse, unite alla certezza che Xeno fane pure ne derivasse, mostranoalmeno che l'antichi tà non reputò straniere agl' Ionj 1 ' idee pitagoriche edcleate. Aggiungete che Talete ha molti più segni di spiritualità che non iposteriori; e tal peggioramento non si può negare. Perchè dunque, dimanderete,vien solo ricordata la scuola italica? La risposta è facile e il caso è comune;si ricorda i luoghi dove la scuola più crebbe e durò. y Ma la scuola pitagoricao ITALIOTA, dimanderassi an cora, ell’è anteriore a Talete, cioè al panteismomateriale degl' Ionj? Mi sembra certo, purchè si distingua Pitagora dalPitagoresimo; questo è la totalità di dot trine comuni a tutta una scuola difilosofi; quegli è un tal nome, parte storico, parte simbolico, che può essereprima o dopo, senzachè provi l'anteriorità o posteriorità della scuola nel suonome rappresentata. E nondimeno anche sull'età di Pitagora son diverse l'opinioni. Quanto a Pitagora, Meiners lo crede nato al 584 avanti l'èra nostra;lo crede nato Lacher al 608. Come si determina ciò? Per autorità non salde, eper vie di congetture. Talete poi, secondo Apollodoro, sa rebbe nato il 640,anteriore perciò a Pitagora; dáta non senza incertezze. (Ritter, St. della fil.ant.) Ma ecco il Niebuhr (St. Rom. I) che contrapponendo a Polibio ed aCicerone l'autorità d'alcuni scrittori orientali, crede probabile lacontemporaneità di Pitagora e di Numa; talchè andremmo più oltre che la data diTalete. Avanti alle dáte di Pitagora s'ha in ITALIA e Sicilia ZELEUCO E CARONDA,legislatori l'uno di LOCRI e l'altro di CATANIA; e ne' frammenti di quelleleggi v'ha il segno delº pitagoresimo. Il Krug fa CARONDA DI LOCRI del 668; ilBenteley, l'Heyne, il Saint Croix, Centofanti, del 730. Quando Pitagora vennein Italia, in CROTONE, si dice che subito la scuola crescesse tanto di numero edi potenza, da bisognare feroci persecuzioni a spiantarli: il che umanamentenon può accadere. La scuola dunque precedeva. Il personaggio di Pitagora,l'istitutore insomma del Pitagoresimo, diventa un simbolo in gran parte; il chedà segno d'antichità molta, e di tradizioni orientali. Nella scuola pitagoricaè mescolanza di culto e di speculazione; e ciò indica il passaggio dall' etàteologicha (MYTHOS) alla filosofica o LAICALE (LOGOS), che in modo distintovengono più tardi. Secondo la comune leggenda, tra l'istituzione della scuola ITALIOTA,il suo prevalere anco negl' istituti civili, e la sua persecuzione, corseropochi anni; il quale rovesciamento di favori popolari si dà presto a un uomo,tardi a un potente consorzio d'uomini. La storia di Pitagora, simbolico in granparte, ha natura di leggenda; e sogliono le leggende avvicinare tempi lontani.Indi le confusioni dette di sopra. Nellascuola pitagorica son chiare e molte le vestigia orfiche; talchè l'antichità diqueste palesa l'antichità di quella che le raccoglie; com'elle poi diminuisconoin progresso, e appena si scorgono negl' lonj. I Pitagorici han forma diconsorteria, e tra loro è comune e costante un corpo di dottrine. Ciò rammenta,o signori, gl’usi orientali che sempre più si perdono nelle repubblichettepopolari; e rammenta l'antichità più remota, dove più vale l'unione el'autorità. Aristotile dà la filosofia de' Pitagorici come una, e vi scopresolo differenze accidentali. Le tavole d' ERACLEA, lette dal Mazzocchi (come accennaigià), mo strano un incivilimento anteriore, e quindi un'antica preparazionealla scienza. E delle prove d'antica civiltà nelle genti d'ITALIA recherò quicosa che pare non fosse disputata fra' Greci, val a dire ch'essi, come diceTaziano (Or. contra Greci) prendessero da’ TOSCANI la plastica. Cousin dimostracon le autorità non ricusabili di Sozione, d' Apollodoro e di Sesto cheXenofane nasceva il 620 avanti l'èra volgare, un 60 anni circa prima diPitagora stando agli anni di Meiners. Ora, se la dottrina di Xenofane tenne delPitagoresimo, come mai sarebb'egli tanto più vecchio del suo maestro? Sebisogni stare alle memorie greche talquali, i capi della scuola pitagorica diCROTONE e di VELIA vennero d'Ionia; men frechè in lonia correva un tutt'altropensare. Qui, prendendo la cosa talquale, v'ha due inverisimiglianze, prima chene luoghi de' capiscuola non ci avesse quell'indirizzo di speculazioni, comesarebbe assurdo che d'Alemagna venissero in Italia fondatori d'eghelismo e lànon n'apparisse il focolare. Seconda, che piuttosto que' filosofi cercasserfavore in Italia, sé qui non preparato il terreno. Ma tutto si concilia, quandoil silenzio delle mete, in tanta oscurità di tempi dissero all'incirca il piùrinomato, tacquero il meno, senza negarlo bensi, chè non lo conobbero forse.Dissero la scuola ionica, tacendo la scuola religiosa comune là ed a'Magnogreci, O ITALIOTI, perchè più celebre qui; dissero i più famosi capi dellescuole ITALIOTE, tacendo le lontane e recondite preparazioni. E ch'elle cifossero, mostra il celebre passo di Platone che fa dire a Zenone di VELIA. Questeopinioni sull'uno cominciarono da Xenofane, anzi da più antichi di lui. (Soffista.)Brandis e Ritter crederono s'alludesse ad avere quella dottrina germe innatonegl' intelletti. Al che ripugna Cousin e con ragione. Prima, qui si parlastoricamente e non teoreticamente. Poi, se volesse allu (lere a germi naturalie senz' origine, come mai, anzi, parlerebbe Platone di cominciamento anteriore?(te 2.2.1 i te tepisºsv č.pčarevov). De primi Pitagorici non v'è scritti;scrissero i più vicini al tempo di Socrate; e ciò per l'uso degl'insegnamentiorali, per la costanza delle tradizioni e pel segreto delle dottrine religiose.Or tutto ciò è segno d'antichità e risponde agli usi orientali. Nella scuolaionica poi sembra che fino il primo, cioè Talete, scrivesse versi,probabilmente prose (Diog. Laert. I, 34, Plut. de Pitiæ Orac. 18, Arist. Phys.); il che mostra un fare più nuovo, e desiderio di stabilire la novità. L'usodi non iscrivere, uso lasciato si tardi da ' Pita gorici, spiega ben anco ilperchè sembrò più recente « lella scuola ionia il pitagoresimo: più recentierano le scritture, non la loro filosofia. Recherò infine (lue singolaritestimonianze di Padri greci, d'Ermia verso la fine del secondo secolo, e d'Eusebio dottissi mo ne' libri originali della greca filosofia. Ermia, dun que,nell'opera Derisione de' filosofi gentili enumera le contrarie opinioni lorosull'anima, sul bene, sull'immortalità, sulla divinità e sui principj del mondo;e poichè ha.rammentato varj filosofi, viene a Pitagora e lo distingue daglialtri così: egli d'antica nazione. Qui, segnalare tra gli altri Pitagora perantichità, è notabile assai. Eusebio, poi, più espressamente nelle Preparazionievangeliche dice: che Pitagora nacque a Samo O IN TOSCANA o altrove, ma nongreco, e ch' egli fu principe de filosofi, talchè alla filosofia ITALICA diTOSCANA (ETRURIA) E CROTONA succedette la ionica e la di VELIA. Anzi anche Flaviorammenta tre filosofi prischi con quest' ordine qui, Ferecide Siro, Pitagora eTalete. Questi argomenti, la cui tesi è convalidata pure dal l'autorità di Niebuhr,di Cousin, di Gioberti (nel Buono), di Poli (Appendice al Manuale delTennemann) e di Centofanti (Pitagora), e che non hanno in contrario argomentipositivi di tradizione, o concordi autorità di storici antichi, mi fanno sicuroche il pitagoresimo, come scuola religiosa e morale, anteceda l'altre scuole;poi venga la di VELIA, e come più affine alla prima, e come precedente aXenofane stesso per la dottrina dell'unità universale; succeda loro l’ionica,quant'al suo cominciamento bensì, non quanto alla sua continuazione ches'accompagna (com' accade) con l'altre; e vengano infine, su che non ha dubbio,le gative. I quali sistemi darann ' argomento ad altra lezione. vole ne SCUOLEITALCHE. Causa interiore del Pitagoresimo è la necessità d'una riforma morale:da ciò l'esame di coscienza posto per principio di filosofia e di vita buona.Cause esteriori. Si volle la riforma religiosa e morale da cui la civile, permezzo della filosofia. - Parti non dubbie nelle memorie degl'istitutipitagorici. Notizie su Pitagora e sugli altri più famosi. Quali documentiabbiamo certi sulla scuola italica. - Il Carme aureo i antico.- Le notizie checi danno gli Alessandrini non vanno accettate senza esame, ma nemmeno rigettatecon leggerezza. - Oggetto della filo sofia pitagorica, suo fine e metodo. —Quali cagioni dettero impulso a quel metodo che fu applicazione d'ideematematiche. Ma ciò non vuol dire che lal dottrina stia in un ideolismomatematico; giacchè la monade si pensò come una forza. - Il numerorappresentava l'attinenze o l'armo. nia; indi il simbolo musicale. Due furono isignificati del numero, it simbolico ed il reale. Verità del metodo matematico;suoi eccessi nel pro cedere dall'astratto al concreto: esempi varj. – Si cercòle leggi mentali della quantità effettuato nella realtà, per salire con esse aDio, causa, ragione e legge. Dio è principio de'principj; e poichè i principjdelle cose si dis ser numeri, Dio è il numero per eccellenza. -Questo è l'unità.– L'unità bensi presa, non come parte d’un tutto, ma in senso generale. - A Dionon si può applicare il concetto d'uniti nemmeno in quel senso; Dio è soprunità; ma l'errore precedė dalla induzione astrattiva. Si dimostra co ' do cumentiche il significato dell'unità pitagorica ė panteistico, ma ondeg giante tra ilvero ed il falso. - L’unità, come per gl'Indiani, parve l'indefinito che sidetermina. — Grandi verità contenute nell'implicitezza di quelle dottrine. —Dio si pensó come unità suprema di tutti i contrarj; l'universo, come icontrarj in atto, e ridotti all'armonia da Dio. - L'uni tà generale o la monadeche si distingue in monadi secondarie, spiega lo teoriche d'allorasugl'intervalli, sul vuoto, sull’intinito, sul finito ec. L'anima è numero, edè nel corpo come Dio nel mondo; è l'armonia del corpo. La verità è l'uno e ilnumero; l'errore va fuori dell'armonia. -- Intelletto e senso. — Dio, ragioneprima del conoscere, perché gl’intelletti si credettero divini. Poi, perchè Dioè il numero per eccellenza, e il nu mero è l'esemplare del mondo. Quanto allascienza, si sbagliò cercando sempre l'assoluta necessità razionale. Numero earmonia il bene; disar monia il male. - Fine dell'anima intellettiva il ritornoall'essenza pri ma. --- Come si tentó fuggire le contraddizioni del panteismonaturale negando la cognizione diretta dell'essenza. - Xenofane tentó fuggirlecol panteismo ideale. - Cinque concetti principali di Xenofane: Dio è uno;sommo potere; gli manca ogni contingenza e però non è nè finito nė infi nito néin quiete nè in moto; Dio non può nascere, perchè il non ente non può dal nulladivenire qualcosa: Dio è il tulto. — Indi segui che il mondo è apparenza. –l'armenide stabilisce chiaro il doppio aforismo degli Eleati e degl ' Ionj, econdanna il secondo. Muove dall'idea generale d'essere; Dio si fa piùindefinito che in Xenofane. – Tutto è idea. Melisso fa Dio più indeterminatoancora, chiamandolo un qualcosa. -- Gli attributi della moralità non piùappariscono. – Panteismo materiale de gl'Ionj: nasce in condizioni opportune. -Il moto delle cose vien conside rato nell’ente o nell'assoluto, ch'è la materiaeterna divina, dotata di pensiero. – Diversità nel concepire tal moto fra 'dinamici e i meccanici. E la causa prima del moto la posero diversamente inquella cosa che più parve trasmutabile in ogni altra cosa. – Talete ba dellospirituale anco ra; la grossolanità materiale viene crescendo. Anassayora videl'assur dità del panteismo, e prese il dualismo; ma non détte troppo alla mente.— Idealismo ateo di Protagora; materialismo di Democrito; le due forme discetticismo particolare. Scetticismo universale di Gorgia ec. Misticismod'Empedocle; e perché il suo sistema paia indeterminato ed ecclettico. — Dueschiere d’uomini; gli atei e i l'itagorici di quel tempo: interpreta zionestorica, e interpretazione fisica della mitologia. Qual è mai, o signori, lacausa interna del Pitagoresimo? La necessità d'una riforma morale; necessitàprofondamente sentita da uomini ornati, quanto la gentilità comporta, di grandivirtù. Il conosci te stesso e esame di coscienza morale negli istitutipitagorici, e fondamento altresì di speculazione; chè, nella coscienzae'trovarono il dovere e nel dovere Dio. Cagioni esterne furono il guastocrescente della religione, de costumi e della libertà, al quale s'oppone ilPitagoresimo, e inoltre (com’ho avvertito più volte) le tradizioni e i commercid'Oriente, le dottrine orfiche ed i Misteri. Si volle, pertanto, una riformareligiosa e morale, da cui venisse la civile; e criterio a tutto ciò désse laScienza. Il che spiega gl'isti tuti pitagorici su cui gli Alessandrinimescolaron favole, ma la natura di consorteria e un culto segreto (Ritter ) ela sostanza dell'arti educative non cadono in dubbio. La riforma religiosa sitentò co’riti e dommi segreti; la morale con l'opporsi a tre vizi, voluttà,superbia ed avarizia, ed esercitando anima e corpo nella musica e nella GINNASTICA;la civile, domando la licenza con abiti disciplinati ossia con l'autorità (curospz) e con la vita comune. Il discepolato morale prepara così alle speculazioni,e, preparato, s'eleva l'alunno a gradi più alti e più liberi. (Centofanti,Pitagora; Puccini.) Circa Pitagora o di Samo nella lonia o di Samo nella MagnaGrecia in ITALIA, poco v'ha di sicuro e con mescolanza di simboli; paretuttavia che un fondamento storico v’ha e ch'egli e uomo di molta dottrina evirtù. Per la dimenticanza in che vennero le colonie di Magna Grecia in ITALIA etutte le antichità italiche dopo le conquiste di ROMA, e per la guerra ferocecontro i Pitagorici, non ne sappiamo quasi nulla; li sappiamo bensì a lor tempoin molta riverenza. Si rammentano con più certezza LISSIDE, CLINIA, ED ARCHITAcittadini DI TARANTO in Magna Grecia, EURITE E FILOLAO o di TARANTO o di CROTONE.ARCHITA, il più celebre di tutti, capitana più volte gli eserciti, e non ha maila peggio; buon padrefamiglia e cittadino, domatore di sè stesso, famoso perinvenzioni e scoperte in musica ed in matematica e per libri d'agricoltura. Lascuola pitagorica venne atrocemente perseguitata; molti fra gli scampati, o sirifuggirono in Grecia o si sbandarono in ITALIA. Sembra che l'odio movesse daopinioni politiche, parteggiando essi per GL’OTTIMATI; ma chi badi allasegretezza del culto attestata da Erodoto, e alla tradizione che un capopopoloattizza le ire, invelenito dal non es sere accolto nell'adunanze, s'accorgeràche trattasi qui, come per Anassagora e per Socrate, del politeismo volgaregeloso e persecutore. Gli scritti col nome di TIMEO, d'ARCHITA e d'OCELLOLUCANO sono apocrifi, e i frammenti di BRONTINO e d'EURISAMO; ma non quelli diFILOLAO (vedili nel libro di Boecckh su FILOLAO, e Ritter); i quali col carmeaureo e con ciò che narra Platone ed Aristotile sulla scuola ITALICA, ne dánnocontezza. Nel sostanziale di essa gli storici vanno d'accordo. Quanto al Carmeaureo, e's'attribuì a FILOLAO, a EPICARMO, a LISIDE, a EMPEDOCLE di Girgenti,da Crisippo a'Pitagorici. Sta il Mullachio per LISIDE; e: mostra, comunque, chene' versi aurei non v'ha nulla di non antico, e come un alemanno, secondol'usanza di molti critici odierni, neghi l'autenticità pel dubbio di tre’ soleparole, che a lui non paiono antiche; e antiche le dimostra il Mullachio. (Fragm.Phil. Græc. Didot). Le relazioni che ci danno del pensar pitagorico gliAlessandrini, non vogliono accettarsi senza discrezione; chè in loro la criticaè poca, molta la voglia d'interpretare a lor modo gli antichi; tuttavia direcome si dice) che il Pitagoresimo, quale dagli Alessandrini si descrive, non imeriti fede per le grandi somiglianze con Platone, è dir troppo, sapendosi negliPsilli di Timone Fliasio che quegli ebbe in gran pregio i Pitagorici: « E tu, oPlatone, giacchè ti possedeva l'animo il desiderio di sapere, comprasti congran pecunia un piccolo libro, da cui imparasti a scrivere tu pure il TIMEO. (Fragm.Phil. etc. ) La filosofia de' Pitagorici, come tutta la filosofia antica, comela filosofia d'ogni tempo, meditò i primi prin cipj dell'essere, del conosceree dell'operare. Il pensiero della causa suprema ch'è ragione e legge, vediamobene da tutte le loro memorie che occupò quegl'intelletti for temente. Finedella filosofia parve loro ed a tutti gli antichi, la liberazione degli errorie de' mali comuni, ma con tal divario dagl'Indiani, che la speculazione dovessecongiungersi all'operosità civile. Metodo di filosofare fu il matematico; cioèl'applicazione d'idee matematiche alla natura universale, così esterna comeinterna, e al suo principio. Onde mai tal metodo? quali cagioni gli dettero impulso? Già negli antichi v'ha inclinazione di filosofare a priori sul mondo(sebbene l'esperienza, anch'esterna, non s ' escludesse dai Pitagorici), perchèmancavano gli stromenti; poi, premeva più lo speculare teologico, re catoaltresì nella fisica; e le lunghezze d'una fisica os servatrice non sicomportavano in tempo, che i varj studj non erano scompartiti tra più dotti.Inoltre l'arimmetica e la geometria vennero d'Asia, nate tra le scienze piùantiche, perchè non bisognose d'osservazione. Altresì di tali scienze s’avevanecessità tra popoli commercianti e tra colonie che dissodano terreni,asciugano paduli, e scavano canali. Più, la discordia tra' politeisti e il monoteismo - antico fece spiccare, quant'al concetto di Dio, le nozioni d'uno e dimoltiplice, come anche si scorge nel vecchio Testamento. Infine, tempo é spazioci danno la quantità, e sappiamo che l'induzione falsa indíava, come ne' Vedi,lo spazio e massime il cielo (onde l'uranismo), e il tempo (onde l’Aherene de'Persiani, il Crono de Greci, il Saturno de' Latini), talchè le tradizioniorientali e or fiche, cadendo in tali concetti, davano impulso a quel modo difilosofare. I Pitagorici, dunque, parlano dell'uno, del due, del tre, del diecie delle combinazioni loro allorchè discor rono del mondo e di Dio. Ma si vuolcredere forse che tal metodo li riducesse a vane astrazioni? ossia, ch'e'stimassero Dio e il mondo idee matematiche e nulla più? In altre parole, ilPitagoresimo fu egli un idealismo matematico? No, sicuramente; Aristotile lospiega chiaro dicendo: ch'essi stimarono le cose una imitazione de'numeri(μίμησιν είναι τα όντα των αριτμών. Μet.). Imitazione, dunque; a leggi dinumero, cioè, rispondono le cose; e la mente ritrova l'une nell'altre; e inquesto è la scienza. Anzi (e va notato accuratamente ), che mai restava pe'Pitagorici, levato il composto? Restava la monade. E che cos'era la monade?Forse un'astratta unità, o l'atomo indifferente inattivo di Democrito e diLeucippo? No; ma l'essenza ch'è una forza: il concetto di forza o d' attivitàprevale nel Pitagoresimo, così ri spetto a Dio come rispetto al mondo. Difatti, e ch'è mai, secondo i Pitagorici, l'ordinamento universale se non lacontinua limitazione (o determinazione) dell'inde finito? Ciò resulta da moltiriscontri, ma singolarmente dallo specchio de contrarj (di cui parleremo).Inoltre, Dio per que’ filosofi è mente e causa o principio; causa è l'anima; ecausa d'ogni armonia è l'unità. (Frag. di FILOLAO; Siriano, Com. Met. d 'Arist. XIII; Ritter St. Fil. ant.; Bertini, Idea d'una Fil. della Vita) Quindi,pe' Pitagorici, le leggi del numero e della geo metria rappresentavanol'attinenze; cioè, significavano il rispetto d'una cosa all'altra, e d'unoall'altro con cetto, l'armonie particolari e l'universale; da ciò i lor simbolimusicali. Si dica pertanto, o signori, che per la scuola italica eran due isignificati del numero; significato simbolico e reale. È significato realequando noi diciamo: Dio è uno e le creature sono moltiplici; e così dicevanoessi che Dio è il numero per eccellenza, cioè l'unità e la totalità d'ogniperfezione. È significato simbolico quando s'astrae i numeri a significare glioggetti; come dicendo (per esempio) l'unità e il numero, e s'intendesse Dio ele creature; così parlavano più spesso i Pitagorici. Al lora si fa comel'algebrista un linguaggio figurativo. assai comune agli Orientali; e ciòtoglie l'apparente stranezza delle parole. Il metodo matematico ha egli verità?Certo non manca di buon fondamento, perchè tutto nel mondo si distingue od'essenza o d'accidenti o di parti, di gradi o di potenza o di atti; e tutto,dunque, è capace di numero e di misura. Per altro, le leggi matematiche nonhanno da cercarsi a priori nella realtà, bensi con l'osservazione; comeGalileo, osservato il cadere de corpi, vi scoperse la quantità del motocrescente. Trovata la legge matematica, s'applica poi a nuove scoperte, comedalla legge matematica delle oscillazioni s'inventò il pen dolo. Chi volesseprocedere a priori, sbaglierebbe, perchè dalla idealità non si può concluderela realtà contingente; per esempio, dall'idea d'un circolo non si può concludere ch'e' si dia in natura. Bensì, nella realtà si scopre ognora leggi idealia cui essa risponde sempre (come le proporzioni tra spazio e velocità nellacaduta son sempre le stesse ), ed anche, esemplando il reale all'ideale, quellovi combacia, come, facendo un circolo, i raggi gli ha sempre uguali. Ebbene lascuola italica non ignorò i buoni metodi della osservazione e delle matematicheapplicate; già ho notato le dottrine fisiche d'Archita; del metodo sperimentaledi Polo ci ragguaglia Aristotile (Met.); le dottrine musicali d'allora fansupporre molti esperimenti; Erodoto scrivche i medici italiani erano i piùreputati; e tutti sappiamo le meraviglie d'Archimede. Tuttavia il metodoastratto ebbe il diso pra. Così, rappresentando il principio, il mezzo ed ilfine col numero tre, lo vedevano in ogni cosa; però Filo lao divideva il mondoin tre parti. Il numero dieci è compiuto in sè stesso, perchè si componesommando i suoi quattro numeri primi? ebbene, dieci i pianeti. Cin que i corpiregolari nella geometria? dunque altrettanti gli elementi, e ciascun d'essi n 'ha la figura; la terra ha il cubo, il fuoco la piramide, l'aria l'ottaedro,l'ac qua l'icosaedro, l'etere il dodecaedro; e dunque, altresì cinque i sensi.Se i quattro numeri primi, sommati tra loro, fanno il dieci; e se i quattronumeri pari (2, 4, 6, 8 ) e i quattro numeri dispari (1, 3, 5, 7), sommati, fantutt'insieme trentasei, la tetrattisi o quadernario dovrà riscontrarsi nellecose; e quattro, per esempio, sono i gradi della vita: minerale, pianta,animale e uomo; e, ne' corpi, il punto è unità, la linea è qualità, la superficie è triade, il solido è quadernario, si compone, cioè. di quattro punti.Questo metodo, applicato alle cose dell'esperienza, riuscì arbitrario non dirado, e se, inalzato a Dio, ne guastò il concetto per l'astrazione dell'indefinito; pure, accompagnato come fu da tradizioni buone, da molte virtùmorali, da preziose osservazioni interne ed anco esterne, ed eccitando laspeculazione, fece sorgere tra gli errori belle e profonde verità. Quel metodoera (com’ac cennai): trovare le leggi mentali della quantità geome trica earimmetica effettuate nella realtà e salire con queste alla prima cagione, allaprima ragione ed alla prima legge. Però dice FILOLAO che l'intendimento matematico è il criterio di verità. La prima cagione dell'essere, che è ella mai?Sic come i Pitagorici voller trovare i principj delle cose e il principio deprincipj, così precede il quesito: che son mai tali principj? RispondeAristotile: « I Pitagorici, educati nelle matematiche, dissero i numeri esserprin cipj delle cose. » (Met.) cioè tutte le cose si ridu cono a leggi supremedi numero, e queste leggi costi tuiscono la loro essenza. Or bene, che cos' èla prima cagione? È il primo principio, per Filolao; è la causa che antecedeogni altra causa, per Archita: « quam Are chytas causam ante causam essedicebat, Philolaus rero omnium principium esse affirmabat. » (Siriano, allaMet. Storia della Filosofi. - 1. 18 l'Arist. XIII. Dunque se i principj delle cose son numeri, il primo principio ètale altresì; o, come diceva Hierocle nel commento al Carme aureo (Fragm. Phil.Græc.): « Se tutto è numero, Dio è numero. » Che nu mero? Il numero pereccellenza. Che cos' è il numero per eccellenza? Vediamolo. Il moltiplice fasupporre l’unità; e l'unità n'è sem pre il principio; così abbiamo solido,superficie, linea, punto; questo è il principio della linea, della superficie edel solido. Dunque Dio, ch' essendo il primo principio, è il numero pereccellenza, è altresì l'uno per eccellenza. (Aless. Afrod. Comm. alla Met. d 'Arist.) Resta da ve dere che cosa sia l'uno per eccellenza. L'unità,idealmente, si può considerare e qual parte che compone la pluralità, e qualeidea generica che abbracci la pluralità stessa. Diciamo: il venti è compo stod'uno più uno, più uno ec.; ecco le unità che com pongono un tutto. Diciamoancora: una ventina, un centinaio, un migliaio, un milione; ecco l'unità generica che abbraccia ogni numero, considerato come unità. Nel primo caso, l'unitàè l'elemento della pluralità; nel secondo, è la forma mentale che fa capaci dicompren dere in un concetto le moltiplicità sparpagliate. E in tal sensol'unità si può chiamare il numero per eccel lenza, giacchè abbraccia ogninumero. Or bene, o signori, si può egli applicare a Dio l'idea d'unità ne'detti significati? No; Dio non è il compo nente della moltiplicità; nè Dio è unche generico e comune alle moltiplicità particolari. L'unità di Dio è, a dircosì, una soprunità, come, secondo i Teologi, le rela zioni personali dellaTrinità son soprannumero. (S. Aug. in Joann. Evang. ) Si dice uno per negare ilmoltiplice, nulla più; e chi confonde l'analogia di tali concetti colsignificato proprio, o cade nel panteismo, o accusa erro neamente la filosofiae la teologia. Si domanda, per tanto: la scuola pitagorica usò que' concettinel signi ficato vero? Da’tre frammenti di Filolao apparisce che Dio per lui èimperatore sommo e duce, uno, eterno, permanente, immobile, simile a sè stesso,diverso dal l ' altre cose, potentissimo, supremo, e che solo conosce l'essenzaeterna. Anzi, Siriano nel luogo già citato dice, che pe' Pitagorici Dio è una esingolare causa, astratta « la tutte le cose, e superiore alla dualità de'principi, la quale vedremo più qua: « Ante duo principia unam et singulamcausam, et ab omni abstractam præponebat. Parrebb'egli, dunque, che l'unità de'Pitagorici sia nel senso buono? Bertini interpreta più benignamente che si puòcerte opinioni pitagoriche. le quali ne farebbero dubitare; e tuttaviaconclude: « Il sentimento religioso e morale gl'induceva a collocare Dio moltoal disopra del mondo; ma il fato della logica li forzava sovente adimmedesimarli in una sola sostanza e ricacciavali nel panteismo. » Che vuoledir mai fato della logica? Vuol dire la necessità di certe conse guenze, daticerti principj. Or via, quali son dunque i principj che menavano al panteismo,non ostante l'alte verità frammischiate in abbondanza? Era, appunto, ilconcepire Dio quasi unità generica, o numero per eccel lenza; e questo ingrazia della non buona induzione. Di fatto, poichè i numeri son pari ed impari,e l'unità, cioè il numero genericamente preso, s'estende ad en trambi; così lascuola pitagorica chiamò Dio pari ed impari, e diceva che l' uno è l'essenza ditutte le cose (Arist. Met. I ); l'essenza delle cose chiamata eterna (la FILOLAO;che inoltre affermò, le cose diverse e con trarie non istarebbero senz'armonia,e tale armonia è il numero per eccellenza, cioè Dio; aggiunse, che tal numero èlegame all'eterna durata del mondo; anzi (e questo val più ), esso legameproduce sè stesso. (V.framm. i FILOLAO nel Ritter. St. della Fil. ant.)Finalmente. Dio pe' Pitagorici è limitato ed illimitato ad un tempong 11pTLOTESPITTOy, Arist. Met. 1. ) Par dunque certo ch ' essi concepivano Dio com'unitàgenerica, in cui s 'uniscono potenzialmente i contrarj del mondo, pari edispari, femmina e maschio, male e bene, e via discorrendo; contrarj che sidistinguono attualmente quando il potenziale viene all'atto, e l'illimitato silimita, e l'essenza universale (conosciuta solo da Dio, cioè da sè stessa) sidetermina mano a mano ne' fenomeni. Dubitò il dotto Bertini che s'intendesseda' Pitagorici, non dimmedesi mare le cose in un' essenza, ma d'accennare cheDio la in sè i contrari perchè li supera. E non esito punto a dire che ciò e 'tenevano forse, ma in confuso, e la con fusione generava il panteismo. Difatto, se quel concetto era limpido, essi non avrebber detto che Dio è pari edimpari; giacchè i contrarj sono il modo finito delle per fezioni mondane, eperò non si contengono in Dio. Si risponderà: noi n'abbiamo un'idea più chiara.Va bene; se i Pitagorici avesser capito chiaro come Dio superi l'universoinfinitamente, le parole chiare l'avrebber tro vate anch'essi. Anzi, l'infinitolo pigliavano per l'inde finito o potenziale; e quindi, il finito sembrò a loroil perfetto, e l'infinito l ' imperfetto. Aristotile serbò lo specchio dellecontrarietà in dieci antitesi (dispari e pari, finito e infinito, uno e più,quiete e moto, luce e tenebre, bene e male ec. ), fatto da qualche Pitagorico;e Simplicio notò come le contrarietà si comprendano si risolvano in Dio. (Arist.Met. I, Simpl. Phys.) Inol tre, come il mondo era la decade, cioè la pienezzad'ogni grado d ' entità, e così Dio; che riceveva nome d'ogni numero, unità,diade, triade, quadernario (o solido), set tenario, decade. Dimodochè pePitagorici, come per tutta la filosofia pagana (avvertite, o signori ), ilquesito della causa pri venne a quest' altro: Come si limiti 1 illimitato;ossia, pensarono gli antichi che la produzione del mondo consistesse neldeterminare in atto la potenzialità prec sistente: talchè Filolao pone treprincipj, l’illimitato. il confine, e la causa (το απειρων, το πέρας, το αίτιον). Il che parve in due modi: i Pitagorici, com’i pan teisti ionj e indiani,dissero che quel potenziale sta in Dio; i dualisti, che e' sta fuori di Dio, edè la mate ria informata da esso. Nella scuola italica, poi, la im plicitezzade' concetti adombrò alte verità; Dio (per ma esempio), legame del tempo edello spazio, se non si prende com ' identità d'ogni essenza, vuol direbenissimo che l'unità divina con l'unico atto creatore e conser vatore fal’unione del moltiplice disgregato: però Dio è l'armonia dell'armonie. Checos'è dunque Iddio pe' Pitagorici? L'unità su prema di tutti i contrarj. Checos'è l'universo? I con trarj in atto, e ridotti da Dio all'armonia. Comel'unità generica non diviene numero se non si distingua in unità determinate oparticolari, così la monade suprema non genera il mondo se non si distingua inmonadi o so stanze particolari. Che si richiede, o signori, a formare il numero?L'unità e la distinzione d'un'unità dall'al tra. Ma la distinzione, consideratamentalmente, non è forse un concetto negativo e indeterminato, dacchè significhi che l'una cosa non è l ' altra? Or bene; e pen savano essi che aformare l'universo ci voglia le unità o monadi particolari, poi la lorodistinzione; ossia, come (lice Aristotile, elementi positivi da un lato,elementi nega tivi dall'altro. Da queste due maniere d'elementi si fa tempo espazio; nel tempoi momenti e la distinzione di un momento dall'altro, cioègl'intervalli; nello spazio i punti e la distinzione d’un punto dall'altro cioèil vuoto. Tal cosa venne simboleggiata con l'ispirazione del vuoto; ossiadistinguendosi le monadi, il vuoto entra in loro com'aria ne’polmoni. I dueelementi, il positivo ed il negativo, uniti tra loro, fanno la diade o il pari;l'ele mento positivo o l' unità, così sola come aggiunta al numero pari (peresempio il tre), fa il dispari. Ed ecco, o signori, l' unità nell'altro sensoch'io spiegava di sopra, cioè nel senso non generico ma particolare di componente il composto. Talchè l'unità nel senso generico è Dio; le unità nel sensoparticolare fanno il mondo. Ed ecco altresì perchè si diceva da’ Pitagorici cheil pari è illimitato, illimitato perchè il vuoto e l'intervallo (o lanegazione) è in astratto un che potenziale, può ricevere distinzione da' puntie da’ momenti all' indefinito. Si diceva per contrapposto che il dispari èlimitato, giacchè chiude l'intervallo ed il vuoto tra due estremità positive otra due monadi, riduce in atto la potenza, e si fa la triade, numero perfettoche ha principio, mezzo e fine. Voi capite, o signori, come per la teoricade’toni e degl' intervalli si vedesse analogia tra la musica e l'universo. Ilquale, venendo dall'essenzá eterna come necessario svolgimento d'attività, nonha reale comin ciamento, è ab eterno; comincia sì, ma quant' al nostro pensiero(-o iniyocav), ossia il pensiero nol può con cepire altrimenti. Nè s'avvideroessi che se il pensiero nol può concepire senza cominciamento, segno è che l'opposto è irrazionale. Che cos'è l'uomo nell'universo? Un'anima razionale che stanel corpo come in u sepolcro, dice FILOLAO. L'anima è numero e armonia (Plut.De plac. phil. IV, 2 ), o monade che riduce ad unione la moltiplicità del corpoe n'è principio di vita e causa motrice. Se Platone confutò nel Fedone lasentenza che l ' ani ma è armonia, combatte i materialisti che ponevano l'animacom'un risultamento dell'unione corporale, an zichè com’un principio di essa, amo' de ' Pitagorici. Ma Platone invece s'accorda con Filolao dicendo, che l'anima è sepolta nel corpo. Se non che in Platone ha senso più dualistico; ma ne’Pitagorici significò (badando noi alla totalità delle lor opinioni), che comeDio è l'anima del mondo, e vien da essa immediatamente l'anima uma na (V.Ritter e Bertini), così vien dalla terra, infima ne'gradi dell' entità e delleemanazioni tutte, il corpo. Derivano da tutto ciò le teoriche sulla ragione sommå del conoscere e sulla legge dell'operare. Come l'en tità, così la verità èl'uno e il numero, e l'errore va fuori dell'armonia; talchè come il numero fa lamisura di ciascun ente o la specie loro, e fa l' attinenze del l'uno all'altro,così la verità è nell' attinenza dell'in telletto con le specie degli enti econ le loro attinenze. Ma come si conosce da noi? Il simile col simile; peròdistinse la scuola italica il senso dall' intelletto come in due parti (Cic.Tusc. IV, 5 ); l'intelletto è divino e si conosce per esso (benchè in modorelativo, dice Filolao) la divinità della natura; il senso è terrestre, e siconosce per esso il fenomeno o l'apparenza sensibile. Ragion prima delconoscimento è dunque Dio; ma com’es senza prima degl'intelletti. In Dio sta laragione pri ma, non solo perchè raggiano da lui gl'intelletti, ma perche Dio ènumero, e il numero è l' esemplare del mondo; esemplare riconosciuto dall'intelletto. (V. il Cou sin e lo Stalbaum, ambedue nel commento al TIMEO) Però,avvertite, o signori, la scienza pe' Pitagorici, come per ognuno che n'abbiavero concetto, stette nel ritro vare la necessità razionale di ciò checonosciamo. Essi voller saper non solo ciò che è ed accade, ma perchè ciòdev'essere ed accadere. Tuttavia successe a loro quel che ad ogni panteista; sicredè di trarre a priori le cose dal conoscimento dell'essenza universale, comele pro prietà d'un triangolo. Ma invece, e lo dissi altrove, la necessitàrazionale (eccetto la ontologia e la teologia naturale e le loro applicazioni ele matematiche) sta solo in vedere come, supposto un che, ne venga di neces sitàun altro per attinenza; ad esempio, data la per cezione, non può non essere ilcorpo, o data la volontà negli uomini che son razionali, non può non essere lalibertà. L'assoluta necessità vedesi solo dove può trarsi l'illazioni daun'idea, anzichè sperimentare de' fatti; nel resto è necessità ipotetica, e nonaltro; o anco è sola contingenza. (V. Lez. I. ) Come l'entità e la verità sononumero, negazione la potenzialità indefinita e l'erro re, così è numero edarmonia il bene, disarmonia o ne gazione il male. (Arist. Met. I.) Il bene èmisura, il male è dismisura: da ciò quel detto pitagorico: « La misura èottima, pétpov Žpustov. » E come Dio è l'ar monia universale, il numero pereccellenza, egli è il bene o misura o legge. Però, come l'intendimento va perarmonie matematiche e musicali, così la volontà; e indi nasce la virtù, ch'ènumero dentro di noi, componente la discordia degli appetiti (Carme aureo,57-60 ); numero fuor di noi nell'educazione della famiglia e della città.. (Fragm.diLUCIANO OCELLO ) Allora l'anima si va conformando a Dio (ov.02.09749. Tapos todelov ); la disforme da Dio passa in corpi diversi con la metempsicosi od èpunita nel Tartaro; la conforme a Dio ritorna nell'essenza ond'ella emanò. »Sarai, dice il Carme aureo, un Dio immorta le, incorrotto, non sottoposto amorte (v. 71: ETEL 0212. τος θεός, άμοροτος, ούκ έτι θνητος). Signori, chi nonmirerà, in mezzo a quell'ombre, la luce di sì alte dot trine? Ma, tralignando itempi, la filosofia traligno. Il sistema pitagorico è, quant'a'principj, unpantei smo naturale; perchè l'unità per eccellenza vi comprende lo spirito e lamateria, distinti poi come tutte l'altre contrarietà. Come voleva egli scappareil Pitagoresimo alla contraddizione suprema d'identificare tutte le contraddizioni? Dicendo che non conosciamo l'essenza in modo diretto: quasichè importital conoscenza per escludere l'assurdo. La scuola di Elea tentò fuggire lacontrad. dizione, escludendo la materialità, il moltiplice ed ogni mutamento, ecosì creò un panteismo ideale. Xenofane, nato a Colofone d'Ionia il 620 av. G.Cri. sto, venne assai tardi a VELIA città di Magna Grecia. L'idealismo suonasceva prima di lui; ma egli lo recò a sistema. E l'idealismo nasceva per piùcagioni; pri ma, com'ho detto, ad evitare le contraddizioni del pan teismonaturale; poi, perchè il sistema idealistico ha dello scetticismo, a cui orapendevano i Dorj non più austeri, e più gl'Ionj (ionica pure la colonia d'Elea);scetticismo voluttuoso e mesto che apparisce nel poeta Mimnermo, di Colofoneanch'esso, e in alcuni versi di Xenofane; inoltre, già il sistema pitagorico,benchè com prensivo, faceva prevalere i concetti spirituali, però Xeno fane,vissuto a lungo in Ionia, venuto poi in Italia, mostra nell'ontologial'idealismo italico, ma nella cosmologia la fisica degl'Ionj. Egli scrisse inversi, e ne resta frammenti, da cui, com'anche da Platone e da Aristotile, sirileva le sue opinioni. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) Uscì di patria per leinvasioni Lidie, viaggiò in Sicilia, si fermò in VELIA; e visse più checentenne. (Censorino.) Xenofane ha di Dio un'idea sublime. Egli è uno, nonsimile all'uomo, immoto, è tutto vedere, intendere e udi re. Ma si deve, osignori, notare cinque concetti che formano il sostanziale del sistema. Dio èuno. Xenofane tolse il principio pitagorico che l'uno si converte con l'ente;però Dio, entità suprema, è uno. L'unicità di Dio, Xenofane la provò benissimoper un secondo concetto ancora, ch'è la potenza. Voi sapete già, o signori, cheper la scuola italica l'unità o la monade o l'entità (vocaboli equivalenti) èforza, è un'energia. Ciò pure affermò Xenofane; e però Dio, ch'è l'ente, èsommo po tere (20 % TELY ): quindi se più dèi uguali, nessuno è po tentissimoper l'eguaglianza, se più dèi inferiori, nes suno è potentissimo perl'inferiorità. Talchè Xenofane, riprensore d’Esiodo e d'Omero, schernivacom’empie le superstizioni volgari, e, diceva, se i cavalli sapessero disegnare, fingerebbero gli dèi a loro sembianza. Traeva da ciò un terzo concetto;che a Dio manca ogni contin genza, finità e infinità, moto e riposo. L'infinità?In che senso la nega egli Xenofane, e contro chi? Nel senso d'illimitato oindefinito che si determina con atti successivi; contro i Pitagorici pe' qualiDio è infinito e finito ad un tempo, si distingue nell'universo e vi si mutaperennemente, benchè immutato nell'essenza: for s'anche, dove Xenofane accennail moto e il riposo, con futa le opinioni degl' Ionj già cominciate e già opposte all'ITALICHE più antiche, ma pe' Pitagorici ancora Dio comprende in sè lecontrarietà fra cui Aristotile notò (come vedemmo) il moto e la quiete,ugualmente che il finito e l'infinito, il finito ch'è quiete, l'infinito(indefi nito ) ch'è moto. Crederemo noi dunque, o signori, che quest'altraverità, in Dio non essere contingenza, con ducesse gli Eleati al Dio creatore?No; e si scorge dal l'esame d'un quarto concetto, per sè vero, ma falsonell'applicazione: Dio non può nascere. Va bene; ma per chè? udiamolo, signori;il perchè ce lo dà il trattatello De Xenophane, MELISSO e GORGIA, attribuito adAristo tile, non di lui forse, antico ad ogni modo. Si dice, adunque: Dio nonpuò nascere, perchè l'ente non può non essere, e il non ente non può dal nulladivenire qual cosa. L'ente, ch'è per essenza, certo non può non essere; ma ilnon ente nel significato di Platone e pitagorico è il contingente; che può nonessere appunto, giacchè non è per essenza sua propria, bensì dall'ente.Xenofane, per altro (notate, vi prego, siguori), prese il non ente insignificato di nulla, e il nulla è impossibile sia mai altro che nulla; ma ciòche diventa, è nulla in sè, nulla non già nella potenza causatrice. Che neconchiudeva Xenofane? Non solo che non si dà creazione, ma che non si dà purecausalità nessuna; non v'ha che l'es senza immobile, infeconda, inaccessibile. (ch'èdun que il resto? o quel che ci pare in continua mutazione? Fenomeno,apparenza, illusione, e nulla più; talchè la fisica che si fa con l'apparenze èillusoria, non è scien za. Però egli disse in un verso: « Queste cose (delmondo) non hanno altra vita che l'apparenza, e appartengono alla opinione. (Plut.Symp. IX. ) De' dubbj di Xeno fane sul mondo parlo altresì Timone Fliasio ne'Psilli. (Fragm. Phil. Græc.) E per provare ciò s'adoperava un quinto concetto:che Dio o l'ente è tutto, o intero. (Fragm. di Xenoph.) Che vuol egli dire?Cerchiamolo. Che idea vi dà, o signori, l'infinità? Certo, pienezza d'es sere,cioè che ivi non ha mancamento. Ma tal pienezza significa forse il tutto? No,chè tutto è idea relativa: tutto, implica parti; e quindi ogni tutto può esserepiù o meno, come numero ch'egli è; nè numero assoluto si dà; mentre assoluto èl'infinito. Or bene, l'induzione astrattiva concepisce il mondo com'un tutto econfonde l'infinità (come pienezza d'essere) con l'universo. Così accadde agliEleati; e però Aristotile scriveva di Xeno fane: « Contemplando egli il tuttodel mondo, disse che l'unità è Dio. » Indi l'aforismo eleatico, uno è l'ente eil tutto (ey to y uzi có Tiv). Che si concludeva mai da questo? Poichè al tuttonon manca nulla, e l'ente è il tutto, nulla può cominciare, perchè sarebbeaggiun gimento: quasichè, o signori, ciò che viene dall'efficienza creatriceaggiungasi all'infinità. E però vedete, che dove gli Eleati pareva negassero l' indefinito pitago rico, van poi al medesimo vizio; perchè si piglia Diocom'un tutto generico, che viene simboleggiato con lo sfero. Resta da sapereche foss'egli per Xenofane l'ente o Dio. È ragione assoluta, intellettoessenziale. (Fragm. di Xenoph.) Che v'ha dunque più di pitagorico negli Eleati?Si lasciò la parte corporea ed ogni moto e restò la spirituale, divina edimmutabile; quindi è un pan teismo ideale. Il qual sistema si continuò in PARMENIDE,e ZENONE. Di PARMENIDE di VELIA dice Plutarco (Adv. Colot.) che détte allapatria leggi avute in grande amore. Zenone di VELIA, scolare di Parmenide, amodi cuore la patria, e poichè un tiranno lo condannò a morire, sostenne da uomoil supplizio: Melisso di Samo fiori verso l'84a Olimpiade, seguì PARMENIDE DIVELIA, fu uomo di Stato, e capitano gl'ITALIOTI contro Pericle. Questi gliEleati (VELINI) più famosi. L'opinioni di PARMENIDE vi son date assai chiarene' frammenti del suo poema. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) E che si trova inquelli fin da principio? I due aspetti, già separati da Xenofane: l'ente, cheunico è; e il non ente o l'apparenza, che non è: non è, o signori, in modoassoluto e non già perchè semplice contingenza. Ci ha due vie, scrive PARMENIDE,di filosofare: 0 porre che l'ente è e che il non ente non è (70 ury; vedi ancheil Parm. di Plat.), e questa è la via retta, perchè s'afferma l'ente e si negail non ente o l'apparenza; o, al contrario, porre che l'ente non è c che sia dinecessità il non ente, questa è via non retta. Si descrive così la via degliEleati o VELINI da un lato, e la via degl'Ionj dall'altro, i quali si fermavanoa considerare il moto delle cose. Ebbene, che concetti ha egli Parmenideallorchè e' mostra che l’ente è e il non ente non è? Gli stessi di Xenofane:l'ente è conosci bile con la sola ragione, ingenito, non mobile, tutto (cudow )unigeno, eterno; non fu nè sarà, perchè ora è tutto insieme; non può esser nato,perch'è assurdo che l'ente non sia; non divisibile, somigliante a sè stessointera mente, riempie ogni cosa; la dura necessità (dir.n ) lo stringe invincoli (ossia egli è necessario; necessità di Dio trasferita da' panteisti almondo ed alla volontà uma na ); egli non è infinito (atedrventov ), non bisognadi nulla, ed è lo stesso il pensare e ciò che si pensa. (Framm. e segnatamentev. 66-94.) In che PARMENIDE differì da Xenofane? Quegli ha forma piùscientifica di speculare, perchè comincia dall'idea universale dell'essere, ela contrappone al non essere. (Ritter, Bertini.) Ma crede reste voi cheParmenide s'avvantaggi su Xenofane, come nella severità dialettica, così nellaperfezione dell'idea ili Dio? Anzi, dove il maestro partì dall'idea di Dio,ragione pura, santità essenziale e provvidenza, lo sco lare poi con un viziopiù rilevato d'induzione si fermò al concetto dell'essere generale, nèv'apparisce punto la personalità divina: sicchè Parmenide non avversa comeXenofane la mitologia, anzi l'accetta qual credenza po polare. In man di lui,perciò, il sistema eleatico si rese più ideale. E questa idealità condusse PARMENIDE(sembra un paradosso ), come anco Xenofane alla confusione lel senso edell'intelletto. Quanto a Xenofane apparisce da un verso di lui in SestoEmpirico; e quanto a PARMENIDE, lo notò espresso Aristotile (ppovaly usy tér vistn512).Mentrechè il sensista dice: la sensazione è idea e tutto: l'idealista dice:l'idea è sensazione e tutto. Ma sorge contraddizione nuova: se intelligenza esenso son tut t'uno, come potrà egli il senso darci l'illusione? Ep pure, ZENONEDI VELIA non pare ch'altro volesse co’suoi strani sofismi fuorchè mostrare:com’abbandonandoci all'apparenze del moto e del moltiplice, cadiamo sem pre incontraddizioni. E la parte negativa di tal sistema s'accrebbe in Melisso che (notate,o signori) muove dal l'ente indeterminato come PARMENIDE, ma lo significa inmodo più indeterminato ancora, chiamandolo un qual cosa. (V. Fragm. Phil. Græc. Didot; De Xenophau Melisso et Gorgia; Arist. deSoph. Elenchis,e Plat. Thecet.) Se non che, Melisso torna co’ Pitagorici a dire che Dio èinfinito, negando a loro ch'e'sia finito, per chè l'ente non ha principio nèfine. (Fragm. 2. ) E ciò va bene; ma pare che qui terminasse l'infinità nelconcetto di Melisso; egli non lo concepì come infinitu dine assoluta d'entità,e pero dotato d'efficienza crea trice e pensiero puro; anzi l' indeterminatezzadi quel l'astrazione fece sì ch'egli non parla dell'intelletto e della bontà diDio, e l'idea ne vacilla dinnanzi com'om bra informe e vana. (Ritter, Bertini.)Così da Xenofane in poi vi fu scadimento, come da ' Pitagorici di CROTONE agliEleati o VELINI Questi bensì fecero progredire la dialettica tendendo aconciliare i contrari, e Aristotile fa inventore di quella ZENONE DI VELIA, chesi sa da Diogene Laerzio aver composto dialoghi. Se la scuola pitagoricaseguitò, ma con forme più filosofiche, il panteismo orfico nella sua totalità,gli Eleati ne presero la parte ideale; gl’Ionj la corporea e sensuale. Ell'èperciò la setta men filosofica. In che ci viltà? Tra'costumi voluttuosi dellaIonia, e in quelle città che presto soggiacquero alla servitù de’Lidj e dePersiani. E se voi mi domandate, o signori: Que' sistemi da che gente venneroprofessati? Rispondo, che salvo i più antichi, cioè Talete e Anassimandro natia Mileto nel l'Asia minore, delle virtù cittadine di tutti gli altri non si sanulla; o sappiamo d' Eraclito ch'era superbo, duro e solitario. Di Taletestesso, bench’ Erodoto ricordi un consiglio di lui agl' Ionj, Platone (Teetete)dice ch' ei s'astenne da' pubblici negozj. Qual diversità dalla storia dePitagorici ! non ci meravigli, pertanto, la diversità ne sistemi. (Fragm.Philos. Græc. Didot, 1860.) Il moto delle cose lo crederono gli Ionj nell'assoluto. E che cos'è l'assoluto? La materia del mondo. unica entità, eterna,divina, dotata di pensiero ch'è di vino attributo. Tutti gli Ionj. fuorchèAnassagora, ebber ciò di comune; e s'assomigliano alla scuola degli Eghe 286PARTE PRIMA. liani materiali che succedettero agl' ideali. Ma gl' Ionjdiversificarono tra loro nel concepire il moto dell'uni verso; chi, come Taletee Anassimene, Diogene d'Apollonia ed Eraclito, ebbe un sistema dinamico; chi,come Anassimandro e Archelao, un sistema meccanico. Ed ec cone il divario:cercaron tutti la prima cagione delle cose, ma pe' dinamici la produzione si facon isvolgi mento di forze vive, come gli animali e le piante; pe’miec canicila produzione non ha se non forme apparenti. mutandosi solo le particelleinerti come ne’minerali. La dottrina vera comprende le due opinioni; perchè lacau salità modale trae sempre in atto le potenze, l'atto si produce (dinamica );benchè quest'atto poi non ci dia sempre una specie o un individuo, come nellagenerazione degli animali, bensì talora un aggregamento come ne'mi nerali. Aogni modo, tal dottrina non s'applica punto alla causalità creatrice; egl’lonj, negando che dal nulla si faccia nulla, negando qualunque causalità chenon operi sopr'un soggetto preesistente, non s'avvidero, che tal cau salità nonpuò dirsi assoluta, ma condizionata. Questo in genere; venendo poi aspecificare la causa prima, gl’lonj la posero chi nell'una e chi nell'altracosa che più parve trasmutabile in ogni altra o quasi un germe, secondo idinamici, o quasi elemento univer sale, secondo i meccanici: Talete nell'acqua,Anassi mandro in una natura media (udtaču puçev ), e però lo chiama principio(apua), Anassimene nell'aria, Eraclito nel fuoco, Diogene altresì nell'aria.Ma, badate, o si gnori, nè quell'acqua, nè quell' aria, nè quel fuoco, sonproprio ciò che ne vediamo; è un che più intimo e uni versale, simboleggiato incose visibili secondochè queste parevano più acconce a figurare l'universalità,come l'acqua che tutto abbraccia, l' aria per cui si vive, il fuoco che tuttovivifica e distrugge. E con questo pensare la causa prima, s'andò di male inpeggio. Talete serba confuso al materiale un < he di spirituale; però diceche tutto è pieno degli dèi e che in ogni cosa è la mente, e, secondo CICERONE (Quest.Tusc.), professa l'immortalità dell'anima. È un panteismo materiale, ma confusoed implicato: vi si sente ancora le reliquie della filosofia teologica piùantica, già comune (com' io dissi ) agl'Ioni, anzi a ogni gente ellenica edagl' Italioti; e però i Padri citano di Talete molti detti sapienti sullanatura di Dio. Anassi mandro svolgeva la parte materiale dicendo che il principio, in cui tutto ritorna è infinito, perchè l'origine o il cominciare nontermina mai (tov © vo ) trn doury ENOL Ó žosipov. Fragm. Phil. Græc.; Didot);però gli dèi nascono e moiono, e son astri e mondi; e la specie umana venne da'pesci. Anassimene seguitò quella via; nè altrimenti Eraclito, benchè questi,che cita Pitagora e Xenofane (Diog. Laert. IX, e Clem. Alex. Strom. I ), déssealla dottrina del fuoco le apparenze d' una misti cità orientale. Non sidiscostò dalla teorica degl'Ionj circa la causa lità l'altra teorica sullaragione prima. Qual è la ragione del conoscere? questa, che il principioconoscitore sia formato della materia universale, di cui si formano le coseconosciute, dacchè il simile si conosca pel simile. Sembra che di moralegl'Ionj ne parlassero poco; e ciò sta col materialismo loro; Eraclito bensìpone la legge nella ragione universale o divina, palese con le leggi dellapatria; Achelao nega ogni legge necessaria; e il giusto e l'ingiusto fa nasceredalle convenzioni umane. Tal panteismo ch ' è sempre a priori non détte, benchèmateriale e salvo poche verità, una fisica buona. All'assurdità del panteismovolle rimediare Anassagora da Clazomene, nato verso il 500 avanti l'èra nostra,però distinse la mente dal mondo. Ma non la stimò creatrice; sicchè s'appreseal dualismo; anzi, (lacchè spiega poi la formazione del mondo come gli al triIonj meccanici, non si sa bene che ufficio e' désse alla mente divina inordinare, il mondo. (Plat. Fodone.) Il suo libro cominciava: Tutte le coseerano insieme; l'intelligenza le divise e le dispose. (Diog. Laert.) E cosìdistinse Dio, o la mente (vojv), dalla natura; e questa pose in particellesimili, omeomerie, che son semi delle cose o per la disposizione già ricevuta oche rice von poi di mano in mano (2.pay.tov otepusta.). Diogene di Apollonia inparte lo seguì, ma peggiorando; chè fece l'aria dotata di mente, e quindiordinatrice. Archelao pure, ultimo fra gl' Ionj, alla confusione primitiva stabili ordinatrice la mente; ma questa non va esente di materialità (Fragm. Phil.Didot); talchè il dualismo di Anassagora isterili. Che tenne dietro, o signori,alla confusione del pan teismo ed alla separazione del dualismo? La negazionedegli scettici, particolare dapprima, universale poi. E di fatto, già svolte l'opinionide' Pitagorici e di VELIA, ben chè non anco terminate (come va sempre), e giàcomin ciato il sistema d' Anassagora, sorsero pressochè ad un tempo le settedegl'idealisti e de' materialisti. L'idea lismo ateo venne da Protagora (di cuinel dialogo con tal nome ed in più luoghi scrive Platone ); colui, non si saquando nato, fiorì verso il 444 avanti l'èra nostra. Il principio d’un suolibro cominciava: Degli dèi non so nulla; e Timone Fliasio scrive, cheProtagora quantun que dicesse ignorarli, osservò la legge ossia le cerimo nielegali (Fragm. Phil. Græc.): nella osservanza della legge i sotisti poseromoralità e religione. Diceva Pro tagora con gl' Ionj: tutto si muta; e con gliEleati: tutto apparisce. Questa proposizione viene dall'altra; perchè se nullar’ha di stabile, tutto è fenomeno od ap parenza. Vedete, o signori, comel'idealismo nascesse dall' opinioni anteriori. E sulle due proposizioni giàdette si fonda il sistema di Protagora, che disse perciò: se tutto muta, nullaè in sè stesso; e se tutto apparisce, l'apparenza solo è vera; vere l'apparenzecontrarie, veri i contradittorj, vero insomma tutto ciò che si pensa, e l'animaè la somma dei diversi pensieri (Condillac, Kant), e il fine del discorso stanel produrre l'appa renza: qui è il sostanziale dell'arte sofistica. Che vipare, o signori, non lo dicono anch ' oggi: tutto è vero quel che si pensa?Quasi contemporaneo, ma un po'dopo è Democrito d'Abdera, nato per Apollonio il460, e per Trasillo il 470; talchè, se fiorito con Protagora il 444. ciòsarebbe avanti a' 16 od a'26 anni; impossibile il primo caso, non verosimile ilsecondo, perchè Democrito dettò le cose sue dopo lunghi viaggi. Sa degl'Ionj,perchè materialista, tiene bensì degli Eleati, perchè muove dal concettodell'ente; e dice: unico ente il vuoto e lo spazio con gli atomi nel seno;dalle loro congiunzioni e dalle figure matematiche conseguenti nascono lequalità; e poiche il simile si conosce col simile (τα όμοια ομοιών είναιapestira ), v'ha conoscimento nell'anima, essendo ella un atomo a cui vengonole figurette o immaginette dei corpi; rozza fantasia che male s'attribui adAristotile. E Dio che cosa è per Democrito? Compiacendo alle plebi, egli finsedèi come immagini enormi, ma sotto posti a morte; vero ateismo. (Fragm. Phil.Græc. Di dot.) Vuol notarsi che Leucippo fiori con Eraclito il 500; ma poichèil materialismo giungeva non opportuno. mancò allora il successo, in talmaniera che di Leucippo non si sa pressochè nulla. Se Protagora s'accostò alloscetticismo universale, non mi pare che vi giungesse: affermò che tutto simuta, e ch' è solo quale apparisce, non si sa per altro ch'e' ne gasse l'entitàdelle cose in questa loro perpetua muta bilità ed apparenza; chi giunse a talpunto, risoluta mente, espressamente, e GORGIA DI LEONZIO (V. Dial. di Platonecol nome di lui, e altri dialoghi); perchè scrisse un libro sul non ente, cioèsulla natura, e volle provare che o nulla è, o se è non può conoscersi o se siconosce non può significarsi. Con Protagora e GORGIA v ' ha una schiera che laGrecia infamò col nome di So tisti, Prodico, Eutidemo e simiglianti. Chi eranocosto ro? L'antichità gli ebbe per uomini venali. In che ci viltà vennero? Inetà di corruzione. Che frutto recarono? Dicon gli antichi: pessimo nell'arte,nella scienza e nel l'educazione della gioventù; benchè, come si vedrà, fosserooccasione di qualche miglioramento. Ma ecco fiorire verso que' tempi (V. Tavoledel Storia della Filosofia. - I. 19 Krug) un uomo che vuol riparare a tantadubbietà. Chi? Empedocle di GIRGENTI. Con che? col misticismo a cui s'accompagna (come accade sulla fine dei sistemi) un fare d'ecclettico. (Fragm.Phil. Græc. Didot. ) Da'frammenti del suo poema (népe ouro ) e da' detti d'Aristotile e d'altri si raccoglie che il sistema d'Empedocle non è già fisicosolamente; Dio per lui è mente santa incor porea: e nè un pretto dualismo,perchè il mondo è tutto, e c'è divinità mondane o fisiche: e nè un pretto panteismo, perchè si distingue la mente divina e gli atomi: che cos'è dunque?Parmi ch'e' non avesse un concetto nitido, com'accade agli ecclettici; e cosìdi lui pensa rono gli antichi: alcuno lo fa di Parmenide, altri pita gorico,Platone lo mette con Eraclito, e Aristotile con Leucippo, con Democrito e conAnassagora. Ma prevale il misticismo; perchè ne' frammenti del poema, Empedocle si dà com’uomo miracoloso, e si crede un Dio immortale; e veste dasacerdote. In lui sentite lo scet ticismo e l'estasi; egli pone la mente, umanain parte ed in parte divina; quella c' illude, questa (come dice il Ritter) dàun santo delirio e sorge alla contemplazione mistica di Dio nella natura. Tal èl'Yoga indiano, tali gli Alessandrini. E questi, di fatto, ebbero in grandestima Empedocle; ma Platone ed Aristotile, osservato ri, lo pregian poco.Tuttavia egli seppe dimolto, e valse in fisica, e fu ben altr'uomo dei sofisti;onorato dai suoi cittadini ed in tutta Sicilia. Così terminò quest'epoca, edebbe strascico lungo in due schiere d'uomini; atei la cui morale era ilpiacere, Evemero, Ippone, Nicanore, Pelleo, Teodoro, Egesia e Diagora;Pitagorici o dati anch'essi al materialismo, così Ecfante, o mistici la maggiorparte. Questi atei com ' Evemero interpretarono storicamente la mitologia: glidèi furono uomini indiati, non altro. La scuola fisica poi degl'Ionj, piùtralignati, la interpretò fisicamente: gli dèi son le forze uniche della naturaEPOCA QUARTA DELL' ÈRA PAGANA. SISTEMI GRECOLATINI. CICERONE. Moltitudinedi scuole tra la seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare fin alquarto secolo dell'era stessa, sullo spartimento delle quali non sono chiarigli storici. Criterio per la distinzione del. l'epoche, e quindi perl'assegnazione varia de ' sistemi. Con tal crite rio, le dette scuole sispartiscono in due classi. – La prima classe si sud distingue; 1º negli eruditi;2 ' negli scettici; 3 ne ' sistemi grecoasiatici: tutti formano la finedell'epoca terza, cioè sono la conseguenza de ' sistemi anteriori. La secondaclasse, o de' sistemi grecolatini, fa un'epoca da sė, cioè l'epoca quarta. Èun'epoca nuova, per la tentata riforma, e per l'efficacia grande cosi diCicerone come de' Giureconsulti. — Cagione del sorgere tardi la letteratura ela filosofia in Roma. Elle sorsero, quando i Romani non furono più con tutta lamente in fatti gravi e giornalieri. Allora può la riflessione volgersi allacoscienza e contemplarvi l'uomo, – Il pensiero de ' Romani si disteseall'Italia e al genere umano. — Naziona lità naturale e politica degl' Italianimerce i Romani. Affetti domestici nel buon tempo di Roma. Come si vedano inVirgilio le qualità prin cipali della civiltà italica. I germi antichi diquesta erano in Roma; si svolsero per impulso di Grecia. Durò poco in Roma lafilosofia pura mente speculativa, perchè già la filosofia greca, declinando,avea lasciato salve ben poche verità, e perché Roma cadde in servitù. Ciceronee i Giureconsulti romani costituiscono la vera filosofia grecolatina. Cice ronesi proponeva di sceverare dal falso e dall'incerto le parti vere e certe ile'sistemi greci, di comporle in ordine chiaro, d'applicurle praticamente, e chese n' aiutasse l'eloquenza. - Sue virtù e suoi difetti. Si prova ch'egli non fucopiatore de ' Greci, ma pensò di suo. Non pare da distinguere i suoi libri (com' alcuno pensa) in popolari e dottrinali. Libri logici, fisici e morali.Cicerone ripete il conosci te stesso come fondamento della filo sofia: lacoscienza con tutte le due relazioni. Indi l'evidenza interio Uso degli altricriterj secondari, tenendo sempre in mente l'universi lità e dov'ella simanifesti. Cosi egli potė cansare gli eccessi de ' sistemi; e si prova quanto a’ Platonici, a' Peripatetici, agli Stoici, agli Accademici: rigettatoassolutamente l'Epicureismo. - Cicerone non elegyeva da ecclettico, ma per unordine di principj; vide cioè che la filosofia è da studiarsi entro di noi; eda tale studio inferi tre verità, che gli furono regolatrici: 1º che l'uomo stasopr' all ' altre cose; 20 che la ragione dell'uomo prevale al senso e alcorpo; 3º che questa ragione con le sue leggi ci fa palese Dio. Talche delinila filosofia: scienza delle cose divine e umane e delle cagioni di queste (off.):l'altra definizione de' Tuscolani è come racconto dell'opinioni pitigori che.Va seguito i principj spontanei, naturali, universali della ragione: eccol'assioma di Tullio. — Ma, per la moltitudine de ' sistemi, ei potè co glierepoche verità; queste affermò, nel resto sospende il giudizio. Esem pio, ilfinale de natura Deorum. Le dottrine certe di lui ne ' libri morali, o sullalegge e sulla libertà; le opinioni verosimili ne'fisici, o sulla natura divinae dell'anima; ne'ljbri logici l'une e l'altre; ossia, egli è certo su'prin cipje sull' evidenza interiore, ha solo verosimiglianza sul criterio delle percezioni esteriori. Dualismo. — Anche per la teorica del conoscimento. Teoricadell'operare bellissima; legge naturale, eterna; Dio n'è la fonte; re. -. chinon ammette Dio, non può ammettere la legge. — Il dovere. Gradi degli officj.Quel ch'è giusto in sè stesso. Utile apparente, e utile vero; questo èconseguenza della virtù. — Onestå. Le leggi positive nascono dalla naturale;Dio è il proemio di tutte le leggi. - Buoni eifetti della filosofia di Cicerone.Non anche terminata l' epoca terza cominciò la quarta, de' sistemi greco-latini– LATINO – ROMANO. Dalla seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgarefino al quarto secolo dell' era stessa, troviamo una moltitudine di scuole, lospartimento delle quali dà qualche impaccio agli storici. Taluno le pigliatutte insieme (e vi comprende gli Alessandrini) come una sequela de sistemi grecianteriori; e così non pone ad esse un'epoca distinta. E per fermo se tutte ledette scuole non fosser altro che discepoli, o raccoglitori eruditi,mancherebbe la ragione del porle da sè, o del farne più classi. La ragioned'un'epoca, quando si parla di scienze, è solamente una grande verità scoperta,da cui dipende l'ordine universale d'una scienza qualunque, o il risorgimentodi essa dopo un tempo di scadimento, e quindi l'efficacia su ' tempi avvenire.Insomma, v'ha un principio d'epoca, quando v’ha un principio di moto nuovo epotente: la continuazione di moto, è continua zione d'epoca e nulla più.Applicando tal criterio all' età sovraccennata, par chiaro che i sistemi vi sidistinguano in due parti; una sta nell'epoca terza precedente, ossia nellagreca e come termine di essa; la seconda costituisce un'epoca da se per qualitàsue proprie, o un'epoca quarta, benchè i siste mi dell'epoca terza laprecedano, l'accompagnino ed an che le sopravvivano: tanto è vero che la soladivisione per tempi non segue la realtà. La prima parte che ter minò l'epocagreca, si suddivide in tre, gli eruditi, gli scettici, i grecoasiatici. Da unlato v'ha le scuole di pretta erudizione; le quali non iscopersero nulla, nèrinnovarono nulla; gli Stoici eruditi; i Platonici eruditi, com’Areio Didimo,Trasillo, Albino, Alcinoo, Massimo di Tiro; i Peripatetici eruditi ocommentatori d'Aristotile, come Alessandro d'Afrodisio; i Medici, eruditianch'essi, platonici e peripatetici, come Galeno. Poi da un altro lato v'ha loscetticismo d'Enesidemo e di Sesto Empirico, i quali compivano, anzi riducevanoa sistema il dubbio di Pirrone e di Timone, volgendosi specialmente contro lacausalità, e negandola per la singolare ragione che il modo intimo del causarenol conosciamo; quasichè possa negarsi ciò ch'è ad evidenza, quando non si saspiegarlo. Da un terzo lato ancora, mescolati i Greci con gli Asiatici per leconquiste d'Alessandro e poi per la vastità dell'impero di ROMA vediamo uncongiungimento tra la sapienza orientale e i sistemi greci; onde si svolse lasetta degl’Alessandrini, che non fecero altro se non ridurre a forme greche ilpanteismo asiatico, già cominciato in Filone ebreo, nella Kabbala, in ApollonioTianeo e in Moderato, Nicomaco, Plutarco, Apuleio, Cronio, Numenio. Questi,benchè distinti dalla scuola d'Alessandria (e fa male chi li confonde), insostanza cominciaron l'avvio di quella, che ne trasse i pensieri a compimento.Gl’Alessandrini e i loro antecessori fanno essi dunque un'epoca nuova? No,perchè i metodi sono affatto dell'età socratica, e i principj gli stessi. Loscetticismo poi che li conduce al misticismo, appartiene a quel medesimo tempo.L'unione dell' orientalità con l'atticità pare un che nuovo, mascientificamente non è. Proviene dalle tendenze mistiche succedenti al dubbio,non già da'me todi scienziali; piacque la misticità orientale, richiesta giàdagli animi. Ebbi l'opinione anch'io che gl’alessandrini facciano un'età da sè;ma più attenta consi derazione m'hacondotto ad altro parere. La seconda partesì che fa un'epoca da sè, l'epoca quarta o LATINA O ROMANA. Introdotte lescuole di Grecia in ROMA comincia ivi un ordine proprio di concetti perefficacia delle tradizioni ITALICHE e per la civiltà di ROMA. Talchè, ripeto,avvi un'epoca quarta, o de sistemi LATINI ROMANI; nuova per le riforme tentateda CICERONE e per la novità dei iureconsulti, che hanno efficacia sì viva euniversale nella civiltà europea; e anco perchè CICERONE serve più che i grecialla filosofia cristiana de' padri latini e dei dottori, i quali per via di lui,piucchè in modo immediato, sanno l'antiche opinioni. Adunque in uno specchiogenerale di storia si dee lasciare i filosofi eruditi, che non aggiungono nulla;degli scettici dissi già nel passato. De'sistemi grecorientali poi si deetrattare nella prim'epoca del l'èra cristiana, perch' essi combatterono lasapienza de Padri e n'eccitarono la opposizione. Resta che noi parliamo qui de'sistemi LATINI ROMANI, che soli ci danno un'epoca nuova. Non fa meraviglia chein ROMA a nascesse tardi la filosofia. Nasce quando la riflessione si volgealla coscienza, e vi contempla l'uomo interiore per elevarsi all'idealeuniversalità. La filosofia vi s'eleva in modo astratto. Ma quando un popolo,come IL ROMANO, è tutto inteso a fatti gravi e giornalieri che lo attirano o aguerre esteriori od a contese interne; allora ti daranno bensì canti popolaridi guerra e d'illustri memorie (come gli accenna LIVIO. Ma non si possono darefilosofia. In que' tempi guardasi al fine politico ed aʼmezzi, non alla naturadell'uomo qualità generali delle operazioni, come fa il filosofo. Indi larozzezza de’ROMANI, talchè narra LIVIO, che lo storico più antico e FABIOPITTORE a' tempi d'Annibale. Ma quando ROMA ha esteso la dominazione a tuttaItalia e oltre, allora IL ROMANO non vide più solo innanzi a sè le contese de'vicini, e le contese del foro tra nobili e plebei, sì un'intera e grandenazione e il genere umano. Così l'idea di ROMA si appresenta in relazione contutta l'Italia e l’Italia in relazione col mondo. Il pensiero de' ROMANI sidilata. Si allarga fuori del cerchio de' fatti particolari. Il quirita si sentepiù chiaramente e figlio di ROMA, e italiano, e uomo, tanto più che a poco apoco LA CITTADINANZA ROMANA si estese a tutta Italia. A’tempi di Storia dellaFilosofia. – 1. e alle 24 2 as 2 CICERONE non rimane quasi più possedimento inITALIA non assegnato a'cittadini per via di colonie; il qual fatto, unitoall'altro che già notai de’ primitivi abitatori ricaccianti le colonie greche,spiega com’in Magna Grecia ed in Sicilia i dialetti sieno italici puri (chè ipochi Greci di PUGLIA non sono gl’antichi), non già ellenici come in Greciamoderna e in alcune parti del l'Asia minore. Le colonie di ROMA, aiutatedall'affinità primitiva delle schiatte italiche, formano così l'unità naturale,o la consanguinità della nostra nazione; nazionalità naturale determinatada'naturali confini del nostro paese, e che si manifesta nell'unità formale dedialetti, o già contemporanei al romano, o nati da esso. Indi allora nacque lapolitica nazionalità benchè dopo cinque secoli di guerre; ma lasciandoa’municipj un'im magine di ROMA, consoli, senato e popolo com'a FIRENZE (Malespinie Villani), e concedendo a que municipj amministrazione lor propria; indivennero i nostri comuni del medio evo. Roma e l'ITALIA, considerate inrelazione col mondo, formarono nelle menti romane com'un archetipo di perfezione.Il vecchio PLINIO (giova ripeterlo qui) scrive dell' Italia. Omnium terrarumalumna et parens, omnium terrarum electa; una cunctarum gentium in toto orbepatria. E VIRGILIO, lodando magnificamente l'ITALIA nel secondo delle Georgiche,non si ristringe a Roma, e dice. Hæc genus acrevirumi, Marsos pubemque Sabellam Adsuetumque malo Ligurem, Volcosque verutosExtulite.” EVirgilio finisce con quell'alte parole. “Salve, magna parens, Saturnia tellusMagna virum.” Giunto un popolo a questa larghezza di sentimento e diriflessione, possiede l'idealità necessaria per la filosofia. Non lo stringonopiù le necessità de'fatti speciali, stende il pensiero alle attinenze,considera la natura dell'uomo e delle cose. Questo svolgimento di coscienza perla riflessione venne promosso da una causa tutta particolare a Roma ed all'ITALIA.Qui, più ch'altrove nell'antichità, e sacro il connubio; e gli affetti difamiglia v’ebbero consistenza per molti secoli. La stessa mitologia nostra,come dice Polibio, rigetta le nefandezze de' simboli elleni. Or bene, gliaffetti di famiglia tengono vivo il senso morale, che dipende dal l'idealitàsuprema della legge e del dovere. Non v'ha dunque da stupire, se VIRGILIO,benchè imiti Omero, si distingua tanto da lui ne' principali concetti chegovernano il poema; ossia, nel concetto che ordina il poema stesso e ch'è unadisposizione di provvidenza rispetto a’ Romani; poi, nel concetto di patria ch'è Roma; in quello altresì di nazione (non di schiatta soltanto, come la Grecia), cioè di tutte le genti italiane, non solo consanguinee (schiatta italica),ma dimoranti pure in unico paese (nazionalità naturale) e poi congiunte da ROMA(nazionalità politica): nell'altro di famiglia onde ri fulge l’Eneide dalprincipio alla fine; per ultimo, nel l'intima e soave descrizione degliaffetti, con la quale il poeta mantovano prepara la poesia cristiana. Sicché,quand' io leggo in alcuni libri ch'a Virgilio manca un'idealità propria, pregoda Dio la fine di certe passioni che impediscono la equità de' giudizj. Però,mentre allargavasi il dominio romano, cresce vano le ragioni d'intima civiltà;le quali, per altro, s'acchiudevano già in Roma ab antico. La prisca genteromana che ch'ella fosse e in qualunque modo si ragunasse da prima, certo è,che s'ella fu rozza per le necessità di continue guerre, sorse tuttavia trapopoli molto civili; ebbe accanto la Magna Grecia e l'ETRURIA, e le tante cittàde’ SABINI e del LAZIO. Ora chi non sa quanto valgano mai le tradizioni civilianco tra popoli rozzi? NUMA vien detto alunno di Pitagora; ' e l'anteriorità diquello è spiegata dall'antichità delle scuole pitagoriche, com'altrove narrai,Dice CICERONE. “Romuli autem ætatem jam inveteratis literis atque doctrinisfuisse cernimus.” (De rep.): e Agostino scrive nella “Città di Dio” che Romoloe venuto non “redibus atque indoctis temporibus, sed jam eruditis et expolitis.”Plinio cita le belle pitture d'Ardea più antiche di Roma. I Romani predaronodalla sola Volsinia 2,000 statue. Bolsena in Fenicio significa città degliArtisti (Cantù, St. Univ.) Se a ciò aggiungo la tradizione, che le leggi decemvirali si prendessero di Grecia (tradizione falsa per le leggi ches'attengono a' costumi di Roma, vera probabilmente quant'al modo d'ordinarle ),e se aggiungo altresì la perfezione che graduatamente il gius positivo ha dalgius onorario, mi capacito che nel seno di ROMA cresce un germe di civiltà eperò di filosofia, da venire a compimento, quando se ne offerisse la occasione.E questa occasione, testimonio la storia, è sempre qualcosa d' esterno.L'occasione a Romani venne da Greci conquistati. Ed ha il proprio segnalenell'ambasceria di Critolao, Carneade e Diogene babilonese. CATONE si sforza dicacciare le sette greche. Invano, il terreno era preparato. E la pianta fiorisce.Ben è vero che la speculazione puramente filosofica non dura a lungo, maprosegue a fecondare il diritto. E la qual brevità ha due cagioni principali. Isistemi greci, che aveano menato tant' oltre la FORMA LOGICALE della filosofia,quant'alla MATERIA poi l'aveano lasciata in dubbiezze infinite, come vedemmo;talchè si richiede uno sforzo più che umano a rilevarla: poche verità siconservavano intatte da ordirvi la scienza. Quindi, o rimane solo a far operad'eruditi e d'accozzatori, come gli ecclettici d'allora; o bisognara trar fuoriquel poco di certo, che non da soggetto a copiose speculazioni. In secondoluogo, allorchè ROMA venn'a maturità di pensiero, cadde in servitù che isterilila letteratura e la scienza. Quindi, i sistemi latini ROMANI si riducono il piùalla filosofia di CICERONE, e alle scuole de' Giureconsulti. I filosofianteriori a CICERONE seguirono i Greci pressochè interamente. LUCREZIO ripettequasi le dottrine del Giardino; ma nondimeno LUCREZIO mostra la coscienza diromano, allorchè, facendo materiale l'anima, pur conta fra gl’elementicostitutivi di essa un elemento innominato, quasi animo dell'anima. “Nobilis illa vis, initum motus ab se que dividit ollis, Sensifer undeoritur primum per viscera motus.” (De Nat.). E, quando stabilì negl’elementiun moto spontaneo per ispiegare la libertà E quando celebra la divinità dellanatura con versi stupendi e la santità del matrimonio. SENECA non si parte dalPORTICO, benchè fa professione di non ispregiare nessuna scuola. ANTONINO, com’Epitetto,ha lasciato aurei precetti, ma senza ordinamento di scienza. CICERONE, alcontrario, istitue speculazioni proprie, che certo hanno forzanell'universalità de' Romani culti e nella giurisprudenza. Io dunque parlo di CICERONEe de' Giureconsulti. Fin d'ora io dico che CICERONE si propone di sceverare(con un principio superiore) le parti vere e certe de sistemi greci dalle falseod incerte, di comporle in ordine chiaro, d'applicarle alla vita privata, ech'elle confere all'eloquenza. Questa filosofia di CICERONE suol chiamarsiecclettica; e chi la intenda per metodo compositivo e logicamente ordinato,passi. Ma dice male chi la pigliasse per una scelta a caso, senz’un principiointeriore e ordinatore. Nessuno puo negare che ciò distingua le speculazioni diTullio dall' ecclettismo de' Greci mentovati poco fa, i quali ragunavano nellamemoria, ma non componevano nel pensiero; e lè distingue pure da’migliorisistemi dell'epoca antecedente, perchè CICERONE li giudica con libertà e litrasceglie. Nè si può mettere in dubbio l'efficacia di CICERONE – nonMARC’ANTONIO, chi lo assassina -- su'secoli avvenire. I Padri e i Dottori lostudiarono molto; e Agostino, da uomo grande che riconosce il vero ed il beneonde che venga, scrive nelle Confessioni. Hic liber -- cioè la lettura dell'Or tension-mutuvit affectum meum, et ad te ipsum, Domine, mutavit preces meas, et vota acdesideria mea fecit alia.” Pare che CICERONE trade la schiatta da quel TulloAzio, che regna gloriosamente su’ Volsci (Plut. in Cic.). E quegli se lo teneper certo, sicchè dice ne' libri Tuscolani, che Ferecide era antico -- fuitcnim meo regnante gentili: indi la smania di comparire tra gli otti mati.Lasciate le scuole, udì Filone accademico; ma insieme pratica Mucio,personaggio assai versato nella politica, e principale tra’senatori, imparandoda lui scienza di leggi; e milita con SILLA tra’ Marsi (Plut.). Sente ancheFedro epicureo e Diodoro stoico. In Atene segue Antioco accademico, e nontrascura Zenone all’Orto. Anda poi in Asia, e si ferma a Rodi, per esserammaestrato dallo stoico Posidonio. Favella con tal passione e con voce siconcitata, che gli reca danno alla salute. In Sicilia e pretore giusto, umano,amatissimo. Dopo la congiura di Catilina, CATONE stesso chiama Cicerone padredella patria dinanzi al popolo. Esiliato da Roma per le mene di CLODIO, virientra poi come in trionfo. Gli furon trionfo tutte le vie d'Italia, per lequali CICERONE passa. Stette fedele alla re pubblica contro la signoria diGIULIO CESARE e la tirannia di MARC’ANTONIO. MARC’ANTONIO lo manda a trucidare,e Cicerone porse il collo alla spada (Plut.) Ama la famiglia con tenerezza.Esule, scrive a Terenzia sua e alla figliuola lettere d'amore sconsolato. ComeCICERONE intende la santità dei pubblici ufficj, lo mostra la famosa lettera aQuinto fratello. Le sue lettere, scritte da lui senz'intenzione di pubblicità,e che formano uno de' più bei libri del mondo, lo mostrano sempre d'animoschietto e buono. Scrive a PETO. “Sii persuaso, che giorno e notte non altrocerco, non altro penso, se non che i miei cittadini sien salvi e liberi. Nonlascio opportunità d'ammonire, di fare, di provvedere. Infine io son fisso qui,che se in tanta cura e amministrazione ho da porre la vita, stimo di averfinito preclaramente. (Ad fam.) Non pecca d'orgoglio, ma di vanità; si lodavaspesso, e questo aizza gl'invidiosi, e a lui diminusce rispetto. Faceto, mordenon di rado altrui, e, senza volere, s'accatta nemici; ma in lodare i meritiveri abbonda con allegrezza e con liberalità d'uomo sincero e benevolo. Parvetalora incerto ne' propositi, e troppo addolorato nelle sventure. Prende duemogli, ripudiando la prima. Volle dedicare un tempio alla figliuola morta. Lodae invidia gli uccisori di GIULIO CESARE. Loda prima GIULIO CESARE troppo, manon l'opere mai. Dice Capponi (Archivio Storico ): Ma chi fosse più di mesevero a Tullio, pensi com'egli animosamente comincia la sua vita d'oratore ela compiesse gloriosamente. Assalse nella difesa di Roscio d'Amelia unCrisogono liberto di Silla ch'era affrontare SILLA medesimo. Principe nellacittà e guida e anima del Senato, combatte MARC’ANTONIO e incontra lamorte.Oratore, accusa sempre gli scellerati, difese qualche volta i noninnocenti. FILOSOFO, stette per lo più dalla parte del vero. Bensì approvò ilsuicidio, l'assassinio de' tiranni, la vendetta, un certo sfogo di carnalità, ela schiavitù. Uomo di stato, cerca troppo la lode, ma insieme la grandezza e ilbene della patria. Scrive d'eloquenza, ed e oratore sommo. Scrive di filosofiamorale, ed e uomo dabbene. Scrive di cose civili, ed e gran cittadino. Ecco ifatti principali e virtù e difetti che spiegano LA FILOSOFIA DI CICERONE. È impossibile non vedere in CICERONE tre fortiamori, di gloria, di patria e di famiglia. E' reca in tutto ciò un'ardenza dicuore, la quale ha talvolta del molle, ma la tenerezza è temperata da un sensovivo d'onestà e di decoro. (V. le Lettere scritte in esilio.) Ude tutte lescuole, e però raccoglie il meglio; ma con iscelta libera e ordinata, perchèuomo libero ed T 11 tro operoso, e ingegno forte. Romano e uomo di stato, segue,più che non facessero le scuole greche, il precetto socratico di badare nellascienza al fine del bene; e tal qualità pratica non diminuisce il valore delledottrine, anzi lo cresce, purchè la scienza si pregi anco per sè, come fa CICERONE.Badando al bene, odia la parte ipotetica e vana de sistemi anteriori, e ne prendeil poco, ma certo e buono. Però, indulgente ad ogni setta, coll’Orto non vollemai pace. Un po' vano, pompeggia assai nelle parole; il che gli scema vigorequa e là. Ma nella filosofia va semplice e spedito. Uomo universale, senatore econsole di Roma, cerca l'universalità negli; e questa filosofia da a 'Romanil'idea di tutto il sapere. Pieghevole alla opinione altrui per bontà di cuore eper bramosía di favori popolari, combatte nella “Divinazione” le falsità delculto, le rispetta in altri luoghi; ammira il suicidio dei filosofi del Portico,non se l'attenta per sè, timido, dicon taluni, rimorso da coscienza nonconfessata, dirò io, e lo credo. Taluno da quelle parole di CICERONE ad Attico:ATÓMp492 sunt; minore labore fiunt, verba tantum affero, quibus abundo” (AdAtt., XII, 52). Deduce ch'esso i libri filosofici traduce, non li facesse disuo. Ma quando poi sentiamo che Cicerone stesso, in tempi che gli autori grecierano familiari, e molti a Roma i maestri greci, e in opere dedicate a dotti digreco, quali ATTICO e BRUTO, o a studenti in Grecia, come il figliuolo, dice(De fin. 1, 3): Noi non facciamo ufficio d'interpreti, ma sosteniamo ledottrine di coloro che approviamo, e aggiungiamo ad essi il nostro giudizio eun ordine nostro di scrivere. E dice altrove (De off. I, 2): Ora seguiremo e intal soggetto il PORTICO principalmente, non come interpreti (non utinterpretes); bensì, al solito nostro, berremo a’lor fonti quanto per giudizioe arbitrio nostro ci parrà.” Allora, io affermo che Cicerone non poteva direuna bugia così sfacciata ed inutile. Narra egregiamente Plutarco. Eragli studiocomporre dialoghi di filosofia e tradurre dal greco an 10 1:. bi lice. li 1 tes 377 (In Cic. ). E così un greco antico, piùche i moderni non greci, distingue bene i libri tradotti come il Timeo da'propridi Cicerone. L ' opere di lui distingue Ritter in filosofiche o riposte ed inpopolari. A me non sembra; sì scorgo chiara la distinzione del DIALOGOSPECULATIVO, come i libri accademici, dagli scritti che hanno un fine pratico,ad esempio gli Offici, dell'Amicizia, e simili. Negli Officj chi mai non vedeun ordinamento scienziale? E se CICERONE rispetta gli dèi più qui che altrove,pensiamo che ciò s'usa da tutti i filosofi, quando essi non ispeculavanodirettamente sulla divino. Mi pare, poi, manifesta la distinzione, e piùprincipale: tra la FILOSOFIA NATURALE (De natura Deorum, De divinatione ), LALOGICA -- Academicorum, Topica, De inventione, De oratore etc. – LA FILOSOFIAMORALE (Tusculanorum, De officiis, De finibus, De senectute, De amicitia, Delegibus, De republica, De fato. Quantunque in ciascuna classe si trovinomescolate più o meno le dottrine, non già divise assolutamente. L' Ortensio poiè perduto, d'altri libri restano frammenti. Or dunque Cicerone, imitandoSocrate, tornò a'principj e al fondamento del sapere. Quegli, come questi, sitrova in mezzo a una confusione di sistemi, e, come Socrate, chiama i suoi alconosci te stesso, affinchè nella coscienza di noi prendiamo il rimedio allesuperbie d'ipotesi vane e il principio della sapienza vera. Quand' io dico cheCICERONE imito Socrate, già non lo paragono a lui, nè come filosofo glielo fouguale, sì discepolo; dico bensì, che il tornare a'principj è in tutte le coserinnovamento unico e condizione di nuovo cammino; e chi rinnova, è istitutorenovello e cominciatore d'un'epoca propria. E se CICERONE non riuscì a tantocome Socrate, ne chiarii altrove le cagioni; e a lui non s'ha da imputare. Lascienza e la civiltà del Paganesimo cadeno, e sempre più CICERONE le trovaquasi in fondo, nè potè nè sperò ritirarle in cima. Fatto è, che CICERONE, comeSocrate, capi la stranezza delle sette pagane. Ama con grand' amore lafilosofia, 2 ! la pre 18 MA Tha U.>> TH e ne scrive lodi magnifiche in ogni suo libro; anzi l' Ortensio ecomposto da lui per esortazione a filosofare; e nondimeno quand' ei volgevasiattorno, e sente le strane opinioni di tante sette, esclama: Niente si può diredi tanto assurdo, che non sia stato detto da qualche filosofo. (De div.) Ammoneper ciò a rientrare nella propria coscienza, a ripigliare il conoscimento dinoi, a seguire così una filosofia meno sicura de' propri sistemi, nonpresuntuosa (minime arrogans: De div. II, 1 ). Ripeta il precetto che sta sultempio d'Apollo, nosce te ipsum, e dice: Essendo tante e sì grandi cose che siscorgono nell’uomo interiore da quelli che voglion conoscere sè stessi, madreloro e educatrice è la Sapienza (De off.). CICERONE invita a fermar l'occhio inquesta evidenza interiore, dove tante verità si veggono chiare -- quæ inesse inhomine perspiciuntur. In questa coscienza di noi stessi, CICERONE come Socrate,più di Socrate forse perchè ROMANO, sente l'uni versalità del vero, distintadalle opinioni particolari, e l'amore che tende al vero, e l'essere nostrosociale e religioso, relazioni universali anch'esse; e però CICERONE inculcasempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio dell'uomo, ossia nella rettaragione (De off.); e contro L’ORTO fa valere gli affetti più generosidell'animo (ivi, e negli Acc. e ne Tuscul. e quasi per tutto ); e chiama insostegno il senso comune e le tradizioni umane e divine. Così ne' libriTuscolani adopera l'autorità del senso comune a dimostrare l'esistenza di undivino e l'immortalità dell'anima umana; e dice ne'Paradossi contro gli Stoici Noipiù adope riamo quella filosofia che partorisce copia di dire, e dove si diconocose non molto discordi dal pensar della gente. (Proem.) – cf. Grice,“Philosopher’s Paradox” -. E nelle seguenti parole del Tuscolani si vede com'eiraccogliesse, di mezzo alle opinioni varie, le tradizioni universali defilosofi e le divine. Inoltre, d'ottime autorità intorno a tal sentenza --cioèl'immortalità dell'anima -- possiamo far uso; il che in tutte le que HIE ale DiD. 4 stioni e dee e suole valere moltissimo -- in omnibus causis et debet etsolet valere plurimum. E prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate ) -- laquale, quanto più era presso all'origine divina (ab ortu et divina progenie ),tanto più forse discerneva la verità. » (Tusc.) E tra filosofi, che CICERONEcita, preferisce appunto FERECIDE, come antico, antiquus sane; e indi neconferma l'autorità con quella di Pitagora e de' Pitagorici; il nome de'quali,egli dice, ebbe per tanti secoli tanta virtù che niun al tro paresse dotto (S16). E dice più oltre che, secondo Platone, la filosofia e un dono, ma quanto asè, una invenzione degli dèi. Philosophia vero omnium mater artium, quid estaliud, nisi, ut Plato ait, donum, ut ego, inventio deorum? » ($ 26. ) Nel ches'accenna il principio divino della sapienza e della tradizione. Condotto daquesto filo tra i ravvolgimenti delle sette cansa gli eccessi d'ogni maniera. ILPORTICO, per esempio, la cui morale severità CICERONE approva e segue, dice,che nessun uomo è buono fuorchè il sapiente. Ma di questo sapiente ne faun'idea sì alta. che confessavano poi, e' non darsi quaggiù; e però IL PORTICO,se consentanei a sè, dovevan dire impossibile umanamente la loro superba virtùe disperarne come BRUTO morente. CICERONE al contrario riconosceva una piùumile sapienza e virtù, che può essere di tutti, e che ci abbisogna nel viverecomune. (De amic.) IL PORTICO, crede CICERONE, indiando la natura, di potertrarre le superstizioni volgari a senso ragionevole (come tenta VARRONE pertestimonianza d’Agostino – “Città di Dio”. Ma Cicerone le deride (De nat. Deor.).Mena buono all’ACCADEMIA, al LIZIO, e al PORTICO, che la più alta felicitàdell'intellettuale natura sia la contemplazione (Hort. in Agost. De Trinit.). Main questa vita, ei dice, la contemplazione senza la pratica delle virtù è nulla(De off.); e quindi censura Platone che scrive: Il savio non essere obbligato acivili negozi. (De off.). IL PORTICO, per alterezza di ragione, spregia ilcorpo e i beni corporei. Ma Cicerone dice:11 he COL iti be 111 15:-11 19 Poichè s'ha da seguire la natura. Noisiam anima e CORPO. Non possiamo spregiar il corpo, nè si dee imitareque'filosofi, che accorti d'un che superiore a'sensi ne spregiano latestimonianza. Con che l'accoccava pure agl’Accademici. (De fin.). IL PORTICOnega l'efficacia del dolore sull'uomo sapiente, e svile ogni piacere. CICERONEinvece mostra che il dolore eccessivo è impedimento agli officj, e che letemperate giocondità son utili e buone. (De sen., De fin.). IL PORTICO,concependo la virtù con altezzosa rigidità, stimano uguali tutti i malvagi etutti uguali i peccati, perchè tutti contrarj al bene. CICERONE confuta in piùluoghi tale uguaglianza e mostra, per esempio, ch'altro è mancare a posta,altro è nell'impeto di passione. (De off.) Se nella morale ei tenne dal PORTICO,rigettate le loro esagerazioni, in logica, metodo filosofico e analisi diconcetti stette per l’ACCADEMIA giacchè, come dissi altrove, la riforma delfilosofare comincia sempre da un dubbio temperato. Ma qui è il divario, latemperanza; perchè, dove l’ACCADEMIA (a quello che ne sappiamo) nega ogniverità e CERTEZZA nel percepire le cose e ammetteno solo una verosimiglianza,uguale per tutte le opinioni. CICERONE invece ne' fondamentali principj e nelleverità più alte non poneva dubbio, e quanto a' casi particolari li stimaprobabili, non ugualmente, sì convarietà di gradi; e al probabile opponeva quelch ' è improbabile affatto. Ecco le sue parole: Vorrei che fosse ben chiaro ilnostro pensare; chè noi non siamo già di quelli il cui animo si crede aggiratosempre in errori, e senz' alcun che da tenere: che sarebbe mai questa mente, oquesta vita piuttosto, negata ogni ragione, non solo del disputare, ma delvivere altresì? Noi invece, come dagli altri si dicono certe alcune cose ealcune incerte, così noi, dissenziendo da essi, diciamo probabili alcune ealcune improbabili. (De off.) Qui si scorge, che il dubbio di Cicerone non cadepunto sulla ragione umana e sulla vita, o sull' essere proprio, ma sul domma fisicoe morale del PORTICO. E nel libro delle Leggi dice” « Preghiamo poi, che questaAccademia nuova di Arcesilao e di Carneade, perturbatrice di tutto, si cheti;perchè se darà dentro a tali dottrine, che ci sembrano ordinate e composte conassai aggiustatezza, recherà troppo rovina. Io bensì desidero placarla, macacciarla non oso.La qual conclusione mostra, ch'ei non rigetta in tutto idubbj, ma dov'essi erano cattivi. E più si discosta dagl’ACCADEMIA allor chèdice. Quasi in tutte le cose, ma nelle fisiche più che mai, saprei direpiuttosto quel che non è, che quel che è. (De nat. Deor.) Nel vivere nostro, emassime a quei tempi fra tanto diluvio d'opinioni non monta già poco il saperequel ch’una cosa non è; significa sapere che il divino non è come noi, che ildivino o l'animo nostro non sono CORPO, che il fine dell'uomo non è la voluttà;negazioni pregne d'affermazione, implicita si ma certa. E chi vuole stimarequanto merita il ritegno di CICERONE, anc' allora ch ' ei parla di probabilitànegli officj particolari -- non mai nella legge suprema -- pensi l'assurditàdel panteismo e del dualismo antichi, le finzioni rozze di quella fisica,l'incertezza della morale, anche in Platone e Aristotile; e s'accorgerà, che seSocrate meritò lode dicendo, contro l’arroganza de' sofisti. Io so di nonsapere, merita pur lode il nostro CICERONE d'averlo imitato in tanta corruzionedi filosofia e di costumi. E quindi ei non ha dubbiezze contro L’ORTO. Dice aloro: che la voluttà sia il nostro fine, voi non lo direste in Senato; nè lavoluttà va messa tra le virtù com'una meretrice in un'assemblea di matrone. (Defin.) La natura ci ha fatti per qualcosa di meglio che non i piaceri del senso.Il piacere stesso non cato per sè, ma per noi (De fin.). Il dovere ha dacercarsi per sè stesso. E la dottrina dell’ORTO, se consentanea a sè, nonlascia luogo al dorere. (De off. ) Ma questo sceverare il vero dal falso, conche 01. Jo (dine interno di principj si faceva? Già ho detto, che Ciceroneritorna al conosci te stesso di Socrate, cioè al fondamento della coscienza. Eho accennato, che ivi egli trova l'uomo non solitario, ma in relazione conldivino, con gli altri uomini e col mondo. Però esclama: « In questamagnificenza di cose, in questo cospetto e conoscimento della natura, o dèiimmortali, oh quanto conoscerà sè stesso l’uomo; il che c'impose Apollo Pizio! (Deoff.) Per via della coscienza, s'accorse Cicerone in modo chiarissimo di treverità: prima, che l'uomo sta sopra l'altre cose; poi, che la ragione dell'uomoprevale al senso e al corpo di lui; infine, che questa ragione ci mostra ildivino con le sue leggi. Viene da ciò la definizione della sapienza o dellafilosofia nel II libro degli Officj (S2): scienza delle cose divine ed umane edelle cagioni di queste; definizione più determinata che non l'altra ne' libriTuscolani (V. 3), dov'ei parla storicamente. E s'arguisce però, che Ciceronestringe la scienza prima, secondo la universalità di essa, nel conoscimentoragionato del divino e dell'uomo e de’sommi principj. CICERONE capisce, comenella scienza si désse un ordinamento necessario; e diceva: « È malagevolesapere alcun che in filosofia, chi non ne sappia o il più o il tutto. » (Tusc.II, 1. ) Cicerone, come Socrate, ebbe una profonda coscienza della ragione.Bisogna riflettere a noi stessi; in noi tro viamo la ragione, che ci distingueda' bruti e dalle al tre cose; nella ragione troviamo i giudizj spontanei,naturali, evidenti, universali. Questi fa d'uopo seguire. Ecco il principioordinatore della scienza e della virtù. Il tempo, scrive Cicerone, cancella icapricci delle 110 stre opinioni, ma conferma i giudizj della natura. Opinionumenim commenta delet dies, naturæ judicia con firmat (De nat. Deor.). Ma questigiudizi erano avviluppati in una moltitudine di sistemi. Però, quanto allateorica dell'essere, Cicerone sta contento a poco. Chi potrebbe mai condannarlod'insipienza? Egli non si dà pensiero nella fisica nè de quattro elementi, nèdel quinto d'Aristotile, nè della materia o della forma. Le sue indagini hannoper fine la esistenza e natura della divinità, le relazioni di questa col mondoe l'immortalità dell'anima umana (Ritter). Quanto alla divinità, egli non nedubita punto, perchè sentiva nella ragione propria un che divino, la eternalegge della giustizia (De leg.). Ma intorno alla natura di Dio non afferma grancosa. Del metodo di lui, su tali materie, porg' esempio il libro De naturaDeorum. Ivi disputano insieme un epicureo, uno stoico e un accademico.L'accademico nega il dio animale degli Stoici, e termina dicendo: « Questo iodiceva, non perchè voglia negare la natura divina, ma per mostrare quant'ellasia oscura e piena d'intrigate difficoltà. » Lo stoico poi combatte l 'epicureo. Cicerone, che si tiene da parte e non entra nel dialogo, che cosaconclude? E' dice: la disputazione di COTTA (Accademico) sembra a VELLEIO (Epicureo)più vera. A me l'altra di BALBO (Stoico), più verosimile. Cicerone, adunque,mostra con singolare finezza quanto i dubbj dell'Accademia piacessero agliEpicurei; e però com’egli, che s'allontana da questi, s'allontani pure daquella ragionando sul divino. Pur tuttavia non sa nulla giudicare assolutamentesulla natura del divino stesso e solo ammette verosimiglianze. Insomma, ledottrine certe di lui le abbiamo ne' libri morali, dove si afferma l'esistenzadella divino (fonte ll'ogni giustizia e d'ogni diritto ), la legge morale e illibero arbitrio, e dove perciò s'approva il detto di Crisippo, ch'ogniproposizione è vera o falsa necessariamente (De fato); le opinioni verosimilisi hanno ne' libri di FILOSOFIA NATURALE, dove apparisce dubbj sulla natura deldivino e dell'anima, e sulle relazioni del divno con l'universo, e quindi sullaprova fisica della divinità provvidente; ne' libri logici, finalmente, su 'principj della ragione e sull'evi denza interiore non v'ha dubbio di sorta,beusì v'ha dubbio sul criterio per giudicare la natura delle cose esterioripercepite da ' sensi. Anche Kant posesuperiore la certezza dell'argomento morale ad ogni altra certezza. Ma Kantcelebra quell'argomento dopo aver negata la validità della ragione pura oteorica o speculativa. Cicerone, al contrario, non la nega mai, anzi lamagnifico, e solo crede ristretta di molto la possibilità de' giudizjaccertati. Dunque Cicerone, quant'alle dottrine supreme, e ch'egli potevaconoscere fra l'ombre del Paganesimo sempre più fitte, ammette la verità e lacertezza; ma nel determinare più specificamente quelle verità pone laverisimiglianza. In ciò solo fu accademico; e non pienamente nem men qui, comeavvertii già innanzi. Pare ch'egli cadesse nel dualismo, opponendo la necessitàdella materia alla libertà divina; e che cadesse nel semi-panteismo, facendodivina la nostra ragione. Il qual ultimo punto si raccoglie da più luoghi; mapiù da queste parole. Le altre parti, onde si compone l'uomo, fragili ecaduche, le prese da generazione mortale. Ma l'animo è generato dal divino (Deoff.), e ammonisce di rammentare nel giuramento, che chiamiamo in testimone ildivino, « cioè, com'io penso (dice Cicerone) la mente propria, di cui non détteil divino all ' uomo nulla di più divino. » Se non che, si vede la temperanzadell'affermare in quello ut opinor; tant'era l' ecclissamento delle principaliverità sul finire del Paganesimo! Quant'alla teorica del conoscimento, CICERONEdistingue l'intelletto dal SENSO. Lo distingue tanto, che come Platone eAristotile, trovando un'immagine del divino nella mente nostra, la identifica conesso. Anzi nel testimonio del SENSO non pone più autorità ch ' unaverisimiglianza, il che procedeva dal dualismo, secondo il quale il divino e lamente son divisi dal resto. E per la logica si valse d'Aristotile, come si hadal libretto de' Topici. È stupenda la teorica dell'operare; perchè ivi recaCicerone più che altrove le verità universali raccolte dal testimonio dellacoscienza; e vi reca quel suo modo di escludere l'esagerazioni e di comporre lespatse verità con un principio più alto. Qual principio? Il rispetto dellaragione, che, in quanto conosce la verità, è retta ed è regola delle nostreoperazioni. Bisogna seguire, ei dice con gli Stoici, la natura, non l 'arbitrio delle passioni. Ma la natura nostra è ragionevole; dunque ogni attonostro dee farsi con ragione e sottomet terle l' appetito. (De off. I, 28, 29.) E questa ragione ha potestà di comandare, perchè sta in essa una leggenaturale ed eterna del bene. « La legge (così Cicerone) è la ragione somma,insita nella natura, e che comanda ciò ch'è da fare, proibisce il contrario.(De leg.) Questa legge è nata da tutti i secoli, primache fosse scritta leggealcuna, o che qualche città fosse istituita. Questa legge viene dal divino,perch' ell ' è divina; e chi non ammette il divino, non può ammettere la leggeeterna e naturale. La legge è la ragionedivina partecipata a noi; e poich' è comune la retta ragione, e la comunanza diquesta è società, però noi siamo primamente consociati coll divino. E poich'ell' è comune a tutti gli uomini, noi in secondo luogo formiamo la società delgenere umano « e tutti obbediamo a que st' ordine celeste, e alla mente divina,e a Dio sovrap potente » (parent huic celesti descriptioni, mentique divinæ etpræpotenti divino. . Avendo questa legge divina nell'anima « tutti gli uomini(soli essi fra gli altri animali) han qualche notizia del divino, nè v'ha gentesì fiera che, ignorando qual divino adorare, pur non sappia che ve n'è uno. Noidunque siam nati alla giustizia; e il gius non è costituito per opinione, maper natura. Sì, per natura, giacchè siam tutti simili per la ragione, e ciascundi noi si definisce com’uomo, e la mente di ciascuno « è diversa in dottrina,ma nella facoltà del sapere è uguale. Dalla legge si genera il dovere, che vaquindi cer cato per sè stesso, come sudditi alla retta ragione, ne vi puòessere alcuna virtù se non si cerchi per sè, ma per la voluttà o per l'utilità.(De off.) Come la ragione guida ogni atto umano, così la retta ragione reca inogni atto un officio. Talchè, dice il grand’uomo, « nè in cose pubbliche, nè inprivate, nè in forensi, nè in domestiche, nè se tu operi teco stesso alcun che,nè Storia della Filosofia. 25 se pattuisci con altrui; non v ' ha momento divita che possa mancare di qualch 'officio; e nell'adempirlo è tutta l'onestà,nel trascurarlo la turpitudine. » (De off.) Nell'adempire gli officj stanno levirtù, cioè la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. La virtù,se guendo la retta ragione che ci fa conoscere l'ordinamento naturale dellecose, non è altro che l'osservanza dell'or dine stesso (De off. I, 4); sicchè «nella universale so cietà son varj i gradi degli officj; onde si può sapere ciòche si conviene a ciascuno; e quello che si dee prima agli dèi immortali, poialla patria, poi a' congiunti, infine di grado in grado agli altri. » (De off.)Ma tant'è vero, che tutto ciò si vuol fare per l'autorità della legge eterna insè, e per la bellezza del dovere, che certe cose turpi non le giustificanemmeno l'amore di patria. (De off.) Egli distingueva poi l'utile apparentedalla virtù: ma l'utile vero, diceva star sempre insieme con l'onestà; e quand'apparisce che vi sia contrasto, è turpe eziandio di star a pensare sulla scelta.(De off..) L'utilità è l'effetto, non il fine della virtù. (De amicitia) Edalla virtù nasce l'onestà (che in latino ha senso d'onorabilità ), anche seniuno la conoscesse: « etiam si a nullo lauda retur, natura esset laudabile. »(De off.) Giacchè la virtù reca con sè il decoro, ch'è come la bellezza: «l'uno viene dall' animo onesto, l'altra dalla sanità del corpo (De off.); ecome il decoro de' poeti è la convenienza delle parole col significato, così ildecoro della onestà è la convenienza con la natura. » (Ib. 28. ) Però, come iGreci dicevano o" te uovoy (yóv to 2026, il solo buono è bello, cosìCicerone (come romano) muta il bello nel concetto d'onorabile, e dice: quodhonestum sit, id solum bonum esse: onorabile è solamente ciò ch ' è buono. (Paradox.I, Osservazione del Ritter. ) Dalla legge eterna, che genera il dovere e lavirtù. nascono le leggi positive; talchè l'esistenza di Dio è il proemio ditutte le leggi (habes legis proemium, De leg.). « È stoltissima cosa (segueCicerone contro l’Orto) che credasi giusto tutto ciò ch'è negl'istituti e nelleleggi de' popoli. E che? dunque, anco le leggi de'tiranni?... Ma v'ha un unicogius, da cui è unita la società degli uomini, e cui stabilì un'unica legge ch'èla retta ragione di comandare e di proibire: e chi la ignora, è ingiusto, och'ella sia scritta o no. Che se la giustizia è solo l'obbedienza a leggiscritte e agl'istituti de' popoli; e se, come dicono coloro, tutto è damisurare con la utilità, trascurerà le leggi e le infrangerà se può chi locreda fruttuoso. Così non v'ha più giustizia se non v'ha legge naturale, e ciòche per utilità è stabilito, da un'altra utilità vien tolto via. Anzi, se danatura non si conferma il giure, cessano tutte le virtù. » (De leg. I, 15. ) Lalegge naturale ha da regolare il diritto pub blico, quello delle genti e ilprivato; e il filosofo nostro dà precetti santi sulle pene, sulla guerra, suitrattati. sui contratti e va' discorrendo. Così, dovrebb' essergli più mite ilgiudizio degli stranieri, a legger ciò ch'ei dice della Repubblica romana: dopoaverne narrato l'umanità ne’secoli primi, aggiunge che questa diminuì a poco apoco, e dopo le vittorie Sillane cessò; e quindi esclama: jure igitur plectimur« a ragione dunque siamo puniti. » De off. II, 8. ) E quella pena noi abbiamoscontata per se coli. De' pubblici reggimenti loda il misto, per gli stessiargomenti d'Aristotile e con l'esempio di Roma. (De rep.) Che fa adunque lafilosofia di Cicerone? Essa gli donò (com’ei ripete più volte) copia esplendore e, col crescere degli anni, efficace brevità d'eloquenza; gli dettòque' Dialoghi di metafisica, dov'hai il fiore de sistemi greci, eletti etemperati; que' libri rettorici, che sono un codice dell'arte per comunegiudizio; e que' libri morali degli Officj, delle Leggi e della Repubblica,dove al me todo sperimentale dello Stagirita è unita la contempla zioneplatonica e la severità stoica, senza i loro eccessi. Però, quand' io sento unostorico illustre' scusarsi del l'aver troppo parlato di Cicerone perchè in luinon v'ha troppo di nuovo, prego Dio che la scienza ritorni alla natura, e, piùche dell'insolito, sia desiderosa del vero. La giurisprudenza è scienzafilosofica, perché riguarda gli alti umani o personali. La giurisprudenzapositiva non altro fa se non appli care il diritto naturale. Si cerca, quindi,lo svolgimento della giurispru denza romana e quanto alle forme logiche, equanto alla materia. Quattro età del gius romano. Prima età: consuetudini. Èdifficile determinare qual parte avesse la civiltà, e quindi la scienza, inque' primi germi del diritto. Ma vestigi di sapienza ve n'ba. Che cosa abbia divero e di falso la tradizione sulle dodici tavole. La materia di esse certo èromana. Probabilmente la forma logica loro è di Ermodoro Efesio. Seconda età:si pubblica il segreto delle azioni. La giurisprudenza, perciò, viene allagioventù dalla puerizia. Ma crebbe in modo segnalato allorché, sul cadere delsesto secolo di Roma, si propaga ivi la filosofia. Il settimo se colo è quellodi Cicerone. Si prova con l'autorità di Cicerone, che allora si lero a grandestato la giurisprudenza per lo studio della filosofia. Allora si conceve l'idead'un codice -- idea che vuol abito filosofico delle universalita. Terza età: lasignoria de’ Romani, dilatandosi a tutta Italia, fa pos sibili le scienze.Cittadinanza romana a tutti gl 'I taliani. Gius italico che da il dominioquiritario, e il diritto de’ comizii anche per deputati ec. Colonie romane pertutta Italia. Si determina bene il concetto del paese italico. Gius equo ebuono. Altra cagione della fiorente giurisprudenza; giureconsulti, per lo più,non sono causidici. Un'altra: l'emulazione in filosofia con gl’oratori. Cennosu’ principali giureconsul ti. Loro virtù. Com'apparisca dagl’autori, ch’essicitado ne' frammenti, lo studio loro ne’ poeti, negli oratori e ne ' filosofi.Si paragona que’ giure consulti a' matematici per tre ragioni. Vigore delleconseguenze. Cura nel l'evitare contraddizioni. Metodo induttivo e deduttivo.L'efficacia della filosofia non si ristringe alla forma logica. Passa allamateria. Tale influsso non apparisce solo da prove particolari, ma più ancoradalla universale conformità di quelle dottrine alle leggi del pensiero e (salvoqualch'errore di tempi ) alla natura umana. Nozioni della giurisprudenza, eperchè i giureconsulti la definissero come la filosofia morale. Distingueno lascienza del diritto dall'arte. Però s'elevano al concetto della filosofia vera,rigettando gli eccessi: la speculazione de’ giureconsulti è contenuta nel veroda' dettami di senso comune e dal fine pratico. Distinzione del diritto in jusnaturale, ius gentium et ius civi. Simostra ch'a torto i giureconsulti vennero ripresi sul concetto de’ dirittinaturali. Non accettabile, quanto alla servitù, la nozione del gius civile. Mai giureconsulti ROMANI diceno la servitù non secondo il gius naturale, e riconoscenoun fatto. Come la parola “ius” non esclude l'idea d'un diritto eterno. E sidistingue dalla espressione “legge.” Poi, si ha ne’ giureconsulti ROMANI l'ideaprecisa del diritto eterno e del diritto naturale. L'efficacia della filosofiasi mostra nella giurisprudenza per via del diritto onorario, per via deldiritto ricevuto, e per l'interpretazione de ' giureconsulti. Molte novilàintrodotte dal gius ricevuto. La virtù e la vera FILOSOFIA de' giureconsulti ROMANIsi fa sentire per fino nel loro stile. Si reca un saggio della loro sapienza ebrevità elegante. Dalla esposizione delle dottrine di Tullio e de'giureconsulti romani apparisce che l'epoca quarta cerca la comprensione finale.Parlato di Cicerone, è da parlare de' giureconsulti romani. La giurisprudenza èuna scienza che e una parte della FILOSOFIA perchè risguarda gli atti umani opersonali. La giurisprudenza procede dalla FILOSOFIA MORALE, che abbraccia lascienza de' doveri e quella de' diritti naturali. La giurisprudenza POSITIVAnon altro fa che determi nare nella varietà de' casi particolari le immutabiligeneralità del diritto eterno. Però, se LA FILOSOFIA entra in tutte le scienzecom'ordinamento di concetti e di giudizj, entra poi nella GIURISPRUDENZA ROMANA,non solo com'ordine logicale, ma eziandio come scienza dell'uomo e delleragioni supreme. Avrò dunque a cercare lo svolgimento di LA GIURISRPUDENZAROMANA, per l'impulso di LA FILOSOFIA ROMANA, nel doppio aspetto della FORMALOGICA e della materia. La storia di quella e distinta bene dall' Hugo inquattro età nella sua “Histoire du Droit Romaine.” La prima va dall'origine diROMA fino a le XII tavole, cioè fino alla repubblica. La seconda fino a CICERONE.La terza fino ad OTTAVIANO. Se vero, oltre i due secoli dell'èra volgare. La quarta eta, fino a GIUSTINIANO. Età difanciullezza, di gioventù, di virilità, e di vecchiaia. Il giureconsultoPomponio c'insegna (Fr. 2. D. De Or. Juris) che Roma, ne' primi tempi, si reggeSENZA LEGGE nè diritto stabile -- cioè per CONSUETUDINE. La CONSUDETUDINE forma,dice Forti (“Istituzioni Civili”), il diritto privato con l'autorità degliesempi, cioè de' fatti ripetuti, e forma con gli accordi de'potenti il dirittopubblico. Così il potere assoluto del padre, del marito e del padroni è da'giureconsulti risguardato sempre per CONSUETUDINARIO, ed anche l'uso delleclientele. Quanta parte ha la civiltà, e con la civiltà la scienza, inque'primi rudimenti del diritto romano è difficile a definire in antichità siremota e perduti dalle guerre i documenti etruschi. Della Magna Grecia restanoscritti, perchè le serba con la lingua loro la stirpe greca. Ma de’ LATINIPRISCHI e dell'Etruria non abbiamo più se non epigrafi tuttora ignote. Ognilingua e schiatta si confusero nell'unità romana. Certo è, tuttavia, che, almenogl’etruschi sono molto civili. Sembra non si possa dubitare che il sangue lorosi mescolasse nel popolo di Roma -- benchè l'Hugo lo nega. Ma LUCIO FLORO, parlandodella guerra sociale, dice chiaro. Quantunque la chiamiamo guerra “sociale” adiminuirne l'odiosità. pure, se stiamo al vero, quella e guerra *civile* -- giaccheil popolo romano, avendo mescolato insieme gl’etruschi, i latini e i sabini, etraendo da tutti un sangue solo – “unum ex omnibus sanguinem ducat” --, è dipiù membri un corpo e di tutti è una unità (Rer. Rom.) Lerminier nella sua “Philosophiedu Droit” riscontra con molto acume in VIRGILIO la prima origine de' trepopoli, in Virgilio studiosissimo delle memorie antiche. Lodando l'agricoltura,VIRGILIO dice cosi. Questa vita tennero i vecchi Sabini, questa Remo e il fratello.Così crebbe la forte Etruria. In tal modo si fa la bellissima di tuttigl'imperi, Roma; e una, si circonda d'un muro i sette colli (Georgiche). Fattoè che a taluno par vedere i *tre* popoli nelle tre tribù del primo popoloromano, rammentate da Livio – TRIBU I: i Rannesi o Latini, -- TRIBU II: i Tarsio Sabini, e TRIBU III: i Luceri o Etruschi (Warnkoenig, “Histoire du Droit Romaine”).Momen (Storia Romana) nega tal mescolanza. Ma Momsen non da le prove.Probabile, a ogni modo, che quel nuovo comune di Roma. sorto fra ’comuni vicini,si mescolasse pure di genti vicine. O si conceda dunque con Niebuhr lapreminenza agl’etruschi, o concedasi a’ latini con l’Hugo, un in dirizzo nellecose romane lo dettero i primi – gl’etruschi. Ciò spiega, come in tantarozzezza di popolo guerriero e racco gliticcio come il popolo latino LATINO DELLAZIO si possede un gius pontificio, e formule sacerdotali e simboli segreti.Questo io dico per mostrare che le prime consuetudini ed istituzioni hannoqualche ragione di civiltà, e riuscirono buon fondamento alla giurisprudenzaperfetta. Però, fin dalla prima età, si scorge in Roma la mirabile distinzioneda’magistrati (magistratus populi romani) che stabilivano il diritto, da'giudici (judex, arbiter ) che giudicavano del fatto (Hugo) -- distinzione che apoco a poco détte occasione al gius onorario. È noto che il reggimento di Romasott’i re e, più, ne' principj della repubblica, e degl’OTTIMATI, cioè, aristocratico.Indi la opposizione civile dei PATRIZI colla plebe per avere un gius equo -- opposizioneche, divenuta incivile o violenta, rovina la repubblica, come la prima ne formala grandezza. La PLEBE dimanda leggi scritte per contenere l'arbitrio de' PATRIZI,e si promulga la legge di le XII tavole. Narra il giureconsulto Pomponio, chequeste si raccolsero in Grecia, interprete d'esse l'efesio Ermodoro (Fr. 4, D.De Orig. Juris.). Certamente, PLINIO il vecchio (“Hist. Nat.”) rammenta comeserbata fino a lui la statua fatta per decreto a questo Ermodoro. Talchè latradizione non pare favolosa in tutto. Ma è certo altresì che in le XII Tavole,per quanto ne conosciamo, non si ha traccia del diritto che non e romano.L’essenza – l’essenziale -- giudizj, patria potestà e connubio, eredità etutele, dominio e possesso, diritto pubblico e diritto sacro -- e cosa tuttaromana, come dice Vico, e ormai ripetono i più dotti stranieri come Warnkoenig.Ma io credo abbisognasse l'opera di quel greco erudito per meditare questa oquella vecchia CONSUETUDINE, e RIDURLA A CONCETTI determinati ed a’lor capiprincipali, ufficio di riflessione addestrata. Nè ciò avrebber saputo I ROMANI,dati all'armi anzichè agli studj. Eccoil per chè quella primitiva sapienza, logicamente specificata e distinta d’Ermodoro,trae in ammirazione Tullio. CICERONE scrive ne' libri “De Oratore”. Se neadirino pur tutti, io dirò quel che sento: a me, il solo libricciuolo di le XIItavole, par superi (se tu guardi a' fonti e a'capi delle leggi) le bibliotechede' filosofi tutti nel peso del l'autorità e nella copia dell'utilità. Quantoprevalessero in prudenza i nostri maggiori a ogni altra gente, intenderà facilechi le nostre leggi romane paragoni a quelle di Licurgo, di Dracone e diSolone. È incredibile, di fatto, quant'ogni altro diritto civile, salvo ilnostro romano, sia in colto e quasi ridicolo. (De Or.) Le quali paroleattestano tre cose: l'antichissima civiltà di quelle genti che formano Roma, eche vi recano le proprie tradizioni, benchè si dessero, poi, a vita agreste eguerriera; la falsità che il gius civile romano procede ài Grecia ne' suoiparticolari; e come la perfezione della giurisprudenza si svolge da principjnon rozzi ne poco pensati. I ROMANNO danno la sostanza, i Greci probabilmente LA MERA FORMA LOGICA, per GENERE E SPECIE – cioè,ordinamento di codice. Da le XII tavole nasce la necessità d'interpretarle perdisputare in giudizio, e di avere azioni utili a domandare la loroapplicazione. Di qui, come dice Pomponio venne il diritto civile non scritto ol'autorità dei prudenti, e le azioni delle leggi (“legis actiones”). Ma tuttociò e un SEGRETO de' pontefici. Pubblicato il segreto nella seconda età, lalibera giurisprudenza passa dallo stato infantile alla gioventù. Ma quando mai accaddetal cosa in modo più segnalato? A Roma si propaga il filosofare. Il secoloposteriore è appunto il secolo di CICERONE. Or bene, la giurisprudenza,cresciuta lentamente crebbe rapidamente. Allora proprio noi riscontriamo igiureconsulti studiosi della filosofia e quant'alle leggi del pensiero e quantoalla natura degl’atti umani in sè e nell' esteriori attinenze. Scrive CICERONEla “Topica”, o logica inventrice degli argomenti a preghiera di TREBAZIO, comesi ha dal proemio di quel saggio, ov'è scritto. “Non potrei, adunque, con te,che me ne pregavi spesso, benchè timoroso di noiarmi, come scorgevo facile, starein debito più a lungo, senza parer d'offendere lo stesso interprete deldiritto. Sicchè queste cose, non avendo libri con me, scrivo a memoria nellamia navigazione, e dopo il viaggio ti ho mandate.” Il qual saggio è notevolemolto, perchè ogni precetto è confortato da esempi di giurisprudenza. E di SERVIOSULPIZIO, primo in autorità tra' giureconsulti di que' tempi e solo studiatoda' giure consulti posteriori, ecco che scrive CICERONE, amico di lui. “Sistima, o BRUTO, che grand'uso del gius civile s'avesse da SCEVOLA e da molt'altri, ma l'arte da que st' unico, cioè da SULPIZIO -al che non sarebbe giuntain lui la scienza del giure, s'e' non avesse imparato quell'arte che insegnaspartire le materie composte, esplicare con le definizioni l'ascose, chiarirecon le interpretazioni l'oscure; e così a veder prima ben chiaro le coseambigue, poi a distinguerle, e ad avere in fine la regola per separare il verodal falso, le conseguenze diritte dalle contrarie. Questi adunque reca tal arte(massima di tutte l'arti ), quasi luce in tutto ciò che dagli altri sirispondeva o si faceva confusamente. (De CI. Orat.) Con le quali parole mostraCICERONE la forma di scienza che si prese dal diritto in virtù della LOGICA. Ela FORMA scientifica, ch'è abito di riflessione interiore, leva le menti allegeneralità, senza cui, come non istà scienza nessuna, così nemmeno la scienzadel diritto. E il segnale n'è questo; che al termine dell'età seconda, cioè sulfiorire della filosofia a Roma, GIULIO CESARE e POMPEO ebber disegno d'uncodice; disegno, che mostra l’uso e la stima degli universali astratti da ognicaso particolare, ordinati poi secondo GENERI E SPECIE -- giacchè un codice valquanto in istoria naturale un ordinamento PER CLASSI. Pare che SERVIO SULPIZIO effettuasseun alcun che di somigliante a impulso di Cicerone, il quale alla sua volta ne'libri delle leggi mostra un saggio di codice pel diritto pubblico, e altrettanto promise pel diritto privato. Nè qui entro in disputa fra due scuolealemanne, l'una che, con Savigny, sostiene il danno de’codici. Laltra che nedifende l'utilità. Dico a ogni modo (nè si contrasta ) che un codice non si fa senz'abitodi speculazioni filosofiche. L'averlo pensato in Roma e tentato a quel tempo,chia risce la efficacia loro nella giurisprudenza. Essa pervenne a compimentonella terza età, cioè ne' primi due secoli e mezzo dell'impero. Il dilatarsidel dominio romano a tutta Italia prepara il campo alla filosofia. I Romani,sentendosi non più solo romani, ma italiani e uomini, la loro coscienza sichiarì e s'arricchì, e l'intelletto loro medito le verità universali. Di questofatto non v' ha dubbio di sorta. Dopo la guerra sociale, per LA LEGGE PLAUZIA eLA LEGGE GIULIA DE CIVITATE SOCIORUM e data, come nota Haubold nella sua “Tavolacronologica per servire alla St. del Diritto”, a tutte le città italiche CITTADINANZAROMANA -- eccetto i Lucani e i Sanniti. Poi consegueno la cittadinanza i gallioltrepò, conseguíta prima da'Galli cispadani. La ottenne tutta perciò la Galliacisalpina. (Framm. L. de Gallia Cisalpina). In tal modo, come scrive Savigny,dopo la guerra italica i cittadini d'Italia divennero parte del popolo sovrano (St.del Dir. rom). Questo gius italico da dominio quiritario, o dominiosolennemente e pie namente assicurato, immunità da tutte l'imposte dirette,libero governo municipale delle città italiane (ivi), diritto d'intervenirea'comizj o di mandarvi deputati. Talchè l'Italia, a ' tempi romani, con l'unitàpolitica suprema serbò le unità politiche secondarie, che si chiamavano socioconfederati. E questo accadde perchè i romani hanno già fatto l'unità naturaledella nazione col mescolamento de’ sangui, spargendo ovunque le colonie(com'osserva Forti), nè per sei secoli ne mandaron mai fuori d'Italia. (Ist.Civ.). L'Italia, dice Hugo, non si considera mai una provincia; chè leprovincie furono soggette a magistrati non propri, non compagne ma suddite (Hist.du Dr. Rom..) I romani, allora, si levarono con la mente all'unità naturale delterritorio, come vediamo ne' Digesti. Al Fr. 99, $ 1 de Verborum significationeè scritto. Dobbiam credere provincie continue le unite all'Italia, come laGallia cisalpine. Ma e la provincia di Sicilia più si ha da tenere percontinua, essendo separata d'Italia da piccolo stretto. “Continentes provinciasaccipere debemus eas, quæ Italiæ junctæ sunt, ut puta Galliam: sed etprovinciam Siciliam magis inter continentes accipere eas oportet, quæ modicofreto Italia dividitur” Ulpiano. E al Fr. 9, D. de Judiciis et ubi etc., sidice.Le isole d'Italia son parte d'Italia e di ciascuna provincia. “InsulæItaliæ pars Italiæ sunt et cuiusque provincie.” A questo concetto sì pienovennero i romani tra gli ultimi tempi della repubblica e i primi del PRINCIPATO,cioè tra la prima e la seconda età. Ecco il perchè la giurisprudenza romana,con l'aiuto della filosofia, potè sorgere a tant'altezza. Si aggiunga poi, chele sevizie de' principi cadevano in Roma su'patrizi più sospetti, ma quelreggimento temperavano istituti repubblicani e ordini civili equi. Se no, comedice Romagnosi, non si capirebbe il perchè in un governo da turchi uscisseromai tanto insigni se natusconsulti e le belle costituzioni de' principi; e comeALESSANDRO SEVERO ha un consiglio di XVI sapienti, tra cui i più chiarigiureconsulti, FABIO cioè, Sabino, Ulpiano, Paolo, Pomponio, Modestino e altri.(Ind. e Fattori dell'incivilimento. P. 2, C. 1, § 1-5. ). E tanto è vero, che la notizia del “gius equo”e buono splendesse viva nelle menti romane, che lo strapazzo delle provincie, finitala guerra civile, non e punto legale, anzi contr'alle leggi; perchè, secondo lecostituzioni come dice Warnkoenig, le provincie stano bene, le imposte sonolievi, lo stato pacifico, molto dell'amministrazione in mano di quelle (il chescusa in parte il popolo romano); ma infierivano i governatori. Popolo e senatoli minacciavano con le leggi repetundarum, tornate vane per corruzionede'giudizj. (Hist. du Dr. Rom.) Tali cagioni principalmente formarono lasapienza de' giureconsulti romani. Inoltre, essi per lo più non eran causidici,ma scioglievano questioni di diritto in generale. E ciò indica sempre più e lanatura scientifica del ministero loro, e perchè la scienza, libera da interessiparticolari, progredisse continuamente. (Cic., De CI. Orat.). Poi, l'emulazionedegli oratori che piegavano il gius alla varietà de’lor fini, co' giureconsultiche ne volevano serbare la severità, incita questi a gareggiare in isplendoredi filosofia, e ad interpretare il diritto co' placiti del senso comune. Cosìda una disputa tra l'oratore CRASSO -- contemporaneo al padre di Cicerone -- e MUZIOSCEVOLA giureconsulto sull'interpretare i testamenti o a rigore di parola, osecondo la probabile volontà del testatore, nacque la giurisprudenza inquest'ultimo senso, ripresa da Forti, ma e forse meglio approvata da Cuiacio.Infine, l'esercitarsi tale ufficio da’giureconsulti senz'ombra di lucro, laillustre loro condizione e l'affetto all'antiche leggi e consuetudini di Roma,indica il perchè tennero essi per lo più l'austerità della morale del Portico,che ci chiarisce alla sua volta il decoro, l’equità e sottilità della loroscienza; e tutto insieme poi spiega la nobiltà di vita de' più tra loro, e n'èspiegato. Le poche notizie che n’abbiamo ce li fanno apparire la più parteuomini onorandi. Nomino dapprima QUINTO MUZIO SCEVOLA, assassinato a’tempi di MARIO.Dice POMPONIO che Muzio costitue primo il decreto civile, disponendolo per capidi materie (“generatim”) in XVIII libri. SERVIO SULPIZIO riduce il diritto astato di scienza. SULPIZIO e prima oratore grande, poi giureconsulto per un rimprovero che gli fa MUZIO SCEVOLA d'ignorare le leggi del proprio paese, eglioratore e patrizio. Sostenne la repubblica. Avversa i Triumviri. La repubblicagli alza una statua. Abbiamo di que' tempi ALFENO VARO e OFELIO, ambiduediscepoli di SERVIO, e TREBAZIO (a cui la Logica di Cicerone) e un altro MUZIOSCEVOLA – PONTIFICE -- e CASCELLIO. Muzio non accetta da Ottaviano il consolato.Cascellio non volle mai comporre una formola secondo le leggi de' Triumviri; ea chi lo consiglia si temperasse rispondeva, “Son vecchio e senza figliuoli.” LABEONE,il cui padre e morto a Filippi, rifiuta il consolato da OTTAVIANO anch'egli, eserba spiriti antichi. Dice Pomponio: Ageio Capitoni si détte moltissimo aglistudj. Divide l'anno in modo che sta sei mesi a Roma co' discepoli (“cumstudiosis”), e sei mesi lontano per iscrivere libri. Così lascia XL volumi, chei più s'usano ancora. Ateio CAPITONE (segue Pomponio) persevere nell'antico. MaLABEONE, che molto medita nell'altre parti della sapienza (“qui et in cæterissapientiæ operam dederat”), per valore d'ingegno e per fidanza di dottrinacomincia innovare molto” (Fr., D. De Or. Jur. ). I cinque giureconsulti piùcelebri e più recenti (lasciando gli altri) sono: EMILIO PAPINIANO, PAOLO,GAIO, ULPIANO, E MODESTINO. PAPINIANO, familiare di SETTIMIO SEVERO eprincipale nel governo, stette per GETA contro il suo fratello CARACALLA, evolendo costui una difesa legale del fratricidio. PAPINAINO la nega e venneucciso. Scrive “I fatti,” che le dono la pietà, il buon nome e il pudorenostro, e che, a dirlo in genere, son contro al costume, si dee tenere che noiuomini dabbene non possiamo farli (Fr. D. De servis exportandis etc.). Gl’altriquattro illustrano, come dice, il consiglio di ALESSANDRO SEVERO. Igiureconsulti, massime della terza età, levano a stato di scienza le lorodiscipline. Ciò nacque dalla molta erudizione loro, non solo in filosofia, maeziandio in lettere; e se n'ha prova ne' lor libri per le citazioni da' Greci;com'a dire Omero, Ippocrate, Platone, Demostene e Crisippo. E il primo effetto e,come notai de' tempi di CICERONE, che la giurisprudenza prende forma logicatanto sicura e stringente, ch'è una meraviglia. Si sa da molti e ab antico, diceHugo, la filosofia de' giureconsulti, ma si sa da pochi, che nessuno più diquelli sta in confronto de’matematici per tre ragioni. Cioè per vigore diconseguenze da principj fissi, per diligenza nell'evitare contraddizioni -- cheGaio dimandava “inelegantia juris” --, e pel metodo distintivo e compositivo,induttivo e deduttivo ad un tempo -- distintivo e induttivo salendo alle speciegenerali del diritto; compositivo e deduttivo traendone con brevità ed evidenzale illazioni. Il gran Leibnitz, insigne filosofo, scrive nell' Epist. “Ioammiro l'opera de Digesti, o, meglio, i lavori de' giureconsulti, ond' ell' èpresa. Ne vidi mai nulla che più s'accosti al pregio de matematici. O che tuguardi all'acume degli argomenti, o a'nervi del dire. Ma questa efficacia dellafilosofia non potè fermarsi all'ordine de' pensieri, dovè penetrarenell'interno, giacchè, com'avvertii, materia della giurisprudenza son gl’attiumani o personali, soggetto filosofico. Tal efficacia non si creda particolarema generale. Quindi, coloro che cercano ne'giureconsulti le traccie minute o delPortico o d'altri sistemi, errano forte se non passano inoltre a considerarel'opera generale della riflessione interna. È certissimo, com'avvertono gl’eruditi,che i più de'giureconsulti tolsero dal Portico l'argomentare per analogia,l'amore dell' etimologie, la spartizione delle materie, LA SOTTILE DIALETTICA checonviene al foro, e molte dottrine sulla ragione dell'onesto, applicate da essiegregiamente al gius civile. Ma l'essenziale sta in quel gran corpo, cosìdisposto bene secondo le leggi del pensiero, e, salvo qualch'errore de' tempi, cosìcon formato alla natura umana nelle regole eterne di lei e nelle relazioniesteriori. Sicchè il gius romano serve di lume al gius de’ popoli più civili,come si ha dal codice Napoleone: e gli Alemanni, dimenticata noi tanta gloria,vi fanno su studj esimj e perseveranti. E perchè si chiarisca il filosofareintimo de' giureconsulti, guardiamo la nozione, ch'e'si fanno dellagiurisprudenza e della filosofia. Ulpiano nel Tit. 1 dei Digesti scrive. Dand'operaal gius, occorre prima sapere onde ne venga il nome. “Gius” è chiamato dagiustizia. Perchè, come Celso lo define elegantemente, il gius è l'arte delbuono e dell'equo. Però siamo chiamati, con ragione, sacerdoti della giustizia.Di fatto, professiamo la giustizia e manifestiamo la scienza del buono edell'equo; separando l'equo dall' iniquo, e discernendo le cose lecite dallecontrarie; desiderosi di far buoni gl’uomini, non per timore delle pene, maeziandio per l'incitamento de'premj; ricercatori, se non m'inganno, di vera enon simulata filosofia. Se la definizione della giurisprudenza si prenda qui arigore, ella non regge, perchè si stende a tutta la filosofia morale. Ma sebadiamo al concetto che avevano di questa gl’antichi, e al generarsi la scienzadel diritto dall'altra del dovere, ci formeremo idea chiara del comeintimamente e FILOSOFICA LA GIURISPRUDENZA ROMANA. Secondo i sistemi filosofici,sommità di perfezione umana è LO STATO ROMANO. Talchè la morale s'ordina allapolitica. Concetto vero per l'attinenze esteriori, falso e pagano quant'all'ultimo fine. Non faccia dunque meraviglia se i giureconsulti romani defininoil gius civile come la morale. Lo definano così, perchè, a sentimento di tuttigl’antichi, le due scienze si mescolavano in una. Noi con più ragione le distinguiamo,ma s'erra da chi ne dimentica l'unità superiore, ch'è la scienza de' primiprincipj e dell' uomo -- dimenticanza ignota agl’antichi, che però svolgenorazionalmente il diritto e non lo maneggiano materialmente. Notate ancora chenel passo citato si distingue la scienza dall'arte. Se nelle Istituzioni poi lagiustizia è definita: Costante e perpetua volontà di rendere a ciascuno il suodiritto: e se la giurisprudenza è definita; Notizia delle cose umane e divine escienza del giusto e dell'ingiusto, pr. e S 1, Inst. De just. et jure, si vuolfare la stessa osservazione detta di sopra; e noto con Cuiacio, che in talluogo la giurisprudenza è indicata bene com' abito dell'intelletto o scienza, ecom’abito della VOLONTA, secondo l'antica filosofia. E la filosofia la pensanoessi, non senz'alta speculazione, ma contenuta nel vero da' dettami del sensocomune e dal fine pratico. Di fatto s' inalzarono all'eternità del diritto -- comeosserva Vico nella “Scienza Nuova” -- allorchè dissero: Il tempo non muta nèscioglie i diritti: “Tempus non est modus costituendi vel dissolvendi juris.”E, quando discernano il diritto naturale dal positive, nello stesso tempo rigettenogl’eccessi del Portico, come l'eguaglianza della imputazione; finalmentederisero le stranezze, l'ipocrisie, l'avarizia di quelle sette in età discadimento. Così sente Ulpiano, che distingue filosofia schietta dallamascherata; e nel Fr. 6, § 7, D. al Tit. De his quæ in testamento delentur, èschernito il suicidio de' filosofi per ostentazione, e nel Fr. 1, § 4, D. deextraordinariis cognitionibus etc., dove si stabilisce gl’onorarj delleprofessioni, li nega il giureconsulto a' filosofi che, vantando di spregiare lemercedi, n'andano a caccia. I giureconsulti poi mostrno tre specie di diritti:jus naturale, gentium, et civile; distinzione che non si vuol confondere conl'altra più pratica in jus gentium vel naturale e in jus civile; e chi non vibadi, tassa i giureconsulti d'errori, ch'e'non hanno. La distinzionepraticamette divario tra leggi proprie di Roma (jus civile) e istituzionicomuni a ogni popolo non selvatico (jus gentium vel naturale). L’altra èdistinzione più speculativa e fondamentale. Ulpiano nel Tit. De just. et jure,D. dal Fr. 2 al 6, distingue diritto pubblico da privato; e distingue ilprivato in diritto naturale, che natura insegna a tutti gl’animali, come laprocreazione de’ figliuoli; in diritto delle genti, del quale, tra gl’animali, hann'uso gl’uomini soli, come la religione verso il divino, l’obbedire a' genitori ealla patria: in diritto civile ch'è proprio d'un popolo. Ora, s'accusa Ulpianod'aver confuso il diritto naturale con gl' istinti del l'animalità; ' e sì chePiccolomini da qualche secolo fa, come Warnkoenig, nota che qui, secondo ledottrine vere d' Aristotile, son distinti nel l'uomo i diritti che vengonodalla natura animale, quelli che vengono dalla razionale, e gl’altri che ponela comunanza civile. Non s'intende già che una bestia -- detta da'giureconsulti cosa, non PERSONA – ha diritto, ma che le potenze animalidell'uomo, in quanto appartengono all'uomo, generan diritti, come li generanole potenze razionali. Talchè in Ulpiano si trova benissimo sceveratal'animalità dalla razionalità. È da confessare invece, che il diritto civile sidefine per quello che toglie o aggiunge al diritto naturale e delle genti; es'allude alla servitù ch'è contro alla natura, come si dice nel Tit. De regulisjuris. Ma tuttavia meritan lode i giureconsulti, che se non condannarono laservitù, la dissero contraria bensì al diritto naturale, migliori di Platone edi Aristotile. Anzi nelle Istituzioni è detto, che il gius naturale e istituitodalla divina provvidenza, come insegna il Portico (De Jur. Nat. Gen. et Cir.);nel qual testo il gius naturale abbraccia pur l'altro delle genti. Poi, essidefinino il gius civile qual e in fatto allora. Osservo di passaggio che ilchiarissimo Conforti nel l'annotazioni a Stahl (“Storia della Filosofia delDiritto”, Torino) opina con altri, che i romani non avessero idea del dirittoeterno, perchè jus viene da “iubeo”, comandare; dove la parola diritto, e lesimili del francese, tedesco e inglese, hanno il concetto di rettitudine, o dirittura alla legge eterna. Ma quel valentuomo non pensa forse al come definiscela parola Jus Forcellini (Voc. ad V.). Gius è tutto ciò che in generale viencosti tuito da leggi o naturali, o divine, o delle genti o civili -- Jus estautem universim id, quod legibus constitutum est etc. Si nomina con altro nomeequità comune, equo universale, legittimo, cioè adequato alle leggi, quasinorma e regola degli atti umani. Sicchè I ROMANI chiamano “ius” un checostituito da una legge qua lunque. Così distingueno la legge da ciò che neprocede, e ch’è l'EFFETO DEL SUO COMMANDO. Cicerone (Rep. et De Leg.) adoperalegge e gius in tal significato. Ma la risposta migliore si èinquell'assioma de romani già citato: Il tempo non muta nè scioglie idiritti; conobbero, dunque, i romani la santità del diritto fuori del tempo,cioè nell'eternità, o nel suo fondamento assoluto. Inoltre vedemmo che il giuscivile si distingue dal naturale. Ma tornando a'giureconsulti, la loro scienzaorigina il diritto onorario, di cui parla Forti se non con molta novità, certocon più chiarezza di tutti gli altri da me esaminati. E io ritrarrò in breve lasentenza di lui, e n'usce la prova del quanto potè la scienza dell'uomo e lafilosofia morale in tanta perfezione di gius. Ma prima dico che il giusonorario contene gli editti del urbano e del peregrino, e quelli degli edili eproconsoli e propretori delle provincie -- edictum provinciale. Pare che ilgius predetto, almeno in modo segnalato, principiasse per chè Cicerone nellaseconda Verrina dice. Postea quam jus prætorium constitutum est. Hugo dimostra,contro Heinneccio, che tal diritto ha forza di legge; poichè, tra gli altriargomenti, Cicerone non contrasta nelle Verrine che L’EDITTO DI VERRE SIA LEGGEda tenere, ma lo accusa di averlo infranto VERRE stesso, o conformato nonsecondo ragione (Hugo, Hist.). Or dunque, i pretori rendevano giustiziane'civili negozi, gli edili per le convenzioni de' mercati e per LA POLIZIADELLA CITTA. E tanto gli uni che gl’altri, quando pigliavano i magistrati,mandano fuori un editto, ove stabilivano le forme del giudizio e LE MASSIME -- ottimoistituto in repubblica popolare. Non mutano il gius, ne determinanol'applicazione. Eccone gli esempi. In primo luogo, salva LA FORMA LEGALE,, sisupponga che i contraenti hanno pattuito o per inganno, o per errore, o pertimore, o per forza. Mancando la moralità dell'atto, la legge non conservavasiuguale per tutti. Quindi i pretori statuiron una MASSIMA PER L’EFFICACIA CIVILEDELLA MORALITA NEGL’ATTI, scuse legittime per negare agl'ingiusti la sanzionedella legge e i mezzi legali. Perchè QUESTA O QUELLA MASSIMA d'equità sirecassero ad effetto. I codici moderni han composto di questa o quella MASSIMAle lor legge universale. Allora, dice Forti, gli editti de' magistrati sono unode' principali modi, per cui la filosofia venne applicata gradatamente aibisogni civili. Sicchè, quant'alla moralità degli atti, trovarono i magistratil'ECCEZIONI perpetue contro le obbligazioni per dolo, per timore, per errore,per violenza; la restituzione in intero, i modi legali a sciogliere le detteobbligazioni, od a ripetere ciò che pel tenore loro fosse stato pagato. Insecondo luogo, la legge, definito il diritto e ordinatane la sanzione, lasciaa'magistrati il modo d'effettuarla. Per esempio, la legge stabilice i modid'acquistare la proprietà, ma non i modi della sua difesa; che più tornanecessaria, quanto più divise le possessioni, e distinta la varietàde'godimenti e diritti che si comprendono nella mozione del dominio -- ondenacquero nuovi contratti e bisogni di nuove difese. Quind'i pretori differenzianoa capello il dominio e il possesso, e gl'interdetti che lo proteggono, e va'discorrendo (Ist. Civ., L. I. S. 1). Le dottrine de'giureconsulti poi vennero aformare un'altra maniera di gius -- ioè il diritto ricevuto -- “jus receptum”.Essi, introducendo ne'contratti clausule, con cui si stipulava l'osservanzadella buona fede, costringeno i magistrati a giudicare di que'contratti, nonsecondo la nude parola della legge, sì a lume di naturale onestà; come leclausale, si lodate da CICERONE uti ne propter te, fidemre tuam captus,fraudatusne sim; e ut inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione (DeOff.). I giureconsulti si dano all'interpretazione; e poi chè questa oconsidera la legge in sè, o L’ATTO DELLA VOLONTA UMANA, così la filosofia dique'sapienti gl’aiuto all’un fine con le spiegazioni delle parole e con ladefinizione de'termini astratti, e col mirare alla ragione della legge stessa:gli aiutò all’altro fine co giudizi sulla moralità dell’ATTO, e con le regoleper interpretare l'altrui volontà. Gravina così accenna le novità del giusricevuto. Dalle interpretazioni de' giureconsulti passate in uso, e mitiganti apoco a poco e come di soppiatto l'asprezza della legge, sono venute le regoledi diritto, temperate dalla ragione d'equità. Nacquero da essi, l'uso deicodicilli, l'azione del dolo, le azioni quasi tutte che chiamaron utili, perchèprocedono dall’equa e utile interpretazione, le stipulazioni aquiliane, autoreAQUILIO giureconsulto, le varie differenze delle successioni. la regolacatoniana, la sostituzione pupillare, il divieto della donazione tra marito emoglie, e l'altro che i pupilli s'obblighino senza l'autorità del tutore. Daessi vernero i giudizi di buona fede, le azioni rei uxorie, la quereladell'inofficioso testamento, e infine tutto ciò che si trova citato sotto nomedi costumi, di consuetudini e di gius ricevuto (De ortu et progr. I, Civ., C. )Tale acume di riflessione disciplinata reca i giureconsulti per fino ad uncomputo di probabilità sulla vita umana quant'all' usufrutto ed agl’alimenti(come si vede Fr. D Ad Legem Falcidiam ). Cosa notabile molto, perchè fasupporre grand'abito d'osservazione e di giudizi astratti. La virtù e la verafilosofia de' giureconsulti le sentiamo pur anche nel loro stile, che in mezzoalle ampollosità di SENECA e degli altri si tien semplice e puro.. NellePandette v' ha errori di lingua, per vizio de' compilatori greci e de' copisti.Ma specie i frammenti di Gaio e d'Ulpiano son gioielli, ammirati da' principalimaestri di latinità. Termino recando un saggio di tal sapienza ed elegantebrevità, in alcune regole di gius dall' ultimo titolo de' Digesti. I dirittidel sangue non posson finire per niuna legge civile (Fr.). Sempre nelle coseoscure s' ha da tenere il meno. Sta in natura che le comodità d'una cosa seguancolui che ne sente gl' incomodi. Ciò che dapprima è vizioso non si può coltempo sanare. Nulla è più naturale che sciogliersi a quel modo ch' uno s ' èlegato. Però l ' obbligazione di parole sciogliesi con parole, e quella di nudoconsenso con altro consenso. Che si fa o si dice nel caldo dell'ira, non sistima. Vi sia consenso d'animo, se non v' ha perseveranza. Nessuno puòtrasferire altrui più diritti che non ha. Sempre nel dubbio son da preferire lesentenze più benigne. L'erede si stima di quelle facoltà e di que' diritti cheil defunto. È proprio di quel sofisma che i Greci chiamano sorite, oammucchiato sillogismo, di trar la disputa, con lievissime mutazioni, da coseevidentemente vere a evidentemente false. Quante volte l’espressione in undiscorso PARE rendere DUE sensi, prendasi quello ch'E PIU ADDATO AL DA FARE. Nonsi dà benefizio per forza. Nes suno può mutare il proposito suo in altrui danno.In ogni cosa, ma più nel gius, è da guardare all’equità. Ne’discorsi AMBIGUI èil più da guardare all'INTENDIMENTO DI CHI LI FA. Nelle cose oscure si badi alpiù verosimile, e a ciò che accade più spesso. Il timore vano non è buona scusa.Per l'impossibile non c'è obbligo che tenga. Le cose proibite da natura nonsono convalidate da legge nessuna. Per gius di natura nessuno dee farsi piùricco a danno altrui. Per gius civile i servi si stimano nulla. Non per dirittonaturale, secondo cui tutti gli uomini sono uguali. Quando l'impero si foggiaall'orientale, la giurisprudenza cadde in vano eccletticismo; come n'è segno “laindigesta mole de’ digesti” e ciò accadde alla quarta età, o di vecchiezza.Poichè abbiamo con qualche sufficienza esposto la filosofia latina di CICERONEe de' giureconsulti, e abbiam veduto come proposito di questi e di quelloapparisca sempre l'armonia tra le speculazioni e la pratica, e, nellespeculazioni, fuggire tutti gl’eccessi delle sette, componendone, guidati dallacoscienza e dal senso comune, un'unità, siam chiari, mi sembra, che veramentedopo la dialettica distintiva de' greci, tendevano I ROMANI alla comprensionefinale, e che tal è proprio la qualità prevalente in quest'epoca quarta dellafilosofia. Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in dueimportanti ambiti della sua produzione teorica: e opere di argomento retorico;(le opere che parlano dei segni divinatori. Se prendiamo in considerazione ilprimo di questo ambito, possiamo osservare che l'interesse per i segni non èugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il Deoratore, l'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano unaproblematica a carattere so- cio-politico, volta a definire la figuradell'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizionerispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut- to ciòche costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con essoanche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tantotrascurato, quanto dato per scontato: esso si confi;:ura come un vasto campo dicompetenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di unuso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso ipersonaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, lePartitio- nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunatedalla caratteristica di prendere in considerazio- ne e di sistematizzare lagran massa delle nozioni che com- pongono l'apparato tecnico della retorica. Unlimite di que- ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità delprocedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa- rossismo, come nelDe inventione, e che spesso non trova un'adeguijta giustificazione teoretica.Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare glispunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno.9.2.1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile diCicerone e con- densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge finoa Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro- vino riprodotti alcuniaspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. Inparticolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, comean- tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermatal'attenzione verso i segni involontari (l'im- pallidire, l'arrossire, ilbalbettare dell'imputato) come indi- zi di colpevolezza. Infine compare laclassica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con ilfatto crimi- noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i puntidi contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione deisegni proposta da Cice- rone è in larga misura diversa da quelle precedenti.Essa ap- pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar-gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delleprove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra esserequalche cosa che si esco- gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa inmaniera probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra in"un mo- donecessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non vieneusato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione èproprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (unindizio che viene depositato nel dossier dell'avvocato) rinvia a qualcos'altro.Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza argomentativadebole (probabili- ter ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon-strans). 9.2.1.1 Rinvio necessario e non necessario I segni necessari sono cosìdefiniti: "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsiné essere pro- vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sonoesempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Serespira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv., I, 86). ComeCicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e ilconseguente sono legati da una re- lazione inscindibile (cum priore necessarioposterius cohae- rere videtur, De inv., I. 86). Il rapporto di rinvio nonnecessario viene poi cosi defini- to: "Probabile è poi ciò che suolegeneralmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in séqualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (Deinv., I, 46). Con questa definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri:(i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era daAristotele attribuito peculiarmente al1'eik6s (verisimile). E infatti i primidue esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eik6s:"Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso delgiuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto digeneralizzazio- ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet.,1357a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari,era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv., 9.2 CICERONE), che nonsembra dello stesso tipo, ma è più vicino al semefon aristotelico. 9.2.1.2L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar- tizione deisegni non necessari, accanto al credibile (credibi- le), all'iudicatum(giudicato) e al comparabile (paragonabi- le). Se le ultime tre nozioniappaiono distinte in base a crite- ri estrinseci (e scompariranno nelletrattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeniabbastan- za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no-stri sensi e indica (significat) un qualcosa che sembra deri- vato dal fattostesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o puòaverlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura"(De inv., I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "ilpallore", "la fuga", "la polvere". Si tratta, come sivede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati egeneralmente non vo- lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio-nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio- ni, come dimostrail caso dell'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere neicalzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine,vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso.Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo- sta nel De inventione(cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriaesono un'opera della tarda matu- rità di Cicerone, nella quale la classificazionedella materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto altrattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente daquella dei modelli greci e viene completa- mente latinizzata. In secondo luogogli indizi (qui chiamati argumentatio~ Né questo è un caso isolato in ambitogiuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L'orazione perl'uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel cheera provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo casodovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono daglidei" (Lanza). Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sonoinvece trattati tra gli argomenti intrin- seci, in particolare tra quelli cheriguardano lo stato di cau- sa congetturale. Infatti la congettura può esseretratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notae propriaererum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciòche accade per lo più" (Pari. or., 34), come a esempio "la gioventù èincline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri-sponde ali' eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili- stico egeneralizzante. La nata propria rei viene definita come "una prova che nonsi verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co- me il fumo indica ilfuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi- dentemente, del segno necessario,come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, cheriman- da alla nozione di fdion semefon (segno proprio). Per Ari- stotele ilsegno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, adesempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio(An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio avevacarat- tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere senon esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si- gnis, I, 12-16). 9.2.2.2 Gliindizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei qualinecessaria (•ea quae aliter ac discuntur nec fieri nec probari pos- sunt"Ies.: ·se ha partorito, è stata con un uomo" probabilis (•quod !ere soletfieri aut quod in opi- nione μositum est") es.: ·se è madre, ama suofiglio" signum credibile indicatt.:m comparabile ("quod sub sensumaliquem cadit, et quiddam significat, quod ex ipso .!'rofectu.m .est"I.es.: sangue, fuga, "pallore", "polvere" vestigia facll) noncompaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono ur..ruolo autonomo. Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra"luo- ghi estrinseci" (corrispondenti alle "proveextratecniche", titechno1) e "luoghi intrinseci" (corrispondentialle "prove tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel Deinventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notarecome tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alletestimonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli, gli auspici,i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici)(Part. or., 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda- licae antichissima dell'amministrazione della giustizia; tut- tavia è anche unindizio di un continuo riaffiorare del para- digma divinatorio all'interno deifatti semiotici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati.Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda lacultura greca, si ricorderà L'orazione per l'uccisione di Erode, in cuiAntifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi etestimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo avertrattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979:105). 9.2.2.1 Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invecetrattati tra gli argomenti intrin- seci, in particolare tra quelli cheriguardano lo stato di cau- sa congetturale. Infatti la congettura può esseretratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notae propriaererum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è"ciò che accade per lo più" (Pari. or., 34), come a esempio "lagioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segnocorri- sponde ali' eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili- sticoe generalizzante. La nata propria rei viene definita come "una prova chenon si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co- me il fumo indicail fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi- dentemente, del segnonecessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivoproprius, che riman- da alla nozione di fdion semefon (segno proprio). Per Ari-stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere,come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno delcoraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segnoproprio aveva carat- tere di necessità e si definiva come quel segno che nonpuò esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si- gnis, I,12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi difatto), dei quali vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue,grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor- socontraddittorio, tremore [...]. gli indizi materiali della premeditazione, leconfidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate"(Part. or., 39). Cicerone non definisce qufsto tipo di segni, se non dicendoche si tratta di "fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem),caratte- ristica condivisa anche dai signa del De inventione (I, 48), in cuiricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor- nificio (Rhet. ad Her.,II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigia f acti siano più inrelazione con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili(verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanzaautonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi- chedegli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate- goria dei semefaaristotelici, diversi tanto dai tekméria quanto dagli eik6ta. Da un altro passodelle Partitiones oratoriae (114), dove ricorrono esempi analoghi, ivestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia,cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definivaappunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannavai semefa da un punto di vista episte- mologico per la loro insicurezza,Cicerone è pronto a rico- noscerne l'efficacia qualora si presentino in grannumero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazionecicero- niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulladivinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina- zione.Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare allaconoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondoluogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente-mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o coniectura -- I--vestigia facti osigna verisimili& notae propriae rerum c•quod plerumqueita r11·1 es.: ·adolescenza- incllnazione alla libidine· c•quod numquam aliterfit certumque declarat•) es.: ·tumo-fuoco· 1•sensu percipi potest") es.:·sangue-uccisione• dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu-rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di- vinazioneartificiale (basata sull'interpretazione e sulla con- gettura) e divinazionenaturale. Infine, come Cicerone pole- micamente rileva (De div., Il, 55), isegni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera diametralmenteoppo- sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesapropongono dello stesso fatto due interpretazioni di- verse ed entrambeplausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi dell'indagine giudiziaria, mentrenutre una diffidenza enorme nei confronti della di- vinazione. In linea,infatti, con un vasto gruppo di intellet- tuali della sua epoca, educati aimetodi di indagine della fi- losofia greca, a fondamento razionalistico, econtempora- neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare unadistinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, perlui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, postacome è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazionedello stato ste~so; la superstizione, invece, costituita dal coacervo deglielementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa,dev'essere respinta, anche per- ché non venga limitata la libertà del cittadinoromano nel suo impegno di gestione della repubblica. Cicerone affronta questiargomenti nel De natura deo- rum, nel De fato e, soprattutto, nel Dedivinatione. Que- st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore eil fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teoriestoriche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazionidi Cicerone contro la teoria soste- nuta da Quinto sono particolarmenteinteressanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismosemiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generaledel segno. 9.2.3.1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria diQuinto, gli dei si pongono come fon- te dell'informazione e come emittenti neiprocessi di comu- nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata-ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro- cessocomunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalladivinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars,ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia- listi,ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere),interpretes monstrorum et fu/gurum (inter- preti dei fatti prodigiosi e deifulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpretidelle stelle), in- terpretes sortium (interpreti delle combinazioni ditavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazionel'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in unasostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare uncontenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni diquesto tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti ifenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau- se ed effetti, senzasoluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gosdivino e costituisce il fato (heimarméne), non è conoscibile per intero daparte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità(De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che"può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dàmai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quanto prima è accaduto" (Dediv., I, 127). Questo fa sì che gli uomini, attraverso l'osservazione attenta,colgano il mo- do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conosceredirettamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizicaratteristici (signa tame.1causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che èpossibile tramandare memoria dalle con- nessioni passate, si crea un vero eproprio codice basato sul- la iteratività. Si può schematizzare così il processo:emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iter attività9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo di divinazione èquello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnicaprofessionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senzapassare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questotipo le forme di preveggenza derivan- ti da invasamento profetico, cioè levaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui èlegato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri- patetiche(Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no- minati, De div.), secondo lequali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spintada una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo,partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è inquesto caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parzialeidentificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:emittente divino - Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazionepresenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stessosegno sono spesso diametralmente opposte (De div., II, 83); (ii) si verificanofrequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui uncerto evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio- so, ma aben diverse cause naturali (De div.); (iii) l'interpretazione avviene aposteriori e così toglie ogni ne- cessità di rapporto tra antecedente econseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivatada ra- gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (Dediv.).segno interno - evento futuro •➔ riceventeumano 9.2.3.3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatoriLe obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi- nazione si basano suargomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la qualeCicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente caratteresemiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se- gni non sianoveramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedentirispetto a dei conse- guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quellipresunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecnichescientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnicaprevisionale del contadino e dell'astronomo) e la divinazione. In entrambi icasi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentrele pratiche pro- fessionali adottano una vera e propria metodologia checomporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) econgettura (coniectura)" (De div., II, 14), le prati- che divinatorie sibasano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembrache possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il casofarà accade- re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva,è il codice (anche se si tratta di legami naturali basati sulla frequenzastatistica) 1 e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip- pocraticitendevano a distinguere la propria scienza profes- sionale dalla divinazione edalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza intermini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso delladivinazione tecnica si farebbe appello all'osservazione iterata dellecoincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sonoaltri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico:(i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte(De div., II, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsaidentificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso aquello individuato come segno prodigio- so, ma a ben diverse cause naturali (Dediv.); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne-cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv) incerti casi l'interpretazione è motivata da ragioni di faziosità politica equindi è priva di oggettività (De div.,). Nel suo saggio Semiotica efilosofia del linguaggio ECO (si veda) osserva come la semiotica, proprio nelmomento storico in cui esce dalla marginalità, affermandosi come disciplina evedendosi riconosciuto addirittura il ruolo di scienza paradigma, proprio inquesto volgere di seco lo, appunto, diventa anche il referente ultimo di unaserie di dichiarazioni che proclamano la morte del segno o, almeno, la suacrisi. Situazione non nuova, osserva Eco: la storia del pensiero occidentale èanche leggibile come storia di una cancellazione e rimozione, quella dellasemiotica come scienza, al di là dei (e nonostante i) numerosi pre-annunci,progetti, ipotesi di una teoria dei segni che, a più riprese, hanno percorso lariflessione teorica degl’ultimi duemila cinquecento anni. La proposta di ECO(si veda) è quella di pensare a un progetto attuale di semiotica che trovigiustificazione proprio nello spazio che intercorre tra le attuali negazioni ele reali presenze del passato. Ciò significa che la semiotica deve percorrere aritroso il cammino della storia e divenire archeologia del sapere segnico:diverrebbe così possibile su perare i crampi linguistici che sono alla basedelle attuali de finizioni del segno (che ne criticano il formato come troppoangusto o troppo ampio, che comunque non ne ritrovano il modello quando esconodai sistemi verbali). Il presente saggio costituisce un tentativo di accogliereil suggerimento di ECO (si veda) e si propone di indagare le pratiche semiotichedell’origini e la riflessione teorica sul segno, che sono elaborate dal mondoantico e che ci sono state consegnate dalla TRADIZIONE letteraria, FILOSOFICA,medica, storiografica, retorica. Si propone cioè di ritrovare le tracce di unfilo rosso che percorre il mondo antico, dalle origini e che porta allacostituzione di una nozione di segno abbastanza diversa da quella propostadalle teorie del Novecento. La maggior parte, infatti, delle dottrine del segnoche sono elaborate nel Novecento - sia in ambito linguistico, a partire dalCours saussuriano, sia in ambito più gene ralmente semiologico - si fondano sudue presupposti, che risultano del tutto assenti nella riflessione classica suquesto soggetto: il modello di segno, sul quale l'intera indagine semiologicaviene articolata, è quello del segno linguistico – ecceto in H. P. GRICE --; iltipo di rapporto postulato come instaurantesi tra le due facce del segno èquello dell'equivalenza (p=q) o almeno CONSEQUENZA (Hobbes, Grice). Da questaseconda assunzione dipende il fatto che la nozione di signi-FICATO più diffusafino a qualche anno fa nelle teorie semantiche fosse quella che lo vede comesinonimia o come definizione essenziale. A partire, infatti, dallostrutturalismo hjelmsleviano, fino ad arrivare alle teorie di semantica componenzialee interpretativa di impostazione generativista, il singolo termine linguistico,o se si preferisce, la forma dell'espressione di un segno, è sentito comeequivalente a una serie di figure del contenuto, o marche semantiche, espressea loro volta meta-linguisticamente da altrettante forme linguistiche (adesempio: uomo = essere animato + umano + maschio + adulto). Cf. H. P. Grice: Bachelor: unmarried male – In defence of a dogma. Unaindagine sul modo in cui nasce e si articola nell'antichità classica greco-romana(e particolarmente ROMANA) la riflessione sul segno ci permette di scoprireche, rispetto al primo punto, in origine, non solo non si ha omologazione deivari tipi di segno sotto la specie di quello linguistico, ma che, anzi, le dueteorie (quella semantica del linguaggio e quella del segno non-linguistico)procedono in maniera parallela, senza inter-connettersi. Ne è un esempio chiaroil fatto che Aristotele,nel LIZIO, adoperi il termine “symbolon” per indicareil segno linguistico, ma le espressioni “smefon” o “tekmrion” per indicarequello non linguistico. La saldatura avvienne molto più tardi, in Agostino. Ma,in questo caso, è l'espressione linguistica a essere sussunta sotto lacategoria più generale [cf. H. P. Grice] e già costituita del segno non-linguistico.Per quello che riguarda il secondo punto, le pratiche segniche che latradizione ci ha tramandato e le teorie classiche prevedono un funzionamentodel segno non secondo lo schema dell'equivalenza, bensì secondo quellodeli'implicazione (p ⊃ q) – cf.Hobbes, Grice: CONSEQUENTIA. Per citare un esempio celebre, che percorrel'intera tradizione antica da Aristotele del LIZIO alla retorica romana di Quintiliano,passando per IL PORTICO, un caso paradigmatico di segno è: Se una donna halatte, ha partorito. The fact that this female has produced milk NATURALLYmeans that this female has given birth (H. P. Grice). A questo punto ègià possibile un confronto. Il modello antico classico greco-romano, eparticolarmente ROMANO, implicazionale – cf. Moore, ENTAIL – Frege assertionsign --, appare non solo molto più interessante rispetto a quello equazionale,ma certamente molto più, per così dire, attuale. Infatti, è in corso nellaricerca contemporanea una revisione di paradigma, che tenta di superare lesemantiche cosiddette "a dizionario" (che funzionano secondo ilmodello dell'equivalenza) per passare alla proposta di semantiche"istruzionali,” che funzionano secondo il modello dell'implicazione).Tuttavia, l'interesse di un lavoro di ricostruzione delle teorie semiotichedell'antichità non è limitato soltanto al reperimento di materiale sommerso,finalizzato, magari, alla costituzione di un quadro da mettere in confronto conquello attuale di H. P. GRICE. C'è un interesse intrinseco anchenell'osservare come i campi nozionali, e la terminologia LATINA associata aessi si siano venuti distinguendo lentamente e abbiamo preso forma a partireda situazioni d’usi linguistici originariamente molto più magmatici. Anche inquesto caso bisogna citare Aristotele del LIZIO come il primo che impone deiconfini netti a termini e concetti, che sono stati usati sino alla fine del Vsecolo a.C. e oltre (a esempio nei testi del Corpus Hippocraticum) con unaoscillazione semantica considerevole. Prima della categorizzazione aristotelicadel LIZIO, espressioni quali “semefon,” “aitia,” “prophasis,” “tekmrion,” ed “eikos,”non solo costituivano un campo di termini imparentati, ma anche di termini cheammettevano una parziale sovrapposizione e intercambiabilità (Lloyd). Ugualmente,il riferimento culturale di certe espressioni è stato, prima di Aristotele nelLIZIO, eterogeneo e diverso. “smafno,” a esempio, come ci mostra il frammento(Diels-Kranz) d’Eraclito è il verbo che indica la rivelazione oscura del dio diDelfi. “tekmairomai,” poi, denota in generale il procedere attraverso unragionamento congetturale, ma nei tragici e nei lirici vienne usato inriferimento alla pratica dell'interpretazione divinatoria. “smefon,” infine (ola sua variante omerica “séma”), è il termine più complesso di tutti,indicando, fin dalle origini, una molteplicità di cose, dall'INDIZIO al SEGNOdi riconoscimento, al prodigio divino, fino a essere usato come terminegenerale per il segno divinatorio (Bloch: tr. it.; Benveniste: tr. it.). Èinnanzitutto alla divinazione, all'astronomia e, tramite queste, all'arte dellanavigazione, che la problematica del segno viene in origine connessa. Cometestimonianza di tale connessione, si può ricordare la cosmogonia d’Alcmane incui all'origine del mondo compare la dea marina Teti, accompagnata da trepersonaggi divini. Da una parte P6ros (''la via") e Tékmor ("il segnale","il punto di riferimento"); dall'altra Sk6tos ("l'oscurità").Come sottolineano Detienne e Vernant, Tékmor svolge un ruolo fondamentale. Nell'oscurità[sk6tos] del cielo e delle acque in origine confuse, Tekmor introduce vie[p6roll differenziate, che rendono visibili sulla volta celeste e sul mare levarie direzioni dello spazio, orientando una distesa prima sprovvista di ognitracciato, di ogni punto di riferimento, aporon kai atékmarton". Inaviganti devono congetturare, “tekmafre sthal”, sulla distesa indifferenziatadel mare, la loro rotta e gli dei e gli indovini la fanno loro intravedere,fissando in anticipo percorsi e punti di riferimento. In questo modo. inaviganti gettano un ponte tra il visibile o proprio il SENSIBILE el'invisibile. Con Aristotele nl LIZIO, i termini del vocabolario semiotico, chemantenneno fino ad allora il riferimento alla sfera del sacro (e che continuanoa essere usati in tal senso fuori dagl’ambienti filosofici e razionalistici),vengono piegati a un uso esclusivamente profano (Lanza) filosofico – cf. H. P.Grice: Words are not signs. Tuttavia, se si perde il carattere sacro dell’origini,qualche traccia rimane ed è leggibile in trasparenza, se è vero che Aristotelenel LIZIO, nella sua delimitazione dei campi concettuali – cf. Austin/Grice,Seminar on DE INTERPRETATIONE --, riserva l'espressione “smeion” al segno chenon dà certezza e che può risultare ingannevole (mentre riserva l'espressione“tekmrion” al segno sicuro). Qui, quello che è il segnoambiguo della rivelazione divina, diviene il segno ambiguo del modelloconoscitivo razionalistico (“Those spots didn’t mean anything to me, but to thedoctor, they meant that he had the measles – By uttering, ‘He hasn’t been toprison yet” he might have meant that he is potentially dishonest. Grice. Seil paradigma semiotico affonda le sue radici nelle pratiche non-scientifiche onon-filosofiche della divinazione e della medicina magica (l’"iatromantica"),tuttavia lentamente depura, nel corso dei secoli, queste origini da tutto ciòche in esse c'è di irrazionale e di non controllabile (anche se sempre, al difuori delle teorizzazioni della FILOSOFIA ANALITICA tipo H. P. Grice,rimarranno usi magmatici e irrazionali di questo paradigma, come dimostrano, aesempio, le opere d’Artemidoro di Daldis o d’Elio Aristide sui segni onirici).Se si tiene presente quest'ottica, non è più sorprendente osservare che laforma proposizionale e implicazionale (p ⊃ q) che ILPORTICO danno al segno -- Se c'è cicatrice, c'è stata piaga -- si ritrovaidentica nelle tavolette divinatorie mesopotamiche. Anche gl’antichi babilonesiesprimeno il segno attraverso un periodo ipotetico, formato da una protasi,introdotta dalla congiunzione summa (equivalente alla “ei” greca e il “si”latino, che introduce il condizionale del PORTICO), e da una apodosi. Esse,rispettivamente, traducono in proposizioni linguistiche il segno e la suainterpretazione. Se il polmone è rossastro a destra e sinistra, vi sarà unincendio. Bottero. In ambiente greco, una saldatura tra segno divinatorio eforma logica dell'implicazione (p⊃ q) la sitrova testimoniata in uno dei dialoghi delfici di Plutarco, L 'E di Delfi. Inquest'opera, alcuni prestigiosi personaggi discutono sul significato d’unoggetto, avente la forma di E, che si trova tra i doni votivi del tempio diDelfi. Tra essi, Teone propone un'interpretazione della E ricorrendo al nomeche nella lingua antica questa lettera riceve, e cioè ei. Teone assimila poiquesto nome alla congiunzione ipotetica ei (latino “si,” italiano ''se") emostra che tale congiunzione svolge nella dialettica un ruolo essenziale, inquanto serve a esprimere il rapporto logico per eccellenza, quello che si hanei condizionali del tipo, Se è giorno, c'è luce -- esempio, questo, che è trai più classi ci della logica semiotica del PORTICO). Teone sottolinea, infine,che il dio di Delfi, Apollo, è un dio molto amante della dialettica, tanto èvero che i vaticini presuppongono la forma del condizionale, p ⊃q, che è la forma stessa che assumono i fenomeni dell'universo (e qui ilrichiamo è alla teoria del PORTICO della simpatia universale. Certo, quello cherisulta dal testo di Plutarco è al massimo che la teoria del PORTICO del fato edella divinazione si fonda su base logica. Il destino consiste in una serieinterconnessa di condizionali. Ma se l'ipotesi da porre fosse quella esattamentecontraria? Se, cioè, lo strumento così asettico e razionale della logicatraesse in realtà le sue origini dall'ambito divinatorio? Come dimostra la suastretta connessione con i segni e la divinazione presso IL PORTICO(Goldschmidt; Verbeke). Un enorme cammino è tuttavia stato compiuto dai testidivinatori babilonesi alla logica del PORTICO. La forma proposizionale rimanela stessa.. Ma nel caso del PORTICO è depurata non solo di ogni caratteresacrale, ma anche di ogni elemento contenutistico. È lì solo per il calcoloproposizionale. Nel caso degl’antichi mesopotamici, invece, il contenuto dellaprotasi permette di inferire il contenuto dell'apodo si mediante più o menocomplicati processi di analogia e giochi tropici. Il "rossore" delpolmone permette di inferire "incendio" per un TRATTO SEMANTICOCOMUNE. Infine una disamina sulla riflessione semiotica antica permette discoprire come il dibattito sui segni, sulla loro natura e sulla loroclassificazione si sia attestato a livelli sorprendentemente alti, come è ilcaso della discussione sui condizionali in seno alla stessa scuola del PORTICO(tra Diodoro, Filone – citato da H. P. Grice -- e Crisippo) o della disputa traIL PORTICO e L’ORTO sul rapporto tra antecedente e conseguente nei segni, dicui puntualmente ci informa il De signis di Filodemo. La discussione dicarattere semiotico, insomma, si riferisce sempre a, o si identificadecisamente con, il quadro più generale o più fondamentale del problema dellapsicologia razionale o della conoscenza. È poi nel mondo romano che questeproblematiche d’ordine conoscitivo generale vienneno piegate all’esigenze piùpragmatiche della conoscenza giudiziaria – “Hart is no philosopher, he’s alaywer” -- Grice: il problema dei segni si identifica con quello dellemetodiche per assegnare un maggiore o minor valore di PROVA agl’indizi presentatiin un procedimento processuale. La semiotica vienne messa al servizio dell'artedel detective, in ciò prefigurando uno degl’aspetti più singolari dell'interessecontemporaneo nei confronti dei paradigmi indiziari (Eco e Sebeok). È, infine,con Agostino – e con Grice a Oxford --, che la teoria del segno fornisce unparadigma anche per la teoria del linguaggio, permettendo d’UNIFICARE inun'unica categoria anche i segni verbali. Desidero ringraziare i molti amiciche hanno letto e discusso con me parti di questo lavoro. Tra coloro che mihanno offerto preziosi suggerimenti critici vorrei ricordare Bernardini,Borutti, Crevatin, Fabbri, Manuli, Marmo, Tabarroni, Vegetti, e Violi. Permolte delle idee e per l'impostazione generale del saggio sono debitore a ECO(si veda), di Bologna, la piu antica varisita del mondo, che segue e incoraggiail lavoro fin dai suoi inizi. Un ringraziamento particolare va a Conte, che harivisto una precedente versione del manoscritto, e dal quale ho ricevuto unainfinità di preziosi consigli. Quanto agl’errori e alle imprecisioni, neassumo invece totale responsabilità. C'è un campo specifico in relazione alquale tutte le culture antiche riconoscevano l'eccellenza e il magistero deipopoli mesopotamici: quello della divinazione. Non ci si può nasconderetuttavia, a questo proposito, che l'atteggiamento sviluppato dalla culturamoderna nei confronti delle pratiche che rientrano in questo campo è fortementesvalutativo. Esse, infatti, rappresentano un paradigma che si pone esattamenteagl’antipodi di quello che normalmente è assunto come il paradigma scientifico.Ma ci sono almeno due ragioni che ci inducono a guardare alla divinazionemesopotamica come a qualcosa che merita più di un interesse puramenteoccasionale o erudito. In primo luogo, infatti, è necessario ripensare, comesuggerisce Ginzburg, ai rapporti tra paradigma divinatorio e paradigmascientifico come a qualcosa di molto più complesso di quello che si assume disolito e che non comporta affatto una svalutazione del primo termine. Infatti,per Ginzburg, il paradigma divinatorio (definito anche, a seconda dei contestiin cui si manifesta, come indiziario, semeiotico, e venatorio), costituisce unmodello di sapere specifico, caratterizzato dall'aspetto qualitativo: e cioèbasato sulla conoscenza dell'individuale, attraverso l'uso della congettura.Ciò gli permette di giungere a risul tati notevoli, in tutte quell’aree delsapere che lo utilizzano privilegiatamente (al di là della mantica,sicuramente, anche la medicina, la filologia e cosi via, su su fino alla detection,la connoisseurship, la psicoanalisi), anche se per questo deve pagare ilprezzo di una ineliminabile dose di aleatorietà. Si tratta, in realtà, di unsapere del tipo che Peirce [cf. Grice’s lectures on Peirce] definisceabduttivo, in contrapposi zione al modello del sapere quantitativo che fa usodella deduzione come metodo di ragionamento. In secondo luogo bisognaricordare che, in Mesopotamia, la divinazione subisce un lungo processoevolutivo che dalla fondamentale e primaria tendenza a inferire le cause dagl’effetti(procedimento tipico dell'abduzione) la porterà ad accentuare sempre di più itratti generalizzanti e aprioristici, in modo da gettare le basi per una vera epropria scientifici tà di tipo astratto (Bottero 1974: tr. it. 211). Ciò cherisulta di maggiore interesse, dal punto di vista della ricostruzione storicadi una disciplina semiotica, è che al centro del pensiero divinatorio si poneproprio il segno in una accezione non banale. Quest'ultimo, infatti,costituisce anzitutto uno schema di ragionamento inferenziale, che permette ditrarre alcune conclusioni a partire da certi dati. È interessante notare comeil segno divenga centrale nel l'universo cognitivo mesopotamico, in quanto,partendo dal campo della divinazione, si estenderà in seguito anche alel altrepratiche culturali e discipline, come la medicina e la giurisprudenza, earriverà ad articolare, unificandola sot to il suo modello, la totalità delsapere. Si raggiungerà dun que, in Mesopotamia, un punto in cui il sapere, alivello molecolare, funzionerà secondo lo schema, unificato e for male, delsegno divinatorio, anche se contenuti di volta in volta differenziati verrannoutilizzati per dargli corpo. Pos siamo già accennare (anche se vi torneremo suin seguito con maggiore ampiezza di dettagli) alal forma assunta nella culturamesopotamica dal modello segnico: quella di un pe riodo ipotetico in cui unacerta conclusione è data nella apodosi, come derivante direttamente dallo statodi cose presentate nella protasi: in cui, in altre parole, la protasi è"segno" deli'apodosi. Un modello segnico di questo tipo ("Se p,allora q") è molto vicino a quello tramandatoci dalla cultura greca nellafase della sua maggiore maturità semiotica: in particolare funziona secondo loschema implicativo il modello di segno elaborato dalla scuola stoica. Ma qui,una volta rilevata l'affinità, devono subito essere messe in luce ledifferenze: nel segno della divinazione mesopotamica sono in genere glielementi materiali (o contenutistici) che permettono il pas saggio dallaprotasi all'apodosi; in quello della semiotica stoica, invece, le inferenzesono rese possibili unicamente grazie agli elementi formali. A ogni modo,nonostante queste profonde divergenze e al di là del problema, che pure sipone, degli eventuali debiti specifici della cultura greca nei confronti diquella mesopo tamica a questo proposito,1 è interessante verificare la presenza dello stesso schema segnico p -:J q che attraversa due civiltà (quellagreca e quella mesopotamica) e due ambiti culturali (la divinazione e lafilosofia) per altri versi tanto distanti tra loro. 1. 1 Divinazione escrittura Il fatto che quella mesopotamica sia essenzialmente una civiltà dellascrittura costituisce senz'altro uno dei presup posti per capire il tipo didivinazione sviluppatosi in Meso potamia e le ragioni della sua ampiadiffusione: è la scrittu ra, infatti, che in Mesopotamia fornisce la forma eil mo dello per tutta una serie di attività intellettuali, prima fra tuttequella deli'interpretazione dei segni inviati dagli dei. La letturadell'avvenire e la conoscenza del nascosto non avvengono qui per direttaispirazione divina, ma seguono lo stesso procedimento messo in attoneli'interpretazione dei segni della scrittura. 'l E proprio in relazione allagrande importanza assunta dalla scrittura nella cultura mesopotamica che ilmodello ri sultato egemone è quello della divinazione tecnica (BouchéLeclercq), quello cioè basato sulla interpretazione di segni che si realizzanoesternamente al l'uomo e che richiedono l'intervento esplicativo degli specialisti. Per comprendere il ruolo che la coppia scritturaloralità gioca negliorientamenti divinatori è sufficiente mettere in relazione la civiltàmesopotamica con quella greca. Que st'ultima, come noto, è una culturaessenzialmente orale, dove la scrittura si sviluppa in un periodo relativamentere cente e non costituisce un fenomeno autonomo rispetto al parlato, bensì,essenzialmente, una sua riproduzione in ca ratteri fonetici. In strettaconnessione con il carattere orale della cultura, in Grecia risulta egemoneproprio il modello della divina zione ispirata, in cui il dio parla ali'uomoattraverso un profeta, avvertito come suo portavoce, secondo il celebre esempiodella divinazione oracolare della Pizia a Delfi. E non è poi un caso che lasocietà greca non abbia favorito, come avviene invece in Mesopotamia, lanascita e la presen za stabile di una classe sacerdotale prepostaali'interpreta zione specialistica sia dei segni della scrittura sia di quellidella divinazione. Al contrario, nella cultura mesopotamica la scrittura, perun verso, è un fenomeno piuttosto antico, per l'altro è un dispositivo dotatodi meccanismi in larga misura autonomi rispetto al parlato. Le prime attestazionidella scrittura cuneiforme, infatti, si hanno tra la fine del IV millennio el'inizio del III.2 Nella sua forma primitiva la scrittura è pittografica, inquanto fatta di segni che intendono designare ciò che raffigurano: a esempio larappresentazione di una testa di bovino, trac ciata nei suoi contorni, maperfettamente identificabile, in dicava in prima istanza "il bue";ma, per una sorta di am pliamento semantico del segno, esso indicava anche"la vac ca" e "il bestiame grosso". Ugualmente il disegnoschemati co di un piede aveva anche il significato di "stare inpiedi" e quindi quello di "immobile", di "camminare",di "parti re", fino ad arrivare addirittura a quello di"portare via''. Come si vede l'abbinamento tra significanti e significatinon si presenta né univoco né banale: esso infatti comporta un lavorointerpretativo piuttosto complesso per controlla re i processi di ampliamentoo di slittamento dei significati per uno stesso segno. Processi che sicomplicavano attraverso nuove associa zioni derivanti dalla giustapposizionedi segni diversi: il se gno del pane messo accanto a quello della bocca dà ilpro dotto semantico "mangiare"; quello dell'acqua accanto a quellodeli'occhio significa "lacrime"; se invece è messo ac canto a quellodel cielo significa "pioggia". Più curioso an cora è il caso delsegno della montagna che, giustapposto al segno indicante la donna, produce ilsenso "la schiava", in quanto le montagne delimitavano a est e a nordla regione, e una donna portata da un paese situato oltre la montagna era unastraniera destinata a tale condizione. Ci sono dunque complicati meccanismienciclopedici che governano l'interpretazione. Ma si può osservare anche che,nella sua forma più anti ca, quella cuneiforme è una scrittura di cose(Bottero 1974: tr. it. 168), in quanto non ha bisogno di passare attraverso illinguaggio verbale per designare gli oggetti della realtà. La sua autonomiarispetto alla realizzazione verbale è tota le, tanto è vero che i segnipossono essere compresi da per sone che parlano lingue diverse e, del resto,sono pronun ciati in modo diverso in ciascuna di queste lingue come av viene,a esempio, per i numeri arabi nel mondo moderno. I Mesopotamici si dimostraronomolto legati a questa "scrit tura di cose" e non l'abbandonarononeppure quando ven nero fatti notevoli passi avanti verso il fonetismo conl'in venzione della scrittura sillabica. In effetti, circa un secolo dopo lasua prima scoperta, i segni della scrittura pittografica avevano cominciato asubi re un processo di scollegamento dalle "cose" che designava no,per essere collegati più direttamente alle "parole" con cui illinguaggio verbale designava i medesimi oggetti. Il ca rattere monosillabicodi molte parole e l'alta percentuale di omonimi, avevano favorito questoprocesso. Un esempio interessante del fenomeno, che è anche il più antico, èquel- lo del segno della fr H 1---, che viene a in- dicare non più solo"la freccia" ma anche "la vita": la me diazione è statadali'omonimia tra le parole designanti i due concetti, pronunciate entrambeltil nella lingua sumerica.3 Possiamo così schematizzare il processo: pronuncial ti l l"" significato ..freccia· ..vita• l ::rafico HH H'VA questopunto per arrivare a un alfabeto sillabico per fetto sarebbe stato sufficienteeliminare tutti gli ideogram mi indicanti parole per lasciare soltanto i segnidi sillabe, sorta di unità minime infinitamente reimpiegabili. Invece iMesopotamici lasciarono sopravvivere, accanto ai segni presi nel loro valorefonetico (indicanti una sillaba), i segni presi nel loro precedente valorepittografico. Ci sono almeno due importanti conseguenze che derivano da questaorganizzazione della scrittura, per la divinazione. Anzitutto, come abbiamovisto da alcuni esempi, la scrit tura pittografica ha la caratteristicaessenziale di tessere una rete sottile e complessa di rapporti tra le cose:abitua la mente a vedere nelle cose relazioni segrete e legami inso spettati.Essa suggerisce, altresi, un'attitudine mentale che porta a guardare anche allecose del mondo reale come in nescanti un analogo processo semiosico: non solo,quindi, l'abbinamento pittografico del segno della montagna e di quello delladonna indicheranno "schiava", ma anche lo stesso abbinamento osservatonella realtà, oppure in un so gno, porterà a trarre una inferenza analoga. Èproprio un meccanismo inferenziale di questo tipo che si pone alla base delladivinazione. La seconda conseguenza è connessa con il carattere spe cialisticodelle conoscenze richieste per l'interpretazione della scrittura: i carattericuneiformi non sono accessibili a tutti, dato il sistema di cifrazione cosicomplesso. Si crea al lora una sorta di aristocrazia di esperti capaci diinterpretare i segni della scrittura. Allo stesso titolo si crea, per l'interpretazione dei segni mandati dagli dei, la casta degli in dovini baro, iquali hanno come emblema della loro corpo razione proprio la tavoletta e ilcalamo. 1.2 La scrittura degli dei Come sottolinea Jeannie Carlier (1978:1227), in Meso potamia "parlare di una scrittura degli dei non è una metafora". Infatti quella cultura proietta nel campo teologico lo stessomodello di organizzazione che vede operante nel campo della burocrazia statale.Come ii re diffonde il suo potere dal centro alla periferia attraverso unacapillare e sviluppatissima rete amministrativa che trasmette i suoi or diniscritti indirizzati ai sudditi, così gli dei si servono della scrittura per farconoscere agli uomini i destini che hanno fissato per ciascuno di loro; soloche "l'unica tavoletta a lo ro misura è l'universo intero" (ibidem).Sama e Adad, glidei della divinazione, sono per un ver so come ilsovrano che notifica la sua volontà ai sudditi per mezzo di messaggi scritti;per un altro sono come il giudice che, dopo aver preso una decisione, laratifica sulla tavolet ta per darle validità e pubblicità. Il mondo, dunque,in questa concezione, è una immensa tavoletta, costituito da oggetti che sonoil supporto materia le dei presagi da cui verranno ricavati gli oracoli, comevie ne testimoniato, tra l'altro, anche da un inno di Assurbani pal a Sama5:"Tu scruti alla luce (del) tuo (sguardo) la terra intera come(altrettanti) segni cuneiformi". Del resto i Babilonesi parlavano della disposizionedegli astri come "scrittura del cielo" che veniva "letta"dagli astrologi. E d'altra parte non era raro il caso in cui un pre sagioconsistesse letteralmente in un segno di scrittura trac ciato nelle pieghe delfegato di un animale o sulla fronte di un uomo. 1.3 Una semiologia "antelitteram" Una volta messo in luce il carattere di profonda affinità tra ilsistema della scrittura cuneiforme e la divinazione concepita come scritturadegli dei, passiamo a esaminare la struttura interna del segno divinatorio. Èpossibile farsene un'idea abbastanza precisa attraverso i numerosi trattati divinatori che ci sono pervenuti. Questi ultimi consistevano in lunghissimielenchi di proposizioni complesse, ciascuna composta da una protasi e daun'apodosi. La protasi è in trodotta dall'espressione summa (equivalente allacongiun zione "se") e ha il verbo al presente o al passato: essacosti tuisce il "presagio", cioè il segno ominoso che deve essereinterpretato; l'apodosi ha il verbo di solito al futuro e costi tuisce!'"oracolo", ciò che viene indicato o svelato dall'in terpretazionedel segno. Vediamo alcuni esempi che, pur in relazione a differenti tecnichedivinatorie, presentano tutti la stessa struttura:4 Astrologia Se nel giornodella sua scomparsa, la Luna si attarda nel cielo (invece di scomparire d'untratto)- vi sarà siccità-e-arestia nel paese. Fisiognomonia Se un uomo ha ilpelo delle spalle ricciuto - le donne lo ame ranno. Oniromanzia Se un uomosogna che gli consegnano un sigillo - avrà un fi glio. Lecanomanzia Se, dalcentro dell'olio (gettato sull'acqua), si staccano due "ponti", unomaggiore dell'aJtro - la sposa dell'interessato met terà aJ mondo un figliomaschio; quanto aJ malato, guarirà. Estispicina Se il polmone è rosso-vivo adestra e a sinistra - vi sarà un in cend io. PASSAGGIO DALLA PROTASIALL'APODOSI 17 Libanomanzia Se, quando versi (la sostanza aromatica) sullabrace, il fumo si sprigiona (solamente) verso destra, e non verso sinistra -avrai la meglio sul tuo avversario. Se si sprigiona (solamente) verso sinistrae non verso destra - il tuo avversario avrà la meglio su di te. Questi esempipermettono già di fare due osservazioni a proposito del meccanismo semiotico inessi instaurato. In primo luogo la struttura del segno è espressa in termini dirapporti tra proposizioni e non tra singole unità lessicali o tra unsignificante e un significato in senso saussuriano. Questo fa sì che i segninon verbali e gli eventi acquisiscano subito un'importanza predominante, in quantotrovano ap punto nella proposizione il modo migliore di essere espressi. Insecondo luogo il rapporto che c'è, all'interno di cia scun segno, tra laprotasi e l'apodosi è di tipo implicativo, intendendo però questo termine comedesignante un'infe renza ancora abbastanza generica: come vedremo, all'interno della scuola stoica, invece, l'interesse si accentuerà pro prio sultentativo di definire il nesso implicativo che caratte rizza il segno e aquesto proposito si accenderanno diver genze che alimenteranno una lunga ecomplessa discus sione . 1.4 n passaggio dalla protasi all'apodosi Messi difronte ali'enorme massa delle proposizioni divi natorie documentate daitrattati mesopotamici può sembra re che regni la più completa casualità nelmovimento che re gola il passaggio delle protasi-presagio alle relative apodosi-oracolo. A ben guardare, però, è possibile rintracciare al cune lineegenerali che consentono di mettere un po' d'ordi ne in un coacervo altrimentiamorfo e di cogliere alcuni principi di regolazione. Sono rintracciabili inrealtà tre casi teorici di passaggio non casuale dalla prima alla secondaproposizione:Il primo tipo di passaggio è connesso al principio del cosiddetto empirismo divinatorio: protasi e apodosi regi strano eventi che sisono verificati effettivamente secon do una concomitanza temporale. Questogenere di mec canismo si trova nei cosiddetti "oracoli storici",caratte rizzati dal fatto di avere l'apodosi al passato, anziché al futuro;essi riproducono verisimilmente la forma del tipo originario di divinazione. 2.3. Il secondo tipo di passaggio non arbitrario è connesso alla possibilità diun gioco di associazioni tra elementi della protasi ed elementi dell'apodosi:naturalmente sono possibili i due casi, tanto del gioco fonetico sui significanti, quanto di quello tropico sui significati. Il terzo tipo di passaggio trale due proposizioni è con nesso alla presenza di codici che prevedono unaserie esauriente e completamente specificabile di casi. In realtà, nella fasepiù recente della storia della divina zione mesopotamica, i trattati subisconoun'evoluzione nel la direzione della sistematicità e dell'astrazione. Ilsistema astratto e, in un certo senso, totalmente deduttivo prende ilsopravvento anche sulla verisimiglianza stessa dei presagi. La furiaclassificatoria dei Mesopotamici guarda più ali'e saurimento di tutti i casiastrattamente possibili che non al la loro concreta possibilità di verifica.Avviene così che l'abbinamento di un'apodosi con una certa protasi dipendadallo schema astratto e, dunque, divenga prevedibile. 1.4. 1 Gli "oracolistorici" e l'empirismo divinato rio Sommersi, e quasi fossilizzati,nell'insieme delle decine di migliaia di oracoli che i trattati mesopotamici cihanno con servato, gli oracoli "storici" costituiscono un numero nongrande, ma significativo. Essi possono essere attribuiti, in base all'analisiinterna, all'epoca delle origini, anche se compaiono in trattati piùrecenti.PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 19 Essi presentano infattiquattro caratteristiche specifiche: l. hanno tutti la tipica apodosi alpassato; 2. gli argomenti di cui trattano fanno riferimento ad avvenimentistorici che, nel caso in cui possano essere confrontati con altre fonti,risultano degni di fede; 3. i fatti e i personaggi che in essi sono menzionatisono collocabili, nella maggior parte dei casi, nell'epoca di Accad (ca.2340-2160 a.C.); 4. fanno, quasi tutti, iniziare l'apodosi con la formula amat"(è il) presagio di", formula che è assolutamente inusuale negli altri oracoli. Vediamone alcuni esempi: Se (nel Fegato) la Porta del Palazzo èdoppia, se vi sono tre Ro gnoni e a destra della Vescichetta-biliare sonoscavate (pa/Iu) due perforazioni (pilsu) ben nette - (è il) presagio degliabitanti di Apgal, che Naram-Sin (ca. 2260-23) per mezzo di scavi (pii fu)fece prigionieri. Se, a destra del Fegato, si trovano due Diti - (è il)presagio del l 'Epoca-dei-Competitori. In entrambi questi casi l'apodosi fariferimento a fatti e personaggi storici reali deli'epoca di Accad. Si puòipotizza re che gli oracoli così formulati non siano stati molto di stanticronologicamente dali'epoca dei fatti storici di cui parlano le apodosi. Anzi,il punto fondamentale è proprio che tali oracoli avrebbero registrato dellecoincidenze "significative", a po steriori, tra un particolare statodi cose considerato ornino so e un evento della storia: tali coincidenzeavrebbero as sunto in seguito valore di paradigma. A persuaderei di questaipotesi, che risponde appunto al principio dell'empirismo divinatorio(Bouché-Leclercq 1879-82: vol. l, 298; Bottero 1974: tr. it. 161), c'è il fattoche spesso i Fegati di Mari contengono una formula che mostra come il giocodelle coincidenze si sia potuto stabi lire: Quando il mio paese si è rivoltatocontro lbbi-Sin (2027-2003), questo (=il Fegato) si trovava così disposto. LADIVINAZIONE MESOPOTAMlCA Il plastico di Mari riproduce la forma assunta dalfegato reale esaminato durante un rito di estispicina: esso registra lacoincidenza tra questa forma, assunta come ominosa, e un evento storico diimportanza determinante, cioè la rivol ta contro l'ultimo re del periodoneosumerico, lbbi-S'ìn. L'ipotesi dell"'empirismo divinatorio" sispinge anche ol tre, ipotizzando che alla base stessa della scoperta della divinazione si porrebbe la scoperta delle coincidenze tra la se rie di presagi equella degli oracoli; ipotesi che può essere avvalorata dal fatto che tutti gli"oracoli storici" possono essere cronologicamente situati nel periododelle origini del la divinazione mesopotamica. Nella istituzione stessa dellapratica divinatoria si sarebbe vicini, così, a una forma del principio del posthoc, ergo propter hoc, per cui qualsiasi evento che fuoriesce in qual chemaniera dal corso "normale" e che è seguìto da un altro evento,considerato a sua volta eccezionale, finirebbe per costituire con quest'ultimouna coppia inscindibile. Il colle gamento tra i due eventi, una voltastabilito, diventerebbe irresolubile; e il secondo evento, se non propriamentecau sato dal primo, risulterebbe almeno annunciato da quello. Ciò che di fattoviene qui elaborato è il metodo semiotico dell'inferenza delle cause daglieffetti, che è tipica dell'ab duzione. È vero che in questo caso si arriva aconclusioni che ci appaiono assurde, a causa di un errore fondamentalenell'applicazione del metodo: infatti quello che viene preso come risultato (oeffetto) (una certa ben definita disposizio ne del fegato) che si presumeessere il caso di una certa re gola (o causa) (rivoltarsi contro lbbi-Sin), inrealtà non è affatto tale. Ma questo ha poca importanza: formalmente siamo difronte a un'abduzione. Un tale principio è applicato costantemente. Non c'è nessun interesse della divinazione a rivolgersi al passato: se le apodosi deglioracoli storici lo fanno è appunto perché la fi losofia che sta dietro aquesto tipo di oracoli è che la storia può ripetersi. Nell'abduzione, infatti,una volta che sia sta ta inferita la regola che spiega un certo risultato, èpossibile tenere a disposizione tale regola per successive applicazionideduttive.PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 21 1.4.2 Oracoli con giocoassociativo tra protasi e apodosi La seconda possibilità di un legame noncasuale tra pro tasi e apodosi dipende dalla presenza di rapporti associativitra elementi contenuti nella prima ed elementi contenuti nella secondaproposizione. È operante qui in maniera evidente il modello della scrit turacuneiforme. Abbiamo infatti visto che essa tende a creare o suggerire una retedi relazioni tra cose non diretta mente in contatto. Sappiamo comel'interpretazione di un segno della scrittura cuneiforme apra la strada a unacatena di veri e propri interpretanti: la rappresentazione ideografi cadell'orecchio, a esempio, non solo significa "ascoltare", ma anche"obbedire", "apprendere'', "il sapere","l'intelli genza". Ugualmente possono entrare in corto circuito semantico due ideogrammi omografi o che differiscano per pochi tratti delsignificante. Cosi abbiamo due tipi di gioco associativo : l . quello suisignificati; 2. quello sui significanti. 1 .4.2. 1 Il gioco sui significati Ilrapporto che si instaura tra protasi e apodosi nel caso di un gioco associativosui significati è quello che si ha tra un "cifrato" tropico, e unasorta di "chiaro" al grado zero. Vediamo alcuni esempi: Se il 29 delmese di Aiiar (aprile-maggio) si verifica un'eclisse di sole - il re morirà,duramente punito da Sam mortalità gene rale. Se un parto-anormale è doppio,con due teste, l'una saldata al l'altra, e otto zampe, ma una solacolonna-vertebrale - il paese sarà precipitato nella confusione per effettodelle dispute inte stine . Se un cavallo cerca di accoppiarsi con un bue -riduzione del l'incremento del bestiame. Nel primo esempio )'"eclisse disole" può essere conside rata una metafora rispetto alla "morte delre"; del resto la metafora deli'eclisse come segno della morte di unsovrano si catacresizzerà ed entrerà in una lunga tradizione mantica anchegreco-romana. Nel secondo esempio compare pure una metafora complessa: infattila protasi parla del corpo di un unico animale (''una solacolonna-vertebrale"), che però ha organi doppi ("due teste","otto zampe"); viene al lora istituito un parallelo con l'organismostatale (''il pae se"), unico, ma dilaniato e reso doppio dalle"dispute inte stine". Il terzo esempio presenta un caso diaccoppiamento tra due animali di specie diverse, destinato dunque alla infecondità, il quale simbolizza una "riduzione dell'incremento delbestiame": la protasi ha la funzione (dal punto di vista della produzionesegnica) deli 'esempio (Eco 1 975 : 296; Eco 1984: 47), che vale per l'interaclasse. In generale, questi esempi mostrano come la logica che regola ilrapporto tra protasi e apodosi è dell'ordine del simbolico. Naturalmente moltospesso la relazione tra il ci frato tropico e il chiaro ci sfugge, perché illinguaggio figu rato è dipendente dal contesto culturale: è verosimile che inmolti casi operino associazioni che per la distanza spazio temporale tra leculture non possiamo più avvertire. 1 .4.2.2 Il gioco sui significanti Vediamoora alcuni esempi di oracoli in cui nella protasi ci sono elementi chedifferiscono per pochi tratti del signifi cante da elementi correlatinell'apodosi: Se piove (zunnu iznun) nel giorno (della festa) del dio dellacittà - quest'ultimo sarà adirato (zenl) contro di essa. Se la Vescichettabiliare è rientrante (na!Jsat) è inquietante (na!Jdat). - Se la Vescichettabiliare è presa dentro (kussti) il grasso - farà freddo (kU$$U). 1 .4PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 23 Se il Diaframma è aderente (emid) -aiuto (imid) divino. La somiglianza tra i significanti fa sì che un fatto,indica to da una parola con un certo suono, sia considerato segno di un altrofatto, indicato da una parola con suono affine. 1 .4.3 I codici sistematici Ilterzo tipo di abbinamento non casuale tra protasi e apodosi è quello legatoalla presenza di codici sistematici. Come dicevamo, è possibile registrarenella divinazione mesopotamica un'evoluzione diacronica per cui, dall'epocadelle origini al periodo più recente, il modo di porre il rap porto traprotasi e apodosi si modifica nel senso dell'astra zione. Il culmine di taleprocesso porterà alla creazione di codici che prevedono una casistica generaleed esaustiva: in questo caso verrà totalmente abbandonato il principio dell'empirismo divinatorio per far spazio a una logica in un certo modo deduttiva,che fa dipendere dalla configurazio ne generale del codice l'inferenza delsingolo caso. Infatti, a partire dal secondo quarto del II millennio, ladocumentazione storica non ci presenta più oracoli singoli, ma registra lapresenza di un centinaio di "trattati", cioè di raccolte sistematichee spesso molto dettagliate, di segni di vinatori.s La sistemazione intrattati, questo nuovo aspetto della di vinazione nel II millennio, ha cometratto saliente quello di risultare funzionale al raggruppamento di diversisegni ora colari in relazione a un unico oggetto, considerato ornino so.Quest'ultimo veniva scomposto nell'intera gamma delle sue parti o variazioni,ciascuna delle quali veniva a essere il tema di una singola protasi. Siregistra, in effetti, una mi nuziosa opera di pertinentizzazione del reale: seun oggetto risulta esteso e divisibile, per ognuno dei singoli aspettiidentificati, viene costruita una coppia presagio-oracolo. Ecco come, aesempio, in un trattato di estispicina, una sin gola porzione del fegato, lacosiddetta "Porta del Palazzo", viene esaminata:Se, sullaSoglia della Porta del Palazzo, a destra, si trova una fessura - . . . Se,sulla Soglia della Porta del Palazzo, a destra, una fessura è segnata per illungo - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, si trovauna fessura - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, unafessura è segnata per il lungo - Se, nel bel mezzo della Porta del Palazoz, sitrova una fessura - ... Come si può vedere, tutte queste protasirisultano co struite su un principio strutturale di opposizioni binarie traIla Soglia! e Iii bel mezzo! della Porta del Palazzo, tra jde stral ejsinistral, tra j fessuraj e l fessura segnata per il lungoj . È dunque proprioil sistema, inteso in un senso strutturali stico ante litteram, a prendere ilsopravvento . Non vengono registrati più solo i casi che sono statieffettivamente osser vati, ma tutti i casi virtualmente possibili, inrelazione a un sistema basato su opposizioni e regole astratte. Questo fattodiviene particolarmente evidente quando in contriamo in un trattato delleprotasi che prendono in con siderazione fino a sette Vescichette biliari peruno stesso fe gato: la logica del sistema (basata in questo caso sulla regola: n --+ n + l) prevale non solo sulla realtà, ma perfino sullaverisimiglianza. Una cosa analoa avviene quando, all'ini zio del trattato diteratomanzia Summa izbu, vengono pre viste, per un neonato perfettamenteumano, circa quaranta possibilità di aspetto mostruoso: tra esse, che ilneonato as somigli a un cavallo, a un leone, a un cane, a un maiale, a un bue,a un asino, oppure a una mano, a un piede e, addi rittura, a un corno di caprao a un mattone. Sotto la spinta della sistematizzazione, la divinazione cambiaradicalmente: tutto l'impegno non è più dedicato al la ricerca di eventiominosi, ma alla costruzione degli s-co dici (Eco 1975; 1984: 266) dellesequenze di protasi; a parti1.5 ESPLICITAZIONE DELLE REGOLE DI CODIFICA25 re da queste sequenze verrà costruito il codice vero e pro prio di abbinamentocon le serie di apodosi. In questo sen so, anche se non formulate, varrannoregole generali del ti po: "ogni volta che trovi il numero x nellaprotasi, assegna la caratteristica y all'apodosi"; cosi, a esempio, sel'indovi no incontra in un evento-protasi il numero sette, che il siste maabbina costantemente, poniamo, alle caratteristiche del la"perfezione" e della "totalità", può dare come oracolo"vi sarà Pimpero". Sono del resto molte le regole di codifica nonespresse, ma costanti, come a esempio quella per cui tutto ciò che è a destra èconnesso con un auspicio favorevole, mentre tutto ciò che è a sinistra, esprimeun augurio contrario. Oppure quella per cui è possibile "cambiare disegno", come in alge bra, alla predizione in base al contesto: a esempio,un pre sagio di per sé sfavorevole, se messo in rapporto con la sini stra,diventa favorevole, o viceversa. In questo senso l'apodosi diviene deducibiledalla prata si, in quanto basta osservare le caratteristiche sistematiche che inessa sono contenute per inferirla: è il trattato che for nisce in realtà laregola (anche senza esplicitarla): di fronte a un nuovo caso sarà facile perl'indovino trovare il risulta to applicando la regola. 1.5 L'esplicitazionedelle regole di codifica Se nei trattati del II millennio si assiste alsuperamento della fase empirica a favore di una ristrutturazione della divinazione su base sistematica e deduttiva, tuttavia, le regole della deduzione,per quanto largamente operanti, rimango no implicite. Nei trattati del Imillennio si assiste a un'ulteriore evolu zione della divinazione, che portaali'esplicitazione delle re gole stesse della codifica. Ciò è testimoniato dalgrande trattato di aruspicina del I millennio, che aveva un capitolo in cuierano formulati i va lori essenziali di certe caratteristiche espresse dalleprotasi. Il testo era disposto non più su due, ma su tre colonne. La 26l. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMICA prima riguardava il presagio, o meglio lacaratteristica che appariva ominosa nell'oggetto preso come segno. Di solito sitrattava di una qualità, espressa o da un aggettivo ("gros so") o daun sostantivo astratto ("lunghezza") oppure, an cora, da un verboall'infinito ("essere piegato verso il bas so"). Nella secondacolonna veniva registrato il valore fon damentale dell'oracolo, come a esempio"gloria", "poten za", "vittoria". La terzacolonna, infine, proponeva una esemplificazione con un oracolo completo, taleche nella protasi comparisse la qualità registrata dalla prima colonna eneli'apodosi il valore risultante nella seconda colonna. Ec cone un esempio:Lunghezza Riuscita Se la Stazione è abbastanza lun ga da arrivare fino allaStrada il principe riuscirà nella campa gna che avrà intrapreso. È evidentequi l'ulteriore progresso compiuto nella dire zione dell'astrazione: abbiamoinfatti la vera e propria pre sentazione della chiave del deciframento deisegni. Le leggi deli'esegesi sono messe in chiaro. Presentare il trattato sulletre colonne equivale proprio a mettere in luce le leggi di cifratura. Ciò chevi è di arbitrario nell'abbina mento tra protasi e apodosi viene dichiaratofornendo i due termini della corrispondenza. Questo processo di astrazione nonsi arresterà qui, ma procederà fino alla completa riduzione dei valori alladico tomia fondamentale: favorevole/sfavorevole. All'estrema complessità eparticolarizzazione degli oraco li più antichi si contrapporrà l'estremasemplificazione di una logica binaria che prevede solo il sì o il no. 2.LA DIVINAZIONE GRECA 2.0 Divinazione e conoscenza Il campo delle pratichedivinatorie costituisce il primo ambito sufficientemente omogeneo in cui nellaGrecia anti ca si parla di segni. Il termine semefon, che si incontra qui perla prima volta, è un nome di genere, che indica un segno divinatorio di tipoqualsiasi e comprende anche il responso oracolare, costituito in realtà da untesto verbale.1 Accanto a esso, come sue specificazioni relative ad ambitiparticolari della divinazione (o, potremmo dire, a particola ri manifestazionidi sostanza dell'espressione), si trovano vari altri termini; tra essi oion6sche indica etimologicamen te il segno dato dal volo degli uccelli; phasma, chesi riferi sce inizialmente ai presagi che si possono trarre dai fenome niatmosferici, ma che si estende in seguito alle visioni in ge nere; téras, checostituisce l'equivalente deli 'espressione la tina prodigium e sta a indicarequalsiasi fenomeno o avve nimento insolito, e in qualche maniera mostruoso,che pos sa essere preso come base per una interpretazione divinato ria (Bioch1963: tr. it. 19; Benveniste 1969: tr. it. 477). In tutti questi casi, qualcosasta per qualcos'altro, o meglio è assunto come base per un procedimento diinferenza. Nonostante che in Grecia la divinazione come pratica ef fettivaabbia avuto un'importanza abbastanza marginale,2 tuttavia il segno divinatorioha dato origine a una tradizio ne, letteraria e filosofica, che lo insedia nelpunto di origine mitico del processo di conoscenza. 28 2. LA DIVINAZIONEGRECA Innanzitutto, infatti, l'indovino (mtintis), colui che è ca pace diinterpretare il segno proveniente dagli dei, è preci puamente un sapiente, eil tipo di sapienza di cui il mantis è portatore non si identifica conun'accezione limitativa del termine, come la conoscenza di una tecnica. Alcontrario, la sua è piuttosto una sapienza di ordine generale e sicura mentesuperiore a qualsiasi tipo di conoscenza umana, co me suggerisce anchel'etimologia del termine mantis, che è collegato alla radice •men, con cuiviene indicato un movi mento di accrescimento e di potenziamento dell'animo(Crahay 1974: tr. it. 220). In Omero, per la prima volta, incontriamol'espressione che identifica la divinazione con la conoscenza "delle coseche sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in passato":Calcante, figlio di Testore, di gran lunga il migliore tra gli scru tatori diuccelli l che conosceva ciò che è e ciò che sarà e ciò che è stato prima (hòsid ta t 'e6nta ta t 'ess6mena pr6 t 'e6nta), l e aveva guidato verso Ilio lenavi degli Achei l con la sua arte di vinatoria, che Febo Apollo gli avevaconcesso. (Il., I, 69-72)3 Il passo omerico mette in risalto il caratteregenerale e to tale della conoscenza rappresentata dalla divinazione; è unaconoscenza che trova un paragone solo con quella, molto più tarda, di ordinefilosofico: l'espressione tà eonta ("le cose che sono"), che nelpasso indica l'oggetto di conoscen za dell'indovino Calcante, rimarrà immutatonella tradizio ne filosofica, in Eraclito, Empedocle, Platone, Aristotele,come termine tecnico per indicare appunto gli oggetti della conoscenzafilosofica in generale. In secondo luogo, il segno, che è lo strumentoattraverso cui si attiva tale conoscenza, non proviene dalla sfera dell'umano, ma da quella più alta e numinosa del divino; esso è lo strumento dimediazione tra la conoscenza totale che ha il dio e quella limitata dell'uomo.Il segno è altresì, nella prospettiva aperta da Colli (1977: 379; 1975: 40), illuogo dell'irruzione della sapienza divina nella sfera dell'umano.Ma ildio parla un linguaggio che non è quello dell'uomo. La parola del responsooracolare, a esempio, è umana solo come suono, ma non produce alcun significatose le viene applicato il codice del linguaggio verbale degli uomini. C'è dunqueuna difformità nell'espressione dei contenuti della conoscenza che separal'uomo dal dio; ma c'è anche una più radicale differenza nelle modalità stessedella conoscen za. Il dio padroneggia il tempo attraverso la "vista"simul tanea e del passato, e del presente, e del futuro: la sua anni scienzaderiva appunto dal fatto di possedere una visione panoptica. Infatti Apollo,secondo l'espressione usata da Pindaro (Pyth., III, 29), possiede"l'occhiata che conosce ogni cosa". L'uomo, al contrario, può vederesolo il suo presente, mentre gli sono irrimediabilmente sottratte le altredimen sioni del tempo. Solo il dio può permettergliene l'accesso; ma lavisione deve essere tradotta in parole, in quanto l'uo mo accede allaconoscenza solo attraverso l'udito. Per il poeta, a esempio, la memoria delpassato è garantita dal racconto che traduce la visione panoptica delle Muse(Horn., Il., Il, 484-486). Allo stesso titolo l'indovino è colui che rivelaall'uomo il futuro traducendo in parole la "visio ne" che il dio glicomunica; ma proprio in questa traduzio ne il messaggio perde di perspicuità(Lanza 1979: 99-l00; Detienne 1967: tr. it. 1). Per questi motivi il segnodivinatorio è enigmatico, oscu ro e per lo più incomprensibile. Per decifrarloc'è bisogno di un interprete, qualcuno che sia diverso dal soggetto nel qualesi è compiuto il processo di comunicazione e di tra sformazione dellaconoscenza. Platone individua due distinte figure, rispettivamente "l'uomomantico" (colui che riceve la visione) e il "profeta" (colui cheinterpreta le parole pronunciate dal primo duran te l'estasi). Il celebrepasso del Timeo, che propone tale di stinzione, in sé costituisce un piccolotrattato teorico della divinazione quale se la rappresentavano i Greci, epresenta con grande perspicuità la tradizione del segno divinatorio come segnonon direttamente decodificabile:Vi è un segno sufficiente che il dio hadato la divinazione alla dissennatezza umana: difatti nessuno che sia padronedei suoi pensieri raggiunge una divinazione ispirata dal dio e veridica.Occorre piuttosto che la forza della sua intelligenza sia impedi ta dal sonnoo dalla malattia, oppure che egli l'abbia deviata es sendo posseduto da undio. Ma appartiene all'uomo assennato il ricordare le cose dette (tà rhthénta)nel sogno o nella veglia dalla natura divinatrice ed entusiastica, ilriflettere su di esse, il discernere con il ragionamento tutte le visioni (tàphasmata) al lora contemplate, il vedere onde quelle cose ricevano un significato e a chi indichino (smalnel) un male o un bene futuro o passato o presente.A chi invece è esaltato e persiste in questo stato non spetta giudicare leapparizioni e le parole da lui dette. Questa è una buona e vecchia massima: soltantoa chi è assen nato conviene fare e conoscere ciò che lo riguarda, e conoscerese stesso. Di qui deriva la legge di erigere il genere dei profeti a interpretedelle divinazioni ispirate dal dio. Questi profeti, alcu ni li chiamanodivinatori, ignorando del tutto che essi sono in terpreti delle parolepronunziate mediante enigmi e di quelle immagini, ma per nulla divinatori. Lacosa più giusta è di chia marli profeti, cioè interpreti di ciò che è statodivinato. (Plat., Tim., 7le-72a) Al centro concettuale del passo si pone ilverbo smafno, che indica appunto la rivelazione del dio; quest'ultimo sipresenta come il vero enunciatore, attraverso l'uomo ispira to, del testodivinatorio. Il soggetto grammaticale di smal no è costituito dai due terminiche indicano le due forme di segno divinatorio, cioè "le cose dette"e "le visioni contem plate", ma il responsabile della produzione diquesti segni è "la natura divinatrice ed entusiastica", cioè il diostesso che fa irruzione nell'uomo tramite l'invasamento (come indica anchel'etimologia del secondo termine, collegata a theos). L'uomo non è che uncanale di trasmissione o un portavo ce. E perché il significato arrivi fino aldestinatario c'è biso gno di un complesso procedimento di interpretazione.Cosi se prendiamo il verbo semalno come un predicato associato a un certonumero di ruoli (o casi logici) e lo mettiamo in relazione a un processo dicomunicazione e a uno di inter pretazione, possiamo leggere il passo platonicosecondo il seguente schema (molto semplificato in alcune sue parti): 30soggeno •te cose dette'" "le visioni contemplate'" il dio l'uomoinvasato significato - destinatario "'un male o un bene futuro o passato opresente'" trice ed entusia- stica· 2.0 DIVINAZIONE E CONOSCENZA 3 1--- - - -, '"la natura divina- l l'uomo processo diinterpretazione del segno, effe"uato da personaggi con un saperespecializzato, a favore del destinatario "'i profeti'" Ilverbo smafno, dunque, non ha il banale senso di "si gnificare", nelsenso deli'instaurazione di un rapporto tra un piano dell'espressione e unpiano del contenuto all'inter no di un segno. Esso sembra piuttosto riferirsial processo di comunicazione stesso che il dio attiva nei confronti dell'uomo: in altre parole, nel passo platonico, il verbo sembra riferirsi allasituazione per cui il dio "indica attraverso segni (enigmatici)"all'uomo qualcosa, che a quest'ultimo è sco nosciuto . A confermare l'uso delverbo smafno con questo senso nei contesti divinatori si trova una lungatradizione che risa le almeno a Eraclito, al noto frammento 93 dell'edizioneDiels-Kranz (tr. it. 1974). È stato Romeo (1976) che, in una lucida e complessaanalisi del frammento, ha messo in evi denza questo significato del verbosmafno, arrivando alla traduzione: (sorgente) (strumento) smafnei (oggetto)(scopo) enunciatore- segno -- canale -l! 2. I.A DIVINAZIONE GRECA Il ··•Hno• cdu: ha l'oracolo in Delfi, né dischiude, né nasconde il,•.un pnJ.•,ac•o, rna loindicaattraversosegni(smalner)4 rourro una lunga tradizione che rendeva laforma verbale sl'nuJinei con "significa" o con altre espressioni cheavevano l'cffcllo di rendere contraddittorio o incomprensibile l'inte roframmento. Si viene qui a profilare un'opposizione tra due tipi di linguaggio, che hanno caratteristiche antitetiche. Da una parte c'è il linguaggioumano, caratterizzato dalla trasparenza e dall'immediata decifrabilità (epossiamo fare l'ipotesi che proprio questo tipo di linguaggio sia circoscrittoda entram bi i termini della coppia oppositiva "dischiudo[/égO]"/"na scondo [krfptO]": l'uomo o svela completamente ilsuo pen siero, usando il linguaggio, oppure lo nasconde del tutto, nonesternandolo in parole). Dall'altra parte c'è un diverso tipo di linguaggio,quello attribuito direttamente al dio nel frammento di Eraclito (eindirettamente nel passo platoni co), che è indicato dal verbo semafno e cheha le caratteristi che opposte dell'oscurità e della non immediata decodificabilità. Il dio non concede all'uomo una rivelazione comple ta, né gli negatotalmente la conoscenza: gli fornisce piutto sto, attraverso il segnooracolare, una base di inferenza sul la quale l'uomo dovrà lavorare pergiungere a una conclu sione, senza però dargli alcuna garanzia sulla via daseguire con il ragionamento. Ci sono due spiegazioni al fatto che la culturaletteraria e filosofica greca si sia rappresentata il segno divinatorio co meoscuro e ambiguo. La prima è quella che abbiamo visto inquadrarsi nell'otti cadi Colli, secondo cui il segno divinatorio può essere con siderato come"l'impronta del divino" nell'uomo, indizio di un punto di contatto(quello attraverso cui la conoscenza divina si comunica all'uomo), econtemporaneamente di un punto di fuga.s La seconda spiegazione è quella messain luce da Vernant (1974: tr. it. 20-21), ed è inerente al tipo di razionalitàspeci fica messa in gioco dalla divinazione, come pratica effetti va, oltreche come teoria. Essa si connette al diverso ruolo 2.0 DIVINAZIONE ECONOSCENZA 33 che gioca il destino rispettivamente nella sfera divina e inquella umana. Infatti, a livello dell'esistenza umana, il de stino èconcepibile come una successione lineare di avveni menti (rappresentatometaforicamente dal filo delle Par che), i quali si connettono tra loroapparentemente senza che possa essere attribuito loro un senso globale. Questasuccessione acquisisce un significato solo quando è arrivata al suo termine,quando cioè il destino "si compie". È solo a questo punto che essodiventa intelligibile e permette di spiegare, alla luce degli ulteriorisviluppi, anche gli avveni menti passati ai quali non si era saputo dare unsenso. Fino a quel momento, tuttavia, l'uomo rimane in una fondamen taleignoranza: anzi, è proprio questa ignoranza a caratte rizzare l'esistenzaumana. A livello degli dei, al contrario, il destino di ciascun uo mo èpresente e intelligibile in ogni momento nella sua tota lità. Esso infatti èstabilito in maniera irrevocabile e iscritto nell'eternità già prima dellanascita di ogni uomo. La divi nazione trova il suo spazio proprio in questoscarto di cono scenza che si apre tra gli uomini e gli dei: l'oracolo (e inulti ma analisi anche ogni altro tipo di segno divinatorio) si sup pone cheriveli all'uomo, quando è ancora in vita, proprio il significato segreto delsuo destino, mentre questo sarebbe accessibile, dal punto di vista umano, solodopo la morte. Tuttavia, se la divinazione compisse la sua funzione pro feticasino in fondo, se cioè abolisse totalmente lo scarto di conoscenza che esistetra l'uomo e la divinità, risulterebbe con ciò cancellata anche la differenzache distingue l'uomo dal dio. Per questa ragione il dio non svela il destinopiù di quanto lo nasconda in effetti, secondo la formulazione di Eraclito.L'oracolo lo lascia intravedere, ma nello stesso tempo lo dissimula; lo dà aindovinare attraverso un segno oscuro ed enigmatico che per i consultanti non èpiù intelli gibile di quanto lo siano gli avvenimenti per i quali si sonorivolti all'oracolo. Così, la logica della divinazione fa in modo che conl'ambiguità del segno venga reintrodotta, a livello umano, quella"opacità" circa il destino che l'anni scienza divinatoria avrebbe ilcompito di attenuare, se non di eliminare del tutto. 14 2. LA DIVINAZIONEGRECA 2. 1 llue tipi di divinazione 2 . 1 . 1 La divinazione naturale Il passoplatonico del Timeo, come pure il frammento di Eraclito, fanno riferimento a untipo di divinazione che vie ne di solito definita "ispirata": essarientra all'interno della categoria generale della mantik atechnos, delladivinazione cioè che non richiede un apparato di mezzi tecnici per la sua messain opera e per questo, talvolta, riceve anche il nome di "divinazionenaturale" (Cic., De divinatione). Il carattere specifico di questo tipo didivinazione è quel lo per cui il sapere del dio non passa attraverso mezzi dima nifestazione esterni all'uomo: l'ispirazione divina raggiunge direttamentel'individuo attraverso i sogni (cioè un testo iconico) o si comunica a un profeta-portavoceche emette un responso (normalmente un testo verbale). Per usare l'espressione di Romeo (1976: 84), si tratta di un tipo di divi nazione"endosemiotica". Secondo questo modello funzionava il più noto epresti gioso oracolo della Grecia antica, quello di Delfi6 in cui la Pizia, lasacerdotessa di Apollo, emetteva un responso co stituito da un testo verbale.Ma, come abbiamo visto, per quanto esso fosse formulato nei termini dellinguaggio na turale, il suo senso non era decodificabile mediante la semplice applicazione delle regole del codice linguistico a livello denotativo.Più avanti vedremo alcuni esempi di decodifica aberrante di responsi, fraintesiproprio per la pedissequa applicazione di questo codice senza far ricorso aregole più complesse (come quelle di tipo retorico-tropico). 2. 1 .2 Ladivinazione artificiale Il secondo tipo di divinazione è la mantik technik,defi nita, a seconda dei commentatori, come "congetturale","induttiva", "deduttiva" o "artificiale". Erabasata suli'a nalisi dei segni (visibili, acustici, sensibili) che sirealizzava-no nell'ambiente esterno all'uomo e che potevano essere spontanei(come i fulmini o le eclissi) oppure provocati (co me il lancio dei dadi ol'estispicina).7 Questo secondo tipo di divinazione mette in gioco una lo gicaparticolare, basata sull'ipotesi che esistano rapporti di omologia e dicorrispondenza tra il microcosmo, rappresen tato dal fenomeno preso comesegno, e il macrocosmo, rap presentato dall'ordine generale dell'universo (J.Vernant 1948; J.-P. Vernant 1974). A questo proposito vengono isolate delleporzioni di spa zio - che possono essere, a esempio, le regioni del cielo perl'astrologia, come pure la superficie del fegato della vittima sacrificale perl'estispicina - che vengono caricate di valore simbolico e deputate afunzionare da specchio dell'ordine cosmico generale. Negli spazi cosìdelimitati è possibile leg gere la configurazione futura degli eventi,sottratta a quella aleatorietà, a cui gli eventi reali sono invece sottoposti,e per sopprimere appunto la quale il consultante si rivolge al la divinazione.Si creano così due serie, quella delle configurazioni strut turali interne altesto segnico e quella degli eventi a cui tali configurazioni rimandano; tra ledue si stabilisce un vero e proprio codice di corrispondenza, che permette dipassare immediatamente dal segno al suo significato. Ne vediamo un esempio moltosemplice nel seguente passo di Omero: Dico che un cenno ci dette il Cronidesuperbo l il giorno che sulle navi veloci in cammino salivano gli Argivi l aportare stra ge e morte ai Troiani l tuonando da destra, mostrando segni dibuon augurio. (//., Il, 351-354) In questo caso la volta celeste vienecostituita come spa zio significativo, come microcosmo in cui sia possibileleg gere i segni del destino. Questo spazio viene articolato in una strutturabinaria che oppone due regioni, la destra e la sinistra: a ciascuna di esseviene abbinato un valore seman tico (ldestral--+"buon auspicio",!sinistra!-+"cattivo auspi cio"). Una più articolata configurazionedel significato deLA DIVINAZIONE GRECA riva dalla circostanza di enunciazione,cioè dalla sua rela zione con la domanda esplicita (o implicita, come inquesto caso) che l'interrogante pone alla divinità·. Nel passo omeri co lacircostanza di enunciazione è la partenza della spedi zione per Troia, e ladomanda implicita concerne la riuscita dell'impresa: dunque il tuono cheproviene dalla regione de stra del cielo viene a significare "buona riuscitadell'impresa dei Greci contro Troia". Infatti, per quel che riguardal'individuazione del signifi cato ultimo del segno, tutti i sistemi divinatorisi basano su un equilibrio più o meno stabile tra le strutture formali delcodice che permettono di cifrare in maniera completa l'av venimento prodigiosoe insolito, e la molteplicità delle si tuazioni concrete a cui taleavvenimento-segno può riman dare nei contesti specifici. Nell'esempio omericoil codice è così semplice da essere diventato patrimonio comune, tanto che nonsi fa cenno della presenza di un indovino, per decifrare il segno. Di so litonon è così per la divinazione artificiale, il cui carattere "tecnico"risiedeva proprio nel fatto che per l'interpretazio ne dei segni eranecessario fare ricorso alla conoscenza spe cializzata di personaggidepositari di un sapere che verte sulle regole di decodifica. L'indovino èinfatti essenziale nel caso, appena più com plesso, riportato da Plutarconella Vita di Dione (24). L'a neddoto riguarda la spedizione effettuata nel357 a.C. da Diane contro Dionigi di Siracusa, durante la quale si verifi còun'eclisse di luna. L'indovino Miltas, chiamato a inter pretare quel segno,dichiarò che esso annunciava che qual cosa che era stato splendente fino adallora, si sarebbe oscu rato: non poteva, dunque, che trattarsi del regnotirannico di Dionigi, il quale era destinato a soccombere sotto l'attac coportatogli da Dione. Anche qui ci sono le due fasi: la prima determina il significato degli abbinamenti del codice e la seconda quello deri vante dalla suaapplicazione alla situazione concreta. Inol tre l'indovino Miltas si avvale diuna tecnica più sofisticata, che fa ricorso anche alle trasformazioniretoriche: la rela zione tra il macrocosmo della luna che viene oscuratadal- 2. 1 DUE TIPI DI DIVINAZIONE 37 l'eclisse e il microcosmo del regnodi Dionigi destinato a soccombere è mediata dall'elemento comune !splendore!con cui si designa in modo proprio una qualità della luna e in modo figurato unaproprietà del regno di Dionigi. Esistevano poi codici notevolmente elaboratigià al sem plice livello degli abbinamenti, come a esempio il codicedell'estispicina. In questa pratica venivano esaminate le vi scere deglianimali, in particolare il fegato, del quale si os servavano l'aspetto e laposizione del lobo, della vescichetta e delle porte.8 Per quello che riguardala cultura greca non abbiamo esempi del modo in cui venivano effettivamenterealizzati gli abbinamenti tra gli elementi significanti e quel li a cui essirinviavano. Tuttavia Luc Brisson (1974), in uno studio molto interessante ecompleto sulla divinazione in Platone, ha segnalato un passo del Timeo (71 a-d)in cui, nonostante non si parli direttamente di estispicina, si descri ve unfenomeno che con essa ha molti punti di contatto. Il passo illustra i processiche si determinan9 quando l'anima razionale, che ha sede nel cervello, lasciala sua impronta, "come in uno specchio", sul fegato che è la sededell'anima appetitiva: questo permette di vedere riprodotte nel fegato (neisuoi aspetti via via diversificantisi) le impressioni la sciate dali'animarazionale. La specularità è, però, solo metaforica perché si verifica no inrealtà dei processi di codificazione molto forte, che fanno pensare aimeccanismi della "comunicazione biochi mica" . In definitiva ilfegato viene a costituire un testo segnico sul quale I 'anima appetitiva leggei contenuti intelligibili, di venuti sensibili attraverso un processo dicodifica. Esso co stituisce altresì un microcosmo che rispecchia, anche se inmodo molto particolare, l'assetto del macrocosmo costitui to dali'animarazionale. Si può presumere che i codici dell'estispicina funzionasse ro in unmodo analogo a quello descritto per i processi di comunicazione"intrapsichica" illustrati dal Timeo. Tuttavia, proprio da Platonescaturisce una delle più reci se condanne che la Grecia classica abbiaespresso nei con fronti della divinazione artificiale. Tale condanna sitrova 38 2. LA DIVINAZIONE GRECA formulata nei due testi del Timeo (72 b)e del Fedro (244 c-d). Nel primo di questi, in particolare, è contenuta unacondanna dell'epatoscopia: infatti Platone, che accetta la possibilità dileggere sul fegato molti segni quando questo è contenuto in un organismovivente, sostiene che esso non può rivelare niente di sicuro agli uomini,quando è privato della vita e non è più sottoposto all'influsso luminoso dell'anima razionale. Più generale e radicale è la condanna della divinazionetecnica nel Fedro. In quel testo Platone fa l'elogio della fol lia, di cuiconsidera la divinazione una specie, e separa la mantica ispirata edentusiastica da tutte le altre forme di in vestigazione del futuro. Inparticolare la "mantica", nel senso ristretto, viene contrappostaalla "oionistica", cioè la divinazione mediante l'osservazione deisegni dati dal volo degli uccelli. La ragione della discriminazione è chiara:nella divina zione tecnica la ragione umana pretende di sostituirsi ali'ispirazione divina. Per indicare che in questo modo non si raggiunge che ungrado molto pallido e incerto di conoscen za, Platone inventa addirittura unaconnessione etimologi ca tra "oionistica" e olsis (''opinione")("L'investigazione del futuro [. . .] attraverso gli uccelli [. . .] fuchiamata 'oio noistica', che i moderni, rendendola solenne con un omega,dicono oionistica": Phaedr., 244 c). Nella divinazione ispi rata, invece,la conoscenza deriva all'uomo da una posses sione divina e questo è garan.ziadi verità. Sembra profilarsi un'opposizione tra smafnein e tekmal resthai, ilprimo verbo indicando, come nel Timeo e in Era clito, il dono della conoscenzaelargita dal dio, mentre il se condo indica la congettura puramente umana.Questa op posizione richiama il motto di Alcmeone: Delle cose invisibili edelle cose visibili gli dei hanno conoscenza certa; ma agli uomini toccaprocedere per indizi (tekmafre sthal) . (Diels-Kranz, 24 b l) su cui avremooccasione di tornare. 2.2 DUE MODELLI DI DIVINAZIONE ORACOLARE 39 Ipassi platonici non esemplificano soltanto l'opinione del filosofo ateniese, masi pongono altresì in linea con la scelta di fondo compiuta da tutta la civiltàgreca nei con fronti della divinazione ispirata. Infatti, per quanto in Grecia venissero praticate anche forme di divinazione tecnica, a esse è statasempre riservata un'importanza secondaria, mentre l'attenzione si è concentratasoprattutto sulle forme della divinazione oracolare, che si esprimevanoattraverso la parola. D'altra parte questo fenomeno deve essere messo in relazione con il fatto che la civiltà greca è essenzialmente di tipo orale; in essala scrittura è non soltanto un fenomeno recen te, ma del tutto dipendente dalparlato, che essa tende a ri produrre foneticamente. In altre civiltà, comequella meso potamica o quella cinese, la scrittura è molto più antica efunziona come un sistema autonomo rispetto alla lingua, presentando a suo modo,attraverso i segni grafici, quelle realtà che la lingua presenta in altramaniera: in queste ci viltà la scelta compiuta nei confronti del tipo didivinazione è opposta a quella greca. 2.2 Due modelli della divinazioneoracolare Esistono tuttavia profonde differenze tra l'immagine che delladivinazione oracolare propongono i testi letterari e il modo in cui essa venivapraticata effettivamente nei santua ri a essa adibiti. J.-P. Vernant (1974)parla di due distinti modelli. Nella Grecia dell'età classica, infatti, ladivinazione come pratica effettiva ha una rilevanza marginale nel regime della polis.Infatti l'oracolo viene consultato non per ottenere una predizione sul destino,ma per prospettargli, in forma di alternativa, un certo corso di eventi che siha intenzione di intraprendere e per domandargli se la via sia libera o preclusa.9 Si instaura a questo proposito un vero e proprio dialogo tra ilconsultante e l'oracolo (Crahay 1974): quest'ultimo ri sponde innanzituttoalla domanda che è stata posta in for-LA DIVlNAZIONE GRECA ma chiusa,predicendo al consultante se farà o non farà una determinata cosa. Ilconsultante pone poi all'oracolo una seconda domanda, in forma aperta, malimitata a una con dizione rituale di successo: in sostanza, esso domanda all'oracolo quali ostacoli debbono essere rimossi perché l'im presa prospettatagiunga a buon fine. È interessante a que sto punto vedere come la formulausata di solito dall'oraco lo nell'emanare il consiglio di carattere ritualerispecchi quella che veniva usata per redigere le decisioni dell'assem bleasancite dal popolo. L'oracolo dice infatti loion kai ameinon éstai (''sarà piùconveniente e preferibile"), pro prio come nei decreti deli'assemblea siusano formule che pongono l'accento sulla "preferenza" tra leopinioni, piut tosto che sull'intimatività della decisione. Ciò è indice delfatto che nella civiltà greca è il modello della discussione as sembleare chesi proietta sulla divinazione, e non viceversa come avveniva nella civiltàmesopotamica. Ed è interessante che in questo modello di divinazione non sitrovi alcuna traccia di risposta ambigua o oscura. Ambiguità e oscurità sitrovano solo nel secondo model lo, quello "teorico,, della divinazioneoracolare, presente in tutta la letteratura scritta, da Erodoto ai poetitragici, ai fi losofi. Esso costituisce la rappresentazione che la culturadella città si dà della divinazione. Secondo·questo modello, l'oracolo vieneconsultato non per ottenere un consiglio, ma direttamente sul destino. Ciòdetermina la supposizione che l'oracolo sia onnisciente, in quanto deveconoscere sia lo sviluppo futuro degli eventi, sia, nel contempo, il passa to,in cui si situano le remote origini delle sorti attuali e fu turedeli'indi\iduo o del gruppo consultante. La logica a cui questo modellorisponde non è più bina ria: l'oracolo deve qui impegnarsi a ridurre a unasola, spe cifica, opzione l'infinità dei possibili. Il responso oscuro eambiguo reintroduce, del resto, l'in certezza che caratterizza la condizioneumana che l'oracolo tende ad annullare. Così, nei racconti oracolari dei testilet terari, la profezia sembra sempre inadeguata rispetto al cor so presodagli eventi. Il segno rimane oscuro fintantoché il "compiersi" dellasorte si incarica di fare chiarezza e di de- 2.3 L'INTERPRETAZIONE NEIRACCONTI ORACOLARI 41 sambiguare, ormai troppo tardi, la polisemia del testopro fetico. 2.3 Il problema interpretativo nei racconti oraco lariNaturalmente, per capire come la nozione di smefon si sia sedimentata nellacultura greca, per vedere quale sia il nucleo semantico con cui il termineindicante il segno è sta to consegnato alla tradizione filosofica, ilriferimento ali'u so di smefon nei testi letterari è altrettanto importantequanto il suo significato nelle pratiche divinatorie effettive. Soprattutto neitesti di Erodoto e dei tragediografi è pos sibile vedere come costantementevenga tematizzato il pro blema interpretativo che il segno oracolare pone:l'oscurità del segno è in principio legata alla difficoltà, che divieneimmancabilmente impossibilità, di risolvere tale problema. Si deve però direche in primo luogo l'uomo è accecato dal la hjbris, e palesa la sua scarsaricettività alla parola della profezia in vari modi: la dimentica, non ne seguele diretti ve, sbaglia la modalità di consultazione; alla fine, però, il suoerrore fondamentale è quello di scegliere sempre il ter mine erratodell'alternativa posta dal segno ambiguo. Se la sua colpa è, dunque, un peccatodi tracotanza, il suo errore è un errore di conoscenza, e ha un carattere squisitamente semiotico. Ancora una volta compare l'opposizione "linguaggioumano"/"linguaggio divino": l'uomo infatti interpreta sempre laprofezia secondo il proprio codice, non tentando mai di intendere la paroladella rivelazione come cifrata in un altro linguaggio, quello appunto delladivinità. In termini semiotici, in tutti i racconti sul tema della divinazione oracolare, l'uomo interpreta invariabilmente il te sto in modoletterale, mentre questo dovrebbe ricevere una lettura secondo quello chepotremmo definire modo enig matico.10 Infatti, l'idea fondamentale che iracconti oracolari sug geriscono è che esista sempre nella profezia un sensosecon- 42 2. LA DIVINAZIONE GRECA do, che è nascosto e che costituisce ilvero e unico significa to del segno: è la scoperta di questo secondo senso,scartan do il primo, che qui chiamiamo interpretazione secondo il modoenigmatico. Invece l'uomo coinvolto nell'interpreta zione, data la suaincapacità di attingere la sapienza divina, compie proprio il gesto contrario,scartando la possibilità di un senso non letterale. Vi sono tuttavia diverseforme dell'errore di interpreta zione. (i) La prima consiste nella incapacitàdi assegnare un senso al testo, o meglio, di adeguarlo a circostanze reali note: non si trovano oggetti a cui le parole della profezia pos sano essereriferite e il testo appare totalmente assurdo. (ii) La seconda forma di erroreconsiste nel riferire la profezia a oggetti reali, ma erroneamenteidentificati; ve ne sono due sottospecie, a seconda che l'errore sia dovuto auna omoni mia o a un equivoco (e quest'ultimo è ulteriormente suddivisibile). Tutto ciò può essere illustrato mediante il seguente schema:Interpretazione secondo il modoenigmatico ~l et t e r a l e n o n se n so sen~ so errato per omonlmiaper equivoco errate scambio assunzioni di prospettiva di credenza 2.3L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLAR.I 43 Vediamo ora alcuni raccontioracolari in cui sono esem plificate queste modalità di errore. L'incapacitàdi assegnare un senso al testo profetico si ha in vari racconti nei qualivengono utilizzati meccanismi re torici, tra cui alcuni di tipo metaforico. Ènaturale che, quando il veicolo metaforico viene interpretato "letteralmente", si ottenga una assurdità sul piano del senso, a me no che non siimmagini un mondo possibile, diverso da quello reale, in cui i muli possanodiventare re dei Medi e gli araldi siano dipinti di rosso. Il consultante, cheprende in considerazione soltanto il mondo reale, si trova in difficoltà adassegnare un senso e una denotazione a testi siffatti. Ma vediamo che cosasuccede nel primo di questi racconti. È Erodoto a narrarci la storia degliabitanti deli'isola di Sifno, i quali, essendo giunti a un notevole grado diricchez za con le loro miniere d'oro e d'argento, decisero di consul tarel'oracolo di Delfi per sapere se avrebbero potuto con servare a lungo la loroprosperità. La Pizia rispose: "Ma quando, a Sifno, il pritaneo sarà biancoe bianco il bordo della piazza pubblica, allora c'è bisogno di un uomo accorto per guardarsi dall'agguato di legno e dall'araldo rosso" (Herod., Hist.,III, 57). La storia continua narrando del l'arrivo di una nave dei Sami, dellaloro ambasceria per chiedere denaro e del saccheggio che questi ultimi fannodell'isola dei Sifni. Erodoto sottolinea l'incapacità manifestata dai Sifni didare un senso al testo ("l Sifni non furono capaci di com prenderel'oracolo"); per loro il testo, e in particolare, si presume, leespressioni "agguato di legno" e "araldo ros so", sonoprive di senso, perché appunto essi si fermano a un livello letterale diinterpretazione. In realtà il dio gioca con vari meccanismi tropici: innanzitutto con una doppia enallage1 1 (è il legno [ = nave] che anticamente èrosso, come spiega Erodoto, ed è l'araldo [ = gli ambasciatori] che organizzaun agguato), complican do poi il testo con meccanismi metonimici (legno pernave, il singolare araldo per il plurale ambasciatori). Un secondo esempio dimancata comprensione si trova in un episodio di quel lungo e complesso"romanzo oracolare" 2 . LA DIVINAZIONE GRECA t·hcl·:rodotodedicaaCreso,quandoquest'ultimochiedeal l ' oracolo di Delfi se lasua monarchia sarebbe durata a lun o . La Pizia risponde: "Quando un mulosarà re dei Medi, allora, Lidio dai piedi delicati, fuggi lungo l'Ermo sassoso,non indugiare e non temere di essere vile" (Herod., Hist., l, 55). Anchein questo caso, l'interpretazione che viene data alla profezia sceglie il sensoletterale: Creso ritiene, di con seguenza, impossibile che venga a verificarsiuno stato di cose che soddisfi alla descrizione della frase "un mulo saràre dei Medi"; la conclusione che egli trae da questa impossi bilità è chesia altrettanto impossibile che il suo regno abbia una fine. Sarà poi il diostesso a spiegare al re il suo gioco metafo rico, quando ormai i fatti sisaranno compiuti e Creso sarà caduto sotto la dominazione dei Persiani . Il"mulo" è, in ef fetti, Ciro, e il passaggio è mediato dallaproprietà "sangue misto", che è condivisa sia dal termine metaforizzantesia dal termine metaforizzato: ·sangue misto• / Tanto maggiore è la cecità diCreso se si pensa che l'ele mento comune è doppiamente esemplificato in Ciro,in quanto figlio "di madre nobile e di padre di oscuro lignag gio" e"di madre meda e di padre persiano", come il testo di Erodoto nonmanca di sottolineare. Vale la pena di rilevare che l'interpretazione del sensofi gurato è un'operazione realmente più difficile di quello che si potrebbeimmaginare, fatto che giustifica in qualche ma niera gli insuccessi deiconsultanti. Essa è legata a cono scenze enciclopediche locali, oltre che aimeccanismi retori ci che su quelle conoscenze si applicano. Ciò è tanto più vero se si considera che è impossibile anche per il lettore mo derno fornirel'interpretazione del testo profetico quando il testo letterario non ci informasulle relative porzioni di enciclopedia. Ciò avviene, a esempio, nel raccontooracolare di Arcesilao (Herod., Hist., IV, 163-164) in cui, accanto a scambimetaforici tra "anfore" e "uomini", tra "torri" e"forni" che vengono spiegati dal prosieguo della narrazio ne,compare l'espressione "il tuo più bel toro" che rimane inspiegata edè anche per noi incomprensibile. Vediamo ora il caso in cui il testo appareinterpretabile secondo un percorso di senso letterale, in cui cioè sia rintracciabile un corso di eventi corrispondente a esso, senza però essere quellointeso dalla profezia. Consideriamo in particolare il caso in cui l'erroreinterpretativo sia dovuto a omonimia. Questo meccanismo, accompagnato dalcostante frain tendimento, caratterizza l'intero romanzo oracolare di Cambise.Si tratta di una storia in cui i vari segni si collega no tra di loro in unacatena di rimandi interni. Questa storia ha inizio con un sogno: Smerdi(fratello di Cambise) era già tornato in patria (la Persia) quando Cambise ebbein sogno questa visione: gli parve che un messo, giunto dalla Persia, gli annunciasseche Smerdi, seduto sul trono regale, toccava con la testa il cielo. Temendoperciò che il fratello meditasse di ucciderlo per impadronirsi del regno, mandòin Persia Prexaspe, che gli era fedelissimo fra tutti i Per siani, a uccidereSmerdi. (Herod., Hist., III, 30) Dopo parecchi paragrafi, in cui la storiacontinua narran do le stravaganze e le crudeltà di Cambise, ci viene raccontata la ribellione in Persia dei due fratelli Magi, uno dei quali, che sichiamava anch'esso Smerdi, era stato collocato sul trono. Quando Cambise vienea conoscenza di questo fatto, comprende il vero senso del sogno. Ma la storianon finisce qui: Dopo che ebbe pianto e si fu afflitto di tanta sciagura,Cambise balzò a cavallo per muovere al più presto verso Susa contro il Mago;ma, mentre saliva in arcione, gli cadde il puntate del fo dero della spada,che rimasta nuda lo ferì alla coscia. Colpito così nello stesso punto in cuiaveva trafitto il dio egizio Api, il 2. LA DIVINAZIONE GRECA fl\iudicando mortale la sua ferita, domandò ancora come si chiarnassc la cittàdove si trovavano e gli risposero che si chia rnava Ecbatana. Ora, molto tempoaddietro, a lui che l'aveva consultato, l'oracolo di Buto aveva risposto chesarebbe morto ad Ecbatana ed egli aveva interpretato che sarebbe morto, vecchio, ad Ecbatana di Media, dove aveva tutti i suoi beni, men tre l'oracoloaveva inteso di indicare Ecbatana di Siria. Pertan to Cambise, come ebbesaputo il nome della città, sotto il dupli ce colpo della rivolta del Mago edella ferita, rinsavì e, com prendendo finalmente il divino responso, esclamò:"Qui è desti no che muoia Cambise, figlio di Ciro". (Herod., Hist.,III, 64) La rivolta del Mago e la ferita sono, più che avvenimenti, dei segni,in quanto permettono a Cambise di accedere alla conoscenza, di comprendere,finalmente senza più ambigui tà, l'oracolo, di non rimanere più prigionierodei giochi di parole: la rivolta che gli fa capire la differenza tra Smerdi suofratello e Smerdi Mago; la ferita mortale, la differenza tra Ecbatana in Mediaed Ecbatana di Siria. Infine c'è l'ulteriore caso di errata interpretazione acau sa di un equivoco, non strettamente linguistico, e che può essere di varianatura. L'equivoco più famoso di tutta la letteratura oracolare greca èsenz'altro quello di cui cade vittima Edipo. Come noto, durante un banchettoEdipo viene insospettito dalle insinuazioni fatte da un convitato circa la suapaternità e decide allora di interrogare il dio della sapienza, il quale glipredice che ucciderà il padre e che si congiungerà con la ma dre (Soph.,Oedipus tyrannus, 787-798). L'equivoco riguar da le assunzioni di crede...zza:Edipo non sa che i suoi veri genitori sono Laio, re di Tebe, e Giocasta, macrede che sia no Polibo, re di Corinto, e Merope; per questo, al fine distornare gli avvenimenti predetti dall'oracolo, si allontana da Corinto perandare in direzione di Tebe, e compie, così, inconsapevolmente, proprio ildestino che gli è stato annun ciato. Altre volte l'equivoco riguarda losca1nbio diprospettiva. Il caso emblematico è quello di Creso che manda aconsul tare congiuntamente l'oracolo di Delfi e quello di AnfiaraoL'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLARJ 47 per sapere se dovesse fare guerraai Persiani. I due oraco li, concordemente, predicono che "se avessemosso contro i Persiani, avrebbe distrutto un grande impero" (Herod.,Hist., l, 53). Creso interpreta il responso come facente rife rimento alladistruzione dell'impero dei Persiani, mentre, come si scopre in seguito, saràproprio il suo impero a subi re tale destino. A sviare il re dalla giustainterpretazione in terviene un meccanismo semiotico implicito: l'assunzione diCreso che, dal momento che l'oracolo è rivolto a lui, anche il dio assuma lasua prospettiva. E, ovviamente, nella pro spettiva di Creso, il grande imperoda distruggere non può che essere quello persiano. Si incomincia a intravederein questo esempio, più che nei precedenti, una caratteristica che è tipicadeli'enigma: una fortissima carica aggressiva, potenzialmente distrutti va, daparte del dio nei confronti dell'uomo quando gli po ne un problemainterpretativo da risolvere. Una conferma si trova nel racconto analogo in cuil'ora colo di Delfi predice agli Spartani che misureranno la terra di Tegeacon le funi (Herod., Hist., l, 66). Gli Spartani in terpretano il riferimentoalle funi come indicante Patto di misurare le terre per distribuirle aiconquistatori e, di conse guenza, fanno una spedizione contro Tegea. In realtàesse sono inserite in un altroframe o sceneggiatura (Eco 1984), in quantoserviranno agli Spartani, ridotti in schiavitù dopo la sconfitta, per misurarele terre che dovranno lavorare. L'attributo con cui viene qualificato ilresponso è klbd los che, nel suo senso traslato, significa"ambiguo", "fal so", "ingannevole", ma nel suosenso base fa riferimento alla carica estranea che adultera il metalloprezioso. Ciò che ne risulta, come nei casi presi in considerazione, è la commistione di due metalli, uno buono e uno non, che fa lucci care come oro ciòche oro non è. Analogo meccanismo, infine, si trova negli aneddoti, ri portatida Diodoro Siculo (Biblioteca, XVI, 91-92; XX, 29), nei quali viene annunciatoa un generale che pranzerà o alloggerà nella città che sta assediando; questecose si verifi cheranno, ma la prospettiva non sarà quella del vincitore bensìquella del prigioniero.LA DIVINAZIONE GRECA 2.4 Il segno come sfida:divinazione ed enigma Abbiamo accennato alla carica di aggressività che si celadietro al segno oscuro. Questo aspetto collega immediata mente il segnodivinatorio all'enigma vero e proprio, an ch'esso oscuro e insolubile e,mitologicamente, espressione della sfida che la divinità lancia ali'uomo. Èstato Colli ( 1 975 : 1 8) a mettere in luce il rapporto tra la divinazione,l'enigma e l'altra faccia di Apollo, quella mi nacciosa e distruttrice. 1 2Apollo, infatti, non è soltanto di vinità benefica che dona agli uomini l'artemantica e la me dicina: egli è anche il dio della freccia e dell'arco. Questein dicazioni assumono un valore direttamente semiotico quan do si scopre chela freccia di Apollo e il segno oscuro sono non due cose diverse, ma due mezzidi espressione della me desima potenza del dio e che possono avere anche lostesso funzionamento, come si può inferire da un passo di Pinda ro (0/ymp.,II, 83-85). Il vero destinatario delle frecce di Apollo è l'uomo in quantointerprete. Fuori dal linguaggio figurato l'uomo-in terprete raccoglie unasfida che il dio, con intenzione ostile, gli lancia; e, dagli esempi stessi cheabbiamo visto nei rac conti oracolari, si è potuto notare che il non riuscirea vin cere questa gara con il dio, cioè non riuscire a interpretare il segnooscuro, conduce alla rovina. Non sembrano esserci, a questo punto, più dubbisulla relazione assolutamente stretta tra segno divinatorio ed enigma. Ciòviene confermato anche da un'analisi diacroni ca del "genere"enigma, che nasce proprio all'interno della sfera religiosa della divinazionecon i due ben precisi carat teri dell'ostilità divina nei confronti dell'uomoe dell'aspet to di sfida a una gara. Lentamente l'enigma si staccherà dalcontesto sacro per dare origine a una sua storia evolutiva, nel corso dellaquale attenuerà, pur conservandone traccia, i caratteri iniziali. La storiadeli'enigma è la storia stessa dell'interpretazione intesa come gara, fino adapprodare al l'idea di interpretazione come confronto dialettico tra dueopinioni opposte. Può essere interessante per il nostro discorso, intesoa 2.4 n SEGNO COME SFIDA 49 enucleare l'aspetto del segno divinatoriocome dispositivo scatenatore di interpretazione, seguire alcune delle fasi piùsalienti dell'evoluzione deli'enigma. Come noto, il primo e più celebre esempiodi apparizione dell'enigma in un contesto sacro è quello presente nel mitodella Sfinge. La creatura mostruosa mandata da Apollo im pone agli abitanti diTebe l'enigma sulle tre età dell'uomo. La posta in gara è la vita: chi nonriesce a risolverlo è divo rato dalla Sfinge; chi invece lo risolve - e ilsolo Edipo ne è capace - fa precipitare la Sfinge nell'abisso. Ma nella primaevoluzione deli'enigma, già in età arcai ca, la lotta tra un personaggiodivino e uno umano, si spo sta a quella tra due personaggi umani, che peròconservano ancora un aggancio con la sfera del sacro in quanto sono duedivinatori. Questa fase è illustrata dall'aneddoto di Strabone sulla gara traCalcante e Mopso. Calcante propo ne a Mopso di "indovinare" quale èil numero di frutti che porta un fico selvatico che si trova sul loro cammino.Mop so dà una risposta estremamente dettagliata ("Sono dieci mila dinumero, la loro misura è un medimno, ma uno di questi fichi è di troppo e nonrientra nella misura") di fron te alla cui esattezza Calcante vienecolpito da un "sonno di morte" (Geogr., VI, 232-235). Di fronte allasapienza, ancora di origine divina, dei due personaggi, anche il contenutodell'enigma passa in secon do piano, come dimostra la banalità deli'oggettoche deve essere scoperto. È, del resto, la stessa irrilevanza contenuti sticache si poteva notare nell'enigma della Sfinge, cosi sproporzionato rispetto airischi mortali che comportava. Tuttavia, nel passaggio ulteriore, quandol'enigma si umanizza completamente, anche il suo testo assume un as settoformale elaborato, basato sulla formulazione di una contraddizione che, anzichénon designare niente (come av viene di norma in un caso del genere), designaaltresì qual cosa di reale. Questa forma la si trova nella leggenda riguardante la morte di Omero: Omero interrogò il dio per sapere chi fossero isuoi genitori e quale la sua patria; e il dio così rispose: "L'isola di loè patria di 2. LA DIVINAZIONE GRECA tua madre, ed essa ti accoglieràmorto; ma tu guardati dall'e nigma di giovani uomini [. . . ]" . Giunsead Io. Qui, seduto su uno scoglio, vide dei pescatori che si avvicinavano allariva e chiese loro se avessero qualcosa. Quelli, poiché non avevano pescatonulla, ma si spidocchiavano, per la mancanza di pesca, cosi risposero:"Quanto abbiamo preso l'abbiamo lasciato, quanto non abbiamo preso loportiamo", alludendo con un enigma al fatto che i pidocchi che avevanopreso li avevano uc cisi e lasciati cadere, e quelli che non avevano preso liportava no nelle vesti. Omero, non essendo capace di risolvere l'enig ma,morì per lo scoramento. (Arist., Dept., fr. 8) Nel frammento compaiono ancoragli elementi dell'enig ma che abbiamo già incontrato: la sfida circa unoggetto di conoscenza e il rischio mortale per il sapiente che non si dimostra in grado di risolvere l'enigma; ma in più compare la forma elaborata diuna contraddizione, che da allora sarà tipica di questo genere. Piùprecisamente compaiono due coppie di determinazioni contraddittorie"abbiamo preso - non abbiamo preso" e "abbiamo lasciato -portiamo", che possono essere così disposte sul quadrato logico: 50·abbiamo preso· CONTRARI {non abbiamo fasciato = ) ·portiamo· ·non abbiamopreso'" SUB CONTRARI ·abbiamo fasciato• 2.5 AGONISMO,DIALETTICA, RETORICA 51 Ciascun singolo termine della prima coppia di contraddittori ("abbiamo preso"/"non abbiamo preso") entra inrelazione di congiunzione con un singolo termine della se conda coppia("abbiamo lasciato"/"portiamo"), ma in mo do diverso daquello che ci si attenderebbe intuitivamente (cioè "quanto abbiamo preso,lo portiamo" e "quanto non abbiamo preso, l'abbiamo lasciato").Invece nell'enigma ri sultano congiunti termini che logicamente sono in opposizione contraria: "quanto abbiamo preso, l'abbiamo lascia to" e"quanto non abbiamo preso, lo portiamo". Eppure l'enigma non è, comesappiamo, assurdo. Il sapiente, che domina la ragione, deve essere in grado disciogliere questo groviglio problematico. Umanizzandosi completamente, l'enigmamette in evi denza l'aspetto competitivo, di gara per la sapienza, e si stabilizza sulla forma della contraddizione apparentemente in solubile.L'ulteriore e ultima tappa di questa evoluzione conduce, secondo l'ipotesi diColli (1975), alla nascita della dialet tica. 2.5 Agonismo, dialettica,retorica La dialettica, nel senso antico del termine, nasce infatti sul terrenostesso dell'agonismo: essa si presenta come di scussione tra due persone su unqualsiasi argomento cono scitivo; su questo campo comune si instaura una garadesti nata a far emergere un vincitore. L'andamento generale della discussionesegue questo schema (Arist., Top.): inizialmente, lo sfidante propone unadomanda in forma alternativa, presentando i due corni di una contraddizione.L'avversario sceglie uno dei due cor· ni e ne sostiene la verità. A questopunto lo sfidante deve dimostrare come vera l'altra alternativa e cosiconfutare l'affermazione dell'avversario. Naturalmente il procedi mento puòrichiedere anche una serie molto lunga e artico lata di successive domande erisposte, miranti, in maniera diretta o, per lo più, indiretta, alladimostrazione. LA DIVINAZIONE GRECA Al suo nascere, però, il linguaggiodialettico è limitato a un ambiente ristretto e in qualche modo elitario. l)ccisivi cambiamenti sono, tuttavia, destinati a verificar si con l'accrescersidella cultura ad Atene e con il definitivo affermarsi del regime democratico;infatti le forme della dialettica entrano nella sfera pubblica e si connettonocon il mondo politico. Così la discussione si allarga indefinita mente e ladialettica, in una sua forma in qualche modo adulterata, si trasforma inretorica. Dialettica e retorica sono basate entrambe su un forte spirito dicompetizione. Tuttavia ciò che le distingue è che, nella prima, non c'è bisognodi un giudice per assegnare la palma della vittoria a uno dei due contendenti:la vittoria di uno dei partecipanti risulta dalla discussione stessa, inquanto, durante lo sviluppo del dibattito, l'avversario ha contraddetto la tesiche prima affermava. Nel caso della re torica, invece, l'agonismo è molto piùdiretto e acceso, in quanto saranno gli ascoltatori a giudicare quale è statoil migliore discorso; manca nella retorica una sanzione intrin seca (come c'ènella dialettica) e per questo deve aggiungere un elemento emozionale, legatoall'intento persuasivo. 2.6 Divinazione e interpretazione persuasiva Ilprocesso evolutivo che abbiamo descritto è iniziato con il segno divinatoriocome sfida conoscitiva posta dal dio al l'uomo ed è approdato, nel punto delsuo massimo allonta namento, alla competizione conoscitiva della dialettica edella retorica. Ma proprio a questo punto il cerchio sembra chiudersi tornandoal punto iniziale, con l'introduzione, ali'interno della divinazione stessa,dei metodi della discussione dialet tico-retorica. È molto indicativo, aquesto proposito, un passo di Ero doto, in cui assistiamo a una sorta diconciliazione appunto tra la divinazione, con la sua tipica concezionedeterministi ca del mondo, e l'eloquenza politica, legata a una visione mobiledella vita, che sottopone ogni cosa a una incessante 2.6 DIVINAZIONE EINTERPRETAZIONE PERSUASIVA 53 discussione. Egli infatti narra che gli Ateniesi,trovandosi di fronte alla minaccia di una invasione persiana, mandarono a Delfidegli ambasciatori per consultare l'oracolo. Ma, in un primo momento, la Piziali affrontò con l'annuncio di gravissime sciagure. Costernati, senza però darsiper vinti, gli Ateniesi sollecitarono una seconda consultazione, im plorandoun responso più favorevole e stabilendo di non muoversi più dall'oracolo fino ache non l'avessero ottenu to. La Pizia accettò di emettere un secondoresponso: Zeus concede a Tritogenia (Atena) che solo un muro di legno siainespugnabile, il quale salverà te e i tuoi figli. Non aspettare, inerte, lacavalleria e le forze di terra che arrivano in massa dal continente, maritìrati, volgi le spalle; verrà il giorno in cui po trai tenere testa. Odivina Salamina, farai perire figli di donne, o quando si semina o quando siraccoglie il frutto di Demetra. (Herod., Hist., VII, 141) Il racconto d iErodoto mostra chiaramente come i l segno divinatorio, il responso oracolare,innanzitutto non venga accolto con atteggiamento fatalistico. l messaggeri nonsi accontentano del primo responso, ma sfidano a loro volta il dio, minacciandodi non muoversi dal santuario fintanto ché non abbiano indotto il dio amitigare il suo atteggia mento ostile. Ma, ciò che è più interessante, iltesto erodo teo mostra bene come il segno oracolare sia sottoposto a unadiscussione. Infatti i messaggeri, una volta ottenuta la risposta, latrascrivono e ripartono alla volta di Atene per riferire il responsoall'Assemblea. La forma della discussione che si svolge davanti aiPAs sembleaè quella tipica della dialettica. Il segno oscuro sca tena un processointerpretativo che prevede varie possibilità di percorso. Ma, anzitutto,dialetticamente, si presenta co me una dicotomia tra due soluzioni opposte emutualmente escludentisi: (i) ritirarsi sull'acropoli, anticamente fortificata con una palizzata, perché a essa alludeva il dio con l'e spressione"muro di legno"; (ii) allestire una flotta, perché il dio intenderiferirsi (sma(nein), con quella espressione enigmatica, a una barriera dinavi. 54 2. LA DIVINAZIONE GRECA Ciascun corno della contraddizione èfatto proprio da un gruppo: (i) "alcuni anziani" (affiancati daicresmologi) so stengono il primo termine; (ii) "altri" (tra i qualicompare Temistocle) assumono il secondo. Per ora siamo solo alla presentazionedel problema: è poi necessario sviluppare una dimostrazione che porti acontraddire una delle due tesi. La discussione segue il secondo corno deldilemma; è co me se si dicesse: "Ammettiamo che l'interpretazione giustasia quella che consiglia di allestire una flotta. Quale con traddizionecomporta questa interpretazione?". I cresmologi fanno notare, a questopunto, che accettare il secondo corno del dilemma comporta una contraddizionecon quella parte del testo che predice a Salamina di divenire causa della mortedi molti uomini. Accettare la giustezza di questo sottoproblema posto daicresmologi comporterebbe l'autoconfutazione della tesi principale. Si è perònel frattempo verificato uno spostamento del li vello tematico delladiscussione: a questo punto, per avere ragione sulla tesi dei cresmologi, èsufficiente dimostrare in.. fondata la loro obiezione. È appunto quello che faTemistocle, negando che l'obie zione dei cresmologi comporti una realecontraddizione. E anche in questo caso il ragionamento procede per assurdo eprende in considerazione una questione di prospettiva: se infatti avesseroragione gli avversari con il dire che Salami na (metonimia per "battagliacon la flotta") avrebbe causa to morte agli Ateniesi, e se anche questaseconda parte della profezia fosse rivolta, come la prima, ancora agliAteniesi, il dio non avrebbe attribuito all'isola l'epiteto di"divina", ma di "sventurata". In altre parole, c'ècontraddizione tra l'epiteto "divina" usato per Salamina elamorte degli Ate niesi. Dunque questa seconda parte del responso,contenen te una predizione di morte, deve essere intesa come rivolta ainemici. Non sfuggirà che in questa seconda fase della discussione il metododialettico va impercettibilmente sfumando in quello più propriamente retorico.Conclusivamente Temistocle propone una interpretazio ne che tende più apersuadere in positivo della validità del 2.6 DIVINAZIONE EINTERPRETAZIONE PERSUASIVA 55 proprio ragionamento che non a dimostrare lafalsità della tesi fondamentale degli avversari. Infine interviene il giudizio dell'uditorio, elemento fondamentale appunto del di scorso retorico, persancire la vittoria di uno dei due con tendenti. Il testo dice che gliAteniesi "giudicarono preferì bile (hairetbtera)" la spiegazione diTemistocle rispetto a quella dei cresmologi. Al discreto della logica binariadel l'alternativa dialettica, succede il continuo della logica gra duata delpreferibile. La discussione può aver fatto perdere di vista che oggetto didibattito è un vaticinio del dio di Delfi. Ma non a caso. La logica, appunto,che viene fatta intervenire neli'interpre tazione del responso divinatorio èesattamente la stessa che guida le assemblee politiche. E del resto non è senzasignificato il fatto che in questo contesto gli avversari di Temistocle sianodei "cresmologi", cioè interpreti specializzati dei responsi divini,ed è notevole che essi risultino sconfitti: è la conferma paradigmatica di comenella Grecia della polis sia la razionalità politica a im porre i suoi metodialla divinazione e non viceversa. In definitiva, il carattere di oscuritàattribuito al segno divinatorio rende un ottimo servigio ali'orientamento fondamentalmente orale e dialettico della cultura greca: con ferma il segnostesso come dispositivo scatenatore di inter pretazioni, da sondare con laprocedura del confronto tra discorsi contrapposti. Il segno rinvia a una realtàaltra da sé, nascosta e ambi gua, ma alla quale si può arrivare se ci siimpegna in un confronto tra interpretazioni contrastanti: procedura che, lungidali'essere paralizzante, è invece stimolante e produt tiva. In questaprospettiva il segno divinatorio si allontana da quelle che erano due suecaratteristiche fondamentali, cioè il primato della visione e la concezionedella verità come ri velazione: la verità come a-ltheia, intesa come cadutadei veli che la tenevano nascosta (lanthano). 1 3 Nel passo di Erodoto non sonogli indovini con la loro vi sione panoptica a rivelare il senso nascosto delsegno: esso prende qui luce dalla congettura (che in Erodoto è sempre 562. LA DIVINAZIONE GRECA espressa dal verbo symba/10 e dai suoi derivati,equivalente al più diffuso tekmafroma1). E saranno proprio la congettura el'abbandono della vi sione che permetteranno di far evolvere il segno dalcampo della divinazione a quello della scienza vera e propria. SEGNI E PROCESSISEMIOSICI NELLA MEDICINA GRECA 3.0 Introduzione Ci siamo finora interessatidell'ampio e magmatico cam po della divinazione, dove abbiamo visto emergerele prime pratiche semiosiche, connesse, nella cultura greca, con la nascitastessa di un pensiero sapienziale. Ci occuperemo ora dell'altra grande area dimanifestazione di un pensiero se mioticamente orientato, che sorge prima e inmaniera indi pendente dalla ricerca filosofica in senso stretto: la medici nagreca. In quest'area, accanto alla presenza fondamentale dei processisemiosici, si possono registrare anche le prime vere e proprie elaborazioniteoriche intorno al segno e all'infe renza (Vegetti 1976: 49 ss.). In seguito,la riflessione semio tica sarà consegnata direttamente alla filosofia e allaretori ca; ma ampie tracce delle origini rimarranno sia negli esempi chefilosofi e trattatisti di retorica sceglieranno per illustrare il segno (esempispesso di carattere medico, talvol ta fisiognomico) sia nella scelta di unmodello di funziona mento logico del segno secondo lo schema "Se p,allora q", che abbiamo visto operante nella divinazione e che vedremotrasposto nella medicina con diversi contenuti, ma con eguale forma. Adifferenza della divinazione, per la quale disponiamo di testimonianze per lopiù indirette e disorganiche, la medi cina greca può contare su una riccadocumentazione, rap presentata in particolare dal Corpus Hippocraticum, 1un 58 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA insieme abbastanza ampio e vario ditesti (circa un centi naio) in cui si trovano illustrate le pratiche e leteorie medi che del V e IV secolo a.C. Tali testi non appartengono a un unicoautore, come la tradizione aveva indotto a credere, attribuendoli a Ippocrate,2né a un'epoca circoscrivibile con la vita di un uomo. Sono invece presentiall'interno del C.H. opere con diverse finalità ed3esprimenti indirizzi diversi nel campo del sapere medico. Tuttavia, nonostante la disomogeneità che èdato riscon trare all'interno del C.H., è possibile vedere nello studio dellamedicina del V e IV secolo uno dei più importanti campi di indagine delpensiero greco, che si affianca sen z'altro alla ricerca filosofica e allastoriografia coeve e che intrattiene con esse dei rapporti fecondissimi diinterscam bio. È noto il giudizio di Werner Jaeger, secondo cui il pen sierosocratico non sarebbe stato possibile senza le opere ip pocratiche,4 ed èstato sottolineato il debito che la storio grafia scientifica, inaugurata daTucidide nell'ultimo scor cio del V secolo, ha contratto nei confronti dellatéchn ip pocratica. Ciò che la medicina aveva da offrire tanto alla filosofiaquanto alla storiografia era un modello di sapere specifica mente semiotico,articolato sul doppio livello rappresenta to, da una parte, da una solidastruttura formale (il loghi smos, cioè il ragionamento inferenziale, nei suoidue mo menti abduttivo e deduttivo) e, dall'altra, da un orienta mento dibase empirico.6 Come vedremo meglio in seguito, il segno medico costi tuisceproprio il prodotto del ragionamento inferenziale ap plicato alla ricorrenzadei fenomeni, i quali in tanto acquisi scono senso, divenendo segni, in quantosono riconducibili appunto al loghismos. 3.1 Ambiguità della prognosi Adifferenza del medico moderno, che legge i segni in funzione della diagnosi, ilmedico antico elaborava il suo ragionamento in funzione della prognosi. Unintero trattato 3. l AMBIGmTÀ DELLA PROONOSI 59 del C.H., Ilprognostico,è specificamente dedicato a questo problema. Eccone il passo iniziale eprogrammatico: Quanto al medico, mi sembra che la cosa migliore sia che eglipratichi la previsione; infatti, con una conoscenza e dichiara zionepreventiva, di fronte ai malati, dei loro casi presenti, pas sati e futuri, econ una puntuale esposizione di quanto gli infer mi tralasciano di dire, egliconquisterà maggiore fiducia di po ter conoscere le condizioni dei malati,così che gli uomini si ri solvano ad affidare se stessi al medico. (cap. 1)7Dal passo si può osservare che la prognosi non è concepi ta come previsione dieventi soltanto futuri, ma coinvolge anche elementi di conoscenza cheriguardano sia il presente sia il passato:8 il medico deve avere la capacità didescrivere anche quei sintomi, o quei fatti in generale, che gli ammala titralasciano di esporre. Dal procedimento descritto nel Prognostico non sonoassenti scopi chiaramente manipola tori: dicendo ciò che sfugge ai malati, ilmedico mira ad ac quistare maggiore credito presso di loro per persuaderli adaffidarsi alle sue cure. È interessante che una procedura che vuole presentarsicon i crismi della scientificità e dell'obiet tività, si ponga non tanto loscopo del rispecchiamento del la realtà (nosologica in questo caso), ma quellodella sua manipolazione. II discorso del medico è fatto, in questo ca so,anche di "segni efficaci" come uello della retorica in cantatoria diGorgia o della magia. Del resto, la formula con il triplice riferimento alpassa to, al presente e al futuro, che non costituisce un caso isola to, maricorre a esempio anche in Epidemie l (come pure, per definire la medicina, nelLachete platonico, 198 d), spinge a istituire un parallelo con l'analogaformula usata per individuare il procedimento divinatorio (Brtescu 1 975: 46) .1 0 D'altra parte, se per un verso si possono riscontrare ele menti comuni trala medicina e la divinazione, per un altro molti degli scritti medici del C.H.sottolineano esplicita mente e con forza la distanza e i punti di divergenza.A 60 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA esempio l'autore del libro Il regimenelle malattie acute (cap. 8) polemizza contro le pratiche discordanti deicattivi medici, paragonandole alle pratiche di interpretazione divi natoria.L'attacco sferrato alla divinazione è su base semiotica: il segno divinatorio èambiguo, può significare due cose dia metralmente opposte, e perciò è lontanoda quel piano di oggettività al quale aspira la scienza medica. Anche l'autoredel Prorretico II si scaglia contro i cattivi medici criticando le loropredizioni miracolose, che li rendono simili agli in dovini, e contrapponeorgogliosamente il proprio metodo basato sui segni umani e sulla congettura:Per parte mia non farò affatto delle divinazioni del genere (ou manteU.somat),ma scriverò i segni (smeia) attraverso i quali si deve congetturare (tekmafresthat),tra i malati, quali guariran no e quali moriranno, quali guariranno e qualimoriranno in poco o in molto tempo. (cap. l) L'inferenza divinatoria(manteuein) è direttamente con trapposta alla congettura (tekmairesthaz). Laviolenza con cui i medici polemizzano contro la divinazione e la netta presa didistanza rispetto a essa è sicuramente indizio del fatto che essi tentavano diimporre un nuovo e autonomo paradigma epistemologico, una "semioticaprofana"; ma è indizio, anche, del fatto che il rischio di confusione o difraintendimento era ancora presente. Sotto certi aspetti la medicinaippocratica appare effetti vamente come la continuazione di una medicinapreceden te, popolare e antichissima, impostata su basi magiche (Parker 1983:213 ss.). Certi settori della terminologia de nunciano chiaramente questasituazione: Pimportanza cen trale, nel C.H., della katharsis("purificazione") rimanda alle purificazioni magiche delloiatr6mantis "medico-indo vino" e dei purificatori apollinei comeEpimenide e Bacide; lo stesso termine che indica il medicamento, pharmakon, erain origine impiegato per indicare ciascuno dei due citta dini di Atene cheregolarmente il 6 di Targelione, o anche in 3.2 MEDICINA E SEMIOTICAMAGICHE 61 caso di pestilenze, erano sottoposti a osservanze rituali, flagellati e scacciati dalla città e forse uccisi, per adempiere a una cerimoniadi purificazione (Lanata 1967: 45). Proprio per questi motivi il tentativo diautodifferenzia zione dei medici ippocratici rispetto al paradigma magicodoveva assumere toni molto accesi, come ci mostra uno dei trattati piùinteressanti del corpus, il Male sacro. Poiché, dal punto di vista della storiadella semiotica, la medicina magica non è meno importante di quella laica,dedicheremo il prossimo paragrafo a illustrare il suo paradigma. Dopodi chéesporremo la critica di questo stesso paradigma quale ci viene presentatadall'autorè del Male sacro. 3.2 Medicina e semiotica magiche Molte fontiletterarie suggeriscono l'idea di un'origine mitica comune per la divinazione eper la medicina: entram be le pratiche, infatti, figurano come doni di Apolloe sono a lui variamente collegate. Così, per esempio, Platone nel Simposio (197a): "In verità Apollo scoprì l'arte del tiro con l'arco e la medicina e ladivinazione". È molto suggestivo, dal punto di vista semiotico, che le duepratiche primordiali che inaugurano un sapere basato sui segni, siano avvertitecome originariamente collegate. E un effettivo stretto colle gamento esse lotrovano nella figura antichissima dello ia tr6mantis, il medico-indovino, cheunisce in sé le facoltà di un veggente e la capacità di curare le malattie.L'appellati vo iatr6mantis è riferito in prima istanza allo stesso Apollo; mapassa poi a una serie di personaggi in vario modo legati al dio, che unisconoal dono della mantica e della medicina, anche quello di effettuare dellepurificazioni. Un elemento fondamentale che caratterizza la figura del loiatr6mantis è la sua capacità di usare una procedura dia gnostica: trattandosidi un veggente, egli è in grado di indi viduare la causa nascosta di unamalattia, causa che è da at tribuirsi sempre a un intervento soprannaturale.In epoca antichissima la malattia è concepita infatti come miasma, comecontaminazione, dovuta a un contatto con un'entità 62 3. I SEGNI NELLAMEDICINA GRECA divina o demonica. 1 1 Per questa ragione c'è bisogno di unmedico-indovino, in grado di leggere i segni che gli rendono accessibile ilmondo delle forze oscure e soprannaturali alle quali è imputato il presentestato di contaminazione; in se guito alla sua diagnosi, lo iatr6mantis puòindicare gli stru menti magici atti a purificare il miasma. Questa concezioneè ben iliustrata da una notizia di un autore di scuola pitagorica, AlessandroPoliistore, che cita le Memorie pitagoriche: L'aria (secondo i Pitagorici) èpiena di anime; ed essi le conside rano demoni ed eroi e pensano che sianoessi a inviare agli uo mini i sogni e i segni premonitori (smefa) e lemalattie, e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e agli altri animali dapa scolo; e a questi (demoni ed eroi) sono dirette le cerimonie ca tartiche eapotropaiche e tutta la mantica e i vaticini e tutto ciò che è di tal genere.12Sono presenti in questo passo tutti gli elementi di una se miologia sacraabbinata a una medicina magica. I demoni sono la fonte delle malattie cheaffliggono gli uomini; ma, contemporaneamente, sono anche la fontedell'informazio ne che concerne il mondo invisibile, inviando agli uomini isegni (compreso quel particolare tipo di segno che sono i so gni) dai quali sirende riconoscibile l'origine della malattia. Del resto il circolo comunicativosi chiude attraverso gli speciali segni che gli uomini sono chiamati aprodurre: i riti catartici e apotropaici. In particolare le cerimonie apotropaiche sono costituite dalla recita di epOidal, cioè di formu le verbaliincantatorie, ritenute idonee a scongiurare il ma le: si tratta di segnilinguistici che da una parte chiudono il circuito comunicativo con ilsoprannaturale, dall'altra sono "efficaci", nel senso che intendonoagire sul mondo e non rispecchiarlo. 3.3 La critica alla magia e alla semioticasacra Prenderemo ora in considerazione le critiche rivolte alla 3.3 LACRITICA ALLA SEMIOTICA SACRA 63 magia sul piano specificamente semiotico edepistemologi co. L'autore del Male sacro si muove sostanzialmente in duedirezioni: l . contrapporre alla nozione di "sacro" quel la distruttura naturale (phjsis) e di causa razionale (pro phasis); 2. mostrarel'inconsistenza sul piano logico del ra gionamento sotteso dalle proceduredella medicina magica, apponendovi un tipo di ragionamento inferenziale basatosul tekmérion (che qui compare già con il senso di "prova", di"segno sicuro") (cap. l). Ciò che l'autore del trattato vuolecontestare è la conce zione di un'origine divina della malattia; e questo valetanto per il "male sacro", cioè l'epilessia, quanto per qualunquealtro tipo di morbo. Sotto accusa è la nozione di "sacro'', come qualcosache si riconduce all'intervento divino. In ef fetti, il termine hier6s, anchese in greco si specializzò molto presto in senso religioso, in origine nonapparteneva alla sfera olimpica, ma era legato a una concezione animistica:hier6s è tutto quello in cui si rivela una vitalità prodigiosa e magica, e unamalattia è sacra in quanto inviata da una for za soprannaturale. Lo stessotermine iasthai, "curare" (da cui iatr6s "medico"),originariamente doveva indicare un curare come "un ristorare, un ridonarele forze attraverso appropriate operazioni magico-mediche" (Ramat 1962:20). In effetti, l'idea della malattia come riconducibile a un interventodiretto "del piano verticale della trascendenza su taluni punti di quelloorizzontale della causalità naturale" (Vegetti 1976: 291) appare metterefuori gioco ogni idea di regolarità dei fenomeni ed escludere,contemporaneamente, la possibilità di controllo su di essi e di previsione. Lano zione di "natura", che l'autore del trattato contrappone a quelladi "sacro", viene a reintrodurre proprio la regolarità nel movimentodi cause ed effetti, rendendo possibile l'im postazione della medicina su basiscientifiche. Inoltre, se la nozione di phjsis individua la struttura oggettivae omoge nea di ricorrenze tra cause ed effetti, quella, correlata, dipr6phasis (in altri casi aftion, aitle) rimanda al momento della spiegazionedel singolo fenomeno. 64 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA 3.4 Le forme diargomentazione logica e il "tekmérion" Tuttavia il punto di maggiorforza dell'autore del Male sacro rispetto ai suoi avversari consiste nellemodalità di ar gomentazione logica che adotta: facendo un esplicito ricor soal tekmrion (''prova", "segno sicuro") egli riesce a individuare delle contraddizioni interne al sistema della medici na magica e aconfutarla. Vediamone subito un esempio: E v'è un 'altra grande prova (mégatekmrion) che questa non è più divina delle altre malattie; insorge aiflegmatici per natura, ma non colpisce i biliosi: mentre, se fosse più divinadelle altre, in tutti ugualmente dovrebbe prodursi questa malattia, senzadistinguere tra biliosi e flegmatici. (cap. 2)13 L'argomentazione assume laforma rigorosa di quello che in seguito sarà chiamato nzodus tollens, cioè"Se p, allora q; ma non-q; di conseguenza non-p''. In altre parolel'autore del A-lale sacro ragiona così: "Se questa malattia fosse piùdivina delle altre (p}, essa dovrebbe colpire indistintamente tutti (q); maquesto non si verifica (perché colpisce i flegma tici, ma non i biliosi)(non-q); ne consegue che essa non è più divina delle altre (non-p)". Sideve rilevare che l'autore utilizza la non verità del conseguente nel modustollens (''che la malattia non colpisce indiscriminatamente tutti") comesegno (teknzérion "segno sicuro", "prova") della non veritàdell'antecedente (''che l'epilessia non è più divina del le altremalattie"). Naturalmente bisognerà aspettare Aristotele prima che ilnzodus tollens come schema ragionativo venga teorizzato e che venga fornita unadefinizione rigorosa di teknzérion. Del resto, spetterà poi agli stoici di dareun'analisi formale di questo schema argomentativo e di dire che ogni schemaargomentativo deve essere considerato come un segno. È in teressante,tuttavia, che già l'autore ippocratico leghi l'e spressione tekmrion (che daAristotele in poi assumerà ine quivocabilmente il significato di "segnoinconfutabile") con 3.5 LA VISTA E OLI ALTRI SENSI 65 lo schemainferenziale del modus tollens: logica e semiotica vengono già a trovare unpunto di convergenza e di saldatu ra. Saldatura che con gli stoici saràtotale. 3.5 La vista e gli altri sensi Tuttavia la contrapposizione tra unasemiologia sacra e una profana non si basa soltanto sulla capacità, che la seconda possiede, di utilizzare un ragionamento rigoroso e di fare ricorso asegni che si inquadrino in uno schema logico inferenziale. Come ha mostratoLanza (1979: 103), un altro importante elemento di divergenza tra il paradigmadivina torio e quello della medicina ippocratica è dato dal diverso ruolo chela vista gioca nei processi di conoscenza. Nella divinazione e nella medicinamagica la vista ha una parte fondamentale, in quanto è fonte primaria, e inqual che modo unica, dell'attività conoscitiva. Non per niente Apollo, diodella divinazione, è nelle parole di Pindaro co lui che possiede"l'occhiata che conosce ogni cosa" (Pyth., III, 29): niente infatti èsottratto alla sua vista nel passato, nel presente e nel futuro; a luiappartiene il "dominio del tempo". L'uomo può conoscere solo ciò checontingente mente capita sotto il suo sguardo. Solo l'indovino e il poetapossiedono una seconda vista, che permette loro di vedere anche ciò che è al dilà delle limitazioni cui sono sottoposti i comuni mortali; per questo spesso iprimi sono ciechi, per essere ricettivi a questa vista; e un'analogalimitazione delle facoltà percettive si verifica anche nell'attività onirica,du rante la quale la raccolta di stimoli esterni si attenua fin quasi ascomparire.14 Tanto nel poeta quanto nell'indovi no, poi, la visione sitramuta in parola, diventando il segno che supplisce alla mancanza di presenza.Questa concezione comporta una dipendenza del segno dalla divinità e una dicotomia tra ciò che è percepibile con la vista e ciò che non lo è. Ma un primosuperamento della dipendenza dalla divi nità per la conoscenza dell'invisibilesi ha nel famoso motto di Anassagora "Vista dell'invisibile è ciò cheappare" (6psis ad/On tà phainomena) (D-K, 59 B 21a). Il fenomenoviene I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA qui a sostituirsi alla divinità. Lavista tuttavia rimane cen trale. Caratteristicamente in un trattato medicoarcaico. Malattie delle donne, al cap. 60, si dice che attraverso il dito ilmedico "vedrà" il modo di presentarsi del collo dell'u tero.Certamente le opere del C.H. procedono sul cammino aperto da Anassagora, macontemporaneamente in esse il ruolo della vista perde di importanza nelprocesso di cono scenza. Ci sono ragioni specificamente inerenti alla téchnippocratica che portano a una svalutazione, o almeno a un ridimensionamento,del ruolo della vista. Nel trattato L 'ar te si dice esplicitamente che"delle malattie alcune hanno se de in luoghi non celati alla vista, e nonsono molte, altre in luoghi non aperti alla vista, e sono molte" (cap. 9).Per giungere alla conoscenza di queste ultime, il medico trae congetture dasegni tattili, uditivi, olfattivi e talvolta persi no gustativi: è attraversol'intera gamma della tipologia se gnica che il medico può elaborare la suaprevisione, percor rendo il tempo anche nella dimensione di un passato e di unfuturo che sono nascosti. Non solo, ma avviene che, quan do i segni non sipresentano spontaneamente, il medico giunga a "forzare la natura" percostringerla a fornire degli indizi (cap. 13). A questo punto è possibiletentare un riesame dell'oppo sizione visibile/invisibile nel momento in cuiessa passa dal la divinazione, che l'aveva inventata, agli altri ambiti delsapere. La ritroviamo, a esempio, in ambito giuridico, con l'anti tesi tra"beni apparenti" e "beni non apparenti" che, secon do lapenetrante analisi di Gernet (1968: tr. it. 399 sgg.), si configura comeopposizione tra i beni materiali (fondiari e patrimoniali soprattutto) che sipossono percepire, e i credi ti in genere, "invisibili" (a esempio,i crediti nei confronti di un banchiere presso cui si è depositato del denaro).Poi, nell'ambito strettamente filosofico, l'opposizione assume un caratteresquisitamente antologico, dando vita a una duplicazione dei livelli di realtà.In Eraclito, a esempio, il "nascosto" costituisce la realtà vera incontrapposizione all'"apparente", dicotomia di cui si trova chiaratraccia nei 3.6 L'ANALOGIAE LACONGETTURA 67 due frammenti:"L'armonia che non si vede è superiore a quella manifesta" (D-K, 22 B54) e "La natura ama nascon dersi" (D-K, 22 B 123). Come si puòosservare, mentre nella divinazione il "visibile" richiamavaapertamente la funzio ne, tutta fisiologica, svolta dali'organo della vista,una vol ta avvenuta la trasposizione in altri campi questo legame si attenua.Di fatto scompare quasi del tutto nella scienza, do ve visibile e invisibilevengono concepiti come due mondi, la cui comunicazione è garantita non dallavista, ma dalla congettura. 3.6 L'analogia e la congettura Il caratteresemiotico della rivoluzione effettuata dal pen siero ippocratico è stato messoin luce da Vegetti (1976), il quale, ponendo in relazione gli scritti deimedici ippocratici con la cultura scientifica e filosofica del loro tempo, hamo strato come essi fossero impegnati in una lotta a favore di un "metodosemiotico", contro il cosiddetto "procedimento analogico",tipico della filosofia ionica e di quei medici e intellettuali che a essa inqualche maniera si richiamavano. In effetti, quella ionica, più che come unafilosofia vera e propria, si caratterizzava come una physiologhla, cioè unaindagine sulla natura (phjsis), e come ricerca di un suo principio (arch). Lanatura dei filosofi ionici è in sostanza il mondo quale si manifestaall'osservatore, ma presenta un duplice aspet to: esso è, contemporaneamente,molteplice, perché si com pone di una infinità di fenomeni, e unitario, inquanto cia scun fenomeno manifesta lo stesso principio rintracciabile in ognialtro frammento del reale. L'unico procedimento conoscitivo, in questo quadro,è l'analogia: di fronte a qualsiasi fenomeno, si tratta di riper correre ilcammino della phjsis che porta, per via analogi ca, dal singolo fenomenoall'arch. Dal punto di vista se- miotico, la filosofia ionica ragiona come sequalsiasi tipo di modalità di produzione segnica fosse ridotto al solo metododel riconoscimento di campioni: un frammento sta costan- 68 3. I SEGNINELLA MEDICINA GRECA temente per una totalità che è a esso completamente omogenea (Eco 1975: 296; 1984: 48). Un paradigma diverso è quello che si impone apartire da Alcmeone di Crotone proprio con la proposta del principio semioticodella congettura: Delle cose invisibili e delle cose visibili solo gli dcihanno cono scenza certa; gli uomini possono soltanto congetturare (lekmafresthal). (Diog.Lart.,VIII,83== D-K,24Bl) Mentre per i filosofi ionici e per lamedicina dei postulati c'era continuità tra i principi della natura, i suoifenomeni e l'osservatore stesso di quei fenomeni, con lcmeone nasce unafrattura profonda tra l'uomo e la realtà. Il mondo del l'esperienza non si dàa conoscere spontaneamente, non è più trasparente. Proprio sulla fratturainaugurata da Alc meone si impernia il metodo semiotico. Essa conduce allanecessità di sostituire il procedimento dell'analogia con uno basatosull'indizio: la conoscenza umana assume per princi pio il tekmafresthai, ilprocedere per indizi e congetture. Ciò che la medicina ippocratica svilupperà,e che è ancora assente in Alcmeone, è l'inquadramento del metodo conget turalein una struttura logica compiuta. 3.7 Metodo analogico e metodo semiotico Aquesto punto è possibile domandarsi quale forma assu ma la metodologia dellaricerca congetturale nei trattati ip pocratici. Una prima risposta a questadomanda può essere cercata attraverso un'analisi della polen1ica che, a questoproposito, ha opposto Regenbogen (1930) a Diller (1932) nella prima metà diquesto secolo. In questa polemica ritro viamo una contrapposizione tra"metodo semiotico" e "me todo analogico"; ma in un sensosensibilmente diverso da quello esaminato finora, in quanto la nozione di"analogia" era assunta in un senso lato, molto vicino alla nozione semiotica di "omomatericità".15 3 .7 METODO ANALOGICO E METODOSEMIOTICO 69 In questo secondo caso la nozione di "analogico" vieneassunta in un senso strettamente tecnico, come istituzione di un parallelismotra un fenomeno da spiegare e un altro fenomeno noto, con conseguentepossibilità di inferenza dal secondo al primo. L'inferenza analogica del tipode scritto costituisce, secondo Regenbogen, il carattere specifi co dellametodologia di ricerca utilizzata dali'autore del gruppo di trattati Sullaprocreazione, Sulla natura del bam bino, Sulle malattie I V: in questi testivengono spesso messi a confronto processi di tipo non osservabile con processiosservabili e i primi vengono chiariti mediante un'analogia con i secondi, comesi verifica a esempio quando viene isti tuito un parallelo tra lo sviluppo delfeto e quello delle pian te (Littré 1839, VII 528, 22 e sgg.) o quello di unuccello (Littré 1839, VII 530, 14 e sgg.). L'autore dei trattati si at tienedi fatto al principio di Anassagora secondo cui ciò che appare permette diavere una visione anche di ciò che è invi sibile, e applica questo principiosistematicamente. Il para gone con l'oggetto visibile, su cui si basal'analogia, viene visto come una prova deli'oggetto di partenza. Ilprocedimento analogico non è limitato ali'ambito me dico-biologico, ma se nepossono rintracciare esempi chia rissimi in ambito storico. A esempio Erodoto(Hist., II, 33), quando parla del Nilo, il cui corso, le cui sorgenti e la cuilunghezza gli sono sconosciuti, sostiene: "a quanto io ri tengo,congetturando (tekmair6menos) dalle cose note quelle ignote, (il Nilo) muove dauna longitudine eguale a quella da cui muove il Danubio". Il ragionamentoè il se guente: il corso del Danubio è conosciuto dalle sorgenti alla foce, e,posto sullo stesso meridiano, nella concezione di Erodoto, scorre nelladirezione opposta a quella del Nilo, cioè da nord a sud verso il mar Nero, cosìcome il Nilo scor re da sud a nord verso il mar Mediterraneo; il Danubio, infine, è il fiume maggiore dell'Europa, come pure il Nilo lo è dell'Africa. Datiquesti elementi, si può immaginare il corso del Nilo in analogia con quello delDanubio. Secondo Diller (1932: 17), tuttavia, l'analogia non riesce a copriretutti i casi di inferenza dal visibile all'invisibile, e porta a questoproposito un certo numero di esempi, tra i 70 3 . I SEGNI NELLA MEDICINAGRECA quali l'inferenza sperimentale contenuta al cap. 8 del tratta to Learie, le acque, i luoghi. L'esperimento vuole dimo strare che le acque cheprovengono dalla neve e dai ghiacci, perdono le qualità di leggerezza, dilimpidezza e di dolcez za, mentre conservano quelle di pesantezza e ditorbidezza. L'autore del trattato suggerisce a questo proposito di versa re,durante l'inverno, dell'acqua in un recipiente e, dopo averla misurata, diesporla all'aperto per lasciarla gelare. Il giorno seguente va messa di nuovoal caldo e fatta scioglie re: misurandola, ci si accorgerà che la sua quantitàè molto diminuita. Questa è una prova (tekmrion) del fatto che, gelando,l'acqua ha lasciato andar via la parte più leggera e delicata e dimostra,contemporaneamente, la scadente qua· lità dell'acqua proveniente dalla neve edai ghiacci. Questo esperimento viene definito tekmrion e si basa sulla istituzione di un parallelismo tra due serie di dati di realtà. Ma, giustamente,Diller mette in dubbio che si tratti an che di un procedimento analogico: ineffetti l'unica analo gia che vi si può istituire è che per una piccolaquantità di una materia (acqua: ghiaccio) valgono le stesse leggi che valgonoper l'elemento nella sua totalità. Si può esprimere quello che avvienenell'esperimento attraverso la formula "parte : parte = tutto :tutto"; la vera inferenza consiste nel trarre conclusioni dalla parte sultutto. Comunque, per Dil ler, qui siamo di fronte a un tipo di inferenza chenon è ana logica nello stesso senso in cui è analogica l'inferenza che abbiamovisto in Erodoto, in quanto qui "tutto si svolge al l'interno delprocesso che dovrebbe essere spiegato, senza che un processo analogo siachiamato in causa" (ibidem, 19). Con un ragionamento non diverso, secondoDiller, l'au tore del trattato Le arie, le acque, i luoghi sostiene che laparte più fine e più pura deli'acqua ingerita viene espulsa dall'organismo,quella che è più densa e più torbida sedi menta: la prova (tekmrion) è datadall'osservazione di co loro che soffrono di calcoli alla vescica, i qualiespellono un'urina limpidissima, in quanto la parte più densa e torbi da sicondensa appunto in calcoli. Ciò che questi esempi hanno in comune è chequalcosa di 3 .7 METODO ANALOGICO E METODO SEMIOTICO 7 1 non percepibileviene spiegato attraverso dei fenomeni per cepibili. Però questi fenomeni nonsono degli analoga di ciò che deve essere spiegato, bensì dei segni: essistabiliscono, rispetto al processo che deve essere spiegato, lo stesso rapporto che c'è tra l'effetto e la causa. Quindi, per Diller, l'in ferenzasemiotica (propriamente: semeiotisch, ibidem, 20, da lui collegata strettamenteal procedimento medico) deve intendersi nel preciso senso (che sarebbe statopoi quello aristotelico) di inferenza dal conseguente. Ulteriormente perDiller, mentre l'inferenza analogica rende chiaro il "So sein" di unprocesso o di uno stato sconosciuto quella se miotica indizia del suo"Dasein". Recentemente la problematica è stata ripresa da Lonie(1981: 79 ss.),16 che ha sottolineato come nei trattati presi in considerazionedal Regenbogen, ma anche in altri testi del C.H. in generale (a esempio in Learie, le acque, i luoghi, cap. 8), sono rintracciabili degli esempi di processiesplicati vi complessi, che comportano sia una inferenza semiotica (inferirele cause da fenomeni osservabili), sia una induzio ne analogica. Moltointeressante a questo proposito è il capitolo 12 (= Littré 1839, VII 486, 3ss.) del trattato Sulla natura del bambino: l'autore stabilisce anzitutto lateoria (elemento non osservabile) per cui lo sperma, trovandosi nell'ambien teumido e caldo dell'utero materno, acquisisce una capaci tà di respiro (pneuma)che si apre una breccia verso l'ester no: esso emette un soffio e, in unaseconda fase, inspira aria fresca attraverso la breccia. Per provare questateoria, l'autore ricorre a un'analogia con tre diverse classi di ogget ti, incui si verificherebbe lo stesso fenomeno: il legno, le foglie, le sostanzecommestibili. Viene poi descritto il com portamento del legno quando brucia:esso espelle aria cal da, in corrispondenza del punto in cui è stato tagliatoe, contemporaneamente, attira a sé un altro soffio freddo. L'azione dei duemovimenti contrapposti fa sì che il fumo e il vapore si avvolgano intorno allegno. Questo fatto viene descritto come un fenomeno osservabile ("noivediamo che accade questo"), dal quale viene tratta un'inferenza (ekloghismos) circa la causa del fenomeno stesso. Tale inferenza 72 3. I SEGNINELLA MEDICINA GRECA assume la forma di un modus tollens "Se non-p, alloranon-q; ma q; perciòp": "Se non ci fosse questo duplice mo vimentocontrapposto, allora il soffio (fumo e vapore) non si avvolgerebbe intorno allegno, fuoriuscendo" (Littré 1839, VII, 486, 20-21). L'autore passa poi aillustrare lo stesso tipo di comporta mento negli altri esempi di analoga eprocede quindi alla formulazione di una legge generale per induzione:"tutte le cose che sono riscaldate emettono un soffio (pneuma) e fannoentrare un soffio freddo per rimpiazzarlo". Alla fine l'autore sostieneche i fenomeni descritti devono essere con siderati come "provenecessarie" della sua affermazione teorica intorno allo sperma. Nelprocedimento conoscitivo messo in scena nell'esem pio precedente possonoessere messi in luce tre diversi ele menti . Anzitutto si ha l'istituzione diun'analogia tra un fatto non osservabile (il comportamento dello spermaneli'utero materno) e alcuni fenomeni osservabili. In secondo luogo, c'è unainferenza semiotica (che è pro priamente quella di cui parlava Diller,chiamandola "infe renza semeiotica'' e che Lonie chiama "inferenzacausale") consistente nel risalire dal fenomeno osservabile (a esempiol'emissione di fumo e vapore durante la combustione del le gno) alla sua causaovvero alla natura del processo. È inte ressante notare che inferenze diquesto tipo sono molto fre quenti nei trattati considerati e che l'espressioneche designa il fenomeno da cui l'inferenza è tratta è smefon. In terzo luogo,si ha la formulazione, per induzione, di una legge generale, che è intesa comevalida anche per il pri mo termine (quello da dimostrare) dell'analogia. Incom plesso si può dire che il valore probante dell'analogia consi ste nelfatto che essa permette di convalidare una proposi zione di partenza (relativaa fatti non osservabili) mediante il ricorso a proposizioni concernenti fattianaloghi, ma os servabili, che sono considerati come esempi di una legge valida generalmente. Lonie (1981: 85) iliustra i rapporti tra analogia, principiogenerale ed enunciazione di partenza con il seguente diagramma: 3.8 LASEMIOTICA NEI TRATTATI METODOLOGICI 73 principio generale esemplifica/tt(",, conferma /// '' /' > analogo illustra asserzione di pertenza 3.8Il metodo semiotico nei trattati metodologici Nel gruppo di opere del C.H. dovevengono maggior mente approfonditi gli aspetti teorici della medicina (Anticamedicina, Le arie, le acque, i luoghi, Ilprognostico, Il regi me nellemalattie acute, Male sacro, Le epidemie l e III e le maggiori operechirurgiche) è possibile rintracciare, nel mo do più chiaro, la formulazionedella metodologia/semioti ca, quella appunto a cui si riferiva Diller (1932) eche Lonie (1981) individua come procedimento di "inferenza causale". In questo paragrafo cercherò di approfondire in che co sa consistetale metodologia, indipendentemente dagli altri procedimenti che possonoesserle associati, come abbiamo visto che avveniva con l'analogia. Nelleopere che abbiamo sopra menzionato viene innan zitutto aperto il problema delsignificato dei dati di osserva zione.17 Il singolo fenomeno (hékaston), nonessendo più collegato con (né riconducibile a) una presunta unità della natura,come nella physiologhla, ha bisogno di essere inter pretato, cioè riconnesso aun sistema di riferimento. È a questo punto che inizia il procedimentoinferenziale, o loghism6s, che è in un primo momento essenzialmente abduttivo:18 si comincia a ipotizzare che il fenomeno singo lo, che si presentaali'osservazione del medico, sia un caso di una qualche regola generale. Siprova, cioè, a pensare che lo hékaston, di per sé insignificante, possa essereconsi derato come un smeion, un segno che rimanda a un siste- 3. I SEGNINELLA MEDICINA GRECA ma, e dal quale riceve senso. Questo primo momento ascendente, di costruzione del sistema di riferimento, viene segui to da un secondomovimento, discendente, di verifica. Se il sistema ipotizzato sia valido efunzionante, può essere pro vato applicandolo a nuovi e diversi casi: il segnosi trasfor ma così in tekmirion e il metodo diviene deduttivo. Usando loschema proposto da Eco (1984: 41) per l'abduzione si po trebbe cosi illustrareil processo: codice eziologico e/o prognostico: r--, son: h,jksston (singolofenomeno) : l risultato l -- 1 r - - -,l l regola 1 l -----_j l l lL - - -- - 1 .----l L Vegetti(1976: 49) mette molto bene in luce questo dupli ce movimentoabduttivo-deduttivo della téchnippocratica: "Ciò d'altro canto conferivaalla funzione dello hékaston, spogliato dai privilegi 'metafisici', una dignitànuova. Esso infatti era, da un lato, chiamato ad essere segno, smeion,sull'altro da sé, sul sistema cui, per via di inferenza, era suppostoappartenesse; e dall'altro lato, acquistava il ruolo di 'prova', tekmirion,sulla validità dell'inferenza stessa, che si misura appunto sulla possibilitàdi trovare conferma ___..J 1 l 74 3.9 LA STRUITURA FORMALE DEL SEGNO 75negli hékasta. Il metodo semeiotico si configurava cosi, per la téchnippocratica, come un movimento - 'dialettico' - che procedendo dallo hékastonposto dall'osservazione (ma è il caso ormai di parlare di 'esperienza' scientifica),lo tra sforma in smefon, mediante un'inferenza logico-concet tuale(loghism6s) e poi in prova o tekmrion, per conclude re, se il circolo si fossesaldato, nella capacità di compren sione e di intervento pratico su semprenuovi hékasta". Sicuramente lo schema di riferimento che il medico devecostruire è un codice, ma di tipo particolare: è infatti pro babilistico. Comeha messo in evidenza Di Benedetto (1966 e 1986: 132), i testi del C.H. sonodisseminati di espressioni che indicano una tendenza o una probabilità quali"la mag gior parte", "i più", "molti","soprattutto", "spesso", "tal volta" ecc. Questonon significa che i medici della collezio ne ippocratica non siano impegnatinella costruzione di si stemi di riferimento costanti e funzionantigeneralmente. Semplicemente la logica del hoi pleistoi ("la maggior parte") si sostituiva alla logica del ptintes ("tutti"). Del resto,proprio il carattere probabilistico contraddistingue l'infe renza abduttiva oipotetica rispetto a quella strettamente deduttiva. 3.9 La struttura formaledel segno La nozione di smeion ("segno", "sintomo") è unadelle nozioni centrali nei testi del C.H. La struttura formale at traverso laquale il segno è introdotto è relativamente co stante, in quanto prevedel'inquadramento in uno schema implicativo del tipo: p-:Jq Dal punto di vistalinguistico, molto spesso p e q sono rap presentate da proposizioni (o dasequenze di proposizioni), il cui collegamento costituisce un periodoipotetico, come possiamo vedere da un brano tratto dal cap. 9 del Progno stico: 76 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ma bisogna osservare anche gli altrisintomi (smefa): se (n) in fatti il malato sembra sopportare favorevolmente ilmale, oppu re, oltre a questi, mostra qualche altro dei sintomi salutari, c'èsperanza che il male si risolva in ascesso, sicché l'uomo soprav viva, purperdendo le parti annerite del corpo. In questo esempio la prima partedell'implicazione è co stituita da una sequenza di due proposizionicondizionali introdotte da n ("se"), che si riferiscono a dati diosserva zione (protasi), mentre la seconda parte presenta un perio docomplesso (apodosi) relativo a una previsione medica. Se il riempimentosemantico della protasi con dati di osser vazione, ovvero elenchi di sintomi,è relativamente costan te, l'apodosi può contenere anche una enunciazionediagno stica, sebbene ciò avvenga meno frequentemente, data la centralitàdella prognosi nella medicina antica.. Inoltre l'a podosi può contenere anche(e talvolta essere sostituita da) una indicazione terapeutica. 3. 10 Moduliespressivi arcaici Il modello "Se p, allora q", che serve moltospesso (a esempio nei trattati tecnico-terapeutici) a introdurre la ma lattiastessa, è molto antico e può essere messo in relazione agli analoghi moduli dipresentazione della malattia nei trattati medici assiro-babilonesi e in quelliegiziani.19 Il mo dello implicativo nei testi assiro-babilonesi prevede la presenza di una protasi, introdotta da §umma ("se", "nel casoche"), contenente l'indicazione dei sintomi, seguita da un'a podosicontenente un'indicazione terapeutica. A esempio: Se il cranio di un uomo hauna infiammazione, le sue tempie so no afflitte da SA.ZI (?) con turbamentodei suoi occhi, essendo i suoi occhi affetti da offuscamento, obnubilamento,disturbo, arrossamento (?), con le vene infiammate (?), e molto pianto, tu devitritare in una macina l/3 di ka di lolium (e) spelta mon data, setacciare,quanto più puoi, e quindi prendere l/3 di kq, impastare in acqua di rose,radere a sua testa), applicare legando, e non toglierlo per tre giorni.23 . l 0 MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 77 La struttura implicativa del moduloassiro-babilonese può essere considerata struttura segnica (anche se non siparla esplicitamente di segno), con la particolarità che al li vello semanticoè sostituito direttamente il livello praxeolo gico:21 il segno (propriamente,l'antecedente del condizio nale) suggerisce, senza mediazione, uncomportamento. Questo modulo, comunque, estremamente arcaico, è tal voltarappresentato anche in alcuni dei trattati tecnico-tera peutici, che sonoanche i più antichi del C.H. : in Malattie II A e nello stato arcaico (A) deltrattato ginecologico Su/le malattie delle donne. Si tratta tuttavia di attestazionispora diche, che sono presenti accanto a moduli diversi, centrati sullarelazione tra sintomatologia e malattia. Un discorso a parte merita il trattatoSulle affezioni in terne, dove il modulo espressivo di presentazione della malattia assume un carattere del tutto particolare. Esso è infat ti composto ditre elementi strutturali: (A) una prima pro posizione (o serie diproposizioni) introdotte da "se", dove è presentato un fenomenointerno, non visibile, da conside rarsi come "la causa" dellamalattia; (B) una seconda serie di proposizioni, introdotte dall'espressionetade paschei ("tali cose soffre il malato"), nella quale è presentatala sin tomatologia (i fenomeni rilevabili esternamente); (C) una terza seriedi proposizioni che sono relative alle indicazioni terapeutiche. Avviene moltospesso che la parte A sia sdop piata in due: At (le cause dirette deisintomi); A2 (le cause che hanno prodotto la malattia stessa). Ecco un esempio,tratto dal cap. 8, dove distinguiamo gli elementi strutturali: (At) Se (in) nelpetto e nelle spalle si produce una rottura, (A2) fatto che si verificasoprattutto a causa di uno sforzo, (B) ecco i sintomi (tade [...] ptischez):tosse vivace, espettorazione talvolta sanguinolenta; di solito brividi e febbre;dolore acuto nel petto e nelle spalle. Il malato ha l'impressione che unapietra gli pesi sul fianco; i dolori lo trapassano come se lo si bucasse con unago. (C) Stando così le cose, lo si farà ingrassare con il latte e subito sicauterizzeranno il petto e le spalle. (Littré 1839, VII, 186, 3-10) 78 3.l SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ciò che è interessante di questo modulo dal puntodi vista semiotico è che l'inferenza tra i primi due elementi ("Se A,allora B") è non abduttiva (cioè dagli effetti alle cause), ma deduttiva.Ciò significa che l'accento è posto sul sistema, già preliminarmentericostruito, delle cause che possono produrre determinati sintomi. Questo è ilpunto di vista del trattatista: nella pratica il medico risalirà invece daisintomi alle cause. Si deve inoltre notare che Sulle affezioni interne presentaanche una sezione prognostica (D), collocata tra B e C oppure dopo C: il testocitato continuava con "In que sto modo il malato sarà molto prestoguarito". Un altro termine di confronto per i moduli della medici nagreca è quello rintracciabile nei testi egiziani. Le formule che questi ultimiadoperano sono diverse da quelle della medicina assiro-babilonese in quantohanno anche una se zione dedicata alla diagnosi. Come Vincenzo Di Benedetto(1986: 91) ha mostrato, esse potevano essere divise in tre elementistrutturali: una prima sezione (A), introdotta dalla congiunzione"se", presenta la sintomatologia come il risul tato di unesame/visita del medico; una seconda sezione (B), sempre attraverso la messa inrilievo della parola del medico che fa la diagnosi, enuncia la causa; una terzasezio ne (C) presenta l'intervento terapeutico del medico. Vedia mo unesempio tratto dal papiro Ebers (scritto intorno al 1550 a.C.): (A) Se tuesamini un uomo che soffre al suo stomaco, tutte le parti del suo corpo sonoappesantite come per l'insorgere della stanchezza: tu devi allora mettere lamano sul suo stomaco e lo trovi a mo' di timpano, in quanto va e viene sotto letue mani. (B) Allora tu devi dire "è un'inerzia nel mangiare che non permette che egli mangi dell'altro". (C) Allora tu devi preparargli unrimedio che svuoti (seguono le indicazioni degli ingredienti della ricetta). Inquesto caso si ha un andamento abduttivo: la sintoma tologia costituisce ilpunto di partenza per ricostruire il qua dro eziologico, cioè una realtànascosta che deve essere in terpretata a partire dai dati esternidisponibili. MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 79 Tutti questi moduli, attraversoi quali si definisce la pre sentazione della sintomatologia medica,costituiranno una base di riflessione, rimanendo talvolta sullo sfondo, ma piùspesso affiorando negli esempi, quando la filosofia cerche rà di definire lastruttura formale del segno. PLATONE 4.0 Introduzione Platone è il primocompiuto erede della grande tradizione culturale che lo precede. Nelle sueopere tale tradizione dà luogo a un'ampia e articolata teoria del linguaggio,ma non produce, allo stesso tempo, una separata teorìa del segno, come inveceavverrà in Aristotele e in genere nelle scuole fi losofiche successive. Sipossono, però, osservare due fatti: da una parte l'ana lisi dei contesti incui Platone usa termini scmiotici permette di ricostruire un can1po teorico disfondo abbastanza omo geneo, i cui contorni definiscono il segno; dall'altracerti aspetti della stessa teoria platonica del linguaggio presenta no uncarattere intrinsecamente semiotico, fatto che non si verificherà nelle teorieEnguistichc dei filosofi successivi. Esaminiamo separatamentc i due problemi.4.1 I segni 4. 1 . 1 La comunicazione divina Raccogliendo la tradizionedivinatoria, Platone parla di "segni" in tutti quei contesti in cuisi instaura una comuni cazione tra dei e uomini (Repubblica, 382 e; Timeo, 71a - 4.1 I SEGNI 81 72 b; Fedro, 244 b-e). In questi casi viene ancheusato il ver bo smafno che, come abbiamo già visto, nell'ambito divi natorionon indica tanto il "significare", quanto l"'inviare unsegno", vero tramite della comunicazione divina. Tale segno può essere untesto verbale, come il responso della Pi zia di Delfi, o anche un testovisivo, come lo sono le imma gini del sogno (Timeo, 71 e), o quelle impressenel fegato che funziona come uno specchio (Timeo, 10 b). Il segno può ancheessere rappresentato da un evento na turale, come il volo degli uccelli; ma inquesto caso (che è quello più classico della divinazione tecnica) la comunicazione è troppo mediata per avere davvero alore e produce più opinione checonoscenza (Fedro, 244 c). In effetti, il ca so della comunicazione piùefficace con il soprannaturale è quello del "segno demonico" diSocrate, che si manifesta come una "voce" interna (Fedro, 242 b-e;Apologia, 31 d) che parla direttamente al destinatario. 4. 1 .2 Il segno come"impronta nell'anima" In una seconda serie di contesti il segnoappare come im pronta (tjpos), nel preciso senso in cui è un segno l'impronta lasciata da un sigillo. Questa accezione è presente nel Teeteto (191 a - 195b), dove, per la soluzione di problemi epistemologici, viene sviluppata lametafora dell'anima co me blocco di cera, su cui vanno a imprimersi i segniprodot ti dalle sensazioni (tOn aisthseon smefa). Questi segni, quando sonoincisi profondamente, costituiscono la base per le elaborazioni della memoria eper la formazione della retta opinione. In effetti si crea falsa opinione intutti quei casi in cui gli uomini si dimostrano incapaci di "assegnareciascuna cosa al proprio segno'' (195 a), cioè di far combaciare il segnoimpresso nell'anima con la nuova sensazione, in quanto il rapporto che si vienea stabilire nel rinnovato processo per cettivo è lo stesso che si instaura tra"copie e originali" (apotypOmata kaì tjpous) (194 b). 82 4.PLATONE 4.1.3 I segni della scrittura Il tema della memoria, che abbiamotrovato accennato a proposito dei segni impressi nell'anima nel Teeteto,ritorna in maniera centrale nel Fedro (274 c - 276 a), quando l'at tenzione diPlatone si focalizza sui segni della scrittura. Nel mito che Socrate racconta,infatti, i segni alfabetici sono un dono che il dio egizio Theuth offre al redi Tebe Thamus, invitandolo a diffonderli in tutto l'Egitto perché, secondo ildio, essi sarebbero stati "una medicina per la sapienza e la memoria"(Fedro, 274 e). Thamus però non accoglie senza riserve il dono di Theuth,convinto che i segni della scrittura abbiano un effetto contrario rispetto aquello previsto dal dio, indebolendo la memoria: gli uomini "fidandosidello scritto richiamerebbero le cose alla mente non più dalPin terno di sestessi, ma dal di fuori, attraverso segni (tjpol) estranei" (Fedro, 275a). Sviluppando questo concetto, Socrate giunge a una con trapposizione tra"le parole scritte" e "il discorso scritto nell'anima":quest'ultimo è "vivente e animato", è scritto con la scienza ed ècapace di selezionare i buoni destinatari; le parole scritte, invece, hannosolo l'apparenza della vita, ma in realtà sono capaci di dire una sola cosa esempre la stessa, al pari delle immagini pittoriche che, se interrogate,"mantengono un maestoso silenzio"; inoltre si rivolgono indiscriminatamente a tutti. Ma, posto il primato del discorso scrittonell'anima, si istaura tuttavia una relazione semiotica tra i due termini: comepropone Fedro, le parole scritte possono essere consi derate "un'immagine(eldolon)" del discorso scritto nell'a nima (276 a); ciò nonostante esserimangono segni estrinse ci, capaci solo di "rinfrescare la memoria dicoloro che già sanno" (277 e). Si possono rappresentare questi rapporti semiotici con un triangolo (cfr. p. 83). La linea tratteggiata indica il fattoche per Platone le pa role scritte, di per sé, non permettono la veraconoscenza, che deve essere mediata dal discorso interiore, ma produco no soloopinione (275 b). 4.1.4 Il segno come inferenza 4.1 I SEGNI discorsoscritto nell'anima 83 immagini { 8 /d lJI B ) parole scrrtte oggettidella conoscenza Infine, una serie di contesti ci presenta un uso del termine"segno" (stmeion, in alternanza con tekmrion) come indi cante unfatto, un evento, uno stato dal quale si può inferi re un altro fatto, eventoo stato secondo il modello già in contrato nella divinazione mesopotamica enella medicina greca (p::)q). Nel Teeteto (153 a), a esempio, si dice che ilfatto per cui il movimento e lo sfregamento producono il calore e il fuo co, iquali a loro volta producono tutte le altre cose, è un se gno sufficiente(hikanòn stmeion) per argomentare che il moto produce l'essere e il divenire,mentre la quiete produ ce il non essere e il perire. Negli stessi termini siparla di se gno nell'Epistola VII (332 c), dove il fatto di avere o meno degliamici viene presentato come il più grande segno del carattere virtuoso ovizioso di una persona. Ancora, nel Gorgia (520 d-e) si definisce un bel segno(ka/òn stmeion) del successo ottenuto il fatto che chi ha reso un servigio riceva un adeguato contraccambio. In tutti questi casi il se gno è espresso dauna proposizione legata da un rapporto implicativo con un'altra proposizione.Ma, su questa accezione basilare, si innesta l'idea del st- 84 4. PLATONEmefon come segno che serve a distinguere una certa cosa da tutte le altre. Inun passo del Teeteto (208 c - 209 c) si dice che il segno distintivo del sole,sufficiente (hikan6n) per co noscerlo, è dato dal fatto che esso è il piùrisplendente tra tutti i corpi celesti che girano intorno alla terra. Naturalmente la forma logica sottesa a questa formulazione super ficiale è quellaimplicativa ("Se un corpo celeste che gira in torno alla terra è il piùrisplendente di tutti, allora esso è il sole"). Ma a questo punto Platonesi interroga sul valore episte mologico della conoscenza attraverso i segni,chiedendosi se cogliere il segno distintivo di una data cosa (''il segno ondela cosa di cui si domanda differisce da tutte le altre", 208 c),significhi cogliere anche la ragione (/6gos) di quella stessa cosa.L'interrogativo non è di piccola importanza e si può notare che esso riappariràin Aristotele sotto forma di ricer ca dei rapporti tra il "segno" ela "causa" di un fenomeno. E, come farà Aristotele, anche Platone quidistingue il se gno dalla ragione di conoscenza (/6gos epistms), soste nendoche il segno contribuisce al formarsi della retta opi nione, ma non dellaconoscenza. 4.2 La teoria del linguaggio 4.2. 1 Carattere semiotico dellaconcezione lingui stica di Platone Nella speculazione successiva a Platone, lateoria del se gno e quella del linguaggio verranno a costituire due ambiticompletamente separati, che considereranno diversi gli og getti dellerispettive indagini, chiamandoli con nomi diversi (in Aristotele, a esempio, ilsegno linguistico sarà sjmbo lon, e non smefon). Nella filosofia platonica,invece, que sta divaricazione non si è ancora affermata, ma, al contra rio,si può notare che la sua teoria linguistica ha un caratte re spiccatamentesemiotico. 4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 85 In generale, nella culturagreca, il segno è concepito come un elemento percepibile che rimanda a (opermette di giun gere alla conoscenza di) un elemento che non è manifesto(adlon, aphanés ecc.); come abbiamo visto, del resto, nel caso della medicinae, prima ancora, della divinazione, il segno costituisce la mediazione tra ilpiano delle cose acces sibili ai sensi e il piano delle cose non accessibili.Proprio con questi caratteri si presenta il segno linguisti co nei dialoghiplatonici (soprattutto nel Crati/o e nel So/i sta): esso è d/Oma("rivelazione") di un oggetto non perce pibile (sia esso un"significato", sia esso l"'essenza" della cosa nominata).Costantemente il verbo smafno ("signifi co", "manifestoattraverso segni") si alterna al verbo d/60 (''rivelo","manifesto") quando si parla di una forma espressiva che rimanda a uncontenuto che non viene colto con i sensi. Ciò avviene a esempio in un passodel Crati/o (422 e), nel quale Socrate indaga la capacità che hanno i prO/aon6mata (gli elementi primi e irriducibili del linguag gio) di rendereevidenti (phanera) ciascuno degli enti: a que sto proposito li paragona aisegni gestuali dei muti, che so no capaci di indicare (smalnein) le cose conle mani, con il capo e con il resto del corpo, pur essendo impossibilitati amanifestarle (dlot2n) con il linguaggio verbale. A più riprese nel corso delCrati/o viene affermato il compito semiotico di "rivelazione" (d/Oma)che hanno gli elementi del linguaggio. Ma Platone distingue la rivelazioneeffettuata dai nomi da QUella effettuata dagli enunciati (Lo renz eMittelstrass 1967: 8): questi ultimi, infatti, rivelano sempre qualcosa intornoagli oggetti (Sofista, 262 d), men tre soltanto i nomi "corretti"rivelano gli oggetti come sono (Crati/o, 422 d). Anzi, è proprio il caratteredi rivelazione che riveste il nome a costituire il suo criterio di correttezza.Nel Sojzsta (262 a) il nome è definito espressamente "se gno vocale"(smefon tis phonis), espressione che è usata come equivalente a d/Oma e la cuifunzione è quella di ma nifestare l'"essenza" della cosa nominata:"lo direi infatti che c'è un duplice genere dei nostri segni fonici (tiiphonii [.. .] dlomaton) che indicano l'essere di qualche cosa" (So- fista,261 e). 86 4. PLATONE Particolari combinazioni di questi "segnivocali" danno luogo agli enunciati (/6go1), facendo scattare un livello superiore. In effetti, nel Sofista viene preso in considerazione il problema che,in termini aristotelici, sarà descrivibile co me opposizione tra"semantico" e "apofantico". In Plato ne, questa sipresenta come opposizione tra il livello ono mazein ("nominare") eil livello légein ("enunciare") (262 d). I singoli segni vocali,siano essi on6mata ("nomi") o rhimata ("verbi"),manifestano un contenuto nel momento in cui nominano qualcosa. Le corrette combinazionidi que sti segni vocali si situano a un diverso livello, perché, oltre amanifestare un contenuto, lo presentano come "essere il ca so" o"non essere il caso" di un determinato evento, stato o processo, cioène costituiscono un'asserzione (De Rijk 1986: 199-200). 4.2.2 La teorialinguistica del "Cratilo" Il problema fondamentale che vieneaffrontato nel Crati lo è quello della "correttezza dei nomi". Essoè posto fin dali'inizio del dialogo al centro di una disputa che oppone Cratiloa Ermogene e per la quale Socrate è scelto come giu dice. Complessivamente,nella discussione, Cratilo sostiene una tesi che possiamo definire"naturalista", mentre Ermo gene una tesi"convenzionalista"; ma le rispettive posizioni sono più stratificatee presuppongono alcune distinzioni. Innanzitutto c'è un primo livello didiscorso che riguarda l'atto della nominazione in un momento del linguaggio chepossiamo considerare aurorale. Per Ermogene tale atto è frutto di convenzione enasce dali'accordo degli uomini, che già hanno una conoscenza preliminare dellecose. Per Cratilo, al contrario, l'atto della nominazione non presup ponealcun accordo tra gli uomini, ma avviene in maniera naturale. Un secondolivello di discorso è rappresentato dall'analisi dello stesso fenomenotrascurando il momento diacronico della formazione del linguaggio efocalizzando il rapporto di correttezza rintracciabile tra il nome e la cosa acui esso è 4.2 LA TEORIA DEL LINOUAOOIO 87 applicato sincronicamente. Inquesto caso tanto Ermogene quanto Cratilo propongono la stessa soluzione,sostenendo che i nomi sono sempre correttamente riferiti alle cose. L'u nicadifferenza tra le due posizioni consiste nel fatto che per Cratilo lacorrettezza dei nomi segue una legge naturale, mentre Ermogene sostiene ilcarattere convenzionale delle regole che stabiliscono la correttezza, e adducecome prova il fatto che i nomi possono essere cambiati a piacere, senzadisturbare tale rapporto. Un terzo livello di discorso, che scaturiscedirettamente dal precedente, è quello che riguarda l'estensione della validità del rapporto di correttezza. Per Cratilo la correttezza del nome è"universale", vale tanto per i Greci, quanto per i barbari. PerErmogene, invece, sembra che tale correttezza debba essere limitata allacomunità linguistica particolare che ha adottato la convenzione. Si possonodistribuire questi dati su una matrice: ErmogeneCratilo atto della nomina- zione primordiale frutto di accordo n aturale semprepresente sempre presente correnezza basata su leggi con- venzionali basata suleggi naturali validità del rap- porto di correnezza limitata alla comu- nitèinguistica particolare universale Come abbiamo visto, entrambi icontendenti danno per scontato il carattere di correttezza dei nomi rispettoalle co se. Tuttavia ciascuno fornisce una risposta diversa alla do manda suchi garantisce la correttezza. La legge naturale, 88 4. PLATONE che ne èresponsabile per Cratilo, focalizza il rapporto che si stabilisce tra il nome egli oggetti che lo portano, senza che abbia alcuna importanza ciò che gliutenti del nome ne pensano. Al contrario, la convenzione, che per Ermogene ègaranzia di correttezza del nome, è una regola che riguarda gli utenti delnome, senza che venga presa in alcuna consi derazione la natura dei portatoridel nome stesso (Kretz mann 1971: 127). 4.2.3 Il problema linguistico e ladialettica Accanto a quelle di Ermogene e di Cratilo, nel dialogo è presenteanche una terza teoria, sviluppata dallo stesso So crate attraverso laconfutazione delle posizioni dei due con tendenti. Socrate, come al solito, èportavoce delle opinioni di Platone e le ragioni per cui egli rifiuta entrambele altre posizioni sono da connettersi con la concezione generale del metododella filosofia che propugna Platone. Infatti, se Cratilo o Ermogene avesseroragione, la via della dialettica, come mezzo per raggiungere la conoscenza,risulterebbe impercorribile (Weingartner 1969: 6). Platone prevede illinguaggio come mezzo necessario nella ricerca fi losofica, ma pensa anche chela verità vada cercata nelle co se e non nel linguaggio stesso, come suonaappunto la con clusione del dialogo. Le teorie di Ermogene e di Cratilomettono entrambe in pericolo questo principio. Vediamo brevemente in qualemodo. La teoria di Ermogene si presenta all'inizio come una teoria"convenzionalista classica", sostenendo il principio secondo cui laconvenzione e l'accordo costituiscono il cri terio di correttezza dei nomi(384 c-d). Tuttavia questa non è l'unica posizione che Ermogene sostiene e nonè quella che è effettivamente attaccata da Socrate. Subito dopo Er mogenesostiene anche che, "qualsiasi nome uno imponga a una cosa, questo èquello corretto", precisando che, "se uno sostituisce quel nome conun altro, non usando più il precedente, il secondo nome non è affatto menogiusto del primo" (384 d). A questo punto Socrate costringe Ermoge-4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 89 ne a effettuare un cambiamento difocalizzazione e a preci sare che chiunque può operare questo cambiamento dino mi, non solo una comunità, ma anche un singolo individuo. Ne risulta unadottrina degli idioletti autonomi, tanto parcellizzati da coincidere con laparlata di un solo uomo, che fa scoppiare il convenzionalismo di Ermogene in unsoggettivismo totale; tanto che Socrate non manca di met terlo in parallelocon il relativismo di Protagora (386 a). Questa "Humpty Dumptyposition", come è stata arguta mente chiamata (Weingartner 1969: 7), faperdere al lin guaggio la funzione comunicativa e rende impossibile ladialettica, in quanto non permette di distinguere tra enun ciati veri ed enunciatifalsi. Tuttavia anche la posizione di Cratilo conduce, altrettan toperentoriamente, a una impossibilità della dialettica. Egli infatti elabora unateoria che ha le caratteristiche di un "iconismo assoluto": il nomerivela la natura della cosa che nomina, imitandola; ma questa imitazione ètotale o è un nonsenso. La configurazione sonora, che si distaccasse an cheper una piccola parte dalla perfezione deli'imitazione, verrebbe a essereniente di più che "il rumore che fa uno che agita un vaso di bronzopercuotendolo" (430 a). Poiché per Cratilo la produzione linguisticasembra dare luogo in certi casi a imitazioni corrette, in certi altri a deinonsensi, in entrambe le evenienze la dialettica verrebbe ri dotta a unostrumento sprovvisto di senso. Se, a esempio, la ricerca dialettica cominciassecon il chiedersi "Che cos'è la giustizia?" e sperasse di raggiungere,nel corso del dibattito, la conoscenza dell'entità sotto indagine. Sipresenterebbero allora due possibilità: (i) se l'espressione !giustiziairivelasse naturalmente l'oggetto, che nomina, la ricerca finirebbe prima dicominciare; (ii) se invece essa fosse analoga al "ru more prodotto da unvaso di bronzo percosso", la domanda stessa non avrebbe senso. Ladialettica, per quanto debba giungere a giudizi veri, deve avere la possibilitàdi enunciare giudi.zi falsi, che devono essere corretti nel corso del dibattito. Ed è appunto questa possibilità che viene eliminata dalla teoria diCratilo. 90 4. PLATONE 4 . 2 . 4 Il nome come strumento Uno dei puntifondamentali del dialogo platonico è costi tuito dalla ricerca di un criteriooggettivo che permetta di assegnare un valore di verità tanto agli enunciatiquanto ai nomi. Per raggiungere adeguatamente questo scopo, Socra te spostatemporaneamente il discorso dal piano linguistico a quello ontologico,affermando che le cose (pragmata) hanno in loro stesse una stabile essenza enon dipendono dal giudizio soggettivo (386 e). Una tale caratteristica dioggettività è attribuita da Socra te anche alle azioni (praxeis), che al paridelle cose (pragma ta) sono delle specie di enti (onta). Infatti, dal momentoche ci aspettiamo che le azioni abbiano certi effetti, esse non possono esserecompiute arbitrariamente. Ma, per Socrate, anche il dire (légein) e ildenominare (onomazein, che è una parte del dire), costituiscono delle forme diazione e, di con seguenza, devono essere compiute in maniera non arbitra ria.Possiamo illustrare questa serie di divisioni attraverso il seguente schema:enti (6nts) cose (pr8gmsta) l ""azioni (prAxtJis) /\ dire (/(lgein)/\ Nel resto del dialogo l'intuizione che il dire e il denomi narecostituiscono delle specie di azioni non verrà ulterior mente sviluppata, marimane comunque una importante in dicazione di una possibilità di sviiuppo insenso pragmatico che avrebbe potuto avere la linguistica greca. In questocontesto, lo scopo di mostrare che il linguaggio ha un legame oggettivo con larealtà, commisurato con il fi- denominare (onomAzein) 4.2 LA TEORIA DELLINGUAGGIO 91 ne di raggiungere una comunicazione efficace, è perseguitoattraverso il paragone del nome con uno strumento (orga non): proprio come laspola serve a sceverare la trama del tessuto, così il nome è "unostrumento didascalico e sceve rativo dell'essenza" (388 c). In altreparole, in primo luogo, i nomi operano una tassonomia della realtà, separandogli oggetti del reale, in maniera tale da rispettare le loro nature (Kretzmann1971: 128); in secondo luogo i nomi permetto no di comunicare questa tassonomia.4.2.5 Forma ("eldos") e materia del nome Se lo scopo dei nomi èquello di far acquisire la conoscen za delle cose e di comunicarla agli altri,è necessario che chi ha denominato la realtà (il "nomoteta",personificazione di un'autorità linguistica accettata), categorizzandola in unacerta maniera, già ne possedesse una conoscenza prelimi nare. In effetti, pergarantire la correttezza dei nomi, il nomo teta ha agito come il costruttoredi spole. Come quest'ulti mo guarda ali'eidos ("forma", "idea")della spola, così il nomoteta, per costruire il nome, guarda al "nome insé", cioè alla forma ideale del nome (389 b; 390 a). Allo stesso titolo,come non ogni materiale è adatto alla costruzione di uno strumento, ma ènecessario usare la ma teria che meglio si adatta alla forma (a esempio ilferro per il trapano e il legno per la spola, e non viceversa), ugual mentesarà necessario che i nomi siano costruiti con suoni e sillabe, piuttosto checon altro materiale, se devono com piere bene la loro funzione. Tuttavia nonsarà necessario che la forma fonica (direm mo: di superficie) dei nomi siaidentica per tutte le lingue, ma ciascuna lingua suddividerà in modo diverso ilconti nuum sonoro (nello stesso modo in cui non ogni fabbro adopera lo stessoferro per lo stesso strumento atto allo stesso scopo) (389 e). In questo modoPlatone spiega la di versità delle lingue, le quali pure, indistintamente,sono or ganizzate in maniera da rispettare i medesimi modelli. Ciò 92 4.PLATONE che varia da lingua a lingua è la materia, da interpretarsi co me laconfigurazione superficiale di nomi e di sillabe che as sume ciascun nome. Ciòche rimane costante è laforma (eidos, idéa) del nome che conviene a ciascunacosa (390 a). Un modo di pensare a questa forma è quello propostodali'interpretazione di Kretzmann, che la identifica con la funzio ne e loscopo essenziali a ciascun nome, di separare le cose e di separarle in manierada rispettare le loro giunture natura li. In questo modo, a esempio, il nomegreco l hippos l o quelli barbari lchevall, lcavallol, lborsel, lPferdl ecc.saranno tutti corretti se riusciranno a ritagliare la realtà se condo le"naturali" giunture; e sembrerebbe esserci il pre supposto che taligiunture debbano essere le stesse per tutte le culture. Come si vede, Platonequi sta affrontando una questione che potremmo definire"hjelmsleviana",1 e così potremmo parlare, più che di funzione, comefa Kretzmann, di forma e sostanza, di espressione e contenuto, come faHjelmslev: la forma espressiva (la materia di Platone) può variare da lingua alingua; ma, affinché il nome sia quello giusto, è ne cessario che la forma delcontenuto (l'eidos o idéa di Plato ne) ritagli la materia del contenutosecondo le medesime ar ticolazioni. Cosi l hippos l, l cheval l, l cavallo l,l borse l, l Pferd l saranno tutti nomi giusti se ritaglieranno il conti nuummateriale del contenuto ("la cavallinità, all'interno dello spettrorelativo agli animali) esattamente secondo le stesse giunture. Che poi l'elaborazionedei nomi debba essere messa in corrispondenza con una corretta tassonomia delcontinuum della realtà, da effettuarsi verosimilmente con il metodo delladivisione (diairesis), è dimostrato dal fatto che spetta al dialettico,personificazione dell'autorità scientifica e filo sofica, giudicare se illavoro dei vari nomoteti è stato fatto bene (390 d). LA TEORIA DELLINGUAGGIO 93 4.2.6 La prima teoria semantica Seguendo l'interpretazione diDonatella Di Cesare (1981) si possono rintracciare nel Crati/o due diverseteorie seman tiche, che si riferiscono, la prima a una situazione di linguaggio ideale, e la seconda a una situazione di linguaggio come realtàstoricamente data. Esaminiamo brevemente la prima. A un certo punto del dialogo(393 d), infatti, Socrate so stiene che ciò che è veramente importante per ilnome è di significare (smalnein) l'essenza della cosa (ousfa tofl prag matos),la quale viene chiaramente espressa (dJoumén) dal nome. Una volta che il nomeesprime l'essenza della co sa, non ha nessuna importanza se vengono aggiunte otolte delle lettere al nome. L'esempio che viene portato è quello del nome diuna let tera dell'alfabeto, il bita: esso nomina la lettera l b l, ma a essaaggiunge ita (lel), tau (ltl) e alpha (lal); nonostante queste aggiunte, essonomina correttamente il l b l, in quan to fa comparire il "valore"della lettera che doveva essere nominata. Un analogo ragionamento vale pertutti i nomi: essi sono corretti se nominano l'essenza della cosa di cui so nonomi. Il significato è, dunque, identificato con questa essenza della cosa. Piùavanti (394 b-e) Socrate introduce un altro concetto, quello di djnamis("valore"), che sembra anch'esso identifi carsi con il significato.Infatti egli sostiene che chi è vera mente pratico di nomi guarda al lorovalore (djnamis), non lasciandosi sviare né da aggiunte né da trasposizioni dilet tere. Cosi i nomi Astyanax ("Astianatte" = "signore dellacittà") e Héktor (''Ettore" = "che tiene saldo"), puravendo in comune solo la lettera l t l, significano la stessa cosa (tau tònsmalne1). Dunque il significato del nome è dato da entrambi gli ele menti,l'essenza della cosa nominata e la djnamis del nome: essi di fatto coincidono,in quanto il nome, attraverso il suo significato, deve esprimere la cosa chenomina. Si possono illustrare i rapporti tra nome, significato e cosa con il seguente triangolo: 4. PLATONE essenza della cosa = In effetti, come l03),per Platone il nome non "rispecchia" la cosa, ma solo la sua essenza,ed è questa la ragione per cui possono esserci nomi diversi per lo stessooggetto. Del resto, per rispecchia re l'essenza della cosa, il nome deve"associare l'individuo al genere cui appartiene" (ibidem); fatto checorrisponde a quanto avevano sottolineato Lorenz e Mittelstrass (1967: 6- 8),con la loro attribuzione di una funzione predicativa al nome. Il significatospecifico del nome, la sua dynamis, consiste allora neli'assegnare ciascunodegli oggetti al con cetto appropriato, o al genere che gli compete. Ed èrispetto a questa operazione che si può valutare oggettivamente la correttezzao meno del nome. Se ci soffermiamo a considerare i risultati della teoria delsignificato esposta nella prima parte del dialogo, vediamo che tutta ladimostrazione di Socrate è rivolta a mostrare la coincidenza della strutturalinguistica con quella logico-on tologica: il linguaggio, attraverso i nomi,ritaglia il reale se condo le stesse giunture che quest'ultimo naturalmentepre senta. Così, imitando e rappresentando la struttura della realtà, illinguaggio costituisce una mediazione tra il mondo delle idee e quellosensibile. Del resto il nome rappresenta il genere stesso che può esserepredicato di ciascuna cosa e che, inafferrabile in natura, si concretizza nellamateria fo nica. dynamis nome cosa sottolinea Donatella Di Cesare ( 1 981 : 94 4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 95 Tuttavia, come dicevamo,l'identità descritta nella prima parte del dialogo non costituisce per Platoneun dato di fat to, ma un obiettivo ideale. Infatti dalla parte finale del dialogo, che segue la digressione etimologica scaturirà una se conda e bendiversa teoria semantica. 4.2.7 La seconda teoria semantica In effetti,l'analisi etimologica svolta da Socrate nella parte centrale del dialogo, e lacongiunta riflessione sull'ori gine del linguaggio, erano state intraprese perdimostrare la sostanziale identità tra la struttura linguistica e quella antologica, in generale, e tra l'essenza dell'oggetto e la djnamis, in particolare.Ma il risultato a cui esse approdano è esatta mente l'op,posto: il linguaggionon rispecchia la struttura oggettiva del reale, ma piuttosto è espressionedell'idea che del reale si è formato il nomoteta. Il significato, dunque, vienea essere identificato con la rappresentazione del reale che si forma nelsoggetto (Di Ce sare 1981 : 131), rappresentazione che è il risultato delleopi nioni, sensazioni, impressioni che vengono esercitate sul soggetto daglioggetti della realtà. Pagliara (1956 a: 73) ave va del resto individuatoquesto passaggio da una prima a una seconda teoria semantica come analisi didue aspetti di stinti del fatto linguistico: (i) il rapporto tra ilsignificante e l'oggetto, nella prima parte del dialogo; (ii) il rapporto trail significante e il significato, nella seconda. In base alla seconda teoria,il triangolo che illustra i rap porti tra nome, significato e cosa dovrebbeavere una parti colare struttura (cfr. p. 96). Il linguaggio, dunque, nonrispecchia il mondo delleidee, cioè l'essenza delle cose, ma piuttosto il mondoempirico: esso costituisce una realtà storica, che contiene la visione delmondo che avevano i primi nomoteti, quando tentarono di dare un ordine alreale, classificandolo e categorizzando lo, proprio servendosi dei nomi come"strumenti sceverati vi". Ciò non esclude, tuttavia, che si potrebbearrivare a un adeguato rispecchiamento della realtà mediante il linguag-96 4. PLATONE rappresentazione soggettiva = significato nome gio, qualora siraggiungesse una completa conoscenza delle cose. Di particolare interesserisulta poi il fatto che è prevista una precisa funzione mediatrice dell'anima,grazie alla qua le la teoria platonica si avvicina a quelle moderne, in cui illinguaggio viene riconosciuto come fatto psichico. Platone raccoglie quil'eredità dei sofisti, che unici tra i filosofi pre cedenti avevano insistitosulla dimensione psichica del lin guaggio, in contrapposizione a quantiprevedevano la possi bilità per il reale di essere rispecchiato nel linguaggioin ma niera diretta e senza mediazione. 4.2.8 La mimesi La prima parte deldialogo era stata dedicata alla confu tazione della teoria convenzionalista.L'ultima parte è inve ce dedicata alla confutazione della teoria delrispecchiamen to sostenuta da Cratilo. Già la sezione centrale, dedicata all'etimologia, ha portato alla conclusione che il linguaggio costituisce unarappresentazione soggettiva, fatto che, di per sé, contraddice la tesi diCratilo. Tuttavia Socrate, per condurre ancora di più all'assurdo la tesi diquest'ultimo, solleva il problema della mimesi, proponendo provvisoria menteuna definizione del nome come "imitazione con voce cosa4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 97 di cosa che si imita; e colui che imita nominacon la voce ciò che imita" (423 b-e). Quel che è interessante è che anchel'imitazione sembra avere, in linea generale, un carattere semiotico: infattil'imi tazione "svela" (dloi) l'essenza della cosa. Ma quello diimitazione non è un concetto pacifico e So crate lo indaga in tre diversiambiti: (i) nel ritratto; (ii) nel caso dei doppi; (iii) nel caso delrispecchiamento "metafisi ca". Esaminiamo il primo caso. Tanto ilritratto quanto il nome possono essere messi a confronto con l'oggetto cheimitano. Per Socrate si verifica allora il fenomeno per cui certi elementipresenti nell'origi nale possono risultare trascurati, come pure elementiassen ti possono risultare aggiunti. La copia ha dunque un carat tere diiconicità, ma presenta variazioni all'interno di un continuum. Questo, perSocrate, è lo stesso fenomeno che presentano i nomi, fatto che equivale asottolineare il loro carattere segnico. Ma Cratilo non è della stessa opinione,in quanto pensa che i nomi debbano avere un carattere di so miglianzaassoluta, in mancanza della quale non sono affat to tali. Ecco in schema ledue posizioni: Socrate Cratilo rapporto..nome/oggetto• iconico icon ico carattere della mimesi continuo discreto A questo punto Socrate introduce l'argomento del dop pio: se nellamimesi tutti i caratteri deli'originale venissero riprodotti, non si avrebbeuna imitazione, ma una occor- 98 4. PLATONE renza identica dello stessooggetto. Non si sarebbe dunque in presenza di un rapporto di rappresentazione,ma di un vero e proprio doppio, in una situazione in cui è impossibilestabilire quale è il rappresentante e quale il rappresentato. In altre parole,il nome possiede un carattere segnico pro prio in virtù di questa suadissimiglianza rispetto all'oggetto cui rimanda. Il terzo caso considerato, cheabbiamo definito come "ri specchiamento metafisico", pone in primopiano il tema dell'imitazione che il singolo suono compie di un singoloframmento della struttura del reale. La parola sklrots, che significa"durezza",ontrariamente a quanto ci aspette remmo se i suonirispecchiassero in tutto le essenze delle co se, contiene al suo interno un/ambda ( I I I ), che esprime "mollezza" e "scivolosità".Dunque la parola imita la "du rezza" solo in parte, mentre in partese ne discosta. Con ul teriori esempi, poi, Socrate mira a negare ancheun'altra ipotesi, più fondamentale filosoficamente: quella secondo cui nellinguaggio venga rispecchiata la veduta eraclitea del la realtà come eternoflusso e movimento (41 1 c; 436 e); ciò infatti non si verifica perché, comesottolinea Socrate, nel linguaggio molte voci lessicali presentano la realtàcome perfettamente immobile (437 c). 4.2.9 L'uso e la convenzione Dalle criticheche Socrate muove, soprattutto a Cratilo, scaturisce una proposta positiva. Avendoinfatti osservato che il nome sklrots (''durezza") è inesatto, in quantocon tiene nel suo significante elementi che non corrispondono alla qualitàdella cosa designata, Socrate osserva anche che, nonostante ciò, esso adempieperfettamente alla sua funzio ne comunicativa: infatti i Greci si intendonoquando tale nome viene usato. La responsabilità di questa comprensione èattribuita da Socrate ai due fenomeni dell'uso (éthos) e della convenzio ne(xynthk): questi fenomeni non circoscrivono soltanto un rapporto tra i dueutenti del nome, ma si rintracciano 4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLAVll» 99 anche a livello delle relazioni tra il nome e l'oggetto, cioè allivello denotativo (Kretzmann 1971: 138). L'idea che il no me sia"rivelazione" (d/Oma) dell'oggetto denotato non viene abbandonata, maviene solo spostata la responsabilità di questa rivelazione dal rapporto disomiglianza tra i due termini, alla convenzione che li associa (435 a-b).Platone, tuttavia, non sostituisce semplicemente una con cezioneconvenzionalista a una in cui la semiosi avviene per somiglianza. Per lui lasituazione ideale rimane quella in cui i nomi sono immagini che riproduconol'essenza degli og getti nominati; ma sono i limiti del linguaggio naturaleche rendono necessario il ricorso all'accordo (435 b-e). Questo è del resto ilpunto in cui i commentatori hanno scorto un compromesso tra il convenzionalismodi Ermogene e il na turalismo di Cratilo. Nella chiusura del dialogo si deverilevare anche uno spo stamento nella funzione assegnata al segno linguistico:c'è una accentuazione della funzione comunicativa a scapito di quellacognitiva. Il linguaggio non è uno strumento abba stanza valido per laconoscenza della realtà, per raggiungere la quale sarà necessario percorrereuna via più diretta: quel la del ricorso alle cose stesse (439 b). Esso peròsi configura come un ottimo strumento per il buono svolgersi della comunicazione interoggettiva. 4.3 La teoria linguistica deii'"EpistolaVII" Un'interessante trattazione degli elementi coinvolti in una teoriadel significato la si può trovare nell'Epistola VII, un testo attribuito aPlatone, ma la cui autenticità è stata più volte messa in dubbio (Edelstein1966). A molti è sem brato che essa non contenesse niente di veramente non platonico, e a ogni modo presenta un interesse intrinseco che induce a farneoggetto di un'analisi particolare. Nella sua parte centrale, la letteracontiene un passo teo rico (342 a - 344 d), in cui vengono indagati glielementi che permettono di raggiungere e trasmettere la conoscenza. Si trattaanche, allo stesso tempo, di elementi che intervengo- 100 4. PLATONE nonel processo di semiosi. Il primo di questi è il nome (onoma); il secondo ladefinizione (/ogos); il terzo l'imma gine (efdo/on); il quarto la conoscenza(epistm); il quinto, infine, l'oggetto conoscibile (gnost6n) e veramente reale(althos 6n) (342 a-b). Questi elementi, secondo P interpretazione di Morrow(1935: 68), sono organizzabili secondo un ordine interno. Infatti, da una partesi possono collocare i fattori che costi tuiscono gli strumenti di conoscenza:i nomi, le definizioni, le immagini o diagrammi; dall'altra, in opposizionediame trale, si trovano gli oggetti conoscibili e reali. A mediare tra glistrumenti e l'oggetto della conoscenza si trova l'epist mt, che Morrowinterpreta come "apprensione soggettiva", e che è ulteriormentesuddivisa, come Platone dice più avanti (242 c), in retta opinione (a/thsdoxa), conoscenza (epistm) (ritorna curiosamente come nome di una specie,quello che è il nome dell'intero genere) e ragione o intuizio ne (noas), delquale ultimo Platone precisa che è il più vici no al quinto fattore. Nellalettera si dice che questi tre elementi, che compon gono complessivamentel'epistémt e che devono essere con siderati come un unico grado, non risiedono"né nelle voci, né nelle figure corporee, ma nelle anime (enpsychais)", fat to che, come Platone sottolinea, li distingue siadall'oggetto reale, sia dagli strumenti di conoscenza. Il richiamo ali'ani ma,che può essere messo in parallelo con il ruolo assegnato all'anima nellaseconda teoria semantica del Crati/o, induce ad accostare questa nozione diepistm alla nozione di si gnificato; fatto che del resto può venir confermatose leg giamo il passo con l'ottica della tradizione posteriore, so prattuttoaristotelica, che colloca il significato esattamente nell'anima (tà en tiipsychr) (De interpreta/ione, 16 a). Possiamo distribuire i cinque elementi sultriangolo se miotico nel modo illustrato alla p. 1 0 1 . Tutto l'interesse delpasso è orientato a mostrare il carat· tere difettoso degli strumenti diconoscenza. E, per suggeri re come si può ovviare a questo inconveniente,Platone ela bora una dottrina che è molto vicina alla teoria di Peirce dellasemiosi come "fuga di interpretanti". Vediamola at- TEORIALINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 101 4. apprensione soggettiva ( epistml)3. immagine- (efdDion) 2. definizione (/6gos) l intuizione (noùs) lconoscenza (epistmlJ} l retta opinione (allfths d6xa) 6. oggetto conoscibile(gnst6n) e veramente reale (sleth;;s 6n) 1 . nome (6noms) traverso l'esempiostesso che fa da filo conduttore al discor so platonico. Si trattadeli'esempio del "cerchio", non a caso di carat tere matematico. Nonè difficile per Platone mostrare che il referente dell'espressione l cerchio lnon è un oggetto del mondo reale, sottoposto al divenire e alla corruzione, maè un'entità di altro tipo. A essa non si può arrivare se non passando attraversol'intera serie dei gradi preliminari e, so prattutto attraverso un processo dicontinua sostituzione dell'uno con l'altro: "trascorrendo continuamentefra tutti questi, salendo e discendendo per ciascuno di essi, si può, quando siha buona natura, generare a gran fatica la cono scenza" (343 e). Ciascunelemento, di per sé incompleto (co me lo sono gli interpretanti di Peirce),contribuisce al rag giungimento della conoscenza se inserito in questoprocesso instancabile di sostituzione e di confronto. Questo processo dicontinua sostituzione permette di ovviare all'imperfezio ne deglistrumenti. 102 4. PLATONE In effetti il carattere di imperfezione delnome è dovuto al fatto che, come sappiamo dal Crati/o, nel linguaggio storicamente dato esso non è l'immagine della cosa che nomi na, ma è legato allaconvenzione. Questo, secondo l'autore ' Epistola VII, gli toglie stabilità, inquanto potremmo dell usare l'espressione l linea retta l per riferirei allecose circo lari e l'espressione l cerchio l per designare la linea retta,senza provocare cambiamenti nelle cose stesse (343 a-b). Si può ricorrereallora alla definizione del cerchio come "quella figura che ha tutti ipunti distanti dal centro" (342 b); ma anch'essa, per quanto aggiungaqualcosa, risulta composta di nomi e di verbi e dunque presenta difetti analoghi a quelli incontrati a proposito dei nomi. Tra l'altro, sottolineare chela definizione è "formata di nomi e di ver bi" significa accentuarneil carattere di significante, piutto sto che quello di significato. Essa èsemplicemente un'altra espressione, che può essere sostituita, nel processoconosci tivo e/o semiosico, al nome. Del resto, alla possibilità di unasostituzione tra nomi, Platone aveva già accennato, presupponendol'intercambiabilità di l cerchio l (kyklos), l rotondo l (strongylon), lcircolare l (peripherés) (242 b-e). Qualcosa ancora viene aggiunto dal terzolivello, quello rappresentato dagli eldola ("immagini"). Qui ilcerchio è conosciuto come "quello che si disegna e si cancella, che sicostruisce al tornio e che perisce" (242 c). Si tratta della sostituzione di un interpretante iconico ai precedenti interpre tanti verbali:per capire che cosa è il cerchio in sé, non sono necessarie solo le spiegazioniverbali, ma anche le illustra zioni e le astensioni. Anche a questo livello laconoscenza presenta un carattere incerto, in quanto incontra oggetti in cuil'essenza (tò 6n) risulta inquinata dalla qualità (tò poi6n 11), cioè daproprietà accidentali e contrarie, talvolta, alla vera natura del suo referentemetafisica: infatti per ogni punto del cerchio può essere costruita unatangente (343 a), tale che, isolando quel brevissimo tratto, non si saprebbe seesso fa parte di un cerchio o di una retta (Taylor 1912: 361). Il passo teoricodeli'Epistola VIl si chiude ritornando su un concetto assai vicino a quellodella semiosi illimitata, an che se ovviamente modulata in chiave platonica:"mentre 4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 103 ciascunelemento (nomi, definizioni, immagini visive e per cezioni), in disputebenevole e in discussioni fatte senza ostilità, viene sfregato con gli altri,avviene che l'intuizione e l'intellezione di ciascuno brillino a chi compietutti gli sforzi che può fare un uomo" (344 b-e). La metafora dello "sfregamento",con cui il passo si av via alla conclusione, è funzionale sia all'ideaepistemologica dell'improvviso accendersi e brillare deli'intuizione, sia anche all'idea semiotica che il senso finale non lo si ottiene at traversol'immediata e semplicistica sostituzione di un signi ficante con unsignificato, ma attraverso una strategia di mosse successive e ripetute, comesono quelle appunto del processo di semiosi illimitata. LINGUAGGIO E SEGNI INARISTOTELE 5.0 Introduzione Con Aristotele vengono a inaugurarsi nella storiadel se gno alcuni fatti nuovi, destinati ad avere una notevole du revolezza.Il primo di questi riguarda l'ampia e profonda opera di normalizzazione teoricache Aristotele compie nei confronti del lessico delle scienze e delle praticheprofessio nali che avevano fatto riferimento ai segni e al sapere congetturale in genere. Il vasto alone semantico, l'alternanza di usi forti, opregnanti, e di usi deboli che aveva caratteriz zato per tutto il V secolotermini quali smefon, tekmirion, aitia, pr6phasis, eik6s negli scritti medici,nella storiogra fia, nella stessa letteratura filosofica, viene piegato alleesi genze di una definizione categoriale, che fissa gli usi esatti dei terminie ne delimita e separa i campi nozionali. L'operazione, come rileva Lanza(1979: 107), non ha che un successo parziale nella pratica linguistica, inquanto è solo sul piano teorico che Aristotele riesce a rendere rigoro se erigide le distinzioni, proposte in due passi paralleli dei Primi analitici edella Retorica; 1 ma, nella stessa prosa del la Retorica e in generale nelleopere che trattano di argo mento scientifico, come ha fatto rilevare Le Blond(1939, ried. 1973: 241), l'uso dei vari termini del lessico semioticognoseologico resta fluido e i termini spesso vengono impie gati senza specialisfumature di significato. Ciò non con traddice, tuttavia, il fatto che larevisione terminologica, da un punto di vista teorico, sia stata profonda eabbia inau- 5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 105 gurato una solidatradizione, che continuerà nella trattati stica successiva, fin nella retoricaromana del I secolo d.C. Del resto le esigenze di distinzione teorica non silimite ranno a intervenire con un'operazione normalizzatrice sul lessico, maentreranno anche nel vivo delle concezioni pro fonde coinvolte dal saperecongetturale. Abbiamo infatti visto come il dominio del tempo fosse centraletanto nel sapere ascientifico della mantica quanto in quello protoscientificodella medicina. La conoscenza contemporanea del passato, del presente e delfuturo era un elemento essenziale, sebbene secondo modalità diverse, inentrambi questi ambiti di sapere. Aristotele riprende, concettualizza e piegaalle esigenze della classificazione teorica anche tale aspetto. Infatti, nellaclassificazione dei tipi di discorso proposta nella Retorica, Aristoteleindividua in primo luogo due ca tegorie di destinatari dei discorsi: colui cheosserva (theo ros) e colui che decide (krits). Il primo agisce nella dimensione del presente ed è il tipo di pubblico che assiste al di scorsoepidittico o celebrativo. Il secondo, invece, può agi re nelle altre duedimensioni del tempo proprie degli altri due generi di discorso: il giudice(dikasts) decide sul passa to; il membro dell'assemblea (ekklsiasts) sulfuturo.2 Co me osserva giustamente Lanza (1979: 102), la classificazio ne ètotalmente estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro l'intentoaristotelico di congiungere la ripartizione canonica dei tipi di discorso conle tre dimensioni del tem po che fin dall'epoca di Omero appaiono associateagli am biti di manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. 5.1 Teoriadel linguaggio e teoria del segno 5 . 1 . 1 Il triangolo serniotico Il secondofatto importante, inaugurato dalla riflessione aristotelica, è quello cheriguarda la disarticolazione, e la conseguente trattazione separata, dellateoria del linguag- }()6 5. UNGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE gio e dellateoria del segno. Si tratta di un fatto che desta sorpresa e che appare moltorilevante proprio perché nelle teorie semiologiche moderne è assolutamente datoper scontato che i termini del linguaggio verbale sono dei "se gni":anzi, secondo un certo strutturalismo, sono i segni per eccellenza, e non sonostati pochi coloro che sono arri vati ali'eccesso di pensare che essipotessero fornire il mo dello anche per gli altri tipi di segno. InAristotele, invece, gli elementi su cui si costruisce una teoria del linguaggioricevono il nome di sjmbola, mentre gli altri elementi di una teoria del segnovengono denomi nati smeia o tekmiria.3 In realtà, come vedremo, la teoria delsegno propriamen te detto è articolata alla teoria del sillogismo e riveste unin teresse sia logico sia epistemologico. Il segno è, infatti, al centro delproblema delle modalità di acquisizione della co noscenza, mentre il simbololinguistico è connesso princi palmente al problema dei rapporti che siinstaurano tra le espressioni linguistiche, le astrazioni concettuali e glistati del mondo. È nel De interpreta/ione che Aristotele espone la sua teo riadel simbolo linguistico, articolandola secondo uno sche ma a tre termini: isuoni della voce, che sono i "simboli" delle affezioni dell'anima, lequali, a loro volta, sono le im magini degli oggetti esterni: Ordunque, isuoni della voce (tà en tii phoniz) sono simboli (symbola) delle affezioni chehanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii pathmatOn), e le lettere scritte(graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo poi che lelettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i me desimi;tuttavia, suoni e lettere risultano segni (smela), anzi tutto, delle affezionidell'anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini (homoi6mata)di oggetti (pragma ta), già identici per tutti. (Arist., De int., 16 a, 3-8)Bisogna innanzitutto dire che il fatto di incontrare il ter mine smeia comeapparente sinonimo di sjmbola non si gnifica affatto che le due espressionisiano intercambiabili: 5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 107 inrealtà in questo passo Aristotele usa il termine smefon in un'accezione debole,che ci conferma appunto la tenden za a un uso sfumato delle espressioni dellessico semiotico, quando non sia in questione la costruzione del sistema didemarcazioni teoriche. In secondo luogo qui Aristotele usa smeia per dire chel'esistenza di suoni e lettere può essere considerata come indiziodeli'esistenza parallela di affezio ni dell'anima. A ogni modo, è possibilecostruire, trascurando il livello grafematico, un triangolo semiotico di questotipo: 1 ) affezioni dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil 2) pensteri(nomat8) rapporto convenzionale motivato ra ppo rto ( sn ti phntl(prSgmsta) suoni della voce oggetti esterni Come si può osservare, diverso è ilrapporto tra le coppie di termini appartenenti alla triade: tra suoni e statid'animo c'è un rapporto immotivato e convenzionale, in quanto gli stati d'animosono uguali, secondo Aristotele, per tutti gli uomini, ma essi vengono espressiin maniera diversa a se conda delle varie lingue e culture, esattamente comeavvie ne per le forme scritte;4 invece tra gli stati d'animo e gli og gettic'è un rapporto di motivazione, che appare addirittura iconico, in quanto iprimi sono le immagini dei secondi. Bi sogna precisare che sarebbe scorrettoidentificare in manie ra diretta la tesi della convenzionalità degli elementidel lin guaggio, cui aderisce Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà108 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE del segno linguistico sviluppata daSaussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto arbitrario tradue en tità strettamente interne al linguaggio: il significante e il significato sono le due facce del segno, in quanto unità lin guistica. InAristotele troviamo invece un rapporto conven zionale tra elementi dellinguaggio (il nome, il verbo, il 16- gos) ed elementi che propriamente nonappartengono al lin guaggio, in quanto sono entità psichiche. Si deve inoltreri levare che la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esauriscenei testi di prevalente interesse logico, quali il De interpreta/ione, macontinua anche nei testi di interesse estetico: in questi ultimi, dove prevalela funzione poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene inparte attenuato (Belardi 1975: 75 e passim). 5.1.2 I "suoni dellavoce" Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presen taaspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, checosa intende Aristotele con l'espressio ne tà en tii phonii? A questa domandavi sono risposte di verse. Donatella Di Cesare (1981: 161) sostiene cheAristotele attribuisce a questa espressione lo stesso valore che Saussu re dàal termine "significante" quando spiega la natura del segnolinguistico. Belardi (1975: 198), invece, aveva sostenuto che tà en tii phoniidoveva riferirsi non ai significanti, ma alle "espres sionilinguistiche" intese nella loro forma compiuta di 6no ma (nome), rhima(verbo), /6gos (discorso), come pure di kataphasis (affermazione) e ap6phasis(negazione); le ra gioni di questa scelta si basano sul fatto che questielemen ti, facenti parte del programma di analisi di Aristotele, ven gonodefiniti "simboli" delle affezioni dell'anima (An. Pr., 16 a, 25; 24b, 2). Ora è indubbio che Aristotele intenda con l'espressione "suonidella voce" qualcosa che sottolinea molto chiara mente la veste fonica eil carattere di "significante". Tutta- 5.1 TEORIA DELLINGUAGGIO E DEL SEGNO 109 via si deve anche sottolineare che l'ottica con cuiAristote le, almeno neli'Organon, guarda ai fatti di linguaggio sem bradiversa da quella saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiarele possibilità e le garanzie deli'uso del linguaggio neli'analisi della realtà.Tali garanzie sembrano esserci quando si dia una reciproca bilità tra i dueambiti del linguaggio e del reale. Ora, posto che per Aristotele la simbolicitàdel linguaggio nei confron ti del reale è sempre di secondo grado, in quantoil nome sta per un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa, sulvertice sinistro del triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi logiciperseguiti nel De interpreta/ione) sia intercambiabile con ciò che si trova alvertice superiore. Da qui deriva l'uso della nozione di sjmbolon, che Aristotele riprende da una tradizione risalente fino a Democri to (D-K, 68, B 5,1). Le ragioni che permettono la specializ zazione di questo termine nel sensodi indicare le espressio ni linguistiche convenzionali, sono connesse alla suaetimo· logia. Nella lingua greca, infatti, il termine sjmbolon indica ciascunadelle due metà in cui viene spezzato un oggetto (a esempio un astragalo, unamedaglia, una moneta) in ma niera intenzionale, affinché possano servire, inun momen to successivo, come segno di riconoscimento, o come prova di unacerta cosa (Belardi 1975: 198; Eco 1984: 199): il fat to che le due metàriescano a combaciare perfettamente vie ne a indicare la presenza di unrapporto precedentemente istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, diamicizia, di paternità), la cui documentazione è affidata appunto allacongruenza perfetta dei due sjmbola. Si viene in effetti a realizzare una situazionein cui ciascuna delle due parti può scambiarsi di posto con l'altra, senza chevenga a perdersi il valore di prova. Così dal momento che ciascuna parte presuppone l'altra, o stabilisce con l'altra una stretta corri spondenza,l'espressione sjmbolon viene ad acquisire il si gnificato di "ciò che staper qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel contesto dellateoria linguistica aristote lica la parola sjmbolon all'espressione smefon(che pure indica uno "stare per") induce a indagare su unapossibile LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE specificità del rinvioistituito dal simbolo. In effetti, nel ca so del segno, i due termini delrinvio (che, come vedremo, è una implicazione) non sono sempre reciprocabili:un primo termine può rimandare a un secondo, senza che necessaria mente ilsecondo rimandi al primo. Nel caso del simbolo, invece, i due termini sonoperfettamente reciprocabili; non è un caso che sjmbo/on dal III secolo a.C. alIII d.C. sia attestato anche nel senso di "ricevuta", talvoltaredatta in duplice copia: le due parti hanno, per cosi dire, lo stesso valore.Questo aspetto etimologico è presente neli'uso che in particolare Aristotele fadell'espressione sjmbolon nel De interpreta/ione: i nomi ono simboli deglistati d'animo nel preciso senso che si realizza, previo un accordo (synthk), uncombaciare perfetto tra di loro e una perfetta intercam biabilità, chegarantisce la correttezza del nome stesso (Be lardi 1975: 199). In quantosjmbolon, il nome non è più dloma ("rivela zione"), come lo era perPlatone: in Aristotele il nome è "suono della voce significativo perconvenzione" (phon s mantik katà synthkn) (De int., 16 a, 19). Questomarca il passaggio da una linguistica che conservava un carattere semiotico,come quella platonica, a una linguistica che non parla più di segni e che èintrinsecamente non semiotica. Mentre per Platone le espressioni linguisticheerano segni che "rivelano" qualcosa di non percepibile (l'essenza dell'oggetto o la djnamis), per Aristotele esse sono simboli che stabilisconoconvenzionalmente una pura relazione di equivalenztr tra i due correlati, senzaalcuna preoccupazio ne che l'un termine "riveli" l'altro. 5 . l . 3Il linguaggio degli animali Del resto, l'opposizione convenzionalelnaturale6permet te di distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi daglianimali,7 questi ultimi essendo, per altro, ugualmente (i) vocali e (ii)interpretabili. Già la nozione di "voce" (phon) presenta alcuneinteres- 5. 1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 1 1 1 santiparticolarità. Nel De anima si dice che un suono può essere definito una"voce" quando: (i) sia emesso da un es sere animato (II, 420 b, 5);(ii) sia dotato di significato (s mantik6s) (Il, 420 b, 29-33). Ora, i suoniemessi dagli ani mali, per quanto definiti ps6phoi (''rumori"), hannotutta via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalle vociemesse dagli uomini sono due fattori: (i) non sono convenzionali (e diconseguenza non possono essere né simboli né nomi), ma sono "per natura" (De int., 16 a, 26-30); (ii) sono agrammatoi, cioè"inarticolabili" o "non combinabili" (ibidem, e Pot., 1456b, 22-24). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostraMorpurgo-Tagliabue (1967: 33 e sgg.), è al centro stesso del carattere disemanticità del linguaggio umano, i cui suoni semplici (adiafretoi,"invisibili") possono articolarsi in uni tà più grandi dotate disignificato.8 Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili, ma noncombinabili (Pot., 1465 b, 22-24). Si possono illustrare riassuntivamente icaratteri del lin guaggio umano in contrapposizione ai suoni emessi daglianimali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione -elementi indivisibili combi- nabili e elementi divisibili - lettere - elementidotati di signifi- cato - simboli - nomi suoni degli animali - per natura -elementi indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che rivelano (d-loflsl) qualcosa - non simboli - non nomi Si deve rilevare, tra l'altro, che lasemanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal verbo dlofìsi(''rivela no", De int., 16 a, 28), fatto che conferma l'idea che perAristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso dellinguaggio degli animali, torna di nuovo in pri mo piano il caratteresemiotico d'una espressione. I suoni degli animali sono sintomi che rivelano laloro causa. 1 12 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5. 1 .4 Le"affezioni dell'anima" Ritornando poi al triangolo aristotelico dellasignifica zione, la seconda nozione degna di rilievo è quella di pathmata entii psychi. Si noterà che, dove ci si aspetterebbe la nozione di"significato", troviamo invece un'entità psichi ca, qualcosa che nonè posto all'interno del linguaggio, ma nella mente stessa degli utenti dellinguaggio. Per di più le affezioni dell'anima concepite da Aristotele, purconfigu randosi come eventi psichici, non sono affatto individuali: si trattapiuttosto di elementi che, come dice Aristotele, so no identici per tutti,fatto che connette la teoria del lin guaggio con una sorta di psicologiasociale, se non addirit tura universale, piuttosto che individuale (Todorov1977: 16). In secondo luogo è necessario rilevare una sorta di ambi guità chesi trova nella nozione posta al vertice superiore del triangolo. InfattiAristotele dice che i pathimata en tii psychii sono le immagini (homoiomata)degli oggetti esterni: con ciò in tende che tra gli oggetti e le entitàpsichiche c'è lo stesso rapporto che esiste tra l'originale e la copia.Tuttavia, poi, per indicare la rappresentazione mentale usa anche, più avanti,l'espressione noma ("pensiero", "nozione", 16 a, 10): ma,in questo secondo caso, precisa che i pensieri, sot to certe condizioni,possono essere veri o falsi. Da ciò con segue che i nomata vengono concepiticome forme di giu dizio . Si tratta di due nozioni completamente diverse, e ilfatto che venissero entrambe messe in rapporto con le medesime espressionilinguistiche aveva fatto pensare a un loro uso si nonimico, che risultavaaporetico. In realtà, come ha messo in evidenza Belardi (1975: 109), nessunadelle due nozioni esaurisce da sola il livello della rappresentazione psichica,ma esse rimandano a due facoltà differenti dell'anima: i pathtnata rimandano auna facoltà passiva dell'anima, quella di subire impressioni dagli oggetti delmondo ester no; i nomata rimandano a una facoltà attiva, quella di ela boraregiudizi. Questa relazione è del resto confermata dal 5.l TEORIA DELLINGUAGGIO E DEL SEGNO 113 rinvio che Aristotele fa al De anima, trattato nelquale non vengono discussi solo i pathimata, ma anche le altre fa coltà. 5.1.5Semantico e apofantico Non si può, a questo punto, non fare un cenno (anche se,di necessità, breve) a una distinzione che si affaccia, nel pensierolinguistico di Aristotele, tra la categoria del "se mantico" equella dell'"apofantico". Nel De interpretatione (16 a, 9 e sgg.)viene aperta la problematica circa la diffe renza tra phasis (il semplice"detto") e kataphasis (!'"affer mazione"). I nomi (ma cosìanche i verbi) in sé costituisco no un "detto", ma non possono dasoli costituire un'affer mazione o una negazione. Correlatamente, vengonodistin ti due tipi di rappresentazioni mentali (noimata): l . quella "cheprescinde dal vero e dal falso"; 2. quella "cui spettanecessariamente o di essere vera o di essere falsa". Ciò che in realtàviene a essere contrapposto è la nozione di significato rispetto a quella dicondizioni di verità. Al primo tipo di rappresentazione, infatti, corrispondono i nomi (e anche i verbi) presi da soli, i quali possono avere unsignificato, ma non hanno condizioni di verità. Ciò è provato da Aristotelemediante la scelta di un caso particolare: il termine "ircocervo"(traghélaphos). Esso "si gnifica bensì qualcosa" (cioè unacommistione mostruosa tra un caprone e un cervo), ma non può essere detto veroo falso. Il "qualcosa" a cui si riferisce qui Aristotele indivi duaappunto la dimensione della semanticità pura, regolata da leggi diverse daquelle della referenzialità. Al secondo tipo corrispondono, invece, quelleentità che hanno la dimensione linguistica della proposizione: è quan do sipassa agli enunciati affermativi e negativi che diviene possibile parlare diverità o di falsità. È solo in questo caso che diviene possibile parlare diapofanticità come dimensio ne aggiuntiva (non contrappositiva) rispetto aquella se mantica. Ma qual è il mezzo specifico per passare dalladimensio-LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE ne semplicemente semantica aquella apofantica? Non ci sono dubbi che esso consiste nell'uso del verbo comepredi cato. Del verbo Aristotele valorizza essenzialmente la fun zionepredicativa, quando, parlando del giudizio, riduce il verbo a !copula +predicatol: "non c'è differenza", sostiene egli infatti, "tradire: l'uomo cammina, e dire: l'uomo è camminante" (De int., 21 b, 9-10).In effetti il verbo viene qui concepito come nome assunto in funzionepredicativa (Morpurgo-Tagliabue 1967: 62). Tuttavia, affinché il verbo possaesplicare questa sua funzione occorre che esso sia congiunto a qualcos'altro(cioè a un nome); preso da solo, cioè quando la sua funzio ne predicativa nonpuò dispiegarsi, esso non può affermare alcunché (De int., 16 b, 19-25).L'incapacità del verbo preso da solo, ad affermare l'esi stenza di una certacosa (cioè a fare asserzioni) è dimostrata da Aristotele con il ricorsoall'esempio del verbo "essere": nemmeno esso preso da solo è capacedi affermare che una cosa è. Così commenta Eco (1984: 25): "Pertanto,quando Aristotele dice che neppure il verbo essere da solo è segnodell'esistenza della cosa, vuoi dire che l'enunciazione isola ta del verbo nonè indizio che si stia affermando l'esistenza di qualcosa: perché il verbo possaavere tale valore indiziale occorre che sia congiunto gli altri terminidell'enunciato, il soggetto e il predicato (e quindi il verbo l essere l èindizio di asserzione di esistenza, o di predicazione deli'inerenza attuale diun predicato a un soggetto, quando appaia in contesti come lx è yl oppure lx èl,nel senso di "x esiste di fatto)". 5.2 La teoria del segno 5.2.1 Ladefinizione Completamente irrelata rispetto alla teoria del linguag gio, inAristotele la dottrina del segno si pone nel punto di intersezione tra logica eretorica e i segni sono trattati tanto nei Primi analitici quanto nellaRetorica. 5.2 LA TEORIA DEL SEGNO 115 Allo stesso tempo, la nozione disegno presenta due aspetti fondamentali: da una parte infatti ha un interesseepistemologico e antologico, in quanto si configura come strumento diconoscenza, che deve servire a condurre l'at tenzione dei soggetti conoscentia operare un passaggio da un fatto a un altro (Todorov 1977: 19; Simone 1969:91); dall'altra ha un carattere prettamente logico, in quanto è dotato di unmeccanismo formale che presiede al suo fun zionamento. La definizione generaledel segno (smeion) è data nei Primi analitici (II, 70 a, 7-9). Di questo passoesistono di verse traduzioni (Colli 1982: 252; Todorov 1977: 19 ecc.); maquella che sembra individuare nel modo più soddisfa cente il significato delpasso è quella di Preti (1956: 5): Quando, una cosa essendo, un'altra è, oppurequando una cosa divenendo, un'altra diviene anteriormente o posteriormente,queste ultime sono segni del divenire o dell'essere. La sottolineatura cheabbiamo effettuato intende mettere in risalto appunto la specificitàdeIl'interpretazione di Pre ti, che restituisce al passo aristotelico tutta lasua carica di problematicità e la complessità, che appunto gli ulteriorisviluppi, a opera delle scuole successive, della dottrina del segno metterannoin luce. Prima di tutto vediamo però ciò su cui tutte le interpreta zioni delpasso concordano, cioè che la nozione di segno proposta da Aristotele prevedel'instaurarsi di un rapporto di tipo implicativo: il segno coincide press'apoco con il rapporto di implicazione "p implica q", accezione,questa, abbastanza comune della nozione di segno e che abbiamo già trovatooperante in altri ambiti, diversi dalla filosofia. Ma più precisamente, eparticolarmente in questa defini zione, il segno coincide con uno dei terminidell'implicazio ne. L'interpretazione di Preti suggerisce che esso coincida inparticolare con il secondo termine, cioè suggerisce che la definizionearistotelica vada letta nel senso che "q è segno di p": ora questadefinizione, che viene a configurare il rap porto segnico come "Se q,allora p", comporta, ai fini della 116 5. LINGUAGGIO E SEGNI INARISTOTELE sua applicazione ad argomentazioni inferenziali, un'inver sione da"p implica q" a "q implica p". È proprio questo fatto checonferisce alla nozione di se gno il carattere di problematicità e che conduceall'instau razione di un dibattito serrato e complesso in seno alle scuolefilosofiche postaristoteliche, anche se esse non fa ranno esplicitamenteriferimento ad Aristotele. D'alta parte, questo tipo di inversione sembra porsian che alla base della richiesta, ai fini della validità del segno, diun'implicazione tra p e q più stretta di quanto non sia, a esempio, l'implicazionemateriale. Sembra, in sostanza, che già nella definizione aristotelica vengarichiesta la con dizione "Se non-q, non-p" ("q, o non-p"),cioè esattamente quel tipo di implicazione stretta che verrà dagli stoici considerata necessaria per la validità del segno. Al di là di questo si deve anchenotare che nella defini zione (e in genere nell'intera trattazione) del segnocondot ta da Aristotele è riscontrabile un'ambiguità di fondo nel modo diconcepire i due termini del rapporto implicativo. Per un verso, infatti, essicostituiscono dei fatti (o delle proprietà) (e non a caso una parola centraledella definizio ne è tò pragma "il fatto"). Aristotele del resto dàesempi di questo genere: "il mostrare che una certa donna è gravidaattraverso il fatto che essa ha il latte"; il segno è "l'aver latte", che appare appunto essere l'espressione di un fatto o di unaproprietà. Per un altro verso il segno è concepito come una proposi zione, inquanto un segno può costituire la premessa da cui si sviluppa un sillogismo:"Un segno, invece, vuole essere una premessa dimostrativa, o necessaria ofondata sulla opinione" (An. Pr., II, 70 a, 6-7). In realtà, ladefinizione di segno come proposizione, che può costituire una premes sa in unragionamento infcrenziale, è abbastanza centrale in Aristotele. Infatti ilruolo fondamentale che egli attribui sce al smefon è proprio quello di essereuno degli elementi che forniscono premesse a quel particolare tipo di siilogismo che è I'entimema. LA TEORIA DEL SEGNO 1 17 5.2.2 L'entimema e i segniNella nozione di entimema coesistono due aspetti com plementari, che latradizione successiva svilupperà talvolta separatamente. Da una partel'entimema può essere consi derato un sillogismo tronco, in cui una dellepremesse è mancante, perché ritenuta nota o ovvia.9 DalPaltra, l'enti memaviene considerato un sillogismo che tende alla per suasione, e non alladimostrazione; in quanto tale non è ne cessario che le sue premesse sianovere, ma soltanto che sia no probabili (hos epì tò poly). Aristotele sviluppaesplicita mente il secondo aspetto delle definizioni parallele dei Pri mianalitici (II, 70 a, 9-10) e della Retorica (1, 1357 a, 30- 32) . Dunque ilsegno trova la sua principale applicazione nel l'ambito del discorsopersuasivo, ovvero retorico, dove, sotto forma di proposizione, entra nelmeccanismo dell'en timema e vi svolge il ruolo di "protasi", dipremessa. Ma, in quell'ambito, si profila una prima distinzione tra la nozione di smeion e quella di eikos "verosimile" o "probabile"), pur imparentate per il fatto di poter figurare entrambe comepremesse negli entimemi. Ciò che contraddistingue la nozione di eikos èessenzial mente il suo carattere probabilistico, che lo lega irrevocabilmente all'opinione, rimuovendolo in una zona del sapere piuttosto insicura,lontano dalla possibilità di una dimo strazione scientifica. 5.2.3 L'inferenzadal conseguente Per quello che riguarda la nozione di segno, la situazione èdiversa e senz'altro molto più complessa. In effetti il s meion non costituisceuna categoria semplice, bensì una classe composita che prevede al suo internotipi con carat teristiche molto differenziate tra loro. Ma, prima di porrel'accento sulle differenze interne, è forse possibile osservare che qualcosaunisce i vari tipi di segni rispetto alla nozione di eikos: invece che sullaprobabilità, nel caso del segno 118 5. LINGUAGGIO ESEGNI IN ARISTOTELEl'attenzione è concentrata sul carattere di "consequenziali tà". Ilragionamento inferenziale, basato sui segni, procede tipicamente ek tonhepomén{Jn, "per conseguenze", tende cioè a inferire la causadall'effetto. Per questa ragione sono possibili sia applicazioni corrette siaapplicazioni inganne voli. ÈinparticolarenelleConfutazionisofistiche(167b,1-5) che Aristotele sviluppa chiaramente la teoria del ragiona mento perconseguenze: quest'ultimo porta a conclusioni ingannevoli come, a esempio, nelcaso in cui qualcuno, avendo osservato una volta che la terra è bagnata dopo lapioggia, volesse concludere in generale che, se la terra è ba gnata, allora èpiovuto. Un secondo esempio di ragiona mento per conseguenze dato daAristotele concerne le pro prietà, anziché gli eventi, come avveniva in quelloprece dente: se qualcuno, avesse sperimentato che il miele ha la proprietà diessere giallo e volesse conciudere che qualcosa è miele partendo dallaproprietà che ha il colore giallo, cor rerebbe il rischio di scambiare permiele il fiele (ibidem, 167 b, 6-8). In tale contesto Aristotele giunge a identificarede cisamente questo tipo di inferenza con quello specifico del segno:"Nei discorsi retorici, del pari, le dimostrazioni trat te da segni sifondano sulle conseguenze" (ibidem, 167 b, 8- 9). È possibile a questopunto tornare agli Analitici e com prendere meglio perché Aristotele procedainnanzitutto alla distinzione fondamentale tra due tipi di segni: il tekmrion,segno "necessario" o "inconfutabile",10 e il generico smeion, che ha le caratteristiche opposte. In realtà quest'ultima distinzione(che, come vedremo, comporta non solo due, ma tre tipi di entità, poiché visono due specie di segni non necessari) corrisponde a un tentati vo diAristotele di articolare una tipologia dei segni alle modalità di sviluppopossibile del sillogismo. Sono infatti tre i modi in cui il sillogismo puòutilizzare la premessa che esprime un segno, corrispondenti alle posizionipossibili del medio nelle varie figure. In questo modo si possono avereinferenze che partono da un segno sulla prima, sulla secon da o sulla terzafigura. 5.3 n. MECCANISMO LOGICO 1 19 5.3 D meccanismo logico 5 . 3 . lIl tekmérion come segno nella prima figura del sillogismo Prima però di entrarenei dettagli tecnici di questa distin zione, vale la pena di rilevarepreliminarmente che ben di verso è il valore epistemologico che Aristoteleattribuisce al segno che si sviluppa in un sillogismo di prima figura, cioè iltekmrion, rispetto a quelli che si sviluppano in seconda e in terza figura,cioè i generici smefa. In realtà, nei due ultimi casi si verifica la tipicaillusione segnalatanelleConfutazionisofistiche(167b, 1-5),cioèav viene dicredere che ci sia possibilità di conversione tra ra gione e conseguenza,senza che questo sia di fatto giustifi cato: dunque, in questi casi,l'inferenza dalle conseguenze alle cause è estremamente ipotetica e insicura.Nel primo caso, invece, cioè con il tekmrion, si ha un ti po di inferenza cheparte anch'essa dalle conseguenze, co me dimostra l'esempio "se una donnaha latte, allora essa è gravida", in quanto l'"avere latte"costituisce sia una con seguenza dell'essere gravida, sia un segno di talefatto; tut tavia, al contrario che nei casi precedenti, sembra essercipossibilità di conversione tra causa ed effetto; o, come sug gerivano leosservazioni di Preti (1956: 6) riportate prima, sembra essere previsto daAristotele, in questo caso, un ti po di implicazione più stretta che nonl'implicazione mate riale. Possiamo vedere ora come Aristotele sviluppal'aspetto tecnico dei tre tipi di segno, partendo da quello in prima fi gura:Ad esempio, il provare che una donna è gravida, in quanto essa ha latte, sifonda sulla prima figura: il medio è infatti l'aver lat te. Poniamo che Aindichi "esser gravida", che B indichi "aver latte", che Cindichi "donna". (An. Pr., Il, 70 a, 12-16)11 120 5. LINGUAGGIOE SEGNI IN ARISTOTELE Traducendo il ragionamento di Aristotele nel comune schemaillustrativo del sillogismo, si otterrà: 8 "chi ha latte" c"donna" c "donna" In questo esempio il segno "avere nelloschema sillogistico come noi ma è anche il termine intermedio dal punto divista esten sionale, tanto che potrebbe essere costruita la seguente fi guraper illustrare i rapporti tra i termini del sillogismo: A essere gravida l . A"essere gravida" 2. 8 "avere latte" si predica di sipredica di 3. A sipredicadi "essere gravida" latte" non solo èmedio lo abbiamo riportato, 5.3 n MECCANISMO LOGICO 121 5.3.2 Laseconda e la terza figura del sillogismo e i "semeia" Nella seconda enella terza figura il termine medio è il le game che consente Pinferenza, manon occupa, né nella formula né estensionalmente, la posizione centrale. Questofa sì che l'etichetta di "maggiore" e "minore" sia"arbitra ria nella seconda o nella terza figura, a qualunque dei duetermini si voglia dare il nome di maggiore o minore" (Allan 1970: tr. it.1973, 123). Del resto è indubbio che il punto di vista adottato da Aristotelenella trattazione che egli fa delle premesse sia quello estensionale. Legata aquesto punto di vista è di cer to la svalutazione della seconda e della terzafigura. Passiamo ora ad analizzare il tipo di segno che si svilup pa in unsillogismo basato sulla seconda figura: "Se una donna è pallida, alloraessa è gravida". Questa è l'analisi di Aristotele: Infine, la presuntaprova che una donna risulta gravida, in quanto è pallida, si sviluppaattraverso la seconda figura. In realtà, dato che il pallore è unadeterminazione conseguente delle donne gravide, e che tale determinazioneappartiene altre si a una certa donna, si crede allora provato che questadonna sia gravida. Indichiamo con A "la nozione di pallore", con B"l'essere gravida" e con C "donna". (An. Pr., Il, 70 a,20-24) Lo schema che può essere costruito in corrispondenza di questosillogismo è il seguente: l . 2. 3. A "essere pallida" A "esserepallida" 8 si predica di si predica di si predica di 8 "chi ègravida" C "questa donna" C "essere gravida""questa donna" 122 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Inquesto caso il segno "essere pallida", che è anche il medio, ha laposizione di un estremo e si predica contem poraneamente dei due termini"essere gravida" e di "donna". 12 Aristotele condannaquesta inferenza come non valida. Come si può osservare, ci ritroviamo qui difronte al ca so più emblematico di inferenza tratta dalle conseguenze. Unaconferma di questa condanna la si trova anche nel pas so corrispondente dellaRetorica (1, 1357 b, 17-21): "Se uno respira rapidamente è segno che ha lafebbre". Anche que sto esempio di segno dà origine a un sillogismo sullasecon da figura, in cui il medio, "respirare rapidamente", ha laposizione dell'estremo maggiore e si predica di entrambi i termini "averela febbre" e "uomo". Nella definizione di questo tipo di segnodata nella Reto rica vengono aggiunte due particolarità interessanti rispettoa quella presentata negli Analitici: (i) la prima è che il se gno èconfutabile anche se esso risultasse vero (kàn althès i1): viene dunqueprevista la possibilità di costruire un'infe renza che risulti conforme allaverità, anche se questo è so lo un caso, si direbbe, accidentale; ciò derivadal fatto che il sillogismo èformalmente scorretto, ma ci sono casi in cui essoporta, nonostante tutto, a conclusioni materialmente vere (Plebe 1966); (ii) laseconda particolarità consiste nel l'accennare al fatto che questo tipo disegno instaura una relazione "dall'universale al particolare": ciò èprobabil- mente da mettersi in relazione al fatto che è proprio il ter mineestensionalmente maggiore a svolgere la funzione di medio, e che si predicaprima di una classe, poi di un indi viduo . Vediamo ora un segno dal quale sisviluppa un sillogismo basato sulla terza figura. Ecco la definizione che neviene data negli Analitici: D'altro canto la presunta prova che i sapienti sonoeccellenti - poiché Pittaco è eccellente - si costruisce attraverso l'ultima figura. Poniamo che A indichi "la nozione di eccellente", che B indichi"i sapienti", che C indichi "Pittaco". Risponde in tal caso a verità il predicare di C tanto A quanto B; senonché la pre- 5.3 ILMECCANISMO LOGICO 123 messa BC non viene enunciata, perché risaputa, mentrePaltra è assunta espressamente. (An. Pr., II, 70 a, 16-20) Il segno, piùprecisamente, è la protasi del condizionale "Se Pittaco è eccellente, isapienti sono eccellenti " . Su di es so si sviluppa un sillogismo chepuò essere rappresentato dalla formula: l . 2. 3. A si predica di "essereeccellente" c "Pittaco" c "Pittaco" 8 "chi èsapiente" 8 "essere sapiente" si predica di A si predica di"essere eccellente" In questo caso il medio è "Pittaco",che ha la posizione del termine minore estensionalmente. Anche il sillogismocostruito su questo tipo di segno vie ne condannato in quanto confutabile(/jsimos). Del resto Aristotele aggiunge che esso rimane confutabile (comequello in seconda figura) anche nell'evenienza in cui esso conduca a unaconclusione accidentalmente vera. Inoltre, nel passo parallelo della Retorica(I, 1357 b, 10-11), viene precisato che esso instaura un rapporto che va"dal partico lare all'universale"; anche in questo caso è laposizione del medio, che qui è il termine estensionalmente minore, a suggerire questa determinazione ad Aristotele; in effetti si par te dallaproprietà di un individuo particolare per conclude re che tale proprietàappartiene a un'intera classe di cui l'individuo fa parte. 5.3.3 Laclassificazione Una volta stabilita una distinzione fra i tre tipi di segnosulla base della posizione che prende il medio in ciascuna 124 5.LINGUAOOIO E SEGNI IN ARISTOTELE delle figure, Aristotele procede a unaricapitolazione gene rale, dove consolida le distinzioni terminologiche eribadi sce la diversità della potenza conoscitiva in relazione a cia scuntipo: il nome tekmirion ("indizio sicuro", "prova") vieneriservato a quei segni che prendono realmente la posi zione del termineintermedio (cioè in cui il termine è medio anche dal punto di vistaestensionale, sul quale si sviluppa un sillogismo in prima figura); invece ilnome generico s meion viene lasciato a quei segni che all'intero sillogismohanno la posizione di un estremo (sui quali cioè si svilup pano delleinferenze in seconda e terza figura) (An. Pr., Il, 70b, 1-6). Rispetto a quantoabbiamo già detto, è necessario ag giungere una precisazione sulla nozione diéndoxon, che ca ratterizza nel massimo grado il sillogismo basato sul· tekmirion. In effetti nei Topici Aristotele precisa che i sillogismi dia letticiche danno il massimo di garanzia sono i sillogismi che derivano da premesse chesono degli éndoxa. Vengono poi definite éndoxa quelle proposizioni che sono"condivise da tutti o dai più o dai sapienti, e tra questi da tutti, daipiù o dai più noti e famosi" (Top., l, 100 b, 21-23). Sono queste, delresto, le condizioni che permettono di confermare dialetticamente una tesi(Viano 1958 a). Il passo parallelo della Retorica propone un'analogaclassificazione che distingue tra il segno necessario (anan kaion),corrispondente al tekmjrion, e il segno non neces sario m anankaion), corrispondenteal generico s meion, 3 e ulteriormente suddivisi in "segno che si trovain rapporto dali'universale al particolare" (da mettersi in rela zione aisegni in seconda figura del sillogismo) e "segno che si trova nel rapportodel particolare ali'universale" (da met tersi in relazione ai segni interza figura). La classificazione aristotelica può allora essere disposta sulloschema della pagina seguente: premesse da cui derivano gli entimemi/ eik6s smelon (segno) ("probabile", "verisimile") -è tmdoxon ("fondato sulla opinione") es.: "è amato -ama" ·èinvidioso -detesta• m'S snsnkslon ("'non necessario") - èéndoxon ("fondato sulla opinione") snsnkslon (..necessario")tekm"érion ("prova") - è IJ/yton (..inconfutabile·) - è il mediodi un sillo- gismo in 1 • figura es.: ..essa ha latte-è gravide" "hala febbre -è malata" t6 ksth ' kéksston pr6s t6 ksth61on ("dalparticolare all'universale") rl) ksth6/on pr6s rl) kstll méros (·dall'universale al particolare") - è lyron (..confutabile") - èmedio in un sillogismo - è lyton (..confutabile") - è medio in unsillogismo in 3• figura es.: "Pittacco è giusto-i sapienti sonogiusti" in 2• figura es.: ..respira rapidamente-ha la febbre" "èpallida -è gravido"LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5.4 Un sistemaparticolare di segni non linguisti ci: la fisiognomica La particolareconcezione che Aristotele ha del segno, come cosa o fatto che serve a condurrel'attenzione del sog getto conoscente su un'altra cosa o fatto, permette dipor tare in primo piano un tipo di conoscenza che si ottiene in modoindipendente dal linguaggio verbale. Ciò conduce a un'evidente valorizzazionedei sistemi di segni non lingui stici . Aristotele, infatti, nei Primianalitici, dopo aver esposto la teoria del segno, propone un'interessante,quanto curio sa applicazione a un tipo di segni molto speciali: quelli del lafisiognomica. Neli'esempio dato si tratta di risalire da un segno visivo a untratto del carattere: le grandi estremità del leone vengo no assunte comesegno del suo coraggio. Tutto l'interesse di Aristotele è concentrato su duepunti: da una parte egli tende ad acquisire una conoscenza circa l'ordinepsichico partendo da un fatto rilevabile attraverso i sensi; dall'altra tende astabilire il legame più stretto pos sibile tra due fatti che l'esperienza glimostra associati (in questo caso: grandi estremità e coraggio), come presupposto dell'affidabilità stessa della conoscenza. Per dare validi tà al suoesempio di fisiognomica Aristotele propone di fa re tre assunzioni: 1 4 (i)che "le affezioni naturali trasformino simultaneamente il corpo el'anima"; (ii) che vi sia un solo segno di un unico fatto, cioèdell'affezione dell'anima che deve essere scoperta; (iii) che ogni genere abbiaun'affezio ne propria e un proprio segno (fdion [... ] semefon). Come si puòosservare, Aristotele, con queste assunzio ni, tenta di razionalizzare e didare dignità filosofica a una materia che era eminentemente mantica. Qui nonc'è più la divinità che garantisce la corrispondenza fra un tratto percepibile dell'aspetto fisico e qualcosa che si inscrive nell'or dinedell'invisibile (sia esso il carattere di un uomo o più generalmente il destinolegato a quel carattere). Per Aristo tele vi può essere corrispondenza fra untratto fisico e un LA FISIOGNOMICA 127 aspetto interiore perché qualsiasiaffezione trasforma con temporaneamente corpo e anima, proprio come avvienenel caso di chi ha imparato la musica, che si è trasformato non solonell'abilità fisica di suonare, ma anche nella sua sensi bilità interna. Macome avveniva per la mantica, in questa materia si può correre il rischiodeli'ambiguità. È proprio per elimina re quest'ultima evenienza che Aristotelepropone le sue ul teriori assunzioni. Infatti l'ambiguità si può verificare indue casi distinti: (i) quando si hanno molti segni che riman dano a un'unicaaffezione (fenomeno che potremmo avvi cinare alla sinonimia): l'unico rimedioepistemologico è, in questo caso, assumere che i segni siano univoci, cioè cheun unico fatto sia significato da un solo segno; (ii) quando un genere abbiapiù affezioni, in maniera tale che si rimane in decisi su quale sia quella acui rimanda il segno (fenomeno che potremmo avvicinare all'omonimia): lasoluzione pro posta da Aristotele è quella di stabilire per ogni genere quale sia l'affezione che gli è propria e quale il segno proprio, in maniera dariferire quest'ultimo univocamente alla prima. Stabilendo preliminarmente letre precedenti assunzioni è possibile per Aristotele fare della fisiognomicauna scienza. E, rispettando appunto queste assunzioni, è possibile stabi lireche per il leone le grandi estremità sono il segno del co raggio (An. Pr., II,70 b, 16-17). Fin qui abbiamo seguito Aristotele nel suo ragionamento che sisvolge su un piano, per così dire, deduttivistico. È possibile ricostruire,però, anche un altro versante dell'ar gomentazione che si collocageneticamente in un momento in cui la regola deduttiva non è ancora stataposta. In effet ti è possibile pensare a un momento in cui si osserva che unacerta affezione, il coraggio, è associata al genere dei leoni;contemporaneamente si osserva che ai leoni è asso ciata la caratteristica diare grandi estremità. A questo punto viene formulata l'ipotesi che il segno delcoraggio sia rappresentato dal possesso di grandi estremità. Il processo logicoche verrebbe qui a configurarsi segui rebbe lo schema: 128 5. LINGUAGGIOE SEGNI IN ARISTOTELE l. "essere coraggiosi" 2. "avere grandiestremità" 3. "essere coraggiosi" (probabilmente) si predica disi predica di si predica di "leoni, "leoni" "chi ha grandiestremità" Un sillogismo in 3a figura, come è questo, secondo Peir cecostituirebbe una induzione, ma di un tipo talmente "ti mido da perderetotalmente la caratteristica ampliativa pro pria dell'induzione genuina"(1984: 210). Esso avrebbe un forte carattere ipotetico. Tuttavia Aristotele nonsegue in effetti questo ragiona mento perché non riesce ad accettare comevalido dal pun to di vista logico un procedimento che risulta privo di garanzie. Così è costretto a inquadrare questo, si noti bene, quanto maialeatorio segno del coraggio in uno schema an cora una volta deduttivo. Inaltre parole, l'osservazi,"ne deli'associazione tra coraggio e grandiestremità deve tra mutarsi in un legame stretto e costante. Lo sforzo di Aristotele è tutto rivolto a dimostrare che ogni volta che ci sia coraggio, questovenga manifestato dalla presenza di gran di estremità, e viceversa. In terminitecnìci, la situazione ideale, cioè il massimo della certezza, si ottienequando si verifica conversione (antistréphein) tra ciò che funge da se gno eciò a cui esso rimanda, ovverosia quando l'estensione del primo termine èesattamente uguale a quella del secon do. Da qui la necessità (puramentelogica, e non semiotica) che un unico segno si riferisca a un'unica affezione:solo in questo modo è possibile la conversione tra i due termini. A questopunto il problema di fare un'ipotesi su quale sia il segno del coraggio sitrasforma in quello di trovare un elemento di mediazione tra il"coraggio" e il "genere dei leoni", che ne appaionocostantemente provvisti. Tale elemento di mediazioneJ che sembra appunto giustificare l'associazione, è "avere grandi estremità", che divie ne cosìil segno, sul quale viene costruito il seguente schema sillogistico deduttivo(An. Pr., II, 70 a, 32-38): SVALUTAZIONE DEL SAPERE SEONICO 129 A sipredica di B "essere coraggioso" "chi ha grandi estremità"B si predica di c 2. 3. A si predica di c "avere grandi estremità''"leone" "essere coraggioso" "leone" Ma ciò cheAristotele trascura di mettere in luce è che, come abbiamo visto, i dati dipartenza della deduzione stes sa poggiano su una precedente inferenza acarattere più ipotetico. L'esempio proposto è interessante perché, prima dellapresentazione dello schema formale, tutto il ragiona mento è rivolto astabilire i criteri che permettano di dire che qualcosa è segno diqualcos'altro. Ma ciò è possibile solo formulando un'ipotesi, che solo inseguito può essere verificata deduttivamente. 5.5 La svalutazione del saperesegnico In effetti la diffidenza di Aristotele nei confronti della conoscenzache si può ricavare dai segni è molto marcata. Infatti, nella concezionearistotelica, anche quando tra i due termini del segno vi sia un legamenecessario, la cono scenza del termine non noto sembra imporcisi dall'esterno,senza che si riesca a comprenderne la causa. Aristotele nei Secondi analitici(1, 75 a, 28-36) oppone il ragionamento basato sull'essenza a quello basatosulsegno; quest'ultimo infatti viene definito come ragionamento che si fondasulle determinazioni accidentali. Ne consegue, peraltro, che soltanto con ilprimo tipo è possibile arrivare a conoscere la causa. Ciò non significa che laconoscenza attraverso il segno sia totalmente esterio re. In certi casi, chesono quelli dei segni necessari, il segno permette di risalire alla causa: cosìla constatazione del fat to che una donna ha latte permette di risalire allacausa, cioè al suo essere gravida, come pure l'accertamento della 130 5.LINGUAGGIO E SEGNI IN ARlSTOTELE presenza della febbre permette di risalireallo stato di ma lattia che la determina. Tuttavia questo tipo di ragionamentonon arriva a forni re una vera e propria scienza dei fatti, in quantoquest'ulti ma si ottiene solo a partire dalla causa. Il ragionamento attraverso il segno parte invece dall'effetto e permette soltan tol'affermazione del fatto, cioè dello h6ti ("che"), senza condurrealla comprensione delle cause, cioè del di6ti ("perché"). Nelcapitolo 13 dei Secondi analitici Aristotele insiste sul fatto che ladimostrazione veramente scientifica non consi ste nella scoperta o nellaconclusione della causa, ma essa è scientifica proprio in quanto parte dallacausa; in quel con testo viene infatti fondata la distinzione tra "ilsapere che qualcosa è" e "il sapere perché qualcosa è". Ineffetti alle scienze dello h6ti viene riconosciuto un cer to diritto diesistenza; tuttavia esse vengono considerate in feriori in quanto portano suifatti, senza raggiungere la co noscenza del necessario e a malapena quelladell'universale. Ma quali sono queste scienze dello hoti? Dagli esempi cheAristotele fornisce si direbbe che si tratta eminentemente di scienzeindiziarie, basate sui segni e fornite di un carattere fortemente ipotetico incontrapposizione ad altre che invece hanno carattere deduttivo. Tra questiesempi Aristotele cita il caso dell'astronomia (astrologhfa), nome condivisosia da una certa scienza nau tica (nautik) sia da una scienza basata sufondamenti ma tematici (mathmatik). Solo la seconda è scienza delle cau se.Ugualmente Aristotele contrappone la medicina alla geometria: infatti, nel casodelle ferite circolari, spetta al medico di sapere che esse guariscono piùlentamente, men tre spetta all'esperto di geometria conoscere il perché diquesto fatto. Dunque abbiamo medicina e scienza della navigazione contromatematica e geometria: il senso della scelta aristo telica contro il segnonon potrebbe essere più chiaro. È interessante osservare come per Aristotelesia possibile anche sviluppare un ragionamento dello hoti oppure uno del diotiall'interno di una stessa scienza. La differenza che 5.5 SVALUTAZIONE DELSAPERE SEGNICO 131 contraddistingue i due tipi è duplice. Infatti si fa unragio namento dello h6ti, in primo luogo, quando il sillogismo non si basa supremesse immediate (che, nell'epistemologia aristotelica, significa assumere lacausa prima e prossima); in secondo luogo, quando, pur basandosi su premesse immediate, la deduzione non discende dal termine che indica la causa di un fatto,ma dal più noto di due termini, en trambi riferiti al fatto. In altre parole,la differenza specifi ca del sillogismo del dioti è ancora che esso va dallacausa ali'effetto e non dali'effetto alla causa. L'esempio che Aristotelefornisce è molto interessante. Posto, infatti, che c'è una certa relazione trail non sfavilla re dei pianeti e la loro vicinanza alla terra, Aristotele mostra come attraverso questi due termini sia possibile svilup pare due tipi diragionamento di diverso valore epistemolo gico . Da una parte è infattipossibile dedurre la vicinanza dei pianeti dal fatto che non sfavillano (''Senon sfavillano, so no vicini"). Si ha in questo caso un ragionamentodello hoti e si può osservare che in questo contesto il "nonsfavillare" è tipicamente un segno del fatto che risulta come conclusione, cioè la loro "vicinanza" alla terra. Il sillogismo costruito sulsegno non parte dalla causa del non sfavillamento dei pianeti (che è costituitadalla loro vi cinanza), ma parte dell'effetto, che viene assunto come termine medio, per arrivare alla causa. È possibile anche che la causa non vengamai realmente conosciuta. Aristotele contrappone a questo tipo di ragionamentoquello che deduce il non sfavillamento dei pianeti dalla loro vicinanza. Si hain questo caso un ragionamento del dioti, che mostra il perché qualcosa sia,dal momento che coglie la causa precisamente in quanto causatrice dell'effetto;for malmente ciò avviene in quanto viene assunto come medio proprio il termineche indica la causa. Dunque tra il sillogismo del dioti e quello dello hoti c'èun rapporto di simmetria inversa. È sufficiente infatti in vertire i terminidel secondo per ottenere il primo. Tuttavia ciò non è sempre possibile, comeprecisa il com mentatore del testo aristotelico Filopono: 132 5.LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Spesso è necessario che, quando viene posta lacausa, anche l'effetto sia posto, mentre non è affatto necessario che, quandosi dà l'effetto, anche la causa si dia: così il fatto di avere il co loritopallido non si accompagna necessariamente al parto, ma se una donna hapartorito, essa ha sempre il colorito pallido: infatti possono esserci variecause del medesimo fatto. (Philop., in Anal. Post., Wallies, 169-9)L'aleatorietà del procedimento inferenziale tipico del se gno (dal pallore alparto) viene qui messa in risalto preve dendo il caso che un effetto possaavere molteplici cause, situazione nella quale, secondo Filopono, non potràessere costruito un vero sillogismo dello h6ti, ma soltanto un sil logismo deldi6ti. Del resto, Aristotele stesso aveva previsto il caso che un effettopotesse avere cause differenti,15 che rendono difficile e aleatorio il percorsodi risalita dali'effet to alla causa. D'altra parte, però, secondo ilcon1mentatore Filopono, si può verificare anche il caso opposto, quello cioè incui sia possibile soltanto un ragionamento dello h6ti. Infatti è possibilerisalire dal fatto che una donna ha partorito (co me effetto e segno) al fattoche essa si è unita a un uomo (come causa): ma la reciproca non è necessaria,poiché il parto non segue necessariamente all'accoppiamento (Phi lop., inAna/. Post., Wallies, 169-21). C'è infine un'ultima caratteristica checontraddistingue il ragionamento dello h6ti da quello del di6ti, consistentenel fatto che il primo è tipico del emplice osservatore dei feno meni, nonspecialista, mentre il secoildo spetta all'uomo di scienza (An. Post., I l, 79a, 2-3). In Aristotele, in definitiva, le scienze indiziarie e il segno ingenerale sono oggetto di una svalutazione epistemologi ca, in quanto nella suaconcezione teorica della scienza non viene fatto alcuno spazio alla ricerca eall'ipotesi, quale è presupposta invece da una concezione semiotica del sapere.Come sottolinea Le Blond (1939, tr. it. 1973: l 05), perAri stotele la scienza "n'est elle pas principalement recherche, maispossession; les Analytiques n'apportent guère d'indi cations sur la recherche:il décrivent la science achevée, qui 5.6 DEDUZIONE E ABDUZIONE 133descend des causes aux effets et coincide absolument avec le dynamisme deschoses - conception singulièrement con fiante, on le voit, qui pose enprincipe la connaissance par faite de la réalité". 5.6 Deduzione eabduzione Non si deve tuttavia pensare che questa posizione teorica corrispondaesattamente alla pratica di ricerca adottata di fatto da Aristotele, a esempionelle opere scientifiche. Né, d'altra parte, si deve accettare enza riservel'asserzione ari stotelica circa il carattere assolutamente deduttivo dellescienze del di6ti. Come ha mostrato Eco (1983: 242), per Aristotele trovare ilperché di un certo fenomeno significa trovare un buon termine medio che spieghiquel fenomeno: ma questo termine medio può essere, in certi casi, anche moltoardito e sofisticato, e non corrispondere a nessuna conoscenza già accertata.Esso può essere, cioè, una "ipote si" nel senso peirceano. Èilluminante, a questo riguardo, il ragionamento svilup pato da Aristotele neltrattato Parti degli animali, in cui, a proposito degli animali provvisti dicorna, vengono regi strati alcuni "fatti sorprendenti" bisognosi dispiegazione. A esempio: (i) che tutti gli animali con le corna hanno una solafila di denti, cioè mancano degli incisivi superiori (663 b - 664 a); (ii) chetutti gli animali con le corna hanno quat tro stomaci (674 a-b); (iii) chetutti gli animali con quattro stomaci mancano degli incisivi superiori (674 a)ecc. Il problema che ha di fronte Aristotele, in questo caso, è quello dispiegare la ragione per cui, innanzitutto, agli ani mali con le corna mancanogli incisivi superiori. Come sot tolinea Eco, Aristotele "deve porre unaRegola tale che, se il Risultato che vuole spiegare fosse un Caso di questa Regola, tale Risultato non sarebbe più sorprendente'' (1983: 239). E del resto,secondo Peirce, quando una circostanza "strana" si spiega supponendoche essa sia il caso di una certa regola 0enerale, siamo di fronte a un'ipotesio abdu zione . 134 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Proprio in questitermini procede Aristotele, supponen do che, nel caso considerato,probabilmente, la materia du ra è stata deviata dagli incisivi superiori allatesta con lo scopo di formare le corna. A sua volta, la mancanza di in cisivisuperiori è causa dello sviluppo di un quarto stomaco ed è il medio dal qualesi sviluppa un ulteriore sillogismo. Espresso nei termini del sillogismo (nellaformalizzazione peirceana adottata da Eco) il primo ragionamento si ricostruisce così: Regola = Tutti gli animali devianti (cioè che hanno deviato lamateria dura dalla bocca alla testa) mancano degli in cisivi superiori.Caso=Tutti gli animali con le corna hanno deviato. Risultato = Tutti glianimali con le corna mancano degli in cisivi superiori. La "deviazionedeUa materia dura" costituisce contem poraneamente il medio delsillogismo e la spiegazione del fenomeno. Quello che Eco mette giustamente inrisalto è che lo sforzo di spiegare a titolo ipotetico perché un feno meno ècosì come è, costruendo una forma rigorosamente deduttiva, non differisce inniente da ciò che Peirce chiama abduzione: in ciascuno dei due casi c'è unlavoro su ipotesi che permettono di spiegare fenomeni che appaiono "sorprendenti " . L'idea di Eco, in sostanza, è che al di sotto e prima del livello deduttivo preso in considerazione da Aristotele esista un livelloabduttivo che Aristotele rifiuta di riconoscere, ma al quale ricorre nel casoche debba costruire delle defi nizioni scientifiche: definire il perché di unfatto sorpren dente "significa stabilire una gerarchia di collegamenticau sali per via di una sorta di ipotesi che può essere convalida ta soloquando dà luogo a un sillogismo deduttivo che agi sce come previsione disuccessive modifiche" (ibidem, 241). Ed è in definitiva proprio il mancatoriconoscimento di questo movimento inferenziale preliminare che vieta adAristotele di riconoscere il carattere ipotetico della scienza e, nel contempo,la produttività dello stesso sapere segnico. 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIOE LA SEMIOTICA DEGLI STOICI 6.0 Introduzione La scuola stoica è quella chenell'antichità ha sviluppato con maggior rigore e profondità una riflessionesemiotica. Tuttavia l'indagine degli stoici si polarizza, com'era già avvenuto per Aristotele, su due ambiti fondamentalmente di stinti tra di loro:da una parte, una teoria del linguaggio in senso stretto, che comporta ancheun'analisi dei rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà (in corrispondenzadella terna "significante", "significato", "oggettoesterno"); dal l'altra, una teoria del "segno" proposizionale,connessa con la teoria dell'inferenza. Questi aspetti della filosofia stoicatrovano però un pun to di convergenza, come vedremo, nel loro comune legamecon il lekt6n, un'entità che ha uno statuto eccezionale nella metafisicastoica. In effetti, a fondamento di quest'ultima, si pone la specialedialettica tra le entità che condividono la proprietà di essere"corpi" (sOmata) e quelle entità che sono invece corporee (asOmata).Più in dettaglio si può dire che di solito l'ontologia stoica prende inconsiderazione solo quegli individui che hanno la caratteristica di essereoggetti tridimensionali e di possedere altresì una resistenza nel tem po.Questi, appunto, sono i corpi e solo essi vengono consi derati esistenti. Ora,tanto nella teoria del linguaggio, quan to in quella del segno proposizionale,accanto alle entità corporee vengono prese in considerazione anche delle entitàincorporee, quali i lekta.LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI Per ilmomento è invece necessario sgombrare il campo da due equivoci. Il primoconcerne il destino che tocca alle entità incorporee: esse non vengono relegatesemplicemente nell'ambito del non-esistente, ma vengono investite di una"esistenza derivativa'' (Long 197I a: 89-90). Il secondo pos sibileequivoco concerne la nozione stessa di corpo. Contra riamente a quello che ciattenderemmo in relazione a una nozione moderna di corpo, per gli stoici erano"corpi" an che le qualità, in quanto venivano considerate comemateria in un certo stato. Le proprietà di un certo individuo costi tuisconostati o modi del suo essere e, per la loro esistenza, dipendono dall'esistenzadi questo individuo. Se l'individuo esiste, le sue proprietà sono appuntodisposizioni esistenti di materia (Rist I969: 52-55). Si profila, a questopunto, una ontologia che pone al suo centro la nozione di"particolare": quest'ultimo viene carat terizzato come un oggettomateriale, che ha una forma defi nita come condizione necessaria e sufficientedella sua esi stenza. La forma, del resto, è l'elemento caratteristico di unoggetto, che lo rende identificabile come tale (Long I97I a: 76). È proprio suquesti presupposti antologici che si innesta e si sviluppa la teoriasemiolinguistica degli stoici: il bisogno di una teoria del significato e dellaverità nasce appunto a proposito deIl'identificazione dei"particolari", ed è con nesso a una teoria della percezione. Così,si terrà presente innanzitutto che per gli stoici le im magini (phantasfa1)prodotte nella mente dagli oggetti ester ni danno luogo a una percezione verase esse riproducono esattamente la configurazione di tali oggetti.1 Del resto,le immagini giocano un ruolo importante nella teoria del si gnificato deglistoici, come si sa che avevano una parte im portante anche nella teoria delsignificato di Aristotele. In secondo luogo si può considerare comefondamentale il fatto che uno dei modi di identificare un "particolare"è quello di identificarlo linguisticamente. In questo caso è fondamentalel'abilità di A nel comunicare a B che sta par lando intorno a X, come purel'abilità di B di indicare ad A che egli ha compreso il suo riferimento.6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 137 6.1 La teoria del linguaggio 6 . 1 . 1 Iltriangolo semiotico Il passo di Sesto Empirico che contiene i lineamenti fondamentali della teoria linguistica stoica si trova proprio in un contesto checoncerne un conflitto di opinioni intorno alla verità. È importantesottolineare che per gli stoici una teoria del la verità, cioè la ricercadelle basi per una verifica delle pro posizioni, non può essere elaborata inmaniera indipenden te da una concezione della struttura del mondo e da ciò chepuò essere detto intorno a esso. Ecco il passo di Sesto. Alcuni hanno ripostoil vero e il falso nella cosa "significata" (tò smainomenon), altrinella voce (phon), altri infine nel mo vimento del pensiero. Della primaopinione sono stati i porta bandiera gli stoici col sostenere che sono traloro congiunte tre cose, ossia la cosa significata (tò smainomenon), quellasigni ficante (tò smafnon), e quella-che-si-trova-ad-esistere (tò tynchanon), e che, tra queste, la cosa significante è la voce (ad esempio laparola "Dione"); quella significata è lo stesso stato di cose (autòtò pragma) indicato dalla voce pronunciata (tò hyp'autis dloumenon), che noipercepiamo come coesistente (paryphistamenon) con il nostro pensiero(dianoia1), mentre i barbari, pur ascoltando la voce che lo indica, non locompren dono; infine, ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori dinoi (ad esempio, Dione in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la vocee ciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor porea, cioè l'oggettosignificato o "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero ofalso. 2 (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12) A partire dalle notizie diSesto, anche per gli stoici il fe nomeno della significazione linguistica puòessere ricostrui to nei termini di un triangolo (cfr. p. 138). Si puòosservare che compaiono i termini "significante" e"significato" (come è dato trovare anche nella teoria mo derna diSaussure), ma non quello di "segno": come anche 138 6. LATEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI slmsin6menon (significato) lekt6n (detto) tmsm lnon (aignificente) tynchAnon in Aristotele, la nozionedi smeion appartiene a un altro ambito della teoria, che non è quellostrettamente linguisti co. Si può notare anche che l'esempio che viene datoqui è abbastanza particolare, in quanto si tratta di un nome pro prio. Insecondo luogo, se da una parte, come per Aristotele, i termini che individuanola significazione sono tre e com prendono anche l'oggetto, che propriamente èesterno al linguaggio, tuttavia la coincidenza tra i due modelli è soloparziale: soltanto il primo e il terzo termine, cioè la voce si gnificante el'oggetto, possono essere assimilati nei due triangoli. 6. 1 .2 Il"lekt6n" come "asserzione" Un caso assolutamente a sécostituisce il termine che si trova al vertice superiore del triangolo,chiamato prima ù·lJ_ main6menon, poi anche lekt6n. Soprattutto nella sua seconda denominazione costituisce un termine peculiare della filosofia dellinguaggio degli stoici e rimanda a un concetto complesso e di grandeinteresse. Un primo aspetto della sua peculiarità lo si può rilevare in unconfronto con Aristotele. (oggetto esterno, referente) LA TEORIADEL LINGUAGGIO Nella stessa posizione del triangolo della significazione Aristotele poneva delle entità psicologiche, che venivano consi derate lemedesime per tutti gli uomini. Il lekt6n degli stoici, come ci dice Sesto nelpasso riporta to, ha caratteri completamente diversi, in quanto i barbari, purudendo i suoni e vedendo l'oggetto, non lo compren dono . Come rileva Todorov(1977: 17-18), la differenza tra le due nozioni consiste innanzitutto nel fattoche, mentre l'en tità presa in considerazione da Aristotele si situa a livellodella mente dei locutori, quella considerata dagli stoici si si- tuadirettamente al livello del linguaggio: Todorov interpreta il lekt6n come lacapacità del primo elementodi designare il terzo. Tale interpretazione poggiaanche sul fatto che l'e sempio dato è un nome proprio, che ha una capacità dide signazione come gli altri nomi, ma è molto controverso se abbia un senso;la risposta che di solito si dà a questo inter rogativo è negativa. I barbariodono sicuramente la sequenza di suoni l Dio ne l e vedono l l Dione l l, masono incapaci di connettere il suono con il suo oggetto di riferimento.Comprendere, dun que, come avviene appunto nel caso dei Greci, consiste proprio nel percepire la connessione tra la parola che viene pro nunciata el'oggetto cui si riferisce. Anche Long (1971 a: 77) identifica il lekt6n contale connessione, ma nel senso che esso si configura come l'affermazione che unenunciato fa nei confronti di qualche oggetto; in questo caso, la tra duzionepiù propria di lekt6n è "ciò che è detto", in quanto tale espressionecopre sia la nozione di "giudizio" che quella di "stato di cosesignificato da una parola o da una serie di parole".3 L'idea che i lektasi potessero configurare come "affer mazioni intorno agli oggetti"emerge da una testimonianza di Seneca (Epistulae mora/es, 1 17, 13), in cuiviene delinea to uno schema triadico della significazione analogo a quello diSesto, ma con una proposizione ( l Catone cammina l ), laddove Sesto proponevasolo un nome ( l Diane l ). Seneca invita a distinguere tra l'oggetto diriferimento, cioè Cato ne, che è un oggetto materiale, e l'asserzione intornoa esso 140 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI ( l Cato ambulat l ),che è un "incorporale". Tale asserzione è propriamente il lekton, delquale termine Seneca propone tre diverse traduzioni latine: enuntiatum("enunciazione"), effatum ("affermazione"), dictum("asserzione"). Dato che l'esempio proposto da Seneca è unaproposizio ne, risulta più agevole, rispetto ali'esempio di Sesto, capire comepossa essergli applicato il predicato "vero" o "falso".4Infatti solo i lekta che costituiscono una proposizione com pleta possonoessere veri o falsi.5 6. 1 .3 I rapporti tra il "lekt6n" e ilpensiero Nel modello aristotelico della significazione le espressionilinguistiche sono i simboli degli stati psichici (pathmata en tiipsychi1) elodei pensieri (noimata). In questo modo non viene operata una chiara distinzionetra la nozione di "si gnificato" e quella di "pensiero".Tale concezione ricompa re del resto nella nota teoria novecentesca di Ogden eRi chards (1936: tr. it. 37), i quali disegnano un triangolo se miotico incui figura al vertice superiore la nozione di "thought"("pensiero"). Diversa è la concezione proposta dagli stoici. Ineffetti, dalla testimonianza concorde di Sesto e di Diogene si ricava unanozione di significato nettamente distinto dal pensiero, anche se intrattenentecon questo un certo tipo di rapporto. Dice infatti Sesto: [Gli stoici]affermano che il /ekton è ciò che sussiste in confor mità con unarappresentazione razionale (loghik phantasia) e che una rappresentazionerazionale è quella secondo cui il rap· presentato (phantasthén) può essereespresso in parole. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70) In termini del tuttoanaloghi si esprime Diogene (Vitae, VII, 63), usando anche le stesseespressioni. Cosi, da en trambi i passi si può ricavare l'idea che gli stoicioperassero una distinzione netta tra i lekta, che rappresentano il livello del"significato", e le "rappresentazioni razionali"(loghikaì 6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 141 phantasfa1), che possiamodefinire come delle forme di atti vità intellettiva o dei pensieri;quest'ultime entità sono pe culiari della specie umana6 e possono,ali'occorrenza, essere espresse in parole (a questo infatti si riferiscel'aggettivo lo ghikaf). Ma, sempre dai due passi, si può ricavare anche che idue termini, il lekton e l'attività di pensiero, vengono messi in relazione. Long (1971 a: 82) cosi commenta il passo di Se sto: "I take thisdifficult passage to mean that the /ekton is defined as the objective contentof acts of thinking (no sis)" e aggiunge anche "or, what comes to thesame thing in Stoicism, the sense of significant discourse". Prima di approfondire il senso di questa seconda asserzione di Long, soffermiamoci sullaprima. Dunque la relazione che il lekton instaura con l'attività di pensiero ètale per cui esso si configura come contenuto o risultato di tale attività. Maquesta nuova relazione, che ve niamo scoprendo attraverso le testimonianze diDiogene e Sesto, comporta un elemento nuovo rispetto a quanto lostessoSestoavevadettoaltrove(Adv.Math.,VIII, 11-12), quando aveva messo inrelazione il lekton con l'espressione significante (cioè con il smainon). Ineffetti, se il lekton viene ora definito come qualcosa che sussiste inconformità con una rappresentazione razionale, è evidente che l'accen toappare spostato dal precedente rapporto con il suono della voce, a un rapportocon l'attività del pensiero. Questa, prima di dimostrarsi un'apparentecontraddizio ne o un falso dilemma, ha diviso sia le testimonianze degliesegeti antichi sia le interpretazioni degli studiosi moderni degli stoici.Come mette bene in evidenza Mignucci (1965: 92-93), i lekta, essendoincorporei, "non possono essere disgiunti da qualcosa di corporeo chefaccia in qualche modo da sup porto ad essi e che permetta la loroesprimibilità". Il proble ma diviene allora quello di stabilire se a fareda supporto ai lekta siano: (i) i suoni della voce; o (ii) l'attività dellamente che li pensa. La prima definizione di Sesto7 opta per la solu zione(i),9mentre la seconda,8 come pure la definizione di Diogene, optano per lasoluzione (ii). Ugualmente, tra gli 1 42 6 . LA TEORIA DEL LINGUAGGIODEGLI STOICI interpreti moderni, Mates10 risponde che sono le parole a fare dasupporto ai lekta; Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di vista. Comedicevamo, questo è un falso dilemma, non resolu bile tuttavia filologicamente,in quanto nei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi di convalida perciascuno dei due punti di vista. Piuttosto è necessario considerare un duplice presupposto che sembra agire nella teoria stoica: da un lato ilverificarsi di discorsi significativi rimanda a un'at tività intellettuale, inassenza della quale non è possibile che si diano i significati; dall'altra ilrisultato dell'attività intel lettuale ha bisogno dei suoni della vocesignificativi per esplicitarsi oggettivamente. È possibile, anzi, trarre le conseguenze dal fatto che i lekta siano definiti da una parte co me contenutidelle rappresentazioni razionali e dali'altra come significati delle parole:conseguenze che indicano la necessità di postulare una stretta connessione trai contenuti dell'attività rappresentativa della mente e il loro essere significati attraverso le parole. I due termini, in realtà, non possono esseredisgiunti l'uno dall'altro.13 A questo punto possiamo comprendere la secondaasserzione di Long che abbiamo anticipato: il senso del discorso significante eil contenuto oggettivo degli atti di pensiero devono essere considerati come lastessa cosa.. La precedente conclusione viene del resto appoggiata da tà14 èdato dalla "rappresentazione" (phantasia) passo Diogene spiega che laphantasia ha un ruolo assoluta mente primario, in quanto non è possibile,senza di essa, rendere conto di alcuni processi fondamentali della conoscenza, quali l'assenso (synkatathesis), la comprensione (kata/psis) el'attività di pensiero (n6sis): "infatti la rap presentazione viene perprima, poi il pensiero (dianoia) che è capace di parlare (eklalètik), esprimein parole (/6g01) ciò che esperimenta come il risultato dellarappresentazione". Il passo di Diogene è importante perché ripropone la nozione, già platonica,15 del pensiero come "discorso inter no".16Tutto ciò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sullaconsiderazione di un passo di Diogene Laerzio (Vitae, VII, 49-50) in cui vienedetto che il criterio di veri- .. In questo 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 143una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli dellacomunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi siano basatisulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nella teorialinguistica del si gnificato. 6.2 La teoria del segno 6.2. 1 Il"lekt6n" e la teoria del segno Il lekton, che abbiamo finoraincontrato come elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce unanozione fondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è unfattore di mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (smefa) per gli stoicisono anzitutto dei lekta, in auanto sono costituiti da proposizioni. Questo fasì che, come sottolinea Eco (1984: 30), nella se fllÌOtica stoica si verifichiuna saldatura "di diritto" tra la 0ottrina del linguaggio e ladottrina dei segni. Infatti, "per ché ci siano segni occorre che sianoformulate proposizioni e le proposizioni debbono organizzarsi secondo unasintassi Jogica che è rispecchiata e resa possibile dalla sintassi linguistica" (ibidem). Occorre tener presente che gli stoici non di cono ancorache le parole sono segni (sarà Agostino il pri (110 a fare una simileasserzione) e rimane, del resto, una òifferenza lessicale tra la coppiasmafnonlsmain6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni siano dei lektaci illumina sul ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre il segno nonverbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jfl manieraimplicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno che ci vienedata da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno, dicono che èuna proposizione (axloma) che è l'antecedente (prokathegou menon) in uncondizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del conseguente(ekkalyptikòn tou ligontos). E di- 144 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLISTOICI cono che la proposizione è un lekt6n completo in se stesso; e ilcondizionale vero è quello che non comincia dal vero e finisce ] Riprenderemopiù avanti le varie problematiche che ven gono presentate in questo passo. Peril momento ci preme sottolineare che in esso si definisce il segno come unlekt6n completo, cioè come una proposizione che si pone in rap porto diimplicazione con un altro lekt6n, cioè con un'altra proposizione, secondo loschema: p -:J q. Si deve notare che, come per Aristotele, l'attenzione per ilsegno è esercitata in funzione della conoscenza che esso pe_rmette diraggiungere: l'ottica, in altre parole, è ancora quella epistemica, e il segnoappartiene a un campo che è di stinto sia da quello logico sia da quellosemantico in senso stretto. Il segno, infatti, non è una proposizione qualsiasiche figuri come antecedente in un condizionale vero, ma so lo quellaproposizione che permette di scoprire il conse guente (cioè che permettel'accesso a una nuova conoscen za). Su questo torneremo tuttavia più avanti.Va comunque notato che, se l'ottica con cui gli stoici guardano al segno è lastessa di quella di Aristotele, assolu tamente diverso è il tipo diinquadramento logico. È nor mallnente accettato che Aristotele pratichi lalogica delle classi, mentre gli stoici introducono quella proposizionale. Ciòcomporta che l'attenzione venga spostata: (i) dalla so stanza degli eventi(Todorov 1 977 : 21), per quanto concerne il punto di vista antologico; (ii)dal nome/aggettivo, che funge da predicato, alla proposizione, per quantoconcerne l'espressione linguistica. In effetti, in Aristotele si poteva notareun certo disagio a trattare le sostanze e le proprietà come segni. Ciò che,invece, può essere trattato come segno sono i fatti e gli avvenimenti espressida proposizioni. E del resto Aristotele, pur senza denunciare la differenza,tutta- nel falso [ di un condizionale che comincia con il vero e finisce nelvero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione "essa halatte" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n) di quest'altra "essaconcepito". 17 (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 104-106) ... . Essi chiamanoantecedente la prima proposizione LA TEORIA DEL SEGNO 145 via forniscealcuni esempi di segno (come quello della Reto rica, I, 1357 b, 16-18:"Se essa ha latte, essa ha partorito"), in cui vengono presi inconsiderazione eventi e non sostan ze. Ma nella filosofia aristotelica lateoria del segno ha una parte marginale: il segno viene fatto rientrare nelprocedi mento sillogistico (costituisce una premessa del sillogismo) e vieneconfinato nel campo dei procedimenti retorico-dia lettici, se non è untekmirion, cioè un segno necessario. Nella scienza vera e propria, fondata sulsillogismo perfet to, il smeion non trova f>osto. Al contrario, nellescuole postaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un ruolo centrale:dalla retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene esteso allascienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli stoici e gliepicurei vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che ènoto a ciò che è ignoto. Preti (1956: 7-8) sostiene che, a proposito dellateoria del segno, tra Aristotele e le scuole posteriori si può individuare unanello di congiunzione, rappresentato dalla teoria di Nausifane, un seguace diDemocrito e uno dei maestri di Epicuro. Da quanto ci è rimasto della sua opera,il Tripo de, 1 8 è possibile cogliere i punti essenziali di questo passag gio. Per Nausi fane, infatti, il discorso filosofico (basato per Aristotele sulsillogismo) e quello retorico (basato sull'enti mema) presentano in realtà lastessa struttura logica. In en trambi i casi è necessario distinguere tra la"conseguenza" (ak6/outhon), la "premessa" (homologoumenon)e "ciò che deriva dalle premesse" (tlnon lphthénton ti symbafnei: ilsillogismo?). In ognuno dei due tipi di discorso il problema è quello dipartire da cose presenti (hyparchonta) per giun gere in maniera metodica allecose invisibili. Il metodo del passaggio è la akolouthia, "la relazione diconsequenziali tà", di implicazione o implicitazione, comune appunto afilosofia e retorica. 20 Ora, come testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apòton enargOn) alla comprensione del le cose oscure (adla) per mezzo del segnocome relazione di akolouthia costituisce proprio il nocciolo della dottrina degli stoici (come pure di tutti coloro che Sesto riunisce sotto la possibilitàdi passaggio LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI il nome di"dogmatici"). Non solo, ma come prova della centralità dellasemiotica, anche la dimostrazione viene considerata un segno:21 fatto chetestimonia la riduzione della filosofia della scienza a semiotica e checonferma la tendenza delle scuole postaristoteliche a ridurre o trasfor mareil sillogismo nell'inferenza implicativa. 6.2.2. 1 I tipi di segno: A)"comune" e "proprio" Nella semiotica stoica si registra lascomparsa della di stinzione terminologica tra tekmrion e smeion: il primotermine non viene più usato e i segni vengono tutti denomi nati smeia.Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab bandono del sillogismo edella sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale opposizione. Tuttavia,al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra "segno comune"(koinòn smeion) e "segno proprio" (fdion). Tale distinzione non eraspecificamente stoica, ma appartenente a una koini filosofica ellenistica,sulla quale c'era accordo anche tra scuole per altro verso in contrasto. Unadefinizione sufficientemente chiara dei due tipi di se gno si trova neltrattato semiotico di Filodemo (l secolo a.C.): Un segno è comune (koin6n) pernessuna altra ragione che quella per cui può esistere, sia che l'oggetto nonpercepito (tò adlon) esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona checrede che questo particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, stausando un segno non valido e comune dal momento che molti che sono ricchirisultano malvagi e molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se ènecessario (ananka stik6n), non può esistere altrimenti che con la cosa chenoi di ciamo appartenere di necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi dentedi cui è segno. 22 (Philodemus, De signis, I, 1-17) C'è una convergenza nellescuole postaristoteliche nel ri tenere il segno comune come non valido enell'accettare in vece unicamente il segno proprio. Dalla definizione diFilo- LA TEORIA DEL SEGNO demo si ricava che una differenza peculiareconsiste nel ca rattere di necessità del segno proprio, che viene definito come "necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto da quellocomune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il segnonecessario di Aristotele che ri chiedeva una connessione necessaria conl'oggetto a cui rin viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quelsegno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa rebbe segno, ma puòanche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezzadi un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altrino), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in secondae terza figura di Aristotele. Infatti per Ari stotele si poteva inferire dalpallore di una donna il suo es sere gravida (segno in 2a figura) oppure dallabontà di Pit taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi segni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a unaconclusione interessante: men tre Aristotele, pur negando validità scientificaai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epistemologicamente più basso, come quello della retorica, do minio delPopinione,la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulitadelle inferenze del tipo non necessario. 6.2.2.2 I tipi di segno: B)"rammemorativo" e "indicativo" Filodemo aveva scritto ilsuo trattato intorno alla metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sestoriprende la di stinzione tra segno preso in senso proprio (idlos) e segnopreso in senso comune (koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione delsegno; ma, stranamente, assimila questa a un'altra opposizione, quella trasegno rammemorativo e segno indicativo: Il segno [. . .] si dice in duemaniere, comune (koinOs) e proprio (idt'Os). In maniera comune si dice segnoquello che sembra rive lare qualche cosa: in questo senso sogliono chiamaresegno an-LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI che ciò che serve arichiamare alla memoria la cosa osservata in sieme con esso. In manierapropria si dice segno quello che è in dicativo di una cosa avvoltanell'oscurità. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente, e in manieracontraddittoria, tuttavia Sesto sembra voler mantenere la duplice distinzione,in quanto, dopo aver introdotto l'opposizione tra segno co mune e segnoproprio, dichiara di voler trattare solo di que st'ultimo (ibidem, 143); epoiché il segno proprio è quello che permette di scoprire le cose che sonooscure, egli propo ne di distinguere preliminarmente le cose in"manifeste" e "oscure", e di suddividere ulteriormentequest'ultime in tre categorie. Ne risulta una quadruplice tipologia: (i) Lecose manifeste o immediatamente evidenti: sono quelle che giungono allaconoscenza in maniera diretta; co me esempio Sesto porta "il fatto che ègiorno e che io sto di scorrendo"23 quando io faccio realmente questecose. (ii) Le cose oscure in senso assoluto: sono quelle che han no una naturatale da non arrivare alla nostra comprensio ne (kata/psis), come a esempio"se le stelle siano di numero pari o dispari" o "se i granellidi sabbia della Libia siano di un determinato numero".24 (iii) Le coseoscure temporaneamente: sono quelle che pur avendo una natura manifestadivengono, per certe cir costanze, non evidenti per un certo tempo: l'esempioè il fatto che, chi si trova a una certa distanza, non vede la città di Atene.Atene, visibile per sua natura, diviene tempora neamente invisibile a causadella distanza.2 (iv) Le cose oscure per natura: sono quelle che hanno unanatura tale da non essere percepite, ma sono soltanto pen sabili (noto1).26Gli esempi sono "i pori intelligibili" e "il vuoto". Non sipone un problema di segni a proposito della prima e della seconda categoria, inquanto le cose manifeste ven gono comprese in maniera non mediata e le coseoscure in senso assoluto non possono essere comprese affatto. Invece è proprioattraverso i segni che possono essere comprese le cose che appartengono alleultime due categorie. Ma i tipi 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 149 di segno sonodiversi per ciascuna di esse. Le cose tempora neamente oscure si colgonoattraverso i segni rammemora tivi, quelle oscure per natura attraverso i segniindicativi. Ecco la definizione che ne dà Sesto: Dei segni [...], secondocostoro [i dogmatici], alcuni sono ram· memorativi (hypomnstika), altriindicativi (endeiktika). Chia mano segno rammemorativo quello che, osservatoinsieme con la cosa designata in maniera evidente, appena esso si presenta, sequella è avvolta nell'oscurità, ci conduce a ricordare la cosa che è stataosservata insieme a tal segno e che non si presenta ora in maniera evidente,come avviene per il fumo e il fuoco. È invece indicativo, come dicono, quelsegno che, non osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente,pure, per la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è segno; così,per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima. (Sext. Empyr., Hyp.Pyrrh., II, l00-1Ol)27 Il segno rammemorativo è, in sostanza, frutto di un'associazione costante tra cose comunemente osservate in con nessione empirica.Sembra, tra l'altro, che gli esempi che Sesto sceglie per illustrare questotipo si distribuiscano se condo la tripartizione28contemporaneità/anteriorità/po steriorità tra il segno e la cosa indicata: nelcaso di "fu mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in"cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" ilfatto indicato è anterio re; in "ferita al cuore-morte", il segnorimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza delprecedente, non è su scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui èsegno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmenosospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettonodi risalire all'"anima", o "il su dore" che rimanda ai"pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica deisegni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi,che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei"medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguenteschema la classifi cazione di Sesto: cose manifeste oscure nondanno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura dannoluogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che ladistinzione riportata da Se sto tra segno rammemorativo e segno indicativosolleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se netrova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stessoSesto. Inoltre, tale distinzione appa re addirittura in contrasto conl'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamentologico-for male della teoria del segno. Questa distinzione, per quantoimportante dal punto di vista epistemologico, appare irrile vante dal punto divista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione trasegno comune e segno proprio, secondo la testimonian za di Filodemo. È, tral'altro, il carattere necessario del se gno proprio che dimostra la coerenzadi essa con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre unsegno "ne cessario", come un'analisi più dettagliata della suastruttura ci permetterà di vedere. 6.2.3 La struttura del segno nel"condizionale" Ritornando alla definizione stoìca di segno cheabbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Prima ditutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa"connesso" o "connessione". Il suo significato lo gico civiene chiarito da Diogene:32 si tratta dell'asserto temporanea mente 6.2LA TEORIA DEL SEGNO 151 condizionale del tipo "Se p, allora q", incui a una prima proposizione consegue una seconda come nell'esempio "Se ègiorno, c'è luce". La seconda cosa da prendere in considerazione è la nozione di condizionale valido (hyghiés, "sano"). Da un passo di Sesto,dove se ne trova la definizione, è possibile ricavare che questa nozione èaffine alla moderna interpretazione vero-funzionale di "Se p, alloraq"; infatti la validità o in validità dell'asserto condizionale "Sep, allora q" dipende dal valore di verità deli'antecedente e delconseguente di esso. 33 Sesto, in due passi paralleli, camente "quelcondizionale che non comincia dal vero e fi nisce nel falso" e fcrnisceuna tavola dei valori di verità del tutto conforme a quella che la logicacontemporanea preve de per l'implicazione materiale: p q ·se p, alloraq• valido vero vero falso falso vero falso invalido falso vero valido Sestoaccenna anche a un disaccordo tra i logici stoici a pro posito del criterioper giudicare un condizionale valido:34 esso corrisponde a ciò che è statodefinito dai Kneale ( 1 962: tr. it. 154 e sgg.) "il dibattito sullanatura dei condizionali", che animò le discussioni di logica ali'epocadegli stoici. Il terzo elemento da rilevare è legato alla nozione di se-definisce come valido uni valido 152 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLISTOICI gno come antecedente (prokathegoumenon) in un condizio nale valido. Ineffetti, come fa rilevare lo stesso Sesto,3s i ti pi di condizionale validosono tre nella tavola dei valori di verità corrispondente all'implicazionemateriale (V V; F F; F V); il problema diviene dunque quello di vedere se lastruttura del segno sia da ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionalevalido, o solo in casi particolari. Ora, in effet ti, un segno non può nonessere espresso da una proposizio ne vera, come pure deve essere vera laproposizione a cui es so rimanda. Così sono esclusi il secondo e il terzo caso(F F; F V), in quanto hanno un antecedente falso. Dunque l'uni ca possibilitàè relativa al primo tipo di condizionale, cioè quello che comincia dal vero efinisce nel vero.36 Ma c'è un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al ca·rattere che il segno deve avere di essere rivelatore (enkalyp tik6n) delconseguente. In effetti un condizionale del tipo "Se è giorno, c'èluce", nel momento in cui si verifichino le due condizioni che sia giornoe che vi sia luce, è formato da due proposizioni entrambe vere. Tuttavia,secondo Sesto,37 non si realizzano in questo caso le condizioni perché vi siaun segno, in quanto entrambe le proposizioni rimand?no a fatti di per séevidenti. Il primo termine del condizionale non è rivelatore del secondo. Ineffetti, per comprendere la vera natura del segno bisogna passare dal pianostrettamen te logico a uno più generalmente epistemologico. Il segno, per glistoici, non solo deve avere una corretta costruzione dal punto di vista logico,individuabile nella implicazione tra due proposizioni vere, ma deve anchepossedere il carat tere di dispositivo che permette di accrescere la conoscenza.38 Come già in Aristotele, anche per gli stoici il segno si ap· poggiasu un livello logico, ma si inquadra in un'ottica co noscitiva. Gli esempi dicarattere medico denunciano l'ori gine di quest'ottica. In generale il segnodeve permettere il passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso,come "egli ha sputato cartilagine bronchiale", a una cono scenza dimolto più difficile accesso, come "egli ha una pia ga nel polmone".Tuttavia, ciò che la teoria del segno ac quisisce, passando dalle mani deimedici a quella dei filoso.. 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO fi, è una solidastruttura dal punto di vista logico-formale, tale da escludere la possibilitàdi inferenze scorrette. 6.2.4. 1 Il dibattito sulla natura dei condizionaliQuanto ampio e difficoltoso fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere,sul piano logico, per stabilire un criterio atto a escludere le inferenze scorrette,lo dimostra l'acceso dibattito che si sviluppò sulla "natura deicondizionali" (Kneale 1962). Scrive infatti Sesto Empirico: "Tuttiquanti i dialettici sono generalmente d'accordo neli'affermare che uncondizionale è valido quando il suo conseguente segue (akolouthei) dal suoantecedente, ma disputano sul come e quando esso segua, e propongono criteririvali" (Adv. Math., VIII, 12). Riferendosi a questo dibattito, Sestoelenca quattro crite ri che erano stati proposti per stabilire la validità diun as serto condizionale: (i) quello di Filone Megarico; (ii) quello diDiodoro Crono; (iii) quello della srsnartsis attribuibile a Crisippo; (iv)quello della émphasis. 9 Sulla disputa si può tuttavia fare un'osservazionegenera le preliminare. Il punto di partenza, infatti, come fa notare MarthaHurst (1935: 492), è una relazione già conosciuta, nel senso che essa èriconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece costituisce lo scopo è unadefinizione di questa rela zione di consequenzialità (akolouthla) in terminiformali. Nel corso dell'intero dibattito sulla natura dei condizionali i logiciantichi si sono concentrati sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo,che può possedere proprietà auto nome, essendo dotato di significato, non èstato preso in considerazione se non nella misura in cui poteva essere provato che esso coincideva con il definiendum. Si è cosi spesso creata unaconfusione tra i due livelli e spesso sono stati scelti esempi che ambiguamenteerano in grado di elucidare sia la relazione riconosciuta, sia le proprietàdella relazione logica che essi tentavano di identificare con la prima. Puòaiutarci a comprendere meglio questo modo di pro cedere un paragone con imetodi della logica contempora- LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI nea. Ilogici contemporanei, infatti, sono in genere interes sati unicamente aldefiniens, cioè alla relazione che essi pos sono stabilire in simboli, senzariguardo alla questione se tale relazione sia identica a quella che èampiamente cono sciuta, facilmente riconosciuta, e poco compresa come quelladi una espressione di implicitazione ("fol/owing", Hurst 1935: 492).A esempio Peirce e Russell erano interes sati alle proprietà dellaimplicazione materiale indipenden temente dal fatto che essa riproducesse ilsignificato "usua le" di "implica" ("implies").Così pure Lewis era interessato al sistema della implicazione rigida senzasostenere che l ' im plicazione rigida rappresenti il significato di"implica". Questa differenza nel modo di procedere tra antichi emoderni comporta un'ulteriore differenza formale: mentre i logici antichi eranointeressati a dare un'unica definizione, i moderni lo sono a fornire duedefinizioni: quella di "im plicazione materiale" e quella di"implicazione rigida". 6.2.4.2 L'implicazione filoniana Filone è ilprimo esponente della scuola megarico-stoica citato da Sesto ed è il primo chedà un'interpretazione vero funzionale dell'espressione "Se p, alloraq": secondo lui, un'espressione condizionale è valida se, e solo se, nonco mincia con il vero e finisce con il falso. Come abbiamo già visto, ladefinizione che Filone dà del criterio di consequen zialità (ako/outhfaskritrion) corrisponde al quadro del l'implicazione materiale. Infatti sono trei casi in cui il con dizionale è valido, corrispondente ai tre esempiseguenti: (i) "Se è giorno, c'è luce" (VV); (ii) "Se la terravola, la terra ha le ali" (FF); (iii) "Se la terra vola, la terraesiste" (FV). Come sottolineano i Kneale (1962: tr. it. 157), è probabile che Filone avesse in mente l'uso dell'espressione "Se p, allora q"nei ragionamenti e che volesse attirare l'attenzione sul fatto che lacongiunzione dell'asserto condizionale con il suo antecedente implicita sempreil conseguente. L'inter pretazione proposta da Filone è la più debole chesoddisfi tale requisito.LA TEORIA DEL SEGNO L'implicazione diodoreaDiodoro Crono era il maestro di Filone, e la ragione per cui Sesto lo cita persecondo può essere forse attribuita al fatto che, mentre Diodoro riuscì aconfutare Filone, que st'ultimo non riuscì a fare altrettanto con il primo(Hurst 1935: 435 n.). La critica che Diodoro muove all'interpretazione filoniana insiste proprio sul carattere di debolezza di quest'ultima. Egli individuainfatti degli esempi di condizionale che, pur potendo soddisfare il requisitofiloniano in un tempo tt, possono tuttavia mancare di soddisfarlo in un altrotempo t2. A esempio, l'asserto "Se è giorno, io sto conversando"sarebbe considerato vero da Filone se si dessero le condizio ni, in un tempo t,per cui fosse giorno e io stessi conversan do. Diodoro invece dimostra cheesso è falso, sostenendo che non c'è niente nella sua natura che permetta didire se esso cada o no sotto la definizione di Filone. Infatti esso potrebbeessere pronunciato anche in un tempo t2, quando fosse giorno, ma io rimanessisilenzioso. In questo caso es so avrebbe la forma invalida VF. Per ovviare aquesto inconveniente, Diodoro elabora una concezione secondo la quale uncondizionale è valido quan do "non ammise, né ammette di cominciare conil vero e fi nire con il falso".40 L'esempio che egli dà è "Se nonesisto no gli elementi atomici delle cose, allora esistono gli ele mentiatomici delle cose", che, secondo Diodoro, ha l'ante cedente sempre falsoe il conseguente sempre vero: ciò ba sterà a escludere l'evenienza di unantecedente vero con un conseguente falso, unico caso in cui il condizionalesarebbe non valido.41 6.2.4.4 L'"implicazione connessiva"("synartesis") di Cri sippo La terza concezione di condizionalevalido riportata da Sesto è quella che, secondo diversi studiosi moderni(Mates LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI; Bochenski), corrispondealla implica zione rigida di Lewis o comunque a una forma di implica zionenecessaria (Kneale 1962; Preti 1956). In maniera con corde con il passo diSesto, che abbiamo visto, questa concezione viene riportata da Diogene (Vitae): " È v e r o un condizionale nel quale il contraddittorio (antikefmenon)del conseguente è incompatibile (macheta1) con l'anteceden te, come a esempio'se è giorno, c'è luce' ". Il nome del sostenitore di questa concezionenon ci è sta to lasciato da chi la riferisce; ma vi sono prove che essa appartenesse a Crisippo (cfr. anche Miiller). La nozione di "incompatibilità",messa in scena da que sta definizione, è molto interessante, ma problematicain quanto non viene chiaramente definita. Martha Hurst (1935: 495), commentandoil passo, tende a mostrare che la relazione di incompatibilità e anche, più ingenerale, quella di "consequenzialità" (jollowing), non possonoessere espresse in termini estensionali, cioè mediante relazioni esterne, chesussistono tra le proposizioni in virtù di pro prietà che esse avrebbero al difuori della relazione: al con trario, è necessario ricorrere alle relazioniinterne che sussi stono in virtù del loro significato. Può essere interessanteconfrontare questa conclusione di M. Hurst con le osservazioni di Preti (1956:13), il quale so stiene che l'esempio di Sesto, dato a proposito della synartsis "sembra alludere a qualcosa di ancora più forte (della strictimplication di Lewis): alla vera e propria tautologia". Preti basa la suaosservazione sulle notizie circa la dottrina stoica che vengono riportate daFilodemo nel De signis. In effetti in quel testo (come vedremo meglio nelcapitolo spe- cificamente dedicatogli) è presentato come genuinamente stoico ilmetodo inferenziale della "contrapposizione" (ana skeu), che appareanalogo a quello della synartsis. Infatti, l'inferenza per"contrapposizione" è quella in cui la negazione del conseguentecomporta la negazione del l'antecedente. Essa si configura in maniera tale chela verità del condizionale "Se il primo, allora il secondo" ègarantita dalla verità del corrispondente condizionale "Se non il secondo, non il primo".42 6.3 CONCLUSIONI 157 Preti sottolinea leaffinità tra la synartsis (secondo cui la negazione del conseguente èincompatibile con l'anteceden te) e il metodo di contrapposizione (anaskeu)(in cui la ne gazione del conseguente comporta la negazione dell'antecedente), e in entrambi i casi chiama in causa la implicazione rigida di Lewis,con la precisazione che gli esempi forniti da Filodemo sembrano indicare unrapporto più forte, che ten de a risolvere l'inferenza o in una forma ditautologia o in una forma di L-implicazione. 6.3 Conclusioni Nel passaggiodalla teoria aristotelica del segno a quella stoica c'è, come abbiamo visto,uno spostamento di accento dai termini su cui si costruiscono le proposizionicategori che nel sillogismo, alle relazioni tra le proposizioni nell'as sertocondizionale. Contemporaneamente si registra un'ac centuazione del carattere,già presente in Aristotele, di con sequenzialità necessaria che la relazionesegnica è chiamata a istituire: l'inferenza dal termine noto a quello non notodeve presentare un carattere cogente. Ci sono due ragioni di questo aspettonecessaristico della semiotica stoica, una legata ali'analisi della naturadella ra gione e dei suoi processi, l'altra riferibile alla configurazio nedella metafisica stoica (De Lacy 1978: 208). Per il primo punto è Sesto43stesso a informarci che gli stoici ritenevano che l'uomo si differenzia daglianimali per la sua capacità di "discorso interno " (16gos endiathetos)e in virtù della sua abilità di combinare i concetti e di passare dall'unoall'altro. L'uomo possiede infatti la nozione di consequenzialità (akolouthfa)e con ciò egli possiede anche la nozione di segno, che ha appunto la forma:"Se questo, allora quest'altro". Così l'esistenza del segno si ponein stretta dipendenza dalla natura del pensiero umano. Quanto al secondo punto,la metafisica stoica poggiava sull'idea che il reale fosse costituito da unacatena ininter rotta di eventi, legati tra loro da rapporti di causa-effetto.Tali relazioni erano .:oncepite come necessarie in quanto di- 158 6. LATEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI pendenti daiPordine razionale istituitodalla divinità. In questo modo, la consequenzialità necessaria nella relazionesegnica valida riproduce quella stessa consequenzialità che si rintraccia alivello della concatenazione degli eventi.44 L'insistenza che gli stoicipongono sull'asserto condizionale e sull'inferenza da segni indica propriol'enfasi da loro col locata sulla relazione necessaria tra concetti eproposizioni a livello logico e tra cause ed effetti a livello metafisica. Suqueste basi, del resto, riposa la stessa accettazione, con riserva, delladivinazione da parte degli stoici. La divi nazione consiste, infatti, nelcogliere la relazione che colle ga certi avvenimenti presenti e altri cheavverranno.4Ora, per quanto la razionalità degli uomini sia sostanzialmentedello stesso tipo di quella che hanno gli dei, tuttavia questi ultimipossiedono la conoscenza dell'intera catena causale che lega gli eventi("conligatio causarum omnium"),46 men tre ai primi è preclusa. Gliuomini non possono conoscere dunque le cause ma solo gli indizi caratteristicidelle cause ("signa [.. . ] causarum et notas") degli eventi e suquesti si basano per predire il futuro. Ma, a differenza di quanto av verrebbeper gli dei, i condizionali degli uomini intorno al futuro mancano dinecessità. Nel caso della scienza umana (che per gli stoici equivale a quellodella dialettica) il segno deve basarsi su un'impli cazione necessaria. Maquesta, che è una caratteristica irri nunciabile, non è tuttavia sufficiente adefinire un segno. Infatti, in un condizionale come: "Se è giorno, c'èluce»47 il giorno non potrebbe essere considerato un segno della luce in quantoentrambe le cose sono evidenti e quindi l'in ferenza non può provare nulla. Laverità su cui si basa è certamente a priori e analitica, come sembra richiestonel caso delle verità necessarie, ma tale condizionale è privo della caratteristicadi permettere di scoprire una nuova co noscenza. Il segno stoico, inconclusione, si deve inquadrare in uno schema logico (che è quellodeli'implicazione necessaria), ma deve contemporaneamente superarlo percollocarsi in un'ottica epistemologica, nella quale esso diventa fattoredell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener presen- 6.3CONCLUSIONI 1 59 te che l'essenza del segno è l'inferenza che va dalle cose manifeste a quelle non percepite. Ma a questo punto sembra delinearsi nellasemiotica stoi ca un problema difficilmente resolubile: come è possibile chel'inferenza segnica sia analitica (se si pensa alla L-impli.. cazione di cuiparla Preti) e contemporaneamente fornisca una nuova conoscenza (la scoperta diun fatto nascosto)? Prendiamo come esempio di segno una dimostrazione (infattianche la dimostrazione viene considerata, secondo la testimonianza di Sesto, unsegno):48 - sono pori intellegibili nella pelle. - Il primo. - Dunque, ilsecondo . Qui l'inferenza è condotta dal fatto percepibile rappre sentatodallo scorrere del sudore al fatto nascosto che esi stano pori nella pelle. Lapresenza dei pori è un fatto oscuro per natura: infatti essi possono soltantoessere conosciuti dalla mente (noto1), ma non dai sensi in un'epoca in cui ilmicroscopio non era ancora stato inventato. Sesto aggiun ge, come argomentorafforzativo delle premesse nel ragio namento precedente, un'ulterioreargomentazione:49 - compatto e non poroso. - Il sudore scorre attraverso ilcorpo. - Pertanto non è possibile che il corpo sia compatto, ma esso è poroso.La premessa maggiore di questa argomentazione sembra essere basata sul test dicontrapposizione (Q::jJ) applicato alla premessa maggiore del precedente.Infatti se al condi zionale: p (se il sudore scorre attraverso la superficiedel corpo) ::q (ci sono pori intellegibili nella pelle) Se il sudore scorreattraverso la superficie del corpo, ci È impossibile che un liquido scorraattraverso un corpo 160 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI applichiamoil test di contrapposizione, otteniamo l} (se la pelle è un corpo compatto enon poroso) :>p (un li quido non vi può scorrere attraverso), espressioneche è alla base della premessa del secondo ra gionamento di Sesto. Essapermette di sviluppare un ragio namento corrispondente al modus tollens, checonvalida la conclusione del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se glistoici riescano a evitare, con il ricorso alla contrapposizione, lacontraddizione che esiste tra la richiesta di una relazione necessaria e apriori tra le due proposizioni del condizionale e la necessità che il segnoproduca nuova conoscenza. Di fatto la contrapposizione rende necessaria larelazione anche nel caso di verità fattua li, poiché parte dall'assunzione cheil fatto oscuro per natu ra sia legato a quello evidente in modo tale che ciòche è evi dente non potrebbe esistere se il fatto non percepito non fossequale viene rivelato essere. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO 7.O IntroduzioneContemporaneo allo sviluppo della riflessione stoica sul segno è il capitolodella semiotica antica scritto dalla scuola epicurea. Uno dei cardinidell'epistemologia epicurea, in fatti, è il principio semiotico delcongetturare dai fenomeni visibili fatti che sono per natura non percepibilicon i sensi. Gli stessi elementi fondamentali della metafisica epicurea (cioèl'esistenza degli atomi e del vuoto, le configurazioni e le ragioni deifenomeni celesti) vengono stabiliti attraverso inferenze semiotiche che partonodai fenomeni percepibili: Gli indizi (semeia) dei fenomeni celesti ce liforniscono alcuni fenomeni che accadono presso di noi, e che si vede dove ecome avvengono, e non i fenomeni celesti stessi, che possono avvenire in moltemaniere. (Epic., Epistula ad Pythoclem, 87) Epicuro rifiutava il ragionamentodeduttivo, tipico di Aristotele e degli stoici, giudicandolo vuoto e privo diutili tà, ma accettava e valorizzava l'inferenza analogica che si sviluppa apartire dai segni. Nel periodo ellenistico, anzi, gli epicurei divennero iportabandiera di un metodo di ragiona mento qualificabile come "induzionesemiotica", e proprio sul metodo deli ' in ferenza si posero in polemicacon gli esponenti della scuola stoica. Un intero trattato del I secolo a.C., ilPerì smelon kaì smeioseon (Sui segni e sulle infe- 162 7. INFERENZA ELINGUAGGIO IN EPICURO renze), redatto dall'epicureo Filodemo di Gadara, èdedica to, del resto, al dibattito intercorso fra stoici ed epicurei sul temadell'inferenza semiotica.1 Epicuro, così, e la scuola epicurea nel suo insieme,pro pugnano la possibilità di elaborare giudizi che siano oggetti vamentevalidi su fenomeni non direttamente conosciuti at traverso l'esperienza, sullabase di inferenze elaborate a partire dai segni. Il problema centrale diviene,allora, quello di stabilire il criterio per verificare se ed entro quali limititali giudizi pos sano essere considerati attendibili o non attendibili (cioève ri o falsi) e di fornire le basi per poter dire se certe asserzio nicorrispondano effettivamente ai fatti che esse descrivo no. Si fa stradaquindi la nozione di "criterio di verità", che costituisce la cornicedi sfondo all'interno della quale si col locano tanto la teoria deli'inferenzasemiotica quanto la teoria del linguaggio. In effetti il criterio di verità ènon uni co, ma molteplice: secondo la testimonianza di Diogene Laerzio,2 essocomprende le sensazioni (aisthseis), le affe zioni (path), le preconcezioni(prolpseis), a cui può essere aggiunta, per motivi che vedremo, l'evidenzaimmediata (enargheia). I criteri di verità, e tra essi la pro/essi("antici pazione", "preconcezione") in particolare,giocano un ruo lo fondamentale in entrambe le teorie sia nella teoria dell'inferenza3 sia nella teoria del linguaggio;4 in questo modo essicostituiscono un elemento di connessione tra le due teo rie. Tuttavia ciò nonè ancora sufficiente a permettere un'articolazione comune tra segnoinferenziale e segno lin guistico, che rimangono ancora una volta oggetti didue in dagini separate. Si ricorderà che anche per gli stoici la teoria delsegno lin guistico, chiamato smafnon, nasceva ali'interno di una di scussionesul criterio di verità e sul "vero"; e anche in quel caso il segnoinferenziale, chiamato smefon, non aveva al cun punto di contatto con ilprecedente se non per il ruolo giocato dalla nozione di lekt6n, a cui spettavail carico di essere vero o falso. Si deve però notare una peculiarità dellasemiotica epicurea: essa si arricchisce anche di una teoria deli'immagine percettiva,che si collega al criterio di verità, 7 . l CRITERIO DI VERITÀ EDEPISTEMOLOGIA EPICUREA 1 63 ma che anticipa anche alcuni problemi interessantiper una teoria semiotica deli'iconismo. Così, nei paragrafi seguentiesamineremo le questioni del criterio di verità, della prolessi e deli'immaginepercettiva in Epicuro, che collegheremo con la teoria deli'inferenza semiotica, da una parte, e con la teoria del linguaggio, dall'al tra. Glisviluppi che la teoria semiotica epicurea avrà nel trattato De signis diFilodemo saranno esposti, data la loro ampiezza, a parte nel prossimo capitolo.7.1 ll criterio di verità e l'epistemologia epicurea L'impostazione generaledella filosofia di Epicuro, dal punto di vista epistemologico, è un tentativodi fondare la conoscenza su basi puramente empiriche. In primo piano vengonoposti i fatti o gli oggetti; ma anche le parole essen zialmente costituisconouna via per giungere alle cose. In questo modo si presentano per la filosofiadue metodi di ri cerca: (i) uno orientato alla conoscenza che proviene dalleparole; (ii) l'altro a quella che proviene direttamente dalle cose.s Tuttaviail primo è considerato un processo prelimi nare rispetto al secondo, e spessola conoscenza che si ottie ne attraverso gli strumenti del linguaggio, comequella che si produce attraverso le proposizioni, è vuota e inganne vole.6 Ilfondamento ultimo della conoscenza sono i criteri di verità, i quali sono ingrado di procurare all'uomo niente meno che l'imperturbabilità.7 Essi sono dunqueposti alla base stessa della filosofia generale di Epicuro; del resto essierano trattati in un'opera perduta, intitolata Canone, in cui era contenuta lamateria propedeutica rispetto all'intero si stema dottrinario.8 Se noipensiamo alla verità in termini moderni, cioè come una funzione delleproposizioni, corriamo il rischio di non comprendere il pensiero di Epicuro. Ineffetti, nella lingua greca in generale, l'aggettivo althés ("vero")può servire tanto a qualificare la verità di una proposizione, quanto aindicare ciò che sussiste di fatto o che è reale. In Epicuro, in 164 7.INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO particolare, l'aggettivo "vero"implica un'effettiva consape volezza di qualcosa. Si giustifica così la suaapplicazione al le sensazioni e alle affezioni, in quanto dire che una certasensazione (o una certa affezione) è vera equivale a dire che essa fornisce unindizio effettivo su un fatto reale, renden docene consapevoli.9 Prima dipassare in rassegna le varie forme del criterio di verità, è necessariosottolineare fin d'ora come esso sia fun zionale a una teoria dell'inferenzasemiotica. Infatti esso tende a stabilire delle verità basilari riguardanti lecose per cepibili, che servono a loro volta come punto di partenza per fareinferenze intorno alle cose non direttamente rag giungibili con i sensi.10 7.2Le forme del criterio di verità Epicuro, dunque, considerava come criteri diverità le sensazioni, le p[econcezioni (o prolessi), le affezioni (o sentimenti). 1 1 Nel paragrafo 82 della Lettera ad Erodoto veni va fatto cennoanche alla enargheia ("evidenza immediata, o "chiara visione").Riferendosi a questi passi, Long (1971 b: 116) fa una interessante propostacirca l'organizzazione interna delle forme del criterio di verità. Suggerisceinfatti di ordinarie in modo gerarchizzato: in primo luogo ci sono le affezionie le sensazioni; poi l'evidenza immediata; infine le preconcezioni. SecondoLong, le prime due hanno un va lore di verità puramente soggettivo, se preseda sole, e devo no essere coordinate all'evidenza immediata e alle prolessi,per giungere a costituire un criterio oggettivo. Le affezioni e le sensazionicomportano la consapevolez za di qualcosa, e la loro "verità"consiste proprio in questa consapevolezza, anche se, appunto, soggettiva. Sipossono riprodurre le relazioni tra le forme del criterio di verità se condoil seguente schema:TEORIA DEI SIMULACRI criteri di veritè consapevolezza consapevolezza soggettivaoggettiva ll affezioni sensazioni evidenza 7.3 Teoria dei simulacriprolessi Finora abbiamo considerato il processo conoscitivo dallaparte del soggetto che prova una sensazione o ha una affe zione in relazioneagli stimoli esterni. Se consideriamo lo stesso processo dalla parte opposta,cioè partendo dall'oggetto, possiamo constatare che Epicu ro aveva elaboratouna vera e propria teoria dell'immagine che ha molti elementi di interesse peruna semiotica dell'ico nismo. Dal paragrafo 46 della Lettera ad ErodotoEpicuro inizia a parlare del modo in cui si rende possibile la perce zionedegli oggetti. Questi ultimi, infatti, emettono in conti nuazione degliefflussi di atomi estremamente fini, che compongono configurazioni in tutto eper tutto identiche alla forma esterna dei corpi solidi.12 Questeconfigurazioni prendono il nome di simulacri (eldO!a). Essi viaggiano a unavelocità estremamente alta e possono penetrare nei no stri organi di senso onella nostra mente, e lì produrre un ' immagine (phantasfa) più o meno esattadel corpo da cui i simulacri sono stati emanati. Il processo può essere schematizzato così: oggetti - - - simuh1cri- - .-.. immsgini mentali (stertJmnia) (sfd"lJfs)(phsntssfst)INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO Quella di Epicuro puòessere definita una teoria "causale" (Long) della percezione, inquanto gli ogget ti sono responsabili dell'esistenza dei simulacri e questiulti mi causano direttamente il formarsi delle immagini nella mente. Si deveperò dire che le immagini sono una diretta conseguenza dei simulacri, ma solo secondariamenteuna conseguenza degli oggetti, dai quali possono anche essere difformi. Ineffetti la continuità del processo può essere interrotta al livello delpassaggio dell'efflusso dagli oggetti esterni ai simulacri . Questi ultimi,sebbene di solito risultino delle co pie esatte degli oggetti, talvoltapossono subire delle modifi cazioni per il fatto di entrare in collisione conaltri atomi nel passaggio attraverso l'aria e possono anche ridursi in dimensione nel momento in cui entrano in una persona (in quanto, anche in questocaso, entrano in collisione con altri atomi). 1 3 Epicuro è, con questa teoria,impegnato a rendere conto del fatto che gli oggetti, visti da vicino,presentano certe di mensioni, mentre ne presentano altre, molto minori, sevisti da lontano, senza entrare in contraddizione con il principio che lasensazione è garanzia di verità in ogni caso, e ci si troverebbe di fronteveramente a una contraddizione se la phantasfa fosse un'immagine dell'oggetto,mentre in realtà è un'immagine del simulacro (ekiOion). Sesto Empirico sembrariportare correttamente il pensie ro di Epicuro quando cita, a questoproposito, l'esempio della "torre": Così io non oserei dire che lavista suggerisca il falso per il fatto che a grande distanza essa vede la torrepiccola e rotonda e a di stanza accorciata la vede più grande e quadrata, madirei piut tosto che la vista suggerisca il vero, perché l'immagine ricevutadai sensi, quando le appare piccola e di una certa forma, è real mente piccolae di quella determinata forma, per il fatto che i li miti appartenenti aisimulacri (eldola) vengono cancellati dal passaggio attraverso l'aria. (Sext.Emp., Adv. Math., VII, 208-209) 7.4 TEORIA DELL'ERRORE E DELL'OPINIONE167 In effetti, ciò che i sensi recepiscono è il flusso di atomi che si staccadall'oggetto e che costituisce il suo simulacro e non l'oggetto stesso. Taleflusso, passando attraverso l'a ria, si altera nella sua configurazione,producendo la diver sità delle immagini che si hanno dello stesso oggetto.Cosi ogni immagine mentale (phantasfa) è effettivamente vera perché è relativanon all'oggetto, ma a ciascuno dei simula cri dell'oggetto, che sono diversiin relazione alla distanza percorsa per raggiungere il soggetto che percepisce.L'importante è non identificare il simulacro che si produ ce nelle vicinanzedell'oggetto con quello che si ha in una vi sione a distanza. 7.4 Teoriadell'errore e dell'opinione Il tema deli'inferenza semiotica diventa sempre piùcen trale nel campo dei processi percettivi quando si abbandona il terrenosicuro della sensazione per esplorare quello insi dioso delle opinioni, in cuisi può verificare l'evenienza del l'errore. Se gli uomini si attenesserosoltanto alle loro sen sazioni e si limitassero a descrivere le loro immaginimentali (phantasfa1), non ci sarebbe possibilità di errore. Ma ciò non avviene,e l'errore sorge quando viene ad aggiungersi alla sensazione qualche processomentale che Epicuro, nella Lettera ad Erodoto (5 1), chiama "secondo movimento"(al l klnèsis). Long (1971 b: 1 18) identifica questo "secondo movimento" proprio con il processo di elaborazione deli'opinione. Infatti Epicurodice che esso è "connesso" con il primo mo vimento (cioè la sempliceapprensione di immagini), ma, a differenza di questo, "ammette unadistinzione": quella tra il falso e il vero. Il primo movimento, cioèl'apprensione di immagini, non ammette alcuna distinzione di questo gene re,perché è prodotto da cause esterne, ovvero dai simula cri; il secondo movimento,invece, consistendo nell'aggiun ta di un giudizio che noi facciamo su questeimmagini, può ricevere conferma o attestazione contraria. Si può così schematizzare il processo: 168 7. INFERENZA E LINOUAOQIO IN EPICURO processoconoscitivo / apprensione di immagmi lphsntsstik epiboli'J sempre vera opinione(d6xs) conferma e non attestazione contraria vera attestazionecontraria e non conferma falsa In effetti, se, sulla scorta di unavisione distante e oscura, io dico, traducendo in parole le mie sensazioni:"Quella ha le apparenze di una torre rotonda", io parlo in manieraveri tiera; ma se dico: "Quella è una torre rotonda", il mio giudizio è disconfermato nel caso che, avvicinandomi, riceva l'immagine di unatorre quadrata. In definitiva, le immagi ni sono tutte vere mentre le opinionisono alcune vere e altre false. 14 Quello che comunque risulta è il caratterecongettu rale dell'opinione. 7.5 La congettura È naturale che all'interno diuna teoria dell'opinione uno spazio privilegiato venga dedicato allacongettura. Infatti, in generale, la congettura consiste proprio in un'ipotesico noscitiva su una dimensione che va oltre ciò che può essere coltoattraverso i sensi. L'opinione, come la concepisce Epi curo, è associataesattamente a queste caratteristiche, consi stendo appunto in un giudizio cheprevede l'impegno del soggetto su qualcosa che attende conferma. Ci sono alcuneparole chiave che definiscono il processo conoscitivo attuato attraversol'opinione. La prima è pro- 7.5 LA CONGETTURA 169 sménon, "ciò cheattende conferma", 1 5 che è appunto l'og getto sul quale si esercita ilgiudizio. Una seconda e una terza parole chiave, collegate tra loro da unarelazione di antonimia, sono epimartjrsis "attesta zione" eantimartjrsis "attestazione contraria" o "conte stazione".Tuttavia, il sistema di Epicuro per la conferma o la disconferma di una certaopinione non gioca su due, ben si su quattro termini: c'è infatti confermaquando si ha "at testazione" o "non contestazione"; c'èdisconferma quando c'è "contestazione" o "nonattestazione". Si viene cosi a creare un vero quadrato semiotico:attestazione contestazione ( epimsrtyrlJsis) non contestazione (ouksntimsrtyrsis) ( sntimsrtyrlJsis) non attestazione (ouk epimsrf'jrlJsis)in cui, per Epicuro, due termini (o quelli della deissi positi va, o quellidella deissi negativa) congiuntamente sono ne cessari per decidere diun'opinione. 1 6 Tuttavia ciascuno dei quattro termini è idoneo a stabilire lavalidità di un'opinione. Infatti nella teoria semiotica ri portata nel Designis da Filodemo, il criterio per decidere sulla validità di un'inferenzainduttiva sarà rappresentato dalla sola non contestazione, ovvero dal nonconflitto del l'espressione segnica con i fenomeni percepibili. Nel quadratodi Epicuro sorge il problema di stabilire un criterio per definire in che cosaconsista il termine base, cioè l'attestazione. Questo criterio è rintracciabilenella enargheia ("l'eviden za", "la chiara visione"), comeci dice Sesto: 170 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO Ed è attestazione(epimartjris) una apprensione, conseguita mediante evidenza (di' enarghefas),del fatto che l'oggetto opi nato è appunto quello che precedentemente venivaopinato, co me, ad esempio, se Platone da lontano incede verso di me, iocongetturo ed opino, a causa della distanza, che si tratti di Pla tone, e,quando egli mi si è accostato, viene attestato che si trat ti eli Platone,mercé la soppressione della distanza, e la confer ma si è avuta in virtù dellastessa evidenza. (Sext. Emp., Adv. Math., VII, 212) In effetti Epicuro era benconsapevole del fatto che si possono commettere degli errorineli'identificazione o nel riconoscimento degli oggetti della percezione e,probabil mente, egli pensava che in ogni atto percettivo, accanto alla pura esemplice sensazione, anche la d6xa gioca sempre un ruolo. In questo modo lacongettura diviene onnipresente, in quanto è coinvolta in ogni atto percettivo.Di conseguen za, la funzione che vengono ad assumere le sensazioni e leimmagini mentali è quella di fornire i dati sulla base dei quali elaborare lecongetture. 1 7 Nella Lettera ad Erodoto (38) sembrano essere presi inconsiderazione due tipi di oggetti sui quali l'inferenza se miotica siesercita: (l) ciò che attende conferma (prosménon) (2) ciò che non cade sotto isensi (adlon) che danno luogo a due tipi di processi inferenziali. Il primo èrelativo al genere di congettura che si instaura all'interno degli stessiprocessi percettivi ed è illustrato dal l'esempio, riportato da Sesto, delvedere in lontananza Pla tone che si avvicina, e poter solo congetturare chesi tratti proprio di lui. In questo caso l'oggetto su cui si esercita lacongettura è qualcosa che viene colto dai sensi, ma non di stintamente.Tuttavia, questo processo si conclude con una verifica: in questo caso, laconferma del dato congetturato, attraverso una visione chiara. Chiameremoquesto tipo in ferenza percettiva. Il secondo è relativo all'inferenza su coseassolutamente escluse dal processo percettivo: è il caso della congettura nelsenso fliù classico. Anche di questo ci fornisce un esempio Sesto. 8 Si trattadi risalire dali'esistenza del moto (cioè di 7.6 L'INFERENZA DA SEGNI 171un elemento percepibile, un phain6menon) all'esistenza del vuoto (cioè di unelemento non percepibile, adlon). È la ti pica relazione logica diimplicazione (chiamata da Sesto akolouthfa) tra un antecedente e unconseguente. Chiame remo questo secondo tipo di processo inferenza al non percepibile. 7.6 L'inferenza da segni L'inferenza al non percepibile è una tipicainferenza da segni. Infatti in molti casi, come quello che abbiamo visto,"Se c'è moto-+c'è vuoto", non è possibile conoscere diret tamentel'oggetto sul quale viene fatta l'inferenza ("il vuo to"), ma lo sideve attingere attraverso un segno ("il mo to"). In effetti, ancheper Epicuro, l'inferenza da segni è connessa con la possibilità di ampliare ilimiti della cono scenza oltre la sfera degli oggetti sensibili. È propriograzie a una teoria dell'inferenza segnica che la scuola epicurea riesce asuperare i limiti del proprio radicale empirismo, aprendo la via anche allaconoscenza di fenomeni non per cepibili direttamente dai sensi. Anzi, nel Designis di Filode mo (fr. 2), c'è un esplicito invito a considerare le conoscenze ottenute tramite inferenza, altrettanto sicure di quelle di rette. Unprogramma conoscitivo di questo tipo presuppone un'epistemologia che divide glioggetti in quattro categorie, in maniera del resto non molto diversa da quantoavveniva nella semiotica stoica: ( l ) Oggetti o fatti evidenti (enarghi):"quegli oggetti che vengono recepiti involontariamente per mezzo di unarappresentazione o di una affezione" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 316).Come esempi vengono dati il fatto che sia giorno o il riconoscimento che unacerta persona è un uomo. (2) Oggetti oscuri in modo assoluto (phjsei adla):"quegli oggetti che né furono conosciuti nel passato, né sono conosciutinel presente, né saranno conosciuti nel futu- 172 7. INFERENZA ELINGUAGGIO IN EPICURO ro, ma sono inconoscibili in eterno" (Sext. Emp.,Adv. Math., VIII, 317-318). Come esempio viene data l'im possibilità diconoscere se il numero delle stelle sia pari o dispari. Fatti di questo generesono inconoscibili, co me spiega Sesto, non per la loro natura, ma per la nostra natura, dato il tipo di limitazioni a cui è sottoposta la conoscenzaumana. (3) Oggetti oscuri di per sé (ghénei adla): "quegli oggetti chesono oscuri per la propria natura, ma che si stima vengano conosciuti per mezzodi segni e di dimostrazio ni" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 319). Gliesempi so no gli atomi e il vuoto infinito. L'esistenza degli atomi e delvuoto era postulata da Leucippo e da Democrito su basi puramente razionali, maEpicuro insisterà, in con formità con il suo empirismo, che possono esserecono sciuti attraverso l'inferenza analogica. (4) Oggetti che attendonoconferma (prosménonta): sono quegli oggetti posti immediatamente oltre lanostra esperienza (Ep. Hdt., 38), la cui conoscibilità è limitata da fattori,quali la distanza nello spazio o il loro essere situati nel futuro. Come si puòvedere, gli unici oggetti che possono essere conosciuti attraverso l'inferenzasono quelli che apparten gono alla terza e alla quarta classe. Essi sono daporre in corrispondenza con i due tipi di inferenza di cui abbiamo già parlato.L'inferenza percettiva, infatti, verte intorno agli oggetti appartenenti allaquarta classe, quelli "che attendono con ferma". L'inferenza al nonpercepìbile, invece, verte intorno agli oggetti appartenenti alla terza classe,cioè è rivolta alla co noscenza di quegli oggetti che sono "oscuri di persé" e che non arrivano mai a essere esperiti dai sensi . In questo caso ilmetodo di verifica assume una forma indiretta: la "non at testazionecontraria" (ouk antimartjresis). Il vuoto, come abbiamo visto, non èverificabile per esperienza diretta, ma gli epicurei sostengono che la suaesistenza non è in contra sto con nessun fatto conosciuto, 1 9 mentre la suanegazione 7.7 LA PROLESSI 173 entra in conflitto con l'esperienzaempirica del movimento, che richiede il vuoto per attuarsi. Il cuore delragionamento basato sulla non attestazione contraria consiste nel fatto che,quando si hanno due proposizioni contraddittorie in torno a qualcosa che non èpercepibile, e una di esse risulta falsa in base a una prova empirica(nell'esempio preceden te, la non esistenza del vuoto, in quanto entra inconflitto con l'esistenza del moto), allora l'altra può essere conside ratavera (De Lacy 1978: 188). 7.7 La prolessi La prolessi (o"anticipazione" o "preconcezione") costi tuisce il secondodei due criteri di verità che abbiamo defini to "oggettivi". Essa haun ruolo determinante nell'inferenza percettiva, come mostra Diogene: Peresempio, per poter affermare: "Ciò che sta lontano è un ca vallo o unbue", dobbiamo per prolessi (o anticipazione) già aver conosciuto unavolta la figura di un cavallo e di un bue. (Diog. Lai!rt.. Vitae, X, 33) Ineffetti la protessi è necessaria perché si abbia percezio ne in senso proprio,cioè affinché si passi dalla semplice consapevolezza del fatto che si stavedendo un'immagine, al giudizio oggettivo che questa è immagine di un oggettopre ciso. In altre parole, secondo Epicuro, per poter effettiva mentepercepire un cavallo o un bue, si deve: l . avere avuto precedentementeun'immagine di questi animali; 2. averla immagazzinata nella mente; 3.effettuare un confronto con i dati che vengono forniti dalla propria attualesensazione. Le prolessi sono in realtà delle immagini mentali o dei concettiche si sono formati in seguito a numerose esperien ze relative agli oggettiesterni. Esse hanno due caratteri fon damentali: (i) sono strettamente legatealla memoria di esperienze precedenti; (ii) sono evidenti (enargeis). Comeconcetti, le prolessi non necessariamente corri spondono a singoli oggettiesterni, ma costituiscono piutto- INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO stoil tipo, di cui le singole esperienze percettive sono le oc correnze. Ciò, delresto, è strettamente collegato al fatto che esse rappresentano un test diverità: solo possedendo il concetto generale di "uomo", si puòdecidere se ciò che si ha di fronte sia o non sia un'occorrenza particolare diesso. 7.8 La teoria del linguaggio Le protessi costituiscono anche unacondizione necessaria del linguaggio e agiscono tanto al livello delladecodifica quanto a quello della codifica. Infatti, da una parte, l'atto dipronunciare un nome (a esempio juomol) richiama nella mente dell'ascoltatoreun'immagine o un concetto, cioè un'entità che è soggiacente, hyfootetagménon, aquel nome e che è derivata dalla protessi; 0 potremmo dire che la pre senza diun significante fa scattare nell'ascoltatore I'abbina mento con unsignificato. Dall'altra, il Iocutore deve posse dere una preconcezione di ciòche intende esprimere, altri menti non gli sarebbe possibile dire niente: inquesto caso, il locutore codifica un significato presente nella sua mente permezzo di un artificio espressivo (un "nome"). Nella teoria epicureala prolessi sembra coinvolta in ogni caso nella formazione dei concetti.Infatti Diogene dice che "tutti i concetti (epfnoia1) sorgono dallesensazioni, o per diretta esperienza, o per analogia, o per somiglianza, o percombinazione, con una certa collaborazione anche da parte delragionamento" ( Vitae, X, 32). Long (1971 b: 1 19) sug gerisce diidentificare con le prolessi la prima classe di con cetti, cioè quelli chesorgono per diretta esperienza dalle sensazioni. Se dunque le prolessi sonoalla base di ogni concetto, si viene a configurare una teoria del segnolinguistico sensibil mente diversa da quella che è normalmente attribuita agliepicurei sulla scorta delle testimonianze di Sesto e di PIutar co.21 Questiultimi, infatti, sostenevano che nella teoria lin guistica di Epicuro solo duefattori erano implicati: la cosa significante (sèmainon, o voce, ph(Jn) e lacosa designata (tynchanon). In effetti, la ragione per cui Plutarco eSesto 7.8 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 175 trascurano le protessi nellateoria del significato linguistico è imputabile al fatto che essi non vedononella teoria epicu rea niente di simile al lekt6n stoico, che è contemporaneamente incorporeo e completamente diverso da un'immagine mentale. Ciò nonimpedisce, tuttavia, alle protessi di avere la stes sa funzione dei lektastoici, cioè di costituire un elemento di mediazione tra le parole e le cose.Di conseguenza, la teoria epicurea del segno linguistico dovrebbe essere cosìrico struita: prolessi nomi cose Del resto, se a Epicuro fosseattribuita una teoria lingui stica secondo cui le parole si riferisconodirettamente alle cose, senza la mediazione delle protessi, entrerebbe in contraddizione tutta la sua dottrina della falsa credenza. A esempio, poiché gliuomini credono erroneamente che gli dei siano malevoli nei loro confronti edesprimono verbal mente questa credenza, se non esistesse il livelloconcettuale delle prolessi, non ci sarebbe niente che corrisponde allaproposizione "Gli dei sono malevoli nei confronti degli uo mini". Lapresenza della prolessi come elemento mediatore tra le parole e le cose puòrendere conto di molte asserzioni false e di asserzioni su cose che nonesistono. Ciò che gli uo mini fanno, pensando agli dei come malevoli, è unafalsa supposizione, ovvero un concetto non derivato dali'ogget to, cioè daglidei stessi. La centralità della protessi nella teoria linguistica epicu rea èdimostrata anche dal fatto che essa deve essere identi ficata anche con quelparticolare significato che è il "signifi- 176 7. INFERENZA ELINGUAGGIO IN EPICURO cato basico" o "primario" (proton ennoma),di cui si parla nella Lettera ad Erodoto (37-38) e che si oppone a tutti glialtri significati che possono essere considerati derivati da esso.22 7.9L'origine del linguaggio La teoria linguistica in Epicuro è connessa con quelladel l'origine stessa del linguaggio, che è discussa principalmen te nellaLettera ad Erodoto (75-76).23 Per Epicuro il linguaggio è un'attività che gliuomini han no sviluppato nel corso della loro evoluzione, passando attraverso due stadi distinti. Nel primo stadio il linguaggio esprime unarelazione con la realtà che potrebbe essere defi nita naturale, mentre nelsecondo una relazione che potreb be essere definita convenzionale. In effettiEpicuro, nella polemica phjsisln6mos, assume una posizione mediana e moltoparticolare, rifiutando sia l'idea che ci sia stato un unico datore di nomi,sia l'idea (per altro sostenuta dagli stoici) che le parole si accordino inmaniera naturale alle co se. Esaminiamo più in particolare come è descritto ilpro cesso di nascita e sviluppo del linguaggio nella Lettera ad Erodoto . Inuna prima fase l'attività linguistica degli uomini non è affatto diversa daiprocessi naturali quali tossire, starnuti re, gemere ecc.: infatti gli uominiemettono suoni, simili a parole, sotto lo stimolo involontario e naturale delleaffe zioni (path) che provano e delle immagini (phantasmata) che si formano inloro. Il linguaggio primitivo costituisce una reazione istintiva all'arnbiente,e la tesi di Epicuro sem bra essere, in relazione a questo stadio, a pienotitolo quella naturalista. Ma, a ben guardare, essa presenta qualcosa di più.Infatti ha sempre costituito un problema, per i sosteni tori della tesi delnaturale accordo tra le parole e le cose, spiegare la diversità delle lingue:qui Epicuro non evita que sto aspetto del problema,24 ma lo integra nella suateoria. La diversità delle lingue è diretta conseguenza della diver sità degliambienti in cui i vari popoli si trovano e in relazio- 7. l0 EPICURO ETRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 177 ne ai quali emettono suoni diversi. Insomma, lelingue va riano perché le cose variano da regione a regione. Inoltre gliuomini, accorgendosi che si producono suoni diversi in re lazione alleaffezioni e alle immagini prodotte dagli oggetti, trovano utile usare questisuoni come nomi-etichette degli oggetti. A questo punto interviene il secondostadio nel processo evolutivo del linguaggio, in cui vengono introdotti degliele menti di convenzione. Questi ultimi si instaurano sotto una duplicespinta: da una parte c'è un movimento che tende a razionalizzare il linguaggio,rendendo le espressioni ambi gue, createsi naturalmente "più chiare"e "più concise"; dal l'altra c'è l'operato degli "uominicolti", i quali tendono a introdurre concetti relativi a cose che vannooltre la perce zione e che dunque non hanno potuto essere nominate attraverso il processo naturale. Come sottolinea Sedley (1973: 19), il tentativodeliberato di introdurre processi di semplifi cazione nell'evoluzione dellinguaggio corrisponde al desi derio di rendere conto dei processi astratti,come quelli in cui la relazione uno e uno tra parole e cose non è più sostenibile. Ciò avviene sostanzialmente in due casi, che sono le gati all'interaproblematica linguistica di Epicuro, cioè (i) nella formazione dei terminigenerali e (ii) nei processi di metaforizzazione. 7.lO Epicuro e la tradizione"physis/nomos" Dopo aver esaminato la teoria epicurea dell'originedel linguaggio, è possibile ritornare al triangolo semiotico e analizzare qualirelazioni siano implicate tra i vari termini, in rapporto con altre posizionidella tradizione linguistica. Un primo confronto può essere stabilito conAristotele. Spesso gli studiosi hanno suggerito una dipendenza della teorialinguistica di Epicuro da quella di Aristotele (tra gli altri, Arrighetti 1960:476), o almeno una stretta somiglian za (Long 1971 b: 121). In effetti nel Deinterpreta/ione (16 a) Aristotele pensa alle affezioni dell'anima come a immagini provenienti dalle espressioni sensoriali derivate dalle cose INFERENZAE LINGUAGGIO IN EPICURO esterne, in un modo non molto diverso da come leprotessi di Epicuro derivano dagli oggetti. Se questo è un punto di contattotra le due teorie, tuttavia maggiori sono, secondo Sedley, le divergenze.Anzitutto, per Aristotele i diversi popoli hanno esattamente le stesseaffezioni mentali, ma le rappresentano attraverso espressioni linguistichediverse. Per Epicuro, invece (come abbiamo visto a proposito dell'origine dellinguaggio), le forme linguistiche sono diverse perché le affezioni mentali(path e phantasmata, ambedue inclusi negli aristotelici pathmata) sono diverseda popolo a popolo, in relazione ai diversi ambienti naturali. Ma ci sono anchealtri elementi di divergenza tra Aristotele ed Epicuro. Per il primo, infatti,nessun nome preso di per sé ha funzione apofantica, cioè nessun nome può esseredetto vero o falso; inoltre nessuna espressione diviene un simbolo se non inseguito a conven zione. Per Epicuro, invece, i nomi di oggetti individualicomportano verità o falsità, come avveniva, del resto, an che nel Crati/oplatonico; inoltre, una certa espressione, che può essere anche un semplicerumore, può essere usata co me un simbolo, per quanto in assenza di elementiconven zionali, come avviene negli stadi primitivi della comunica zione. Unsecondo confronto può essere stabilito poi anche con la posizione platonica. Sicuramentein Epicuro non è pre sente alcuna posizione simile a quella della prima teoriase mantica di Platone,25 adottata in seguito anche dagli stoici, secondo laquale il nome è una lista abbreviata delle pro prietà dell'oggetto a cui siriferisce. Platone, infatti, vede le parole primitive come una rappresentazionefedele delle proprietà dell'oggetto, quasi che tutto il vocabolario fossedeliberatamente costituito da onomatopee. La posizione naturalistica di Epicurosi limita a sostenere che, ali'interno di ciascun linguaggio, ogni nome ha unuso corretto quando viene impiegato per denotare l'oggetto, o la classe dioggetti, a cui è stato associato nel momento del la sua origine naturale.Tuttavia, nonostante questa distin zione, ci sono forti elementi diconvergenza tra la posizione platonica e quella epicurea, in quanto in entrambei nomi EPICURO E TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 179 hanno alla loro origine unvalore cognitivo, che viene par zialmente obliterato attraverso i cambiamentidel linguag gio nel corso del tempo.26 Per Platone il recupero del sensooriginario delle parole avviene attraverso l'etimologia, stra da sulla qualelo seguiranno anche gli stoici. Epicuro ritie ne, invece, che la relazioneoriginaria del linguaggio con gli oggetti percepibili sia stata oscuratasoprattutto da processi metaforici e, per recuperare il valore epistemologicoorigi nario dei nomi, suggerisce di ricercare "la prima immagine"(prOton enn6ema: Ep. Hdt., 38). Questa prima immagine è da identificarsi con laprolessi, cioè con il concetto che si è formato alla prima percezionedell'oggetto e che è stato as sociato al nome. In conclusione, rispetto allateoria di Aristotele e alla pri ma teoria semantica di Platone, si può direche Epicuro as sume una posizione intermedia. Per Aristotele i nomi sonosimboli e sono convenzionali. Per Platone, invece, i nomi sono delle iconedegli oggetti e sono naturali. Per Epicuro i nomi sono simboli, come perAristotele, in quanto non riproducono le proprietà degli og getti, ma sononaturali, come per Platone, nella loro origi ne, coincidente con il primo deidue stadi evolutivi del lin guaggio . Gli elementi di convenzionalità sisviluppano soltanto in seguito, nel secondo stadio. Questa posizione intermediadi Epicuro spiega perché non venga fatto ricorso all'etimolo gia, come inveceavviene in Platone e negli stoici, e, pur tut tavia, si chieda di tenerepresente "la prima immagine": in realtà, la corrispondenza biunivocatra il nome e "la prima immagi ne" si fonda non sulla forma, ma sullaorigine naturale .IL ''DE SIGNIS'' DI FILODEMO 8.0 Introduzione DopoEpicuro la teoria del segno trovò un ampio svilup po negli scritti dei suoiseguaci. Un trattato del I secolo a.C.,1ilPerìsmet'Onkaìsmei8seon(Suisegniesulleinfe renze)2 di Filodemo, testimoniaampiamente del grado di raffinatezza e di complessità che la teoria del segnoaveva raggiunto in seno alla scuola epicurea. Si tratta di un'opera compostaprobabilmente a uso della scuola epicurea di Er colano, della quale Filodemofu uno dei più importanti esponenti. Il De signis non costituisce un vero eproprio trattato metodologico, né un'esposizione sistematica della teoriaepicurea del segno, ma riporta la polemica allora in corso fra stoici edepicurei sull'inferenza da segni e su varie tematiche semiotiche a essaconnesse. Il trattato è diviso in quattro sezioni, nelle quali sono esposte leargomentazioni di tre maestri epicurei, Zenone di Sidone, Bromio e Deme triodi Laconia,3 a favore della teoria epicurea del segno e contro le critiche aessa mosse dagli esponenti della scuola stoica. Il trattato è di grandissimaimportanza semiotica, perché tanto gli stoici quanto gli epicurei costruivanola loro teoria logica sull'inferenza da segni. Nel confronto le due teorie siilluminano a vicenda. Inoltre il De signis dibatte una serie di problemi cheancora oggi sono al centro della discussione semiotica. Del resto, per la suapertinenza semiotica, que st'opera aveva attirato anche l'interesse di CharlesSanders 8.l RELAZIONE SEGNICA «A PRIORI» E «A POSTERIORI» 181 Peirce, chene aveva affidato l'approfondimento e l'analisi all'allievo Allan Marquand; diquest'ultimo ci rimane un saggio sulla logica semiotica degli epicurei.4 8.1 Larelazione segnica è "a priori" o "a poste riori"? Alcentro del trattato di Filodemo si colloca il contrasto fondamentale tra le duescuole circa il modo di concepire il rapporto che si instaura tra i due terminidella relazione se gnica: gli stoici sono sostenitori di una posizione che vedetale relazione come a priori, formale e di natura razionale; gli epicurei,invece, sostengono che tale relazione è a poste riori e interamente fondata subasi empiriche. Il punto di vi sta epicureo, in effetti, è che per poterstabilire una relazio ne tra un segno e ciò a cui esso rinvia, è necessarioaver os servato più volte i due termini in un qualche tipo di con giunzione(sia essa spaziale, temporale, causale ecc.). Così la relazione si stabiliscein seguito ali'esperienza, e non a priori, come sostenevano gli stoici. Diconseguenza, il me todo semiotico proposto dagli epicurei è quello deH'analogia (ho katà tn homoi6tta tr6pos), cioè un "metodo stret tamente empiricoe basato sull'osservazione delle similarità nella nostra esperienza e su certecongiunzioni costanti, dal le quali noi inferiamo ugualmente delle similaritàe delle congiunzioni nella sfera di ciò che è oscuro" (De Lacy 1938: 398).In corrispondenza con i due modi di concepire la relazio ne segnica, stoici edepicurei sviluppano anche due differen ti teorie sulla verifica della validitàlogica della relazione. Gli stoici consideravano valida la relazione segnicabasata sulla contrapposizione (anaskeu), secondo cui la negazione delconseguente comporta la contemporanea negazione del l'antecedente. A esempio,nell'inferenza "Se c'è moto, c'è vuoto", gli stoici sostenevano chela negazione della cosa si gnificata ("c'è vuoto") implicherebbeanche la negazione del segno (''c'è moto"). Si tratta di un metodo diverifica as solutamente a priori e astratto, al quale gli epicurei con-182 8. IL «DE SIGNIS)) DI FILODEMO trappongono un metodo completamenteempirico. Anzi, gli epicurei sostengono che nessun metodo a priori è possibilefino a che non sia stata costruita un'inferenza su base empi rica: l'esistenzadel vuoto, nell'esempio precedente, è inferi ta a partire dalla osservazioneempirica che non si verifica il moto senza l'esistenza congiunta del vuoto, eda una conse guente generalizzazione.5 Ciò significa che il principio astrattodegli stoici può esse re formulato soltanto dopo che l'inferenza è statacostruita su base empirica e con il ricorso a un ragionamento analogi co. Cosìgli epicurei sostengono che il metodo della con trapposizione poggia,inconsapevolmente, sul fondamento ultimo dell'analogia epicurea. In questo modole verità ne cessarie, che gli stoici consideravano analitiche e a priori,sono in realtà stabilite attraverso l'induzione. Gli epicurei prospettano unpunto di vista secondo cui la logica dedutti va è susseguente a una logicainduttiva in ordine di svilup po: la prima dipende infatti dalla seconda (DeLacy 1978: 221). Se questa idea è chiaramente espressa nel trattato diFilodemo, non ci si deve tuttavia aspettare una discussione articolata sullerelazioni tra la logica formale e deduttiva da una parte, e logica induttiva emetodo empirico dall'altra. Anzi, a ben vedere, nel corso del trattato,entrambi i prota gonisti della discussione tendono a confondere due cose chela logica moderna avrebbe piuttosto tendenza a tenere di stinte: da una parte,il metodo per la costruzione di un'infe renza segnica; dall'altra, il criterioper la verifica della sua validità (Martinelli) . Così, il metodo dicostruzione deli'inferenza per gli epicurei è l'analogia, mentre il criterio èpiù precisamente quello della inconcepibilità (adianosfa). Tuttavia ladistinzione non è così forte, in quanto sia il me todo sia il criterio sono subase empirica: in effetti, nel di battito, gli stoici tenderanno ad attaccare ilmetodo per in validare il criterio e viceversa. 8.2 Contrapposizione vsinconcepibilità Vediamo di analizzare, in termini formali, l'opposizioneCONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPmiLITÀ · 1 83 che si stabilisce tra il criteriostoico della contrapposizione e quello epicureo della inconcepibililà. Datal'inferenza p-:Jq il criterio della sua verifica secondo la contrapposizionestoica è esprimibile come il che equivale a dire che, negando per ipotesi ilconseguen te, anche l'antecedente risulta negato. La prova dell'infe renza,dunque, avviene su base formale e non empirica. Il criterio dellainconcepibilità epicurea, invece, prescinde da considerazioni formali ed èbasato sull'analogia empiri ca. Esso viene così illustrato nelle parole diFilodemo: Ma talvolta l'inferenza non è provata essere vera in questo mo do (= per contrapposizione), ma proprio per l'impossibilità di concepire che ilprimo sia, o abbia una certa proprietà, mentre il secondo non sia, o non abbiatale proprietà, come per esem pio: "Se Platone è un uomo, anche Socrate èun uomo". Se è vera questa inferenza, diviene vero anche che "SeSocrate non è un uomo, nemmeno Platone è un uomo", non perché, attraverso la negazione di Socrate, Platone sia negato insieme ad esso, ma perché non èpossibile che Socrate non sia un uomo e Plato ne sia un uomo; e questainferenza appartiene al metodo dell'a nalogia . (col. XII, 14-31=cap. 17) Dalpunto di vista formale il criterio della inconcepibilità è esprimibile comeimpossibile (pl\q) In effetti le due formule che corrispondono rispettivamente al criterio di verifica stoico e a quello epicureo non esprimono uncontenuto logico molto diverso l'una rispetto all'altra. La stessa presenza diun operatore modale nella 184 8. n «DE SIGNIS» DI FnODEMO formuladel criterio di inconcepibilità è controbilanciata dal carattere, ugualmentemodale, di necessità, che sappiamo essere richiesta dali'implicazione come laconcepivano gli stoici . Tuttavia, in Filodemo i due metodi sono presentaticome contrapposti, e anzi, nel passo citato, sembra che trovino applicazione incasi diversi. Se non è dunque sul piano del contenuto logico che si differenziano, che cosa è allora che li rende diversi? È possibi le cercare unarisposta a questo interrogativo soffermando ci sull'esempio che vieneriportato da Filodemo di inferenza verificata con il metododell'inconcepibilità: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è un uomo"Questa inferenza, ci dice Filodemo, appartiene al metodo dell'analogia.Infatti, entrambi i membri dell'inferenza condividono un elemento, cioè laproprietà attribuita ai soggetti rispettivi delle due proposizioni, fatto chepotrem mo esprimere come: u {P) u {S)in cui "u" è la proprietà di "essere un uomo","P" è "Plato ne" e "S" è "Socrate".Questo aiuta a capire che cosa intendano esattamente con "analogia" econ "inferenza segnica basata sull'analogia" gli epicurei. Ineffetti, mentre per gli stoici non è necessario alcun elemt.nto in comune tra idue membri dell'inferenza segnica, una tale caratteristica diviene essenzialeper gli epi curei.6 Il fatto, però, che l'analogia, da un punto di vistalogico, si venga precisando come situazione in cui c'è una proprietà condivisadai soggetti delle due proposizioni membri del l'inferenza, ci permette didire che la logica usata dagli epi curei non è la stessa di quella usata daglistoici: mentre que sti ultimi si servono della logica delle proposizioni, gliepi curei ritornano a una logica dei predicati, sotto un certo punto di vistapiù simile a quella aristotelica.CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPIBILITÀ 185 Adistinguere il metodo della contrapposizione da quello dell'inconcepibilità èdunque l'ambito di applicazione: le proposizioni nel primo caso, le proprietànel secondo. Lo scopo è tuttavia lo stesso: dimostrare che l'inferenza ha uncarattere di necessità. Ora non c'è nessun problema a considerare necessaria larelazione stoica verificata dalla contrapposizione, in quanto il metodoadottato è aprioristi co. Ci sono maggiori problemi, invece, come gli stoicisot tolineano, a considerare necessaria l'inferenza analogica. A ogni modo,per gli epicurei le relazioni segniche vengo no scoperte empiricamente e, sela ricerca è ben condotta, la relazione tra il segno e l'oggetto a cui il segnorimanda' è necessaria. Tuttavia, il metodo stesso dell'inconcepibilità è unmetodo empirico, in quanto una certa cosa è inconcepi bile solo nei terminidella nostra esperienza. Le inferenze verificate dall'inconcepibilità sonobasate sull'analogia tra il segno e ciò a cui esso rimanda: "Un oggettoche non ab bia niente in comune con ciò che appare è inconcepibile" (col.XXI, 27.;.29 = cap. 36). Anche le inferenze su ciò che va di là dell'esperienzasono basate sull'analogia con le proprietà che presentano le cose ali'internodeli'esperienza. Se non è possibile verificare di rettamente la presenza diquelle proprietà negli oggetti non percepiti, si ricorre alla prova indirettadella non incompati bilità (ouk antimartjrsis) con i dati empirici.7L'inferenza che viene presa in considerazione è la seguente: Se gli uomini chenoi conosciamo direttamente, una volta deca pitati muoiono, senza chericrescano nuove teste, allora tutti gli uomini, dovunque, una volta decapitatimuoiono e non ricre scono nuove teste. Il primo membro del condizionale èconsiderato segno del secondo. Tra i due membri si stabilisce un elemento comune, e l'inferenza è propriamente un'induzione: l'espe rienza ripetutadell'associazione tra decapitazione da una parte e morte congiunta alla nonricrescita della testa dal l'altra, porta alla generalizzazione di questaassociazione, in modo da poter fare inferenze e previsioni anche in casi186 8. IL «DE SIONIS» DI FnODEMO non precedentemente osservati, o nonosservabili in asso luto. Inoltre, poiché è impossibile verificare l'inferenzasui casi non osservabili, gli epicurei la ritengono veri ficata basando sisulla non incompatibilità con i casi che cadono nel domi nio deli'esperienza.La condizione è tuttavia quella di sce gliere i casi giusti, che sono quelliche appartengono allo stesso genere: a esempio, per inferire la non ricrescitadelle teste, è necessario non basarsi sulla ricrescita dei capelli o delleunghie (coli. XIII, 20 - XIV, 2 = cap. 18). 8.3 Segni comuni e segni propri La disputasui metodi di verifica dell'inferenza si lega alla discussione sui tipipossibili di segno. Tanto gli stoici quan to gli epicurei distinguevano trasegno comune (koinòn s mefon) e segno proprio (fdion smefon). Definivano ilsegno comune come quella entità che può esistere anche in assen za diun'entità cui dovrebbe rinviare (a esempio, nell'infe renza "Sequest'uomo particolare è ricco, allora è buono"! la ricchezza puòsussistere anche se non sussiste la bontà). Definivano poi il segno propriocome quell'entità che può esistere solo se esiste un oggetto non percepibile acui essa rinvia (a esempio, nell'inferenza "Se c'è moto, c'è9vuoto",il moto può esistere solo se esiste anche il vuoto). Gli epicurei eranod'accordo con gli stoici nel rifiutare i segni comuni come basi inaffidabili diinferenze, ma non concordavano sul fatto che ogni caso di segno proprio fosseanche un caso (come sostenevano gli stoici) di segno stabili to percontrapposizione, cioè stabilito aprioristicamente. Per essi era possibilestabilire dei segni propri usando un criterio empirico, come è quellodell'inconcepibilità.10 Se consideriamo l'inferenza: "Se Epicuro è unuomo, allora anche Metrodoro è un uomo " ci troviamo di fronte a un segnoproprio costruito per ana-SEGNI COMUNI E SEGNI PROPRI 187 logia, cioèsull'osservazione di una proprietà in Epicuro che è inconcepibile pensare cheMetrodoro non abbia esatta mente negli stessi termini. In altre parole si puòdire che, posto l'accordo tra le due scuole sulla validità dei soli segnipropri, gli stoici costituivano un oggetto come segno a par tire dalconseguente (ovvero dal rinviato), mentre gli epicu rei lo costituivano apartire dall'antecedente. È l'oggetto che compare nell'antecedente, infatti,che nella semiotica epicurea viene associato a certe proprietà (costantementeosservate) e diviene segno di un altro ogget to non percepibile a cui vengonoattribuite le proprietà del primo. Tuttavia, il primo oggetto X deve averealmeno due proprietà Pt e P2 e il secondo oggetto deve avere almeno una diqueste: la proprietà comune diviene il segno della presenza della secondaproprietà che può non essere perce pibile direttamente nel secondo oggetto. Aesempio, se un certo individuo X ha le due proprietà: Pt = "essere un uomo"p2 = "non poter avere la ricrescita della testa, una volta tagliata"sarà sufficiente che un altro individuo Xt abbia la proprietà Pt perché gli sipossa attribuire anche la proprietà p2. Le condizioni della validità generaledi questa inferenza sono due: (i) che l'associazione tra le due proprietà nelpri mo membro dell'inferenza sia costante; (ii) che tale associa zione non sistabilisca tra proprietà casuali. Come vedremo in seguito, si tratta discegliere delle proprietà che siano "es senziali". Rimane da fareuna considerazione generale sul tipo di segno proposto dagli epicurei: essosembra costantemente configurarsi come segno iconico, in quanto, in terminipeir ceani, rimanda al suo oggetto in virtù di una somiglianza o per averealcune proRrietà in comune con esso (Peirce 1980: 140; Eco 1973: 51). 1188 8. ll «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.4 Critica stoica all'induzione epicurea Glistoici non accettano la validità dell'inferenza basata su un criterioinduttivo, come proponevano gli epicurei. A essa contrappongono inferenzesegniche basate sostanzial mente su due tipi di criterio: (i) la tautologia;(ii) la L-impli cazione. 12 Seguiamo lo sviluppo dell'argomentazione deglistoici. Essi prendono come punto di partenza una tipica in ferenza induttiva,o analogica, epicurea: "Se gli uomini tra di noi sono mortali, alloratutti gli uomi ni lo sono''. Per gli stoici l'inferenza cosi formulata èinaccettabile. Per acquisire validità, essa deve essere riformulata secondol'uno o l'altro dei criteri che abbiamo menzionato. Vedia mo il criteriodefinito come tautologia. Gli stoici sostengo no che, per rendere validal'inferenza, cioè, dal loro punto di vista, per rendere necessaria la relazionetra i due mem bri, entrambe le proprietà prima considerate devono esserecontenute nella premessa. 1 3 Gli stoici propongono così di riformularel'inferenza nel modo seguente: Dal momento che gli uomini tra di noi sonomortali, e se in altri luoghi vi sono uomini simili a quelli tra di noi sottotutti i ri spetti, e anche nell'essere mortali, essi sono eventualmente mortali . (coIl. II, 37 - III, 4= cap. 5) Il carattere tautologico dell'inferenzaè sottolineato dagli stoici stessi, i quali sostengono espressamente che"la con clusione appresa attraverso questo segno non differisce dal segnoa partire dal quale si trae l'inferenza (smeioume tha)".14 Infatti vieneassunta la premessa che entrambe le serie di entità (cioè sia gli uomini che sitrovano tra di noi, sia gli uomini che sono in luoghi sconosciuti) hanno non solo la proprietà comune di essere "uomini", ma anche contemporaneamente quella di essere "mortali". 8.5 RISPOSTAEPICUREA A FAVORE DELL'INDUZIONE L'assunzione nella premessa dello stessocarattere di "mortalità" che dovrà essere anche oggetto di inferenzaè, per gli stoici, condicio sine qua non della necessità dell'infe renza.L'inferenza sarà valida, dunque, solo se totalmente analitica o tautologica.Vediamo ora l'argomentazione stoica contro l'induzione secondo il criteriodefinito L-implicazione. In questo secon do caso gli stoici propongono diriformulare l'inferenza epi curea di partenza in maniera tale che il caratteredi "morta lità" da inferire sia contenuto nella definizione stessadi "uomo". Per esprimere l'idea che la parola luomol implicitasemanticamente tutto un insieme di proprietà che una defi nizione metterebbein luce, essi introducono le espressioni hii "in quanto" e kath6"nella misura in cui". L'inferenza riformulata secondo questoprincipio assume la forma se guente: Dal momento che gli uomini tra di noi, inquanto (hi1) e nella misura in cui (kath6) sono uomini, sono mortali, anche inqual siasi altro luogo gli uomini sono mortali.ts in cui la sempliceespressione l uomo l è data come implici tante la proprietà"mortale" da inferire. Gli stoici sostengono che l'attribuzione dellaproprietà di essere "mortale" a l uomo l, se avviene in qualsiasialtro modo diverso da questo, come appunto fanno gli epicurei, rende vanal'inferenza. 8.5 La risposta epicurea a favore dell'induzione La sostanza dellareplica epicurea è che il sistema stoico, per quanto appaia analitico e apriori, tuttavia poggia in ul tima analisi su una base induttiva. In realtà,secondo gli epicurei, la necessità della relazione inferenziale è costruitasull'osservazione di congiunzioni costanti. È a causa del fatto di non vederemai il fumo senza il fuoco, né il moto senza la presenza del vuoto, che noiarriviamo a dire che il fumo è segno del fuoco e il moto segno del vuoto.16Cosi è 190 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO su base empirica che vienestabilito il sistema di necessità lo gica a priori alla quale fanno ricorsogli stoici . Del resto, la stessa connessione necessaria tra due termini,espressa at traverso il test della contrapposizione, può essere verificatasolo dopo che l'esperienza ha mostrato la costante congiun zione tra di essi.Come giustamente interpreta Estelle De Lacy (1938: 405), "le ipotesi sullivello logico e teoretico sono formulate sulla base di informazioni intornoalla connessione di termini da ti dali'osservazione deli'esperienza dei sensi.La validità di queste ipotesi, di conseguenza, dipende dalla loro corrispondenza con i fatti e dalla loro adeguatezza nel compren dere tali fatti,come pure dalla loro interna coerenza o com patibilità dell'uno conl'altra". Se questa è la sostanza della replica epicurea alle critichestoiche sull'induzione, vale però anche la pena di analizzare la rispostaspecifica17 alla seconda critica stoica. Infatti, in relazione alla L-implicazione,gli epicurei, ribaltando l'ar gomento stoico, sollevano una questioneinteressante: la de finizione di uomo in quanto mortale è non il punto di partenza di un'inferenza deduttiva, ma il punto di arrivo di ri petute inferenzeinduttive. In altre parole, si costruisce la definizione di uomo in quantotale, come comprendente an che la proprietà di essere "mortale" inconseguenza di due serie di informazioni: (i) le informazioni che ci forniscela storia sulle vite degli uomini che ci hanno preceduti; (ii) le informazioniche ci derivano dali'esperienza diretta dei no stri contemporanei. Così gliepicurei pongono l'equivalenza tra la proposizione: (a) "Gli uomini, inquanto uomini, sono mortali " (che è la formula suggerita dagli stoici, eche indica dedutti visticamente il fatto che nella nozione di "uomo"vi è com presa la proprietà "mortale"), e la proposizione: (b)"Gli uomini con questa proprietà (di essere mortali) sono uomini" PROPRIETÀESSENZIALI E ACCIDENTALI 191 che è la formula epicurea, la quale suggerisce inqual modo venga costruita la definizione. In sostanza, gli epicurei sem branosostenere che la definizione di "uomo" viene costrui ta medianteun'accumulazione di proprietà che sono rileva te mediante un metodo analogicoin entità che sono9deno minate in un certo modo, in questo caso, luominil.18.6 Proprietà essenziali e proprietà accidentali Un altro interessante problemache emerge nella disputa tra stoici ed epicurei è quello della distinzione traproprietà primarie e proprietà secondarie. Questa distinzione risale aDemocrito, che è stato il primo a usarla (De Lacy 1938: 403). Il problema non èaffatto banale e ancora oggi, in molte teorie semantiche, si ricorre aun'analoga distinzione. Gli epicurei affrontano l'argomento per rispondere auna critica stoica che attacca il metodo dell'analogia mostrando il rischio chesi corre neli'applicarla a proprietà che non hanno tutte la stessa ripartizioneo generalità. Infatti, so stengono gli stoici, allo stesso modo in cui vieneuniversaliz zata la concomitanza osservata tra la proprietà "uomo" ela proprietà "mortale'', altrettanto potrebbe essere fatto per laconcomitanza osservata tra "uomo" e "di breve vita": il rischio è che, così facendo, si viene ad attribuire quest'ultima proprietà ancheagli abitanti del monte Athos, che nell'anti chità erano proverbialmenteconsiderati longevi.20 Proprio da questo tipo di critica gli epicurei sonospinti a elaborare una distinzione tra proprietà che sono variabili (cioèpeculiari a certi individui) e proprietà che sono costan ti (cioèrintracciabili in ogni individuo). L'inferenza corret ta sarà quella che partedalle proprietà costanti. Tuttavia, sostengono gli epicurei, la stessa presenzadi proprietà va riabili, invece di indebolire la teoria dell'inferenza analogica, la rafforza: posto infatti che gli uomini conosciuti diffe risconomoltissimo rispetto alla lunghezza della vita (essen do alcuni di breve vita ealtri longevi), diviene possibile, proprio sulla base dell'esistenza dellavariazione, fare cor rettamente l'inferenza che altrove esistano uomini diecce- 192 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO zionale longevità, come lo sonoappunto gli abitanti del monte Athos.21 Ma ciò che spinge gli epicurei adandare ancora più a fon do su questa strada è l'attacco stoico a proposito diinferen... ze che hanno conseguenze sulla loro teoria metafisica. Laprovocazione stoica concerne la teoria degli atomi, che, nel la metafisicaepicurea, hanno la proprietà di essere "incolo ri" e "indistruttibili";però essi hanno anche la proprietà di essere "corpi", a cui,nell'esperienza, sono associate le pro prietà opposte (cioè"colorati" e "distruttibili"). Queste so no le dueinferenze che, secondo gli stoici, gli epicurei do vrebbero fare, applicandocorrettamente il metodo analo gico: (l) "Dal momento che tutti i corpidella nostra esperienza hanno colore e anche gli atomi sono corpi, anche gliatomi hanno colore." (2) "Dal momento che tutti i corpi nella nostraesperienza sono distruttibili, e anche gli atomi sono corpi, gli atomi devonoessere tutti distruttibili."22 La replica epicurea è molto interessante,per due motivi. In primo luogo, perché precisa ulteriormente la necessità difare distinzioni tra proprietà a cui il metodo analogico si applica, eproprietà a cui non si applica; infatti il metodo agisce selettivamente sulleproprietà e non in modo ca suale.23 In secondo luogo, la replica epicurea èinteressante per ché modula la precedente distinzione in termini teoricamente più forti: essa diviene una distinzione in proprietà che possiamo definireessenziali e proprietà accidentali. Infatti gli epicurei parlano di certeproprietà che i corpi hanno pro prio "in quanto corpi" (hei somata),che essi mantengono in ogni occasione: prima fra tutte la proprietà di"opporre resistenza al tocco". Questa è dunque una proprietà essenziale. Poi ci sono quelle proprietà che non sono strettamen te legate allanatura dei corpi e che possono variare a secon da delle condizioni: si trattadi proprietà accidentali, che iPROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI corpihanno "in quanto partecipano di una natura opposta a quella corporea e nonresistente",24 come a esempio la di struttibilità o il colore, il qualeultimo è tanto accidentale che scompare nelle condizioni di buio. Possiamoschematizzare queste due serie di proprietà at traverso una tabella:proprietè entitè corpi A B proprietè accidentali (in quanto partecipanodi una nature opposta) ..distruttibilitè• ·colore• (in quanto tali)·resistenze al tocco· proprietè essenziali Gli epicurei precisano moltochiaramente che le inferenze induttive generalizzanti non dovranno partiredalle proprie tà della colonna B; ma niente impedirà di fare inferenze generalizzanti, con il metodo dell'analogia, partendo dalle proprietà dellacolonna A.25 A conferma di questo schema si può riportare l'esempio del"fuoco'',26 per il quale, accanto alla proprietà essenziale di bruciare,viene elencata una serie di proprietà variabili peculiari ai vari tipi:8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO proprietà essenziali proprietà accidentali(koin6ttes) (idi6ttes) ·di lunga o corta durata• ·non tutte le sostanze sonobruciate nello stesso modo· ·facili o difficili da spegnere · ·duri o teneri·•di colore variabile a seconda del combustibile· Nella sezione di Bromio27viene anche prevista una specie di topica per individuare la ripartizione delleproprietà: in fatti, ai fini della correttezza delle inferenze, le proprietàes.. senziali (o comuni, koin6ttes) e quelle accidentali (o pecu liari,idiOttes) devono essere analizzate nei vari campi o ca tegorie che sono dipertinenza di un oggetto: nelle sostanze, nei poteri, nelle qualità, negliattributi, nelle disposizioni, nelle quantità, nei numeri. Lo scopo di questatopica appare essere quello di giustifi care inferenze universalizzantiali'interno di categorie omo genee: infatti, a esempio, pur essendociun'infinita varietà di esseri umani e di cibi che li nutrono, se si considerail fie no rispetto alla categoria dei "poteri", si troverà che essoha due proprietà costanti: "di non nutrire gli esseri umani" e"di non essere digerito da essi".28 Perciò, al di là delle diversecaratteristiche che questo og getto potrà presentare (diversi colori, diversaconsistenza, diverso grado di maturazione ecc.), potremo fare con sicu rezzal'inferenza che da nessuna parte si troverà del fieno che abbia la proprietà dinutrire gli uomini e di essere da lo ro digerito. Ma che cosa sonopropriamente per gli epicurei quelle proprietà degli oggetti ''in quantotali", che abbiamo defini to proprietà essenziali? Dai precedenti esempi(e da altri analoghi) appare chiaramente che esse sono, per loro, le - 194propnettt r entità ! fuochiPROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 195proprietà definitorie di un oggetto, cioè quelle che concor rono alla suadefinizione essenziale. Abbiamo visto che per gli stoici una definizione vieneco struita analiticamente, attraverso una ricognizione delle proprietàimplicite nella nozione da definire: un individuo, in quanto è uomo, ha laproprietà di essere mortale. Per gli epicurei le cose vanno nel senso opposto.La defi nizione di una nozione viene costruita per accumulo delle proprietàcomuni a certi individui. Di conseguenza, tra le proprietà comuni (oessenziali) rilevate empiricamente e le proprietà che fanno parte delladefinizione, non c'è diffe renza. Lo dimostra anche l'uso della particella hi("in quanto") che viene utilizzata (come vedremo meglio più avanti)nelle espressioni definitorie. Rimane aperto il pro blema se sia possibilecostruire empiricamente una defini zione annotando le proprietà comuni a unaclasse di ogget ti, o se il processo non sia in qualche maniera viziato (almeno in parte) proprio dalla preliminare esistenza di definizio ni che rimandanoalla lingua come struttura globale interde finita e/o storicamentestratificata. Questa seconda ipotesi sembra in parte prospettarsi con ladefinizione di l uomo l . Per gli epicurei, infatti, la pro prietà"mortale'' è, come abbiamo visto, una proprietà es senziale o definitoriadi l uomo l . Si deve però notare che es sa fa parte della definizione di luomo l già in una lunga tra dizione che risale per lo meno ad Aristotele.Quest'ultimo definiva infatti l uomo l come "animale mortale provvisto diragione" (Top., V, l, 128 b, 35-36). Gli stoici poi lo defi nivano come"animale razionale mortale" (Epictetus, Diss. II, 9, 2). Latradizione epicurea, infine, lo definiva come "mortale provvisto disapienza pratica" (De signis, col. XXII, 22-24=cap. 37).29 È probabile,dunque, che definizioni di questo genere co stituissero un'implicita guidanella stessa ricognizione empi rica delle proprietà comuni a una serie dioggetti (gli uomini percepibili) analizzati in vista di un'inferenza al nonperce pibile . 196 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.7 Modalità di inerenzadelle proprietà essenziali ai soggetti Quando nel trattato di Filodemo si parladi proprietà co muni o essenziali, queste vengono congiunte al soggetto mediante le particelle héi, kath6, par6, che equivalgono nel si gnificato alleespressioni italiane "in quanto", ''nella misura in cui". Essevengono a indicare una condizione restrittiva nell'inferenza al nonpercepibile, come abbiamo visto nel l'esempio della natura degli atomi come"corpi in quanto tali", o degli uomini come mortali "nellamisura in cui sono uomini". Nella sezione di Demetrio sono elencatequattro accezioni fondamentali di queste particelle, che rimandano a quattromodi di inerenza delle proprietà ai soggetti: (i) Secondo la prima accezione,le proprietà possono es sere viste come conseguenze necessarie (ex anankssynépe tar): come esempio di conseguenza necessaria del fatto di essereuomini, sono riportati i fatti di avere un corpo e di essere soggetti allamalattia e alla vecchiaia.3° Con questo esempio l'autore sembra individuare untipo di proprietà che in certe semantiche contemporanee sono chiamate fattuali o sintetiche3 1 o proprietà secondo il modo 1r). 32 (ii) Nella secondaaccezione, le proprietà sono individua te come essenziali alla definizione oalla concezione fonda mentale (prolessi)33 di un certo oggetto. Questo siverifica a esempio con espressioni del tipo: "I corpi, in quanto corpi,hanno volume e resistenza", o come: "L'uomo, in quanto uomo, è unanimale razionale''. In questo caso il rapporto sembra essere di tipo equativo:l'estensione del primo termi ne viene a coincidere con quella del secondo. Nelcaso del l'esempio di l uomo l, l'equivalenza definizionale viene data intermini di genere ("animale"), più differenza specifica("razionale"). (iii) Secondo la terza accezione, certe proprietà sonovi ste come sempre concomitanti (synbebekénar), come nell'e sempio:"L'uomo nella misura in cui è uomo, muore". L'autore sembraindividuare qui delle proprietà che nelle teorie contemporanee sono statedefinite semantiche, anali tiche o proprietà secondo il modo E : "uomo,,infatti, è in cluso nella classe più vasta di "mortale".Quest'ultima, poi, ritorna sotto forma di marca semantica a comporre il semema corrispondente al termine l uomo l . (iv) La definizione della quartaaccezione è perduta in una lacuna, ma essa può essere ricostruita dagli esempiche il testo ha conservato: "L'uomo, nella misura in cui è folle, èmassimamente infelice,, "Un coltello taglia nella misura in cui èaffilato", "Gli atomi, nella misura in cui sono soli di, sonoindistruttibili", "Un corpo, nella misura in cui ha peso, cade versoil basso". Marquand (1883: 125) interpreta questi come esempi di proprietàche implicano gradazioni o proporzione. I De Lacy (1978: 125) fanno invece laconget tura che si tratti di proprietà delle proprietà. Certi di questi esempifarebbero pensare al rapporto se miotico della connotazione, inteso comesignificato che si appoggia su un altro significato e che comunque è fissato daun codice. Si possono schematizzare i quattro modi in cui le proprie tàineriscono al soggetto, · sia secondo l'interpretazione di Marquand, siasecondo quella della semiotica contempora nea (cfr. p. 198). 8.8 ConclusioniSe gli stoici avevano fornito alla semiotica una solida im palcatura logica,gli epicurei arricchiscono la problematica del segno mediante una serie dispecificazioni destinate ad avere valore operativo nella ricerca concreta edeffettiva. Abbiamo già visto le distinzioni tra i tipi di segno, i tipi di proprietà,i modi di inerenza delle proprietà ai soggetti. Ol tre a questi temi gliepicurei affrontano anche il problema della gamma di variazione a cui ifenomeni sono sottoposti e quello dei limiti di tale variazione, comecondizione per fare inferenze corrette. Infatti ammettono l'esistenza diproprietà che variano da individuo a individuo, ma negano 198 8. IL «DESIGNIS)) DI FILODEMO semiotica contemporanea Marquandconseguenza 1. 2. concezione estensionalmente necessaria definizione oproprietè fattuali o sintetiche essenziale (protessi ) proprietàequivalenti al soggetto 3. concomitanza proprietà semantiche oanalitiche 4. gradazione o connotazioni proporzione codificate che neifenomeni non percepibili la gamma di variazione sia illimitata e che comunquesuperi i confini della variazione osservabile nei fenomeni conosciuti. Così nonsi potrà infe rire che gli uomini fuori dalla nostra esperienza siano tantoresistenti da essere invulnerabili, oppure che essi siano fatti di ferro, o chepassino attraverso le pareti, come quelli co nosciuti passano attraversol'aria. La giustificazione di que sto fatto viene data dal metododeli'inconcepibilità: "è in concepibile che ci sia un ogetto che nonabbia niente in co mune con ciò che appare". 5 Nel De signis vengonoanche affrontati i problemi con nessi ai vari tipi di inferenza: da classe aclasse; da oggetti identici ; da casi rari ; da casi unici . Tutti questiproblemi so no collegati a un tema che è costante nella semiotica epicurea:quello delle garanzie di validità di un'inferenza. A esempio, un'inferenzascorretta è quella che porta a concludere che tutti gli uomini sono bianchi,partendo dal l'osservazione che gli uomini greci lo sono, o che, al contrario, porta a concludere che tutti gli uomini sono neri, par tendodali'osservazione che gli Etiopi sono tali. In effetti, simili inferenze sonoerrate perché non sono frutto di "una accurata supervisione di tutti icasi percepibili".36 Ciò che, dal punto di vista logico, avviene in casidi questo genere è che si tenta di applicare ali'intera classe o genere (quellode gli "uomini") una proprietà che di volta in volta è caratteristica di una sottoclasse o specie (quella dei "Greci" o, rispettivamente, quella degli "Etiopi"). In effetti, per garantire ilmassimo di sicurezza, gli epicu rei pongono alla base del loro metodo percostruire inferen ze una teoria della progressiva inclusione semantica tra individui, specie e generi, cioè una teoria delle classi. È infatti legittimofare inferenze tra membri (classi o in dividui particolari) i quali si situinoa un livello analogo o che siano il più possibile vicini e simili. Naturalmenteque sto non significa che l'inferenza debba essere fatta esclusi vamente tramembri che si situano esattamente allo stesso livello, altrimenti l'induzioneperderebbe molta della sua forza, ma nella maggior parte dei casi vieneprevisto un mo vimento ascendente di generalizzazione.37 Una teoria delleclassi è implicita anche nella trattazione epicurea dei casi unici, elaborataancora una volta in rispo sta a una critica stoica. In effetti gli stoiciavevano tentato di attaccare il metodo deli'analogia ricorrendo ali'argomen todeli'esistenza in natura di casi unici, che non presentano analogia con alcunaltro fenomeno: a esempio, in mezzo al la stragrande quantità di pietre cheesistono nella nostra esperienza, ce n'è una sola, il magnete, che è capace diatti rare il ferro; ugualmente, solo l'ambra ha la proprietà di at tirare lapaglia; infine, non c'è che il quadrato che misura 4 di lato che ha ilperimetro e l'area espressi dallo stesso nu mero.38 Secondo gli epicurei,però, le critiche degli stoici, invece di inficiare l'inferenza analogica, inrealtà la rafforzano. 200 8. IL «DE SIGNIS» DI Fll.ODEMO Per dimostrarequesto, gli epicurei ricorrono al metodo di ridurre ad altrettante classi glioggetti unici. Così, essi dico no, se alcuni magneti attirassero il ferro ealtri no, l'inferen za per analogia sarebbe inficiata; ma poiché così nonavvie ne, è possibile inferire le proprietà degli altri magneti a par tiredal magnete che cade sotto la nostra percezione.39 Molti ancora sarebbero ipunti particolari da prendere in considerazione, per mostrare il modo con cuigli epicurei tentano di dettagliare la teoria del segno. Ma quello che indefinitiva caratterizza la semiotica epi curea è il suo richiamo a un completoprogramma empirista (che era condiviso, tra l'altro, anche dai mediciempirici). Tale programma comprende tre tappe fondamentali: osservazione;storia; inferenza da simile a simile. I pri mi due momenti del programmapermettono di individuare le "proprietà essenziali", e quindi dipassare al terzo mo mento, che è quello della ricostruzione del processosemioti co vero e proprio. Nei primi due momenti, infatti, vengono suggeritedelle condizioni sui fenomeni da osservare per ottenere le pro prietàcostanti: essi devono essere "molti", devono essere diversi tra diloro (''vari") e, contemporaneamente, devono essere"omogenei".40 Il terzo momento, infine, combina le proprietàdeli'enciclopedia semantica con le leggi della logi ca (che per gli epicureisono quelle della logica delle classi). In questo compromesso, appunto, tra iconcreti suggeri menti in vista della produttività empirica e il tentativo dimantenere il massimo rigore formale deve essere individua ta l'originalitàdella proposta epicurea. RETORICA LATINA. L'interesse per la problematicasemiotica nel mondo ro mano fa parte di quel processo di costante eprogressiva ac quisizione del patrimonio culturale greco, che inizia nel IIIsecolo a.C. Ma, nel passaggio dal mondo greco a quello ro mano, il paradigmasemiotico abbandona il campo della fi losofia in senso stretto, perinstallarsi, in maniera centrale, nell'ambito retorico-giuridico. In Grecia laconoscenza attraverso i segni era divenuta, soprattutto nelle scuolepostaristoteliche, il modello stesso della conoscenza in generale e, a partiredagli stoici, aveva trovato la sua collocazione ali'interno della dialettica,una delle branche più astratte della filosofia, in quanto sotto partizionedella stessa logica. Invece i Romani, aderendo a interessi maggiormenteorientati in direzione pragmatica, avevano bensì colto l'estremo interesse delparadigma se miotico, ma lo avevano subito piegato ai fini, a loro piùcongeniali, del dibattito politico e giudiziario, dibattito de stinato aessere condotto con gli strumenti forniti appunto dalla retorica. Per rendersiconto, nel modo più chiaro, del cambiamen to di prospettiva, basta mettere aconfronto l'atteggiamento di Aristotele con quello di Cicerone nei riguardidella retori ca. Aristotele aveva fatto di questa disciplina l'argomento di unsuo importante trattato, la Retorica, e al suo interno aveva affrontato il temadei segni; ma, come era già avve- 202 9. RETORICA LATINA nuto nei Primianalitici, aveva tentato di ridurre la forma dei vari tipi di segno a quelladei tipi di sillogismo. Cosi fa cendo, aveva indicato un percorso ben preciso:la logica stabilisce le forme fondamentali del ragionamento, che de vonorimanere un punto di riferimento anche quando l'inte resse si sposta, come nelcaso della retorica, dal discorso scientifico a quello persuasivo, dai segnireferenziali a quelli efficaci . In Cicerone, e in genere nella trattatisticaretorica roma na, si registra un'inversione nell'ordine di priorità: la retorica non occupa più il secondo posto, rispetto a un primato della logica, ma, alcontrario, è la filosofia nel suo insieme che diviene scienza ancillare, il cuiscopo è quello di contri buire alla formazione del buon oratore. Tuttavia èl'elo quenza l'espressione più alta dell'attività intellettuale. Un passo delDe oratore (Il, 159-160) mostra abbastanza chia ramente l'opinione di Ciceronecirca i rapporti tra dialettica e retorica, quando per bocca di Antonio vienedetto che i dialettici sono soltanto capaci di criticare degli enunciati, manon di produrne. In effetti, per Cicerone la retorica costituisce il"corona mento" della filosofia, dalla quale non può esseredissociata (De orat., III, 59-61), e non deve essere considerata una tec nicacapace di aggiungere un'espressione elegante a un pen siero già formato. Comemettono bene in luce Mare Baratin e Françoise Desbordes (1981: 50), in Ciceroneagisce un principio, sempre sfumato, ma costantemente affermato, che, se siparla bene, si pensa anche bene o, in altre parole, che non si pensa veramentebene se non quando si parla ve ramente bene. Tuttavia la retorica,indiscutibilmente, presenta anche un aspetto tecnico, e ogni trattatista mostrache essa è organiz zata secondo due tipi di assi. Il primo concerne i tipi didi scorso: il discorso dei tribunali (giuridico); il discorso del l'assemblea(politico); il discorso delle cerimonie pubbliche (dimostrativo). Il secondoriguarda le parti della retorica, ovvero i tipi di procedimenti che devonoessere messi in atto per strutturare progressivamente un discorso: inventio (ricerca degli argomenti); dispositio (ordinamento di quel che 9.l LA «RHETORICAAD HERENNIUM» 203 è stato trovato); elocutio (resa degli argomenti in forma ornata); memoria (procedimenti mnemotecnici); actio (recita zione del discorso:gesti e dizione). La problematica riguardante il segno si colloca nel cuoredella inventio, quando cioè si devono "trovare" le prove checonvincano l'uditorio della colpevolezza o dell'innocenza di un imputato. Leprove, in retorica, hanno una loro propria forza, muovono dal ragionamento e siinseriscono nel pro gramma rivolto a convincere (/idem facere), il primo deidue programmi in cui si articola l'inventio. L'altro pro gramma è ilcommuovere (animos impellere) e consiste nel porre l'accento non sul messaggioo sulla sua forza proba toria, ma sulle emozioni del destinatario. Tuttavia,come sottolinea Barthes (1970: tr. it. 60), si ha un certo disagio a usarel'espressione "prova" per indicare le probationes (pfsteis)retoriche, in quanto questa parola ha oggi una conno tazione scientifica lacui assenza appunto definisce le "pro ve" retoriche. Tuttavia, unmerito che va riconosciuto alla retorica è proprio quello di aver tentato didare una classifi cazione del diverso grado probatorio e della diversa forzaargomentativa delle "prove" stesse. Compito, quest'ultimo, che ogniautore ha assolto in ma niera particolare, proponendo una classificazione chenon coincide, se non parzialmente, con quella data dagli altri. Nei prossimiparagrafi, così, cercheremo di illustrare le li nee secondo le quali i tregrandi autori della trattatistica re torica romana, cioè Cornificio (autoredella Rhetorica ad Herennium), Cicerone e Quintiliano, ricostruiscono nellerispettive opere la struttura del paradigma indiziario, cia scuno secondodiverse modalità. 9.1 La "Rhetorica ad Herennium" di Comificio Unadocumentazione diretta della retorica latina la si ha soltanto con i trattatidel I secolo a.C., tra cui la Rhetorica ad Herennium, attribuita un tempo aCicerone sulla scorta dell'autorità dei manoscritti, ma la cui paternità è oggiasse gnata a Cornificio (Calboli: 1969). 204 9. RETORICA LATINA Laproblematica semiotica viene sviluppata da Cornificio all'interno dellaconstitutio coniecturalis dove, per verifica re se sia stata commessa o no unadeterminata azione da un certo imputato, si segni che ne mostrino la colpevolezza o Pinnocenza. L'elemento non conoscibile diret tamente a cui i segnidevono rimandare non è il fatto o rea to, che è ovviamente noto, ma l'agenteresponsabile di tale fatto, oppure le relazioni tra un certo individuo e un certofatto. Questo aspetto è abbastanza peculiare della semiotica giuridica ed è benillustrato dall'esempio di Cornificio: Aiace in un bosco, dopo essersi resoconto di quello che aveva compiuto durante la sua pazzia, si gettò sulla spada.Sopravviene Ulisse e lo vede morto; estrae dal suo corpo l'arma insanguinata.Sopravviene Teucro, vede il fratello ucciso e il nemico del fratello con laspada insanguinata. Lo accusa di assassinio. Qui si cerca la verità percongettura. (Rhet. adHer., l, 18) Ma ciò che è in questione nell'esempio Oacolpevolezza o meno di Ulisse) per i retori romani non può scaturire da unaintuizione spontanea, né da una abduzione fulminea. La retorica antica, come hasottolineato Barthes (1970: tr. it. 59), nutriva una fiducia incrollabile nelmetodo ed era ossessionata dali'idea che lo spontaneo e l'ametodico nonportavano a niente di buono. Così Cornificio, con il suo ti pico procedimentodiairetico, suddivide lo stato congettura le in sei parti, sei diverse vie perarrivare alla verità (Il, 3): probabile (probabilità), conlatio (confronto),signum (pro cedimento indiziario), argumentum (segno), consecutio(conseguenza), adprobatio (conferma). La probabilità Troviamo qui unaterminologia in parte familiare, in quanto probabile può essere considerata latrasposizione la tina di eik6s, e signum quella di smefon, per limitarci soloa questi due casi. Ma i contenuti delle espressioni latine so- 9.l LA«RHETORICA AD HERENNIUM» 205 no completamente difformi dalle corrispondentinozioni greche. Infatti il probabile è "ciò attraverso cui si dimostra cheera utile commettere il crimine e che l'imputato non si è mai astenuto dacomportamenti di tale turpitudine" (Il, 3), defi nizione nella quale nonrimane molto deli'eik6s aristotelico. Piuttosto la nozione di probabile èconnessa alla caratteriz zazione psicologica dell'individuo in questione (''Se[l'accu satore] dirà che ha agito per denaro, mostri che egli è sem pre statoavaro, se per una carica, ambizioso; così potrà far combaciare il difettocongenito con il motivo del crimine", Il, 5) e, come si può cogliere dallasua ulteriore suddivisione in causa e vita, oscilla tra la nozione di"movente" e quella di "precedenti". 9.1.2 Il procedimentoindiziario La nozione di signum viene definita da Cornificio come "ciò cheserve a mostrare come è stata cercata un'occasione favorevole ali'esecuzione(del crimine)" (II, 6). Non ritro viamo nemmeno qui la nozione greca dismeion. Piuttosto il signum costituisce l'insieme di quei procedimenti indiziari, di pertinenza dell'investigatore, che permettono di rico struire il fattoscomponendolo, come suggerisce di fare Cornificio, in tanti oggetti di indagineseparata: sul luogo del delitto, sul tempo, sull'occasione, sulla speranza dipor tare a esecuzione il fatto, sulla speranza di tenerlo celato. 9.1.3 Ilsegno Una nozione che presenta maggiore interesse è quella di argumentum. Se lasua definizione non è ancora molto elo quente ("Argumentum è ciòattraverso cui il crimine viene confermato con segni [argumentis] più precisi econ un so spetto più sicuro", II, 8), gli esempi che vengono forniti citolgono ogni dubbio che si tratti del segno come singolo fe nomenopercepibile, che rimanda a un fatto non conoscibile 206 9. RETORICALATINA direttamente; la sua struttura è quella inferenziale, espressa daun periodo ipotetico: "Se il corpo del morto s'è alterato nel colore pergonfiore o lividezza, significa che è stato uc ciso da una dose diveleno" (Il, 8); se si trova del sangue sulle vesti dell'imputato, se èstato visto sul luogo del delit to, significa che egli è colpevole (ibidem)ecc. Caratteristicamente l'argumentum viene suddiviso in tre tipi, in relazioneal rapporto temporale (anteriorità, con temporaneità, posteriorità) che siinstaura fra antecedente e conseguente del segno; classificazione, questa, cherisale al la retorica prearistotelica (si trova a esempio nella Rhetori ca adAlexandrum, 1430 b, 30 e sgg.) e giunge almeno fino a Quintiliano. 9. 1 .4 Lereazioni fisiche non controllabili Un'altra nozione interessante è quella diconsecutio, che Calboli (1969: 232) mette in relazione ai sjmptoma dellaterminologia medica. Si tratta, come dice Cornificio, dei "segni (signa)che solitamente presentano i colpevoli e gli innocenti" (II, 8), come, aesempio, che l'imputato, quando si è giunti a interrogarlo, "siaarrossito, sia impallidito, ab bia titubato, sia caduto in contraddizione, sisia smarrito, abbia fatto qualche promessa, che sono segni di coscienza nontranquilla" (ibidem). Sono dunque delle reazioni fisi che noncontrollabili, dei segni involontari che possono ve nire messi in relazione,in maniera abbastanza codificata, con degli stati d'animo (come il senso dicolpa). Questi se gni, per quanto non siano facilmente dissimulabili, sono però manipolabili a livello di interpretazione: infatti l'avvoca to difensorepuò intervenire sulla loro presenza sostenendo che l'imputato, a esempio, si èturbato per la gravità del pe ricolo e non per la coscienza della colpa;d'altro canto, l'ac cusatore può intervenire sull'assenza di segni di talgenere sostenendo che l' imputato aveva a tal punto premeditato la cosa dapresentare la massima sicurezza, ragione che rende l'assenza di turbamento"segno di sicurezza, non d'inno cenza" (ibidem). probabilecausa - vita conlatio alii nemini bonum - neminem alium potuisse slgnum occasio- spes per- ficiendi spes celandi l argumentum consecudo adprobatio -praeteritum - signa 9.1 LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 207 9. 1 .5 Laclassificazione e la forza argomentativa Come si può vedere, il procedimentoindiziario che viene messo in atto in ambito retorico-giuridico gioca su varili velli: (i) innanzitutto, ci sono i segni della premeditazione. che nellatassonomia di Cornificio sono distribuiti tra il probabile, la conlatio (checonsisteva nel dimostrare che l'imputato aveva più di ogni altro ragioni epossibilità di commettere il delitto) e il signum; (ii) in secondo luogo cisono i segni delfatto stesso, che sono rappresentati dagli ar gumenta: essimettono in relazione diretta l'imputato con il reato; (iii) in terzo luogo c'èquella sorta di segniproducibili quasi sperimentalmente, che si traggono dalcomportamen to dell'imputato osservato in un momento diverso e succes sivorispetto a quello dell'evento criminoso. Possiamo illustrare complessivamentela classificazione della materia congetturale effettuata da Cornificio con ilse guente schema (Curcio 1900): - locus - tempus - spatium -consequens Se messa a paragone con quella della Retorica aristotelica, la classificazione di Cornificio appare filosoficamente meno coerente e nonsaldamente fondata. Tuttavia, con temporaneamente, appare molto più aderentealla materia instans conscientiae - signe confidentiae - signainnocentiae 208 9. RETORICA LATINA cui è destinata ad applicarsi e nonpriva di una logica inter na nel suo seguire i segni deli'imputato in unpercorso che parte dal momento precedente il crimine e culmina nel pro cesso .Cornificio discute anche della forza argomentativa dei se gni, quando proponedi organizzare in una struttura logica gli argomenti trovati. E, a questoproposito, nota che ci so no dei segni che non garantiscono nessuna certezzacome a esempio: uoeve aver partorito, poiché porta in braccio un bimbopiccolo", oppure: "Dal momento che è pallido, deve essereammalato" (Il, 39). Come si può notare, si tratta di segni checorrispondono a quelli in 2a figura di Aristotele: essi non sono sicuri perché,a esempio, il pallore può bensi indicare malattia, ma anche una quantità dialtre cose. Quello che è però interessante è che Cornificio non li rifiu ta,ma sottolinea un loro valore argomentativo nel caso che compaiano in grannumero ("se però vi si aggiungono an che tutti gli altri, tali segnihanno un certo peso per accre scere il sospetto", ibidem). 9.2 CiceroneCicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambitidella sua produzione teorica: (i) le opere di argomento retorico; (ii) le opereche parlano dei se gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo diquesto ambi to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non èugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il Deoratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano unaproblematica a carattere so cio-politico, volta a definire la figuradeli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizionerispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut to ciòche costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con essoanche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tantotrascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campodicompetenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei terminidi un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso ipersonaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, lePartitio nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunatedalla caratteristica di prendere in considerazio ne e di sistematizzare lagran massa delle nozioni che com pongono l'apparato tecnico della retorica. Unlimite di que ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità delprocedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa rossismo, come nelDe inventione, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica.Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare glispunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno.9.2. 1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile diCicerone e con densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge finoa Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro vino riprodotti alcuniaspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. Inparticolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come antecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermatal'attenzione verso i segni involontari (l'im pallidire, l'arrossire, ilbalbettare dell'imputato) come indi zi di colpevolezza. Infine compare laclassica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con ilfatto crimi noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i puntidi contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione deisegni proposta da Cice rone è in larga misura diversa da quelle precedenti.Essa ap pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar gomentazione),cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove perconfermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosache si esco gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa inmanieraRETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens), o la dimostrain . un mo do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44).Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco inquesta definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che èstato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato)rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (giàaristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili ter ostendens) eun'inferenza necessaria (necessarie demon strans) . 9.2 . 1 . 1 Rinvionecessario e non necessario I segni necessari sono così definiti: "Vienedimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro vatodiversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se hapartorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo","Se è giorno, c'è luce" (De inv., l, 86). Come Cicerone spiega in unaltro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sonolegati da una re lazione inscindibile (cum priore necessario posterius cohaerere videtur, De inv., l. 86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poicosi defini to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, oche è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza conquesta qualità, sia esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questadefinizione Cicerone mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilisticoe (ii) quello doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuitopeculiarmente all'eikos (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di untipo che Aristotele avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suofiglio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv.,I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio ne che perAristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzoesempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da unviaggio" (De inv.,CICERONE 21 1 I, 47), che non sembra dello stessotipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. 9.2. 1 .2 L'indizio La categoriadi signum, poi, compare come una sottopar tizione dei segni non necessari,accanto al credibile (credibi le), ali'iudicatum (giudicato) e al comparabile(paragonabi le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in base a criteri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il signumcorrisponde a una categoria di fenomeni abbastan za particolare: "Segno èciò che cade sotto qualcuno dei no stri sensi e indica (significar) unqualcosa che sembra deri vato dal fatto stesso, e che può essere verificatoprima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisognodi una prova e di una conferma più sicura" (De inv., I, 48). Ne sonoesempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga","la poivere". Si tratta, come si vede, degli indizi, intesi comefenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo lontari.Qui sono presentati in una forma non proposizio nale; ma niente vieta chevengano sviluppati in proposizio ni, come dimostra il caso deli'indizio"polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramentereduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo lanota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzarela classificazione propo sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2"Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera dellatarda matu rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materiasemiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattatogiovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella deimodelli greci e viene completa mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi(qui chiamati 212 9. RETORICA LATINA argumentatio necessaria probsbilis (·quod fero solet fioriélut quod in opi nione positum est") es.: .. "pallore'",..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione diun'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar acdiscuntur nec fieri nec probari pos sunt"l es . : ·se ha partorito, èstata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam significat, quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"',Sa è madre, ama suo fi\]lio --- ---- l "'·-- signum erodibile indicBtLm comparabile / -- -- Infineviene accettata la distinzione aristotelica tra "luo ghi estrinseci"(corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghiintrinseci'' (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), cheveniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata neiTopica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovinoposto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": glioracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici,interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di unaconcezione orda lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tuttavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para digma divinatorioall'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sonocompletamente laicizzati. 9.2 CICERONE 213 Né questo è un caso isolato inambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L,orazioneper /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quelche era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questocaso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono daglidei" (V, 81; Lanza 1979: l05). 9.2.2. 1 Il verisimile e il segnocaratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrinseci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau sacongetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: iverisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni caratteristici dellecose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lopiù" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline alpiacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri sponde ali'eik6saristotelico, di cui ha il carattere probabili stico e generalizzante. La nntapropria rei viene definita come "una prova che non si verifica maidirettamente e indica una cosa certa, co me il fumo indica il fuoco"(Part. or., 34). Si tratta, evi dentemente, del segno necessario, come èdimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman daalla nozione di fdion smeion (segno proprio). Per Ari stotele il segno proprioera la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fattoche i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b,11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat tere dinecessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste lacosa a cui rimanda (Philod., De si gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi difatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali 214 9.RETORICA LATINA vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue,grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor socontraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione, leconfidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive,rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non definisce QUf)tO tipo di segni, senon dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem),caratte ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cuiricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor nificio (Rhet. adHer., II,8). I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano più in relazionecon i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile)(Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonomanon avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi che degliultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate goria dei semefaaristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passodelle Partitiones oratoriae (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, ivestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia,cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definivaappunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannavai smefa da un punto di vista episte mologico per la loro insicurezza, Ciceroneè pronto a rico noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero(coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazionecicero niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulladivinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina zione.Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare allaconoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondoluogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminentemente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o trt•)(·sensu percipi potest•) es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenzainclinazione alla libidine · 9.2 CICERONE 215 coniecturs ---- l -----verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum (•quod numquam alrter frtcertumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alladicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu rali) e prove extratecnichecorrisponde la distinzione tra di vinazione artificiale (basatasull'interpretazione e sulla con gettura) e divinazione naturale. Infine, comeCicerone pole micamente rileva (De div., II, 55), i segni della divinazionesono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo sta, proprio comeavviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fattodue interpretazioni di verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza imetodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme neiconfronti della di vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo diintellet tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della filosofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora neamente impegnato inpolitica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione esuperstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religioneappartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamentidello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato stso; lasuperstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri cheinquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta,anche per ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suoimpegno di gestione della repubblica. 216 9. RETORICA LATINA Ciceroneaffronta questi argomenti nel De natura deo rum, nel De fato e, soprattutto,nel De divinatione. Que st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tral'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosisulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Leosservazioni di Cicerone contro la teoria soste nuta da Quinto sonoparticolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica aun meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a unaconcezione generale del segno. 9.2.3. 1 La divinazione "artificiale"Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon te dell'informazionee come emittenti nei processi di comu nicazione divinatoria, dei quali gliuomini sono i destinata ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi didivinazione, il pro cesso comunicativo si struttura in modo differente. Ilprimo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazionedei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale didecriptazione, demandata a specia listi, ciascuno esperto in un settore:extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum(inter preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volodegli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in terpretes sortium(interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte acaso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità simaterializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'arspermetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basanole interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica,secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau seed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamentoprimo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén), non è conoscibile perintero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della soladivinità (De div., I, 125-127). 9.2 CICERONE 217 Tuttavia viene previstal'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con losrotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripetesempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini,attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli eventi siripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono peròarrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notascernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle connessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul la iteratività.Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventifuturi codice basato sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione"naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definitonaturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, maderivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraversola mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme dipreveggenza derivan ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes equelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questosecondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri patetiche (Dicearco eCratippo vengono esplicitamente no minati, De div., II, 100), secondo le qualil'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spintada una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo,partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è inquesto caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parzialeidentificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:RETORICALATINA emittente divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori Leobiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi nazione si basano suargomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la qualeCicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente caratteresemiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se gni non sianoveramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedentirispetto a dei conse guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quellipresunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecnichescientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnicaprevisionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi icasi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentrele pratiche pro fessionali adottano una vera e propria metodologia checomporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) econgettura (coniectura)" (De div., II, 14), le prati che divinatorie sibasano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembrache possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il casofarà accade re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, indefinitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sullafrequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ippocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes sionale dalladivinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poisi sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel casodella divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata dellecoincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). QUINTILIANOMa ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vistasemiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spessodiametralmente opposte (De div.); (ii) si verificano frequentemente fenomeni difalsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connessoa quello individuato come segno prodigio so, ma a ben diverse cause naturali(De div.); l'interpretazione avviene aposteriori e così toglie ogni ne cessità di rapporto tra antecedente econseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivatada ra gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div.,II, 74). 9.3 Quintiliano All'epoca di Quintiliano, la trasformazione del regimepolitico dalla repubblica all'impero aveva fatto si che la re torica divenisseinutilizzabile come mezzo di agitazione po litica e sociale: per questo, dastrumento pragmatico quale l'aveva essenzialmente concepita Cicerone, eradivenuta so prattutto materia teorica. In questo quadro Quintiliano è coluiche espone i principi dell'arte retorica nella maniera migliore e più completadi chiunque altro e contemporanea mente registra il processo dicadaverizzazione che l'elo quenza stava subendo. Nella sua Institutio oratoriatratta un programma completo del ciclo educativo del perfetto orato re, in cuila competenza semiotica ha una posizione di rilie vo. Gran parte deglielementi che compongono l'opera di Quintiliano hanno indiscutibilmente unapertinenza semio tica; ma nella lnstitutio è presente anche una sezione specificamente dedicata ai segni, come era ormai consuetudine per ogni trattato diretorica. Vaie anche nel caso di Quintiliano la considerazione fatta aproposito degli altri trattatisti di retorica, e cioè che la ri flessione sulsegno è saldamente inquadrata all'interno del l'ottica giuridica con cui vienetrattata la materia. I segni in fatti fanno parte delle probationesartificiales, cioè delleRETORICA LA... INA prove che l'abilità (ars)dell'oratore saprà trovare per far assolvere o condannare un imputato. D'altrocanto, le pro bationes inartificiales sono quegli elementi che derivanodali'esterno del processo e vengono consegnati ali'oratore insieme al suodossier. Il seguente schema ne mostra l'inventario completo: 9.3. 1Orientamento della retorica di Quintiliano probstiones (prove) i nartificial tJ s praejudicia (pregiudizi) rumores (voce pubblica) tormenta,quaesita ( inter rogatorio sotto tortura) tabulae (scritture, atti, contrattiecc.) jusjursndum (giuramento) testimonia (testimonianze) a rt i f i c i s l es formale Va pure detto che la retorica di Quintiliano, accanto a unorientamento giuridico, ne presenta anche uno fortemente teorico, che tende ainquadrare la materia il più possibile in termini logici e formali (anche se èstato rilevato che Quinti liano non si trova del tutto a suo agio in questocampo) (Kennedy). Così tutti e tre i tipi di prove tecniche (signa, argumenta,exempla) vengono inquadrati in un reticolo di relazioni lo giche vicine algenere deli'implicazione, ovvero del rappor to "se p, allora q".Infatti il meccanismo di avvaloramento signum (segno, prova di fatto)argumentum (prova di ragionamento) exemplum (esempio) edepistemologicoQUINTlIANO 221 delle prove deve assumere una forma logicache coincide con uno dei seguenti quattro tipi: (i) il concludere dalPesse reuna cosa che un'altra non sia (p-+ - q) ("È giorno, dun que non ènotte"); (ii) il concludere dall'essere una cosa che un,altra sia (p-+q)(''Il sole splende sulla terra, dunque è giorno"); (iii) il concludere dalnon essere qualcosa che qualcos'altro sia ( -p-+q) (''Non è notte, quindi ègiorno"); (iv) il concludere dal non essere qualcosa che un'altra sia (-p-+ - q) ("Non è un essere razionale, quindi non è un uomo") (lnst.or., V, 8, 7). Analizzati ali'interno di questa griglia, i segni tendono aconfigurarsi come degli antecedenti rispetto a dei conse guenti; nozione,questa, che Quintiliano non ha bisogno nemmeno di rendere esplicita, in quantoattinta direttamen te dalla tradizione della retorica e della logica greca.Dallo stesso ambito, del resto, verranno attinti anche molti esem pi, tra cuil'ormai celebre "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo",che, più o meno variato, ritorna in tutti i trattatisti del segno. ComeAristotele, a cui fa costante riferimento, Quintilia no è orientato versoun'ottica epistemologica, piuttosto che di calcolo logico: ciò che lo interessaè soprattutto la possi bilità di acquisire una conoscenza a partire da unsegno. Scrive Eco (1984: 38) a questo proposito: "Aristotele, interessato ad argomentazioni che in qualche modo rendessero ragione dei legami dinecessità che reggono i fatti, poneva distinzioni di forza epistemologica trasegni necessari e se gni deboli. Gli stoici, interessati a puri meccanismiformali dell'inferenza, evitano il problema. Sarà Quintiliano, inte ressatoalle reazioni di un'udienza forense, a cercare di giu stificare, secondo unagerarchia di validità epistemologica, ogni tipo di segno che in qualche misurarisulti 'persua sivo' ". A proposito del carattere persuasivo dei signa,Quintilia no fa una precisazione preliminare: i signa hanno molto in comunecon le prove extratecniche, in quanto, a esempio, una veste insanguinata, legrida o i livori non vengono esco gitati dali'arte deli'oratore, ma glivengono consegnati nel dossier. Inoltre, se esi rimandano a un significatoinequi-RETORICA LATINA vocabile, scompare la possibilità diargomentazione; se, in vece, essi sono ambigui, non sono delle prove manecessita no essi stessi di prove (lnst. or.). Per questa ragione i segnidevono essere divisi innanzitut to in necessari e non necessari. I segninecessari l signa necessaria sono quelli che, come dice Quintiliano,"aliter se habere non possunt" (lnst. or., V, 9, 3), cioè sono degliantecedenti che rimandano in maniera necessaria a dei conseguenti, e vengonomessi in corrispondenza con i tekmria della tradizione greca. Si tratta disegni insolubili (alyta smefa), ovvero legati inscindibilmente ai conseguenti. L'informazione che se ne ricava è sicura e incontroverti bile . La furiaclassificatoria, tipica del mondo antico, porta inoltre Quintiliano asottoclassificare questo tipo di segni in base al fatto che i loro conseguentisiano individuabili nel tempo passato ("Se una donna ha partorito, si èunita con un uomo"), nel presente (''Se soffia un forte vento sul ma re,si formano su di esso le onde"), nel futuro ("Se uno è stato feritoal cuore, morirà") (lnst. or., V, 9, 5). Questi segni vengono, poi,sottoposti anche a un altro ti po di classificazione basata sul criterio direversibilità dei termini: ci sono relazioni segniche, come "Se vive,respira", che mantengono la relazione di necessità anche invertendoantecedente e conseguente: "Se respira, allora vive"; ma vi sonoanche relazioni segniche in cui la reversibilità non è possibile, come in"Se cammina, si muove", "Se ha partori to, si è unita con unuomo", "Se è ferito al cuore, morirà", "Se si è raccolta lamesse, si è seminato", "Se è stato ferito dalla spada, ha unacicatrice" (lnst. or., V, 9, 7). Quintilia no sembra sollevare qui ilproblema della "conversazione" (antistréphein), che per Aristotele(An. Pr., 70 b, 32 e sgg.) è condizione del segno proprio, cioèdell'"esserci un unico segno di un'unica cosa". QUINTllANO9.3.3 I segni non necessari 223 I signa non necessaria, che Quintiliano mettein corri spondenza con gli eik6ta greci, sono le verisimiglianze, cioè queifatti su cui vi è comunemente accordo, quelli che, se condo Eco (1984: 40),potendo essere altrettanto convincen ti di un segno necessario, dipendono daicodici e dalle sce neggiature che una certa comunità registra come"buone". Quintiliano ne distingue tre tipi fondamentali, in base all'intensità del legame che si stabilisce fra antecedente e con seguente:firmissimum (sicurissimo), corrispondente alla norma statistica, come "Sesono genitori, amano i propri fi gli"; propensius (molto probabile), come"Se uno sta bene in salute, allora giungerà fino al giornosuccessivo"; non re pugnans (non contraddittorio), cioè non contrastantecon il senso comune, come "Se c'è stato un furto dentro la casa, allora èstato fatto da chi era in casa". Nessuna di queste inferenze presenta ungrado di certezza accettabile. Ma nell'ottica del discorso persuasivo esse possono essere molto efficaci, soprattutto nel caso che si pre sentino in grannumero avvalorandosi a vicenda (lnst. or., V, 9, 8), poiché ricostruiscono unatessitura isomorfa a quella dell'opinione pubblica. 9.3.4 Gli indizi materialiNel contesto dei signa non necessaria (lnst. or.) Quintiliano parla del signumsenza altra determinazione (messo in corrispondenza sia con indicium evestigium, sia con il greco smeion). Non si capisce bene se esso vengaconsiderato una categoria autonoma rispetto alle due prece denti (segninecessari e verisimiglianze), come del resto av veniva nella fontearistotelica, o se Quintiliano consideri analoghi eik6ta e smeia. Nella secondaipotesi si potrebbe parlare di un vero e proprio errore di Quintiliano, come faCousin (1936). Tuttavia il fatto che consideri un sinonimo l'espressione vestigiume ricorra all'esempio del sangue che permette di scoprire l'uccisione, spinge astabilire un parallelo con i vestigia facti delle Partitiones oratoriae (39)cice roniane, dove compariva lo stesso esempio. Si tratterebbe, in definitiva,della abituale categoria degli indizi materiali (lividi., enfiagioni, feriteecc.) (lnst. or., V, 9, I l) percepibili sensorialmente. Quintiliano lidefinisce come quelli "attraverso cui si comprende un'altra cosa, (perquod alia res inte/ligitur, V, 9, 9), sottolineando che con essi si stabilisceun rapporto di significazione, che parte da un sensibile per arrivare aqualcos'altro. Nella precedente categoria (quella dci signa non necessa ria ==eik6ta) venivano classificati fatti o proprictfi che forni vanoun'informazione non sicura, perché non convalidabile dal punto di vistasciePtifico (se uno sta bene oggi, non è scient((ica1nente sicuro che arriveràa domani); nella cate goria dei signa sono classificati fatti che sonoinsicuri per ché ambigui (una macchia di sangue su una veste può ri mandaretanto bene a un omicidio, come a una epistassi o allo schizzare del sangue diuna vitti1na durante un sacrifi cio). La classificazione, allora, dovrebbeessere così formu lata: necessaria relazione necessaria tra a'ltecadente econs&guento es.: "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo· l------- signa non necssaria verisimiglianze non conva!idabili scientificamente es.: "Se uno sta bene in salute, giungerà fino al g iornosuccessivo" signa indizi materiali ambigui es.: ..Se macchia di sangue,allora omi cidio, o epistassi, o sacrificio· Questo spiega anche come maiQuintiliano chiami signa non necessaria dei casi chiari di verisimiglianza (enon si gna), come gli esempi che egli riprende da Ermagora e che 9.3QUINTILIANO 225 critica: "Tra le cose che sono segni, ma non necessari, Ermagora ritiene questo, che non sia vergine Atalanta perché vaga nei boschi coni giovani" (lnst. or., V, 9, 12). Quinti liano ha una certa riluttanza aconsiderare questo e altri esempi di verisimiglianze molto deboli come elementipro banti in un processo: "Ma se accoglieremo questo come se gno, temoche si ritengano come segni tutte le conseguenze che si traggono da unfatto". Tuttavia, egli aggiunge, "essi si trattano allo stesso mododei segni" (ibidem). Quella che viene descritta è la condizione tipicadella semiotica giuridi ca, in perenne dialettica tra la forza oggettivamenteproba toria degli argomenti e l'abilità dell'avvocato di fare un usopersuasivo anche di segni debolissimi. Naturalmente, in un'ottica semioticagenerale, non c'è al cun problema a considerare come segni "tutte leconseguen ze che si traggono da un fatto". Le proprietà che l'enciclopedia registra a proposito di un certo oggetto o fatto sono tutte, a buondiritto, dei segni di questo oggetto o di questo fatto. Saranno poi lerelazioni circostanziali e contestuali a garantire le differenze nella forzaprobatoria: una pis.tola può essere segno di un delitto, ma diversi sono i casiin cui essa venga rinvenuta in casa di un presunto terrorista, di unpoliziotto, di un armaiolo (Eco 1984: 39). E forse questo era stato oscuramenteintuito dalla retori ca antica, già da Aristotele, ma ancor più daQuintiliano, i quali, da una parte ponevano una distinzione netta tra "certezza scientifica" e "certezza legata ai codici socio-culturali", ma, dall'altra, utilizzavano entrambe, caso mai racco mandando, nelsecondo caso, l'assunzione congiunta di più prove che si rafforzassero avicenda. AGOSTINO 10.0 Unificazione delle teorie del segno e del lin guaggioCon Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completasaldatura fra la teoria del segno e quella del linguaggio. Per trovare unaaltrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso dilin guistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grandeimportanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran partedal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia iltrattato giovanile De dialectica: in esso sono riassunti molti dei principalitemi stoici in materia semiotica, tra cui il princi pio che la conoscenza è,in linea generale, conoscenza attra verso segni (Simone). Ma vari elementidifferenziano l'impostazione agostinia na da quella stoica. In primo luogo,infatti, gli stoici, racco gliendo e formalizzando una lunga tradizione diorigine so prattutto medica e mantica, consideravano propriamente segni(smeia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il fuoco e lacicatrice che rinvia a una precedente feri ta. Agostino, invece, per primonell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni non verbalicome i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc., ma anche leespressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo in gene rale segno tutto ciòche significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le parole", DeMagistro).STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227 In secondo luogo, gli stoiciavevano individuato nell'e nunciato il punto di congiunzione tra ilsignificante (semaf non) e il significato (semain6menon), elemento che comunque non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve ce, individua nellasingola espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"), l'elementoin cui significante e signifi cato si fondono, e considera questa fusione unsegno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda to chele parole [verba] non sono nient'altro che segni [si gna] e che non può esseresegno ciò che non significhi [si gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un versodi cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole parole", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato unateoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (illekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione.Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un caratterepsicologistico (i si gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale(passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov; Markus). 10.1 n triangolosemiotico e la stratificazione ter minologie& È del resto con l'analisidella nozione stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica edè con questa nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioniterminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione chepossiamo mettere in corrispondenza con i moderni con cetti di significato,significante e referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (oil sonus) della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando laparola viene pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1(corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizio ne linguistica, al/ekt6n stoico), definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è inesso contenuto. In terzo luo- 228 10. AGOSTINO go, infine, distingue lares, che viene definita come un og getto qualsiasi, percepibile con i sensi, ocon l'intelletto, op pure che sfugge alla percezione (De dialect., cap. V). Ècosì possibile ricostruire il triangolo semiotico nei se guenti termini:dicibile vox articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anchedal punto di vista del loro potere di designazione, oltre che da quello dellasignifi cazione. Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi sioneterminologica in corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referentedi una parola: (i) può infatti avve nire che la parola rimandi a se stessacome proprio referente (fatto che si verifica nel caso della citazione, ovverodella designazione metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii)oppure può avvenire che la parola, intesa co me combinazione del significantee del significato, abbia come referente una cosa diversa da se stessa (comeavviene con l'uso denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome didictio.3 È precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva to Baratin (198 1 ), costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio equella del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozionestoica di léxis (si gnificante articolato, ma senza essere necessariamente portatore di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui sticiantichi.RELAZIONE D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzionedi léxis; ma non ha lo stesso significa to che le attribuivano gli stoici,bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare DionisioTrace, che definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciatocostruito" (Grammatici graeci), a metà strada tra le lettere e le sillabe,da una parte, e l'enunciato, dall'al tra. Questa sua particolare posizione fasì che la léxis venga considerata come portatrice di un significato (incontrappo sizione alle lettere e alle sillabe che non lo posseggono), maincompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen so completo). Lospostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e nunciato alla centralitàalessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une dellefunzioni prima spet tanti solo all'enunciato. In particolare, quella di essereun segno.4 Agostino definisce decisamente la parola come un segno al cap. V delDe dialectica: "La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciatodal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, ilsegno viene definito come "ciò che presentandosi in quanto tale allapercezione sensi bile, presenta anche qualche cosa alla percezione intellettuale (animus)" (ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di implicazione Ponendo l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostinoritrova l'opposizione platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, inquanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad avere una concezione semioticadel linguag gio; per Platone, infatti, il nome era d/Oma, svelamento diqualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero dell'es senza della cosa.Ma mentre nel Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa siaun rapporto iconico (pe raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4),in Agostino tale rapporto - configura subito come una rela zione disignificazione: il nomt "significa" una cosa (nozio- 230 10.AGOSTINO ne equivalente a quella di "essere segno di" una cosa). Nelmomento in cui Agostino propone la sua concezione della parola come segno, siproducono alcune modificazio ni teoriche, conseguenti allo spostamento diprospettiva. In effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agostino il rapporto tra le espressioni linguistiche e i loro conte nuti era statoconcepito come una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era dicarattere epistemologico e ri guardava la possibilità di lavorare direttamentesul linguag gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il linguaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta zione del reale (perquanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cuiesso rin via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cuiil primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare allaconoscenza del secondo. Eco ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapportitra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustra ti dauno schema in cui il livello implicazionale si regge su quelloequazionale: onIE=>c m_E:! cdove E indica "espressione", C "contenuto", ::J"implica" e == "è equivalente a". In Agostinol'unificazione tra le due prospettive avviene a livello della singola parola esenza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso mai la dic tio, che èrappresentabile con il livello i, è costituita dali'u nione, o prodottologico, di una vox (significante) e di un dicibile (significato), unità chediviene segno di qualcos'al tro (livello ii). 10.3 UNmCAZIONEDELLE PROSPETI Conseguenze dell'unificazione delle prospet tive La primaconseguenza dell'unificazione agostiniana, co me sottolinea Eco (1984: 33), èche la lingua comincia a tro varsi a disagio all'interno del quadroimplicativo. Essa in fatti costituisce un sistema troppo forte e troppostrutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata per descrivererapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio,nelle classificazioni della retorica greca e roma na. Infatti l'implicazionesemiotica era aperta alla possibili tà di percorrere l'intero continuum deirapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del restoAgostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere peculiarerispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere un"sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun que altrosistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza dellalingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, eche essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno linguistico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec cellenza. Maquando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il puntoculminante, si è ormai venuto a per dere il carattere implicativo, e il segnolinguistico si è cri stallizzato nella forma degradata del modellodizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepitocome situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importanteconseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazionedella dia lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e sgg.). Fintanto chéil rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce pito nei terminidell'equivalenza, il primo non appariva di rettamente responsabile dellaconoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere disegno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembraimplicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co se di cui essesono segno. Tutta la grande tradizione serniotica, del resto, convergeva nelconsiderare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, allaconoscen za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino èallora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguaggio fornisca o meno, di per se stesso, informazioni sulle co se che significa.Linguaggio e informazione Agostino affronta la questione del carattereinformativo dei segni linguistici nel De Magistro. L'opera, in forma di dialogotra Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzionidel linguaggio: in· segnare (docere) e richiamare alla memoria (commemorare),sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con temporaneamenteinformative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale lapresenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La primaparte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmentequella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sonole parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose,senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella secondaparte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamentela sua prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un insieme di segni, egli mostra che si possono presentare due ca si: il primo casoè quello in cui il locutore produce un se gno che si riferisce a una cosasconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di perse stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato daAgostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota,non permetterà di comprendere il ri ferimento ai "copricapr', che essaeffettua; il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che sirife risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmenoCOMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE in questa evenienza si potrà parlare di unvero e proprio processo di conoscenza (De Mag.). Alla fine Agostino concludeinvertendo il rapporto cono scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che ènecessario co noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter direche una parola ne è un segno. È la conoscenza della co sa che informa sullapresenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramenteplatonica, e a es sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugualmente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormentedella conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, ènecessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag.). Ma se perle cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci permettono diarrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle cose puramenteintelligibi li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino individua unasoluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla rive lazioneche viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga ranzia tantodeli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche con questasoluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio èlasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segnorammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferimento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo, cispingono a cercare (De Mag.). Espressione e comunicazione del verbo inte rioreIn Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire daun'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nelDe Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbointeriore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani mo. Ineffetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parolao di un segno sensibile, per poter 234 10. AGOSTINO provocare nell'animadell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentreparlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la naturaprelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna dellelingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan do ha bisogno diessere espresso e portato alla comprensio ne dei destinatari. Il verbointeriore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce unaconoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso èdeterminato dalle im pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza.Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondoè il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrionidel simbolismo univer sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo.Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia rezza è il caratterecomunicativo della semiologia agostinia na, che è individuabile anche nelloschema riassuntivo pro posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenzapotenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriorepensato proferito sa pere 10.6 Le classificazioni È comunqueinnegabile, come sottolinea Simone (1969: 96 n. 2), che se la semiologiaagostiniana presenta un aspet to "teologico", connesso al problemadel verbo divino, tut tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspetto laico, che prende in considerazione i caratteri che il segno ha di per sestesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni,alle quali Agostino si dedica soprattutto nel trattato De doctrinaChristiana, l . 2. 3. 4. 5. secondo il modo di trasmissione: vista/uditosecondo l'origine e l'uso: segni naturali/segni intenzio nali secondo lostatuto sociale: segni naturali/segni conven zionali secondo la natura delrapporto simbolico: proprio/tra slato secondo la natura del designato:segno/cosa LE CLASSffiCAZIONI 235 con aggiunte più tarde), ma che ritorna anchein varie altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e analizza cinquetipi di classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di se gno :Todorov lamenta il fatto che Agostino giustappone quel lo che in realtàavrebbe potuto articolare, in quanto gene ralmente queste opposizioni sono tradi loro irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché (soprattutto nel DeMagistro) c'è un tentativo di dare una classificazione combinata di alcuniaspetti del segno. A questo proposito è possibile ricostruire tale classificazione ordinandola secondo uno schema arboriforme (Ber nardelli 1987), secondoil modello dell'albero di Porfirio (Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236. La classificazionedi Agostino non è totalmente a inclu sione, come tende a essere quellaporfiriana; e si può osser vare che se venissero sviluppati i ramicollaterali, si vedreb bero comparire, una seconda volta, alcune categorieelenca te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a mettereisulla strada di una classificazione inclusiva da ge nere a specie quandodefinisce la relazione tra nome e paro la come "la stessa che c'è tracavallo e animale" e includen do la categoria delle parole in quella piùampia dei segni (DeMag., 4.9). genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME --segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus, Roma,fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata)differenze ( s i g n i fi c s b i l i s l non significanti nome in senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, trombamilitare ecc.) altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo,quonism ecc.) segno udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) resintelligibili ( virtus) SIGNIFICANTE delle .. AES" LECLASSIFICAZIONI 237 10.6. 1 "Res" e "signa" La primarelazione interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondosostanziahnente venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepiscetale distinzione co me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infattianche i segni sono delle res e l'uomo è libero di as sumere come segno una resche fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessanozione di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone1969: 105): "In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti chenon sono impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i legno, lapietra, il bestiame" (De doctr. Christ., I, Il, 2). Ma, immediatamentedopo, cosciente del la pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: "Manon quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare laloro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò lasua testa (Gen., XXVIII, I l); né quella pecora che Abramo immolò al posto disuo figlio (id., XXII, 13)". L'articolazione che esiste tra segni e cose èanaloga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (Dedoctr. Christ., l, IV, 4). Le cose di cui si usa sono tran sitive, come isegni, che sono strumenti per giungere a qual cos'altro; le cose di cui sigode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se stesse(Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino propone anche un nome per lecose che non sono usate come segni, ma sono signifi cate attraverso segni:significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultimepossano essere assun te con funzione significante. Dopo aver così articolato irapporti tra segni e cose, Ago stino propone questa definizione di segno nelDe doctrina Christiana. Il segno è una cosa (res) che, al di làdell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente(in cogitationem) qualcos'altro". 238 10. AGOSTINO 10.6.2 Segniverbali e non verbali Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostruire la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomiaverbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi diAgostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del Dedoctrina Christiana (Il, IV, 4) in cui, a conclusione di un'analisi dei varitipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se gni, di cuiho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole;ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso queisegni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico dellinguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e talecarattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni.I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce zione Una classificazioneincrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale dipercezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uominisi servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dallavista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al tri sensi" (Dedoctr. Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito cisono quel li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi cali,come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessidalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con l'udito,in una posizio ne dominante, anche le parole: "Le parole, in effetti,hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione deipensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester nare" (Dedoctr.Christ.). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i cenni dellatesta, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban diere e le insegnemilitari, le lettere.LE CLASSIFICAZIONI Infine vengono presi inconsiderazione i segni che riguar dano altri sensi, come l'odorato (l'odoredell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'eucaristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri sto e fuguarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data"Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostroalbero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signanaturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, nédesiderio di si gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi, comeil fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ.). Ne sono esempi anche letracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano,inintenzionalmente, irrita zione o gioia . Dopo averli definiti, Agostinodichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormenteinteressato ai signa data, in quan to a questa categoria appartengono anche isegni della Sa cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli chetutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quantopossono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono epensano" (De doctr. Christ.). Gli esempi sono soprattutto i segnilinguistici umani (le pa role) . Ma Agostino, curiosamente, include in questaclasse an che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno quando ilgallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo crea unamarcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli animalitra i segni natu rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva"naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sonoi "segni convenzionali", come Markus aveva suggerito (e come delresto era sta to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J. Farges).I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367; DarrelJackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na 240 10. AGOSTINO ben precisaintenzione comunicativa (De doctr. Christ.). È del resto il carattereintenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data quelliemessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di que staintenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov (1977: 46),porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologicogenerale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, omeglio, creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messiin corrisponden za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica diun significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti comecose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici che stoici. 10.7 Semiosiillimitata a modello "istruzionale" Uno dei punti fondamentali dellasemiologia agostiniana, infine, è costituito dalla ricerca dei modi in cui sipuò stabi lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprattutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce zione semantica chesi avvicina al tipo della "semiosi illimi tata" di Peirce. Come harilevato anche Markus (1957: 66), il significato di un segno, per Agostino, puòessere stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo deisinonimi; attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti;tramite astensione (De Mag., III e VII). Questa concezione del significato sirende possibile sol tanto nel momento in cui viene abbandonato lo schemaequazionale del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionaledel segno. La teoria semiologica ago stiniana si apre così, come ha messo inevidenza Eco, verso un modello "istruzionale" della descrizionesemantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino conduceinsieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta superis placeturbe relinqui" (De Mag.). Esso viene definito come composto di otto segni,dei quali, appunto si cerca il significato. SEMIOSI ILLIMITATA L'indaginecomincia da l si l, di cui si riconosce che espri me un significato di"dubbio", dopo aver tuttavia sottoli neato che non si è trovato unaltro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Sipassa, poi, a lni hi/1, il cui significato viene individuato come!'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo unacosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato ilsignificato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa rebbeequivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione eargomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma habisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex lsignifica "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, però, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodificacontestuale: il termine può esprimere separa zione rispetto a qualcosa che nonesiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel versovirgiliano; oppu re il termine può esprimere separazione da qualcosa che èancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so no alcuni negoziantiprovenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco(una se rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzionicontestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di versi (matutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984: 34). Lastruttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contestix, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comunitanto al modello istruzio nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva,è proprio grazie ali'assunzione generalizza ta del modello implicazionale chela semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizionisemiolingui stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia comepotente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricercaattuale in campo semantico (modello istruzionale) . NOTE 1 Anche se non èancora possibile stabilire se e in quale misura la cultura greca sia debitricea quella mesopotamica della nozione di segno, secondo lo schema implicativo, ingenerale, è possibile, però, rilevare una connes sione storicamentedocumentabile tra le due culture in ambiti di uso parti colare del segno. Aesempio nelPambito della medicina viene fatto ricorso allo schema del segnoimplicativo ("se..., allora...") nella presentazione dei complessieziologici tanto nei trattati mesopotamici quanto in quelli greci, ambito incui si sa che ci sono stati contatti positivi tra le due culture (cfr. DiBenedetto-Lami 1983: I l). 2 Barthes e Marty (1980: 71) collocano nel 3500 a.C.la nascita dei primi germi della scrittura in Mesopotamia. Alcuni, come Cardona(1981: 70), fanno risalire al 3500 l'invenzione degli stessi caratteri cuneiformi.Bottero (1974: tr. it. 155) posticipa molto la data, sostenendo che "lascrittura cu neiforme è stata inventata nella bassa Mesopotamia verso il 2850avanti la nostra era"; cfr. anche Barthes e Mauriès (1981: 602). 3 Si vedail sumerogramma n. 73 del manuale di Labat (1948: 69). È cu rioso notare comesi registri qui un gioco simile a quello omografico greco tra bios(''vita") e bios (''arco"), presente nel frammento 48 (D-K) di Eraclito: "L'arco (bios) ha dunque per nome vita (bios) e per operamorte". 4 In ciascun esempio dividiamo la protasi dali'apodosi con untrattino, allo scopo di far meglio risaltare la distinzione. Per questi esempi,come per la maggioranza dei testi mesopotamici riportati nel corso di questo capitolo, siamo debitori al ricchissimo e ben documentato saggio di Bottero(1974). Qui, una volta per tutte, rimandiamo a esso per l'indicazione dellefonti primarie e delle edizioni critiche. Anche per gran parte delle notiziecontenute in questo capitolo si fa riferimento a quel saggio. Si potevano contare oltre cento oracoli pertavoletta, e alcune raccolte potevano arrivare a un numero di circa ventitavolette. Infatti da un'analisi del vocabolario dell'azione oracolare compiutada Crahay risulta che alcuni vocabolipresentano il testo della rivelazione come un segno, molto spesso un segnoanticipatorio, in quanto orientano l'azione verso l'avvenire. Tra questi siricordino i due verbi smafno e prosmafnO (cioè "informare in anticipo consegni") e l'ag gettivo di origine verbale pr6phanton che esprime l'ideadi un'informazio ne prima del fatto. 2 Ciò è tanto più evidente se si opera unconfronto con civiltà come quella mesopotamica che mettevano la divinazione alcentro della vita pubblica (Vernant 1974) e ne estendevano il modello formaleanche a tutti gli altri ambiti culturali (a esempio, alla medicina e allagiurisprudenza). 3 Cfr . anche //., I I I, 277 . Per i passi citati sonoutilizzate, nel corso del l'intero testo, traduzioni correnti, talvoltaparzialmente modificate. 4 Traduco dal testo in inglese di Romeo (1976: 86):"The lord, who has the oracle in Delphi, l neither discloses nor hides histhought, l but indica tes it through signs". s Infatti la divinazione èindissolubilmente legata ad Apollo, e Apollo è indissolubilmente legato allasapienza. La sapienza del dio è totale e simul tanea e non ha bisogno diessere frammentata in parole. Tuttavia agli uo mini egli concede, invece, solola frammentazione della parola oracolare, oscura e incomprensibile, in quantoin essa la sapienza divina appare come follia dell'uomo invasato. La follia,del resto, che Platone ritiene essere l'essenza stessa della mantica,riconnettendo nel Fedro (244 a-c) l'etimolo gia di mantiké a maniké("arte folle"), non è altro che la sapienza vista dal l'esterno. 6Ma si veda anche Amandry per la presenza di possibili procedi menti anche dicleromanzia (divinazione attraverso il lancio delle sorti) presso l'oracolo diDelfi. 7 Talvolta certi fenomeni naturali potevano perdere il carattere di casualità ed essere sottoposti a un processo di istituzionalizzazione, come avveniva nel caso dell'oracolo di Dodona, dove si interpretavano i segni datidallo stormire del vento tra le fronde di una quercia sacra a Zeus (come pure,probabilmente, il tubare e il volo dei piccioni sacri e iJ mormorio di unafonte, gli echi di un gong). Per gli oracoli in generale, si vedano Ferri(1916) e Parke (1967); per una disamina generale e approfondita dei vari ti pidi divinazione i testi basilari sono Bouché-Leclercq ( 1 879-82) e Halliday(1913). 8 "Lobo", "vescichette" e "porte" erano itermini tecnici designanti par ti che gli specialisti di questo tipo didivinazione prendevano come segni da cui elaborare interpretazioni; cfr.Arist., Historia anima/ium, l, 17, 496 b 32· Eurip., E/ectra, 826-828. 9 Leforme della consultazione oracolare ci sono note attraverso un cer to numerodi iscrizioni epigrafiche, provenienti principalmente da Delfi e da Dodona;cfr. Parke-Wormell e Fontenrose. Quest'ultima categoria fa ovvio riferimentoalla nozione di enigma, come era presente nella cultura greca: esso comportava,come vedremo NOTE 245 meglio più avanti, sia un aspetto di sfida (daparte del dio all'uomo), sia la presenza nascosta di un secondo senso, sia,infine, l'idea che il primo senso doveva essere immediatamente scontato. Iltermine "modo", poi, pone l'accento sul fatto che non vi è presenzadi un unico meccanismo, ma di una galassia di procedimenti espressivi moltoeterogenei, che vanno dalla banale omonimia, alla metafora (metasememi), alloscambio di prospetti va (metalogismi) ecc. L'espressione "modo"enigmatico fa naturalmente riferimento alla categoria di modo simbolicoelaborata da Eco. Pur troppo non è qui possibile usare direttamente quellacategoria perché essa, pur avendo molti punti in comune con questa che quiproponiamo, se ne discosta per la presenza di alcuni caratteri specifici(rapporto stretto tra si gnificante e significato, nebulosa di sensi multiplitendenzialmente coesi stenti ecc.) che qui non si ritrovano. È un peccato,perché ci sarebbe sem brato appropriato definire "simbolico" il mododi parlare del dio. 1 1 Il meccanismo retorico dell'enallage ricorda ilmeccanismo oracolare usato dalla Sibilla cumana, nella descrizione di Virgilio(Aen., VI): la sa cerdotessa di Apollo scrive le varie parti del responso sudelle foglie, se guendo l'ordine sintagmatico del linguaggio umano; poi lasciaquelle fo glie al vento, che scompiglia l'ordine precedente, creandone unaltro, in cui i riferimenti incrociati fra i ternlini rendono oscuro il testo edifficile l'interpretazione. 12 L'ambiguità del dio è simbolizzata dai dueattributi antitetici della li ra e dell'arco: la lira rappresenta la facciabenigna ed esaltante (quella che compare nell'interpretazione di Nietzsche);l'arco, quella maligna e deva stante. Del resto l'etimologia stessa del suonome suggerisce il significato di "colui che distrugge totalmente",ed è sotto questo aspetto che Apollo si presenta all'inizio dell'Iliade, dovele sue frecce portano lutto e distruzione nel campo degli Achei (Colli). Peruna nozione complessa e articolata della nozione di "verità" nelmondo antico, si veda Detienne. In particolare, sulla concezione di a/theiacome "sintesi del passato, del presente e del futuro", comune alpoeti ispirati, agli indovini e agli ambienti filosofico-religiosi, Detienne. D'orain avanti ci riferiremo al Corpus Hippocraticum con la sigla C.H. Naturalmente,per una documentazione completa sulla medicina gre ca, dovrebbero essere presein specifica considerazione almeno anche le opere di Galeno; tuttavia questeultime, appartenendo a un'epoca molto più recente (II sec. d.C.) e attingendo auna tradizione filosofica (quella aristotelica e stoica) che aveva già portatomolto avanti lo studio sul segno, si situano in parte al di fuori del discorsoche stiamo svolgendo . Rimandia mo, comunque, a Manuli (1980). 2 La massicciaattribuzione dei trattati di medicina del V e lV secolo 246 NOTE 3 Sipossono distinguere all'interno del C.H. gruppi omogenei di opere. Innanzituttoil gruppo di trattati tecnico-terapeutici (Sulle affezioni inter ne, il libroII delle Malattie (A), il libro III delle Malattie, la parte più ar caica deltrattato Sulle malattie delle donne), caratterizzati da un carattere spiccatodi arcaicità e da una maggiore attenzione all'aspetto terapeutico dellamedicina (Di Benedetto 1986: 5 e 80). In secondo luogo, un gruppo di trattatiin cui appaiono maggiormente approfonditi i principi teorici e me todologicidella medicina. Vegetti (1976: 21 e sgg.) ha proposto di definireconvenzionalmente "pensiero ippocratico" queJJo che da questi ultimiri sulta (indipendentemente dal fatto che essi siano attribuibili a moltiautori e probabilmente tutti diversi dali'lppocrate storico vissuto tra il 460e il 370 a.C.). Questi testi, collocabili cronologicamente nella seconda metàdel V secolo a.C., sono: Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il 4Cfr. Jaeger (1947: tr. it. 3). s Cfr. Vegetti (1976: 65 ss.); Vegetti (1967: 78).6 Anche se, come mette in evidenza Lloyd (1979), la medicina ippocrati ca nonarriverà mai a essere sperimentale in senso compiuto. 7 Per le traduzioni ciatteniamo al criterio di usare versioni correnti, tal volta apportandovi dellemodifiche. 8 Solo più tardi, con la Scuola di Alessandria, sarà stabilita unadistin zione fornaie tra anamnsis, relativa ai fenomeni collocati nel passato,diaghnOsis, ovvero individuazionc dello stato presente, e pr6ghnOsis, cioèprevisione deJJ'andamento futuro della malattia; cfr. Di Benedetto-Lami (1983:166). Sulla pr6ghnOsis si veda anche Grmek (1983: tr. it. 499 ss.). Si deve poisegnalare che Irigoin (1983: 179) collega il prefisso pro-, unito ai verbi di"dire", con il significato di "pubblicamente ", anziché conun si gnificato di "anticipazione". a.C . a lppocrate avvienenell'ambito della biblioteca di Alessandria nel I I I secolo a.C.; cfr. DiBenedetto (1986: 81). prognostico, Il regime nelle malattie acute, il Malesacro, Le epidemie l e III, e poi le maggiori opere chirurgiche (Leferite nellatesta, Le articola zioni, Lefratture). 9 Cfr. Detienne (1967: tr. it. 99 n.).10 In certi casi, il vocabolario usato per indicare la previsione medica ricalca queJJo della divinazione, come nel cap. 9 delle Articolazioni in cui sidice che è compito del medico "vaticinare" (katamante-Usasthal) certipro cessi relativi allo stato di salute. 1 1 Si tratta di una concezione (valela pena sottolineado) che affonda le radici in una religione preolimpica,animistica e demonica; cfr. Lanata (1967); Detienne (1963: 32 e sgg.); Dodds(1951); Lloyd (1979); Parker ( 1 983) . Un'ampia panoramica sul movimentomagico e catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde (1890-94: tr.it. 1982). 12 Cfr. Diog. Laert., Vitae, VIII, 32 D-K, 58 B la. Va notato, disfug gita, che il carattere molto arcaico della concezione espressa dal branoè garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle stesse vicende dellacomunità umana: c'è la rappresentazione di una comunità agricola in cui uominie bestie formano una unità inscindibile; cfr. Deticnne (1963: 32). n Un esempioassolutamente analogo a questo si trova nel cap. 21 del = NOTE 247trattato Le arie, le acque, i luoghi, dove si confuta, usando i1 modus tol/ens, la tesi secondo cui l'impotenza che colpisce certuni degli Sciti sia dovuta a causa divina, in quanto colpisce i ricchi (che vanno a cavallo, essendo questa, per l'autore, la causa della malattia) e non i più poveri. Se fossedi origine divina, continua l'autore, colpirebbe indifferentemente tutti.1"' Si pensi a questo proposito all'indebolimento dei sensi durante il sonno di cui parla Platone nel Timeo e a1la diminuzione dei turbamenti nell'ariache rende possibile il sorgere dei sogni secondo Aristotele (De di vinationeper somnum) . •s Per la nozione di "omomaterico", cfr. Eco (1975:295): per "omoma tericità" si intende il fenomeno per cui"l'oggetto, visto come pura espres sione, è fatto della stessa materiadel suo possibile referente. Cfr. anche Lichtenthaeler (1983) e Wenskus (1983).17 Cfr. Vegetti (1976: 48); Manuli (1985: 233). 18 Sull'abduzione si vedanoThagard; Proni (1981); Eco (1983); Bonfantini-Proni; Bonfantini; Peirce; Eco.Di Benedetto (1986) ha messo in luce, in maniera molto convincente, i rapportitra i moduli espressivi di presentazione della malattia nella medi cina grecae quelli dei trattati mesopotamici ed egiziani; cfr. anche Di Be nedetto-Lami(1983). 2° Cfr. Campbell Thompson (1937: 285, I, 1). 2 1 Per questa nozione,cfr. Conte. Cfr. Hjelmslev. Cfr. Arist., An. Pr., Il, 70 a-b; Rhet., Cfr.Arist., Rhet., l, 1358 a, 36 e sgg. 3 Cfr.Arist., De int.,16a; An.Pr.,11,70a-b."' Su questa nozione cfr. Di Cesare. s Cfr. Eco. Cfr. Heinimann. 7 Cfr.Eco-Lambertini-Manno-Tabarroni (1984); Eco. Emerge qui, per quantonebulosamente, il tema della doppia articola zione del linguaggio umano, cheverrà poi sviluppato in epoca contempo ranea da André Martinet (1960). 9 Anchese Aristotele non dà esplicitamente questa definizione, tuttavia nella Retorica(1, 1357 a, 14-22) c'è un passo che suggerisce l'idea dell'enti mema comesillogismo accorciato. Inoltre, in un passo dei Primi analitici 248 NOTE(Il, 70 a, 24-25), Aristotele tenta anche di distinguere il segno dal sillogismo in base al numero di premesse assunte (una sola nel primo caso, due nelsecondo). 1ella Retorica infatti il tekmirion verrà definito esplicitamente"neces sario" (anankaion), mentre il smefon è definito ..nonnecessario" (mè anankafon) (Rhet.). 1 1 Lo stesso punto di vista e lastessa terminologia ricorrono anche nel passo parallelo della Retorica. 12Quanto al carattere di confutabilità di questo tipo di segno, Aristote le cosìcommenta l'esempio dato negli Analitici; "D'altra parte il sillogi smoche si sviluppa attraverso la figura intermedia risulterà sempre confu tabile(ljsimos), senza eccezione. In realtà, quando i termini si comporta no come siè detto sopra, non si costituirà mai un sillogismo: se infatti la donna gravidaè pallida, e se inoltre una determinata donna è pallida, non per questo sarànecessario che questa determinata donna sia gravida"' (An. Pr.J Il, 70 a,34-37). 1 Dei segni quello necessario è la prova, quello non necessario non haun nome corrispondente a questa differenza. Intendo per necessarie leproposizioni da cui derivano sillogismi. Perciò anche dei segni quello che ètale è la prova: quando infatti si ritiene che non è possibile confutare laproposizione enunciata, allora si pensa di apportare una prova, che si ritiene dimostrata e compiuta; nella lingua antica infatti tékmar (prova) e pé rasCcompimento') significavano la stessa cosa" (Rhet.). Si deve tuttaviasegnalare il fatto che, se negli Analitici e nella Retorica la di stinzionetra tekmrion e semeion è rigida e netta, l'uso che Aristotele fa di questitermini nei trattati scientifici sembra essere molto più fluido, senzadistinzioni speciali tra l'uno e l'altro termine. Si trova anche impiegato unterzo termine, martyrion, in un senso analogo a quello di semeion; cfr. LeBlond. Cfr. Arist., An Pr., II, 70 b,'7-14. I!!. Cfr. Arist.,An. Post.,II, 98 b, 25-30. È del resto sulla base delle immagini prodotte nella mentedagli oggetti esterni, in particolare su certi tipi di immagini, chegli stoicichiamano ka talptikaì phantasfai, che viene basato il "criterio diverità", cioè "ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune coseesistono e altre no e che certe cose determinate sono vere ( = sono il caso) ecerte altre sono false ( = non sono il caso)" (Sext. Emp., AdversusMathematicos, VII, 29); cfr. Mi gnucci; Sandbach; "The crite rion oftruth" di Rist. Cfr. anche Sext. Emp., A dv. Math. 1 Si deve sottolineareche /ekt6n è l'aggettivo verbale del verbo /éghein. 6 Cfr. Diog. Lart., Vitae, VII, 51; Long Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,VIII, 11-12. 8 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70. 9 Cfr. Diog. Lart.,Vitae, Vll, NOTE 249 A questo proposito si ricorderà che, come sostiene DiogeneLaerzio ( Vitae, VII, 57), gli stoici distinguevano tra il"proferire" (prophéresthal), che consisteva nel puro emettere deisuoni, e il "dire" (léghein), che consisteva nel fare ciò in modo dasignificare (sma{nein) lo stato delle cose in mente; cfr. anche Sext. Emp.,Adv. Math., VIII, 80. Long (1971 a: 77) sostiene di preferire, per lekt6n, latraduzione "what is said" rispetto a quella propo sta da Mates e daiKneale, "what is meant", in quanto la prima è più gene rale epermette al lekt6n di essere interpretato come avente funzione tanto logicaquanto grammaticale. 4 Si deve tuttavia sottolineare che vi è una tradizione,risalente al Crati lo platonico, secondo la quale nominare qualcuno equivale adire "questo è il suo nome". In questo caso anche l'esempio di Sestodovrebbe essere compreso nei termini di una proposizione implicita come"'Dione è il nome di costui" oppure "Questo è Dione"; cfr.Long (1971 a: 107 n. 1 1). ..s I lekta venivano classificati dagli stoici incompleti e incompleti; cia scuno dei due tipi dava luogo a unasottoclassificazione, anche molto com plessa, che non prenderemo qui inconsiderazione; si veda a questo proposito Mates. 63. 1° Cfr. Mates (1953: 11-12): Mates infatti concepisce i lekta come signi ficato delle parole eavvicina la loro definizione a quella di Sinn di Frege e a uella di intensiondi Carnap. 1 Cfr. Zeller (1865: 78-79). 12 Cfr. Bréhier. 13 Cfr. Mignucci(1965: 96). 14 Una definizione del criterio di verità la fornisce Sesto (A dv. Math.,VII, 29): "Ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose esistonoe altre no e che certe cose determinate sono vere e certe altre sonofalse". Sul problema del criterio di verità, cfr. Rist (1969: 133-151);Sandbach (1971 a: 9 e sgg.); Mignucci (1966). 17 Cfr. anche Adv. Math., VIII,245-257. 18 Cfr. Diels-Kranz, 75, B 2. 19 Si veda, a proposito di questaquestione terminologica, la esaustiva 1 Cfr. Platone, Th., 190 a (206 d);Soph., 263 a. 16 In effetti il "discorso interno" (endiathetos/6gos), a differenza delle espressioni emesse materialment (prophorikòs 16gos),è un fattore che si dimostra capace di distinguere l'uomo dagli animali. Diceinfatti Sesto (Adv. Math., VIII, 275-276): "(Gli stoici) dicono che l'uomodifferisce da gli animali irrazionali a causa del discorso interno, non acausa di quello pronunciato, in quanto corvi, pappagalli e gazze pronuncianosuoni arti colati"; cfr. anche Pohlenz (1959, 1: 61-62). trattazione diConte (1972: XXXV), curatore dcll'edizione italiana dei Kneale (1962). 20 Cfr.Sext. Emp., Hyp. Pirrh., Il, 95-96. 21 Ibidem: "anche la dimostrazione inquanto al genere è, a quel che pa- 250 NOTE re, un segno"; cfr.anche Adv. Math., VIII, 180. 22 Il testo del De signis, con traduzione inglese,è contenuto in Ph . e E.A. De Lacy (1978). 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,VIII, 144; Hyp. Pyrrh., Il, 97. lA Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 147; Hyp.Pyrrh., II, 97. 2' Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII,145; Hyp. Pyrrh., II, 98. 26 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 146; Hyp.Pyrrh., Il, 98. 27Cfr. anche Adv. Math., VIII, 151-155. 28 Tale tripartizione verràesplicitamente teorizzata nella retorica roma- na: vedi il capitolo relativo. 29 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 152-153. 30 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,VIII, 154. 11 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 156. Al di là del caratterepole mico, l'osservazione di Sesto è interessante perché, citando"medici" e "fi losofi", fissa i due punti estremi di unciclo di sviluppo deli'interesse verso il segno: l'introduzione di taleinteresse da parte dei medici (come, poi, di mostrano anche i numerosi esempidi carattere medico presenti in tutte le trattazioni) e lo studio sistematicodel segno da parte dei filosofi. 12 Cfr. Diog. Latrt., Vitae, VII, 71. 13 Cfr.Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 104-105; Adv. Math., VIII, 245- 247 . 34 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 245. 1' Cfr. Sext. Emp., Adv.Math., VIII, 248; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII,249-250; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 37 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 250-251.11 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 106-107; Adv. Math., VIII, 252- 253 . 39Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, IlO-I12. Qui prenderemo inconsi derazione solo i primi tre criteri, perché il quarto sembra avereun'origine diversa dalla scuola megarico-stoica. 4() Cfr. Sext. Emp., Hyp.Pyrrh., Il, lIO-I12; Adv. Math., VIII, 115- 117. •U Sono state proposte varieinterpretazioni del condizionale diodoreo, che non possiamo qui prendere inconsiderazione. Segnaliamo tuttavia i saggi di Hurst (1935), di Mates (1949 a),dei Kneale (1962) e di Mignucci (1966), che affrontano l'argomento in unasuccessione cronologica e teo rica. "2 Cfr. Phil., De signis, XIV, 11-14=19; Xl, 32-XII, 1 = 17. l numeri romani, relativi ai paragrafi del testo greco,sono messi in correlazione con il segno " = " ai capitoli dellatraduzione inglese dei De Lacy (1978). "3 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,VIII, 275-276; 287. Cfr. Goldschmidt(1953: 79 e sgg.); Verbeke (1978: 401-402); Manuli (1986: 262). ..s Sulrapporto tra filosofia e divinazione, Verbeke (1978: 402) osserva moltoopportunamente che per gli stoici il filosofo "est le médecin de cetorganisme vivant qu'est le monde; il est aussi une sorte de prophète, un devin, un exégète, un interprète des signes qu'il observe". 46 Cfr. Cic., De divinatione, I, 125-127. 49 Cfr. Sext. Emp., Adv.Math., 309. CAPITOLO 7. NOTE 251 "7 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II,140; Adv. Math., VIII, 305. 48 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 180:"D'altronde anche la dimo strazione è, in linea generale, un segno,giacché essa è considerata come di svelatrice della conclusione". 1 Iltesto di Filodemo, giunto a noi attraverso il papiro ercolanese 1065, è oradisponibile nell'ottima edizione critica dei De Lacy (1978); d'ora in poiciteremo quest'opera con il titolo latino De signis: a essa è dedicato ilprossimo capitolo. 2 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31; cfr. ancheEpic.,EpistulaadHerodo tum (d'ora in poi Ep. Hdt.), 38; Kyriai Doxai (d'ora in poiK.D.), XXIV. 3 Cfr.Phil.,Designis,fr.l. " Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33;Epic., Nat., XXVIII, fr. 4, col. III, in Arrighetti (1960: 296-297). Long (1971b: 1 14) sostiene che un simile rap porto tra linguaggio e pro/essi èpresupposto anche nella Ep. Hdt., 37-38.Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Epic., Ep. Pyth., Cfr. Epic., Ep. Hdt.,Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., Cfr. Diog. Laert.,Vitae, Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Epic., Ep. Hdt., Cfr. Epic., Ep. Hdt.,48. 1" Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 15 Cfr. Epic., K.D., XXIV.16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 1 7 La congettura semiotica èespressa dal verbo smeiolJ (Ep. Hdt., 38) e prende la forma dell'induzionenella teoria epicurea. Il sostantivo da esso derivato, smeilJsis, nondirettamente attestato negli scritti di Epicuro, avrà ampio spazio nel trattatodi Filodemo. 18 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 21 3-214. 19 Come vedremo nelprossimo capitolo, il criterio della "non incompa tibilità" con ifatti conosciuti è centrale nella teoria dell'inferenza come è esosta nel Designis di Filodemo. ° Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33. 21 Cfr. Sext. Emp.,Adv. Math., VIII, 13; 258; Plut., Adversus Colo tem, 1119f. 22 Si devesegnalare l'articolo di Glidden (1983) che tratta il problema semantico inEpicuro in termini molto diversi da quelli in cui lo abbiamo trattato qui erecupera, sostanzialmente, le posizioni di Sesto e di Plutarco, sostenendo chenon esiste nella filosofia linguistica epicurea un livello spe- 252 NOTEcifico del "significato" in termini intensionali. 23 Cfr. Sedley(1973: 17-18); il testo di Sedley in parte si discosta da quello di Arrighetti.Come veniva evitato, nel Crati/o platonico, tanto da Cratilo quanto da Socrate.Cfr. capitolo relativo a Platone in questo libro. 26 Cfr. Plat., Crat., 421 d,435 c; cfr. Sedley. La data di composizione del trattato, che è controversa,oscilla tra il 542e il 40 a.C.; cfr. De Lacy (1978: 163-164). Il titolo greco,essendo il testo in parte corrotto, è frutto della conget tura di T. Gompers;altre congetture sono state proposte. D'ora in poi ci riferiremo a esso nellasua versione latina De signis; cfr. De Lacy. Nella prima sezione vengonoriportate le risposte di Zenone di Sidone alle critiche stoiche; nella secondaviene esposta la versione di Bromio del l'enumerazione e confutazione diZenone degli argomenti contro l'inferen za empirica; nella terza vieneriportata l'enumerazione di Demetrio di La conia degli errori comuni degliantagonisti del metodo analogico; la quarta sezione, che espone una secondalista degli errori degli oppositori, è anoni ma, ma, con molta probabilità, èanch'essa da attribuire a Demetrio. .. Cfr. Marquand; Deledalle. Cfr. Phil., Designis, coll.VIII,32-IX,3= cap.13).Il riferimentobi bliografico al trattato di Filodemo è dato in manieraduplice, indicando prima la colonna e il numero delle righe del testo greco delpapiro, poi il numero del capitolo corrispondente nella traduzione ingleseeffettuata dai De Lacy. 6 Come è a più riprese ribadito anche nella terzasezione che riporta il pensiero di Demetrio; cfr. col. XXVIII, 13-25 = cap. 45,e col. XXXVII, 12-24=cap. 57. 7 Cfr.col.XIII,1-15=cap.18. 8 Cfr. col. I, 1-12 9Cfr. col. I, 12-16=cap. 2. 1° Cfr. col. XII, 14-31=cap. 17. 11 In Peirce (1980:140), del resto, c'è a proposito dell'icona anche un'interessanteconsiderazione (sulla possibilità che l'oggetto del segno iconico esista o nonesista), la quale sembra riproporre, in epoca contem poranea, una tematicasimile a quella stoica ed epicurea circa la distinzione dei segni in propri ecomuni: "Un'Icona è un segno che si riferisce all'Og getto che essadenota semplicemente in virtù di caratteri suoi propri, e che essa possiedenello stesso identico modo sia che un tale Oggetto esista ef fettivamente, siache non esista. È vero che, a meno che vi sia realmente un tale Oggetto,l'Icona non agisce come segno". = cap . 2,ecol.XIV,4-11=cap. 19.NOTE 12 Cfr. Preti 1956: 13; si veda anche il cap. VI del presente lavoro. Cfr.col. II, 25·36=cap. 5. ... Cfr. col. III, 4-8= cap. 5. 1Cfr. col. III, 30-34 =cap. 6. 16 Cfr. coli. XXXV, 35 - XXXVI, 7=cap. 53. 17 Le risposte alleobiezioni stoiche sono, nella sezione di Zenone, alle coli. XVI, 4 · XVII, 28 =capp. 23-24, e, nella sezione di Bromio, alle coli. XXII, 28 - XXIII, 7=cap.38. 18 Cfr. col. XVII, 3-7=cap. 24. 19 Una discussione attribuita ai"dogmatici" sul problema della defini zione come combinazione diattributi, a esempio "animale", "mortale","ragionevole" rispetto a uomo, è presente anche in Sesto Empirico,Adv. Math., VII, 276-277. 2° Cfr.col.IV,3-5=cap.6. 21 Cfr. col. XVII, 1 1-28 =cap. 24. 22 Cfr.V,l-7=cap.7. 21 Cfr. col. XVII, 29-36=cap. 25. 2A Cfr. coli.XVII, 37 - XVIII, 3 = cap. 25. 2 Cfr. col. XVIII, I0-16=cap. 25. 26 Cfr. coll.XXIII, 13 - XXIV, 8=cap. 39. 27 Cfr. col. XXIV, 10-17 = cap. 40. 28 Cfr. col.XXVI, 6-9=cap. 41. 29 La tradizione continua dopo gli epicurei, e nella tardaantichità le de finizioni vengono talvolta combinate; cosi si ha quella diGaleno: "animali razionali, cioè provvisti di ragione" (De P/ac.Hipp. et Plat., IX, 3); e quella di Sesto Empirico: "animale razionalemortale, provvisto di intelli genza e razionalità" (Adv. Math., VII,269). 3° Cfr. 11 Cfr. 12 Cfr. 31 Cfr. 34 Cfr. 1 Cfr. 36 Cfr. l7 Cfr. 18Cfr.coli.I,19-II,3=cap.3. 39 Cfr. coli. XIV, 28 - XV, 13=Cfr.coli.XX,32-XXI,3= cap.35.coli. XXXIII, 35 - XXXIV, 5=cap. 52. Eco (1984: 130 e sgg.). Groupe p. (1970:100). col . col. col . col. col. XXXIV, 5-7 = cap. 52. XXXIV, 11-15=cap. 52.XXI, 27-29 = cap. 36. XXX, 27-31 =cap. 47. XVIII, 23-29=cap. 26. CAPITOLO 9. 1A questo proposito Cicerone parla di "regolarità della ragione"(ratio et constantia) contrapposta alla "sorte" (fortuna) (De div., Il, 1 8) In altre opere, al posto di dicibile troviamo l'espressionesignificatio; a esempio in De Magistro, 10.34. 2 Si deve notare che Agostinoadopera l'espressione verbum in due sen si: (i) uno tecnico e specifico, che èquello dell'uso metalinguistico della pa rola; (ii) uno generale, checorrisponde alla nozione ampia di "parola", co me "segno diciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere intesodalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura della nozione di dictio, comecomposizione di significante e significato, è messa chiaramente in risaltodalla definizione del cap. V da De dialectica: Quel che ho detto dictio è unaparola, ma una parola che significhi ormaj le due unità precedenticonten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è prodotto nell'animoper mezzo della parola [di cibile]". La dictio, inoltre, "nonprocede per se stessa, ma per significare qualcosa d'altro" (ibidem). 4 Siricorderà che dagli stoici un segno era concepito, in termini propo sizionali,come un antecedente che rimandava a un conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv.Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr. Lotman-Uspenskij Les Storcien.s etleur logique, Actes du Colloque de Chan tilly, Vrin, Paris Al, D.J. ThePhilosophy ofAristotle, Oxford, Ox ford (tr. it. La filosofia di Aristotele,Lampugnani Nigri, Milano, AMANDRY, La mantique apollinienne à Delphes. 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